Palestina: scontro fra borghesie vendute

Con la Guerra del Golfo, con lo sbarco di truppe americane e il loro stabilirsi in Arabia Saudita, l'assetto geopolitico del Medio Oriente è cambiato, coronando una marcia di mezzo secolo, iniziata dagli Stati Uniti nel '48, quando appoggiarono la costituzione di Israele contro la politica dell'Inghilterra (che nel '39 aveva proposto la costituzione di uno Stato arabo palestinese), dimostrando già la tendenza del nuovo imperialismo, vincitore su tutti gli altri, compresi gli alleati, nello scalzare dalle fondamenta la vecchia divisione del mondo.

Nel 1956 e nel 1958 truppe americane erano state inviate in Egitto e in Libano per risolvere residui di contenzioso ereditati dalla situazione anteguerra, e così furono eliminati definitivamente dalla scena i vecchi imperialismi inglese e francese. Gli Stati Uniti sfruttarono in seguito a proprio vantaggio le guerre tra Israele ed Egitto, legando soprattutto quest'ultimo alla propria politica medio-orientale e negandone nei fatti l'indipendenza. Infine, caduto in Iran lo scià Pahlevi (l'unico alleato in zona che avesse una forza militare basata su armi modernissime), assecondarono la guerra fra l'Iraq e l'Iran, entrambi in corsa per subentrare alla funzione storica perduta dall'Egitto. Tutto ciò per impedire lo sviluppo di potenze locali, in grado di polarizzare il mondo islamico.

Fino alla Guerra del Golfo, Israele aveva la presunzione di essere indipendente in materia di difesa e di poter rappresentare un deterrente di "pace" occidentale in Medio Oriente, al costo di soli tre miliardi di dollari all'anno e senza l'ausilio di soldati stranieri. Il confronto era fatto con l'Europa, nella quale gli Stati Uniti impiegano 100.000 soldati fissi e spendono ogni anno 100 miliardi di dollari. Comunque mai come oggi Israele ha avuto così poco da temere da parte delle fiacche borghesie arabe, e il problema più grave rimane quello interno.

Negli anni in cui gli americani sbarcavano a Suez e in Libano, Hassan del Marocco propose di smembrare la Lega Araba, già poco minacciosa per le sue divisioni interne, e di sostituirla con una organizzazione regionale come tante altre, comprendente Israele. Non era la boutade di un giovane principe ereditario ma una tendenza: dal 1994 (summit di Casablanca della Lega Araba), la concezione di un trattato regionale comprendente tutti gli Stati della zona si realizzò nella formula al-sharq awsati (che significa "l'idea del Medio Oriente"), per cui Israele, se avesse accettato, sarebbe già un membro effettivo della stessa Lega. Invitato come osservatore alla successiva conferenza di Madrid, lo Stato ebraico rifiutò, ribadendo ovviamente che l'obiettivo era la scomparsa della Lega Araba e la costituzione di un trattato regionale, cioè il vecchio sogno americano per tutta l'area.

Allo svuotamento di significato della Lega Araba da parte dei suoi stessi membri si sono accompagnate la perdita d'importanza militare di Siria, Iraq, Iran e Libia, ormai senza armi opponibili a quelle israeliane, e la perdita d'indipendenza di Egitto, Giordania e Arabia Saudita nei confronti degli Stati Uniti. In questa situazione anche il ruolo strategico-militare di Israele viene meno. Gli Stati Uniti, godendo in politica estera della forzata alleanza di tutti gli imperialismi minori e delle residue potenze locali, possono controllare direttamente la situazione con una propria presenza militare e non hanno più bisogno di costosi alleati da foraggiare. Perciò il ruolo di Israele come paese occidentale situato in Oriente è del tutto ridimensionato. Questo gli israeliani lo sanno benissimo, e ne temono le conseguenze.

