Il fallimento argentino

"Lo sviluppo del sistema creditizio deve accelerare l'accumulazione del capitale da prestito come forma distinta dalla accumulazione reale. Ma il rapido incremento del capitale da prestito è una conseguenza dell'accumulazione reale in quanto effetto dello sviluppo del processo di riproduzione, e il profitto che costituisce la fonte di accumulazione dei capitalisti monetari non è altro che una detrazione dal plusvalore intascato dai capitalisti riproduttivi"

(K. Marx, Il Capitale, Libro III cap. XXXI).

Perciò il doloroso mistero del debito estero si risolve in un "furto" di plusvalore fra capitalisti, del quale alle "masse oppresse" non potrebbe importare meno; la "cancellazione del debito estero" sarebbe nient'altro che un favore alle borghesie locali che l'hanno contratto, quel che c'interessa è la cancellazione del sistema globale di produzione del plusvalore per mezzo di forza-lavoro.

Un paese a capitalismo maturo

Per tutto lo scorso decennio l'Argentina è stata considerata dagli economisti un paese modello. La svolta liberista avvenuta nel 1989 con il governo Menem era considerata un esempio in grado di smentire sia i luoghi comuni sul golpismo sudamericano e la sua vocazione economica dirigista che quelli sull'eterna piaga del populismo peronista, quest'ultima tipicamente argentina. Il trionfo del capitalismo veniva celebrato ricordando le ricchezze agrarie, l'industria di antica tradizione, la cultura radicata e persino l'estetica di Buenos Aires, la più europea delle metropoli americane.

Improvvisamente tutta la stampa internazionale ha cambiato registro: di fronte agli scontri di piazza, alle sparatorie con morti e feriti, ai saccheggi, allo sgretolamento di un edificio politico e sociale putrefatto, dall'oggi al domani l'Argentina era diventato per i media un paese da Terzo Mondo.

Per settimane migliaia