Di qui due contraddittorie tendenze: da una parte, il famigerato "processo di pace", ben simboleggiato dalla celebre foto del presidente americano che, con le braccia allargate, benedice le due piccole, insignificanti figure dei contendenti medio-orientali; dall'altra, una tensione interna portata all’estremo (spesso artificiosamente) per dimostrare la necessità di perpetuare la protezione americana. Ma non può esservi pace fra la borghesia israeliana e quella palestinese, costrette a contendersi il territorio sotto la protezione altrui. Né potrà esservi pace in tutto il Medio Oriente, finché l'imperialismo maggiore continuerà ad alimentare interessi borghesi nella forma di cruenti nazionalismi.

La dinamica di crescita economica, demografica e politica delle popolazioni può essere frenata e controllata per qualche tempo, ma non annullata. La balcanizzazione, per operante che sia, non può eliminare le spinte delle borghesie locali (in concorrenza l'una con l'altra ma contro gli Stati Uniti) a una politica indipendente, come è già successo in Iran. Mentre la popolazione e l’economia degli altri paesi mediorientali, pur frenati nello sviluppo, crescono, Israele non supera i 5,8 milioni di abitanti e ha un prodotto lordo derivante per il 2% dall'agricoltura, per il 13% dall'industria e per l'85% dai "servizi": paragonabile a quello di una regione come il Lazio. Al di là delle gesta militari, esagerate da una propaganda interessata, Israele non dispone di un’economia in grado di sostenere la complessa logistica di una guerra che durasse più di qualche giorno e non ha estensione territoriale, popolazione e risorse sufficienti per rispondere autonomamente alle sollecitazioni che la storia sta mettendo sul tappeto. E' vero che il mondo islamico ha irrisolvibili problemi storici di unità, ma rappresenta pur sempre una massa di un miliardo di uomini, in massima parte già coinvolti nell'accumulazione capitalistica, che è aggressiva per sua natura.

Essendo ormai evidente che la tragedia palestinese non ha le sue radici unicamente nel processo di fondazione dello Stato d'Israele e che la nazione palestinese è stata soprattutto negata dai giochi fra gli imperialismi maggiori ma anche dalle rivalità fra le borghesie arabe – le quali hanno massacrato e sfruttato più palestinesi di quanto non abbia fatto quella israeliana – si preciserà una situazione oggettiva sfavorevole alle componenti nazionaliste estreme. Per questo motivo esse balzano sulla scena con prepotanza in una battaglia di retroguardia per difendere prerogative sempre più assurde rispetto alla maturazione dei fatti.

All'interno di Israele si sta sviluppando una intellighenzia "post-sionista" che considera la sicurezza di Israele non più in una situazione contingente e locale bensì in un contesto storico e le cui proposte prendono le mosse da una visione globale: l'instabilità attuale, che favorisce finora una posizione di forza sotto la protezione americana, deve lasciare il posto alla ricerca di soluzioni stabili a partire dal ritiro dei coloni dalle terre palestinesi. La corrente, per ora assolutamente minoritaria, assume del tutto naturalmente una concezione geopolitica del problema palestinese e, cercando di esercitare un peso sugli instabili governi ebraici, afferma: è bene che la Tomba di Giuseppe sia stata distrutta; il Muro del Pianto non è che un cumulo di pietre trimillenarie; Hebron, le tombe dei patriarchi e tutti i luoghi santi non valgono le vite che sono costate e costeranno; i coloni che occupano le terre sono i primi ad essere insensatamente in pericolo di fronte agli sviluppi storici. Prende piede la consapevolezza della necessità di una soluzione interna, perché è sempre più evidente che quella esterna è funzionale a tutto tranne che al beneficio delle popolazioni interessate. I contatti di Israele, negli anni scorsi, con rappresentanti algerini, libici, irakeni e siriani, e il recente ritiro improvviso e non spiegato delle sue truppe dal Libano sono sintomi di pressioni materiali che la borghesia israeliana, meno succuba dei fondamentalisti ebraici di quanto appaia nelle tornate elettorali, non può più ignorare. Non bisogna dimenticare che una metà della nazione ebraica risiede a New York e che le lobby ebraiche sono potentissime nei confronti dell'America ma altrettanto potenti nei confronti di Israele.

La borghesia palestinese non coincide con le persone gettate alla ribalta dagli avvenimenti. Essa è presente soprattutto in attività commerciali e finanziarie nei paesi arabi, negli Stati Uniti e in Europa, insomma, dappertutto meno che in Palestina. Del resto su 6,9 milioni di palestinesi nel mondo, soltanto 2,4 milioni vivono sulla loro terra d'origine. Comunque sia, i rappresentanti ufficiali della lotta di liberazione dimostrano che la borghesia palestinese è altrettanto disorientata di quella israeliana sotto la spinta contraddittoria dei cambiamenti medio-orientali effettivi, cui non corrisponde ancora il necessario cambiamento politico: i suoi rappresentanti ufficiali cercano un’intesa con le potenze imperialiste, principali responsabili della situazione odierna (per esempio con la richiesta di duemila soldati dell'ONU come forza d'interposizione), e la sua ala radicale, il "fronte del rifiuto", la cui parola d'ordine era "distruzione dello Stato d'Israele", accetta già, in pratica, soluzioni di compromesso sulla base delle risoluzioni dell'ONU.

Ovviamente, aspettarsi che una soluzione interna sia resa possibile soltanto dal contesto geopolitico esterno è pura utopia, perché il nocciolo della spartizione del territorio è irrisolvibile; tuttavia è interessante che fatti materiali facciano emergere tale necessità. Ogni prospettiva di pace capitalistica in realtà è semplicemente inesistente perché nessuna borghesia locale può rinunciare alle sue prerogative in difesa del suo territorio, a partire dai problemi più elementari, come l'acqua in una regione desertica e la scarsità di terra coltivabile e abitabile. Finché su quel terreno si giocheranno i rapporti fra gli Stati Uniti e il resto del mondo sviluppato, la Palestina sarà campo di battaglia: non può che essere così quando due incancrenite "questioni nazionali" cozzano, specie in un contesto rovente come quello medio-orientale. Dal punto di vista nazionale borghese vi sono due "diritti" contrapposti e, da che mondo è mondo, in tal caso decide la forza.

E' chiaro che al di là di questo punto di vista, sul piano razionale e non "politico", non sono affatto in gioco "diritti", tantomeno quelli di nazioni, dato che le due in questione esistono solo per effetto di fattori esterni ad ognuna; in tutte le balcanizzazioni del mondo le divisioni e gli odi nazionali sono fomentati dall'imperialismo e generano situazioni reazionarie. Quello che è veramente in gioco in Palestina oggi è l'affrancamento delle popolazioni locali dalle tutele arabe e occidentali che, un tempo impensabile, oggi sta affermandosi lentamente a causa di potenti fatti materiali. Ma come può avvenire questo affrancamento se le parti in causa non hanno in sé la forza di realizzarlo? Paradossalmente la soluzione sta proprio nelle mani di chi ha finora sfruttato la tragedia israelo-palestinese: gli Stati Uniti e i paesi arabi.

Esiste la possibilità reale che venga imposta una soluzione a tavolino, sulla base degli innumerevoli piani avanzati negli anni e senza tener affatto conto delle rivendicazioni incrociate degli interessati. Ognuno di questi piani parte da presupposti differenti, più o meno favorevoli a una parte o all'altra, ma la sostanza è sempre la stessa: la spartizione del territorio secondo un modello sudafricano, dove ai nativi è concessa una patria nominale (il bantustan), del tutto virtuale, mentre nella pratica essi rappresentano la manodopera a basso costo per le normali attività di un paese capitalistico: in Sudafrica è chiara ormai l'identificazione dei neri con il proletariato, indipendentemente dal numero dei neri effettivamente occupati nell'industria e nei servizi in rapporto a quelli che vivono ancora nella "tradizione", e ogni ritorno indietro verso irrisolvibili e antistoriche questioni nazionali sarebbe deleterio. La prospettiva palestinese, nel caso di una formale soluzione che assegni i territori secondo quanto previsto dai processi politici interrotti, sarebbe meno buia di quella sudafricana, ma solo a condizione che con questo si spenga la questione "nazionale" e prenda il sopravvento la reale condizione proletaria; condizione che tra l'altro non riguarda solo i palestinesi che lavorano nelle fabbriche e nei cantieri israeliani come pendolari (500.000) ma anche una parte degli israeliani stessi (600.000 circa, compresi i palestinesi residenti in Israele).

Più di un milione di proletari arabi ed ebraici su 2,3 milioni di occupati ufficiali è una proporzione altissima anche rispetto alle cifre dei paesi più industrializzati. Inoltre, fra i palestinesi che vivono nei territori occupati (2,4 milioni tra Gaza e Cisgiordania), molti sono proletari che non vanno a lavorare in Israele, per cui non compaiono nelle statistiche disponibili. E' evidente che una soluzione effettiva, a questo punto imponibile solo dall'esterno, permetterebbe un'ulteriore maturazione del capitalismo locale e conseguentemente di una forza proletaria che superi le suicide "intifade" e scateni la lotta sul piano di classe e non su quello di assurde patrie, parimenti legittime per ognuna delle due nazioni che si scontrano. Tra l'altro, questa era la soluzione prospettata anche da alcune componenti marxisteggianti del movimento palestinese negli anni '70, prima che l'alleanza con Mosca le svuotasse politicamente e ne distruggesse la vitalità facendole diventare pedine nazionaliste fra le altre. Esse sostenevano il rigetto delle borghesie "traditrici" pilotate da interessi esterni e lotta per la costituzione di un territorio unitario in cui ebrei e arabi potessero fraternamente convivere nell'ambito di una rivoluzione socialista.

La Guerra del Golfo rivelò assai crudamente la realtà proletaria che distrugge, rendendola del tutto superata dai fatti, la politica nazionalista suicida della borghesia palestinese. In poche settimane la guerra provocò cinque milioni di profughi, di cui un milione di palestinesi, altrettanti curdi e 800.000 yemeniti. Si trattava in genere di proletari puri, tutti candidati alla internazionalizzazione per l'ovvio motivo che già erano usciti dalle loro "patrie" entrando nel meccanismo internazionale dello sfruttamento capitalistico. Oggi i palestinesi sono di fatto i proletari dell’intero Medio Oriente, lavorano nelle fabbriche e nei cantieri di ogni paese arabo oltre che in Israele, sono sradicati definitivamente dalle tradizioni e dalla terra, non parlano neppure più la loro lingua ma, come il loro nemico ebraico, uno strano inglese. D'altra parte in Israele una massa enorme di ebrei immigrati, tra cui un milione di russi, ha occupazioni fittizie, neppure proletarie, e rappresenta il potenziale che un giorno potrebbe saldarsi al proletariato palestinese mandando all'aria – finalmente – ebraismo e arabismo.

In definitiva, ogni soluzione nazionale, se anche fosse possibile, significherebbe un peggioramento delle condizioni dei proletari palestinesi e israeliani che sarebbero costretti a vivere, con le armi a portata di mano, in isole territoriali senza sbocco. Specie per i palestinesi si tratterebbe di una situazione non dissimile da quella che già duramente provano nei famigerati "campi profughi", aperti solo ad ogni facile massacro, come nel Settembre Nero, come a Tal el-Zaatar. Quello palestinese non sarebbe affatto uno Stato ma una mostruosità, una sub-balcanizzazione in un'area già di per sé abbondantemente balcanizzata, che solo borghesie vendute potevano accettare. Non ci può essere guerra rivoluzionaria nazionale senza borghesia rivoluzionaria, e i palestinesi stessi avevano già preso atto trent'anni fa che questa borghesia non c'era. La prospettiva nazionale sostenuta dalla non-borghesia palestinese è soltanto promessa di altre "intifade", è il massacro e la prigionia in uno Stato-ghetto. La prospettiva proletaria, invece, libera i combattenti dallo stadio del nazionalismo e li proietta verso quello superiore dell'internazionalismo.

Rivista n. 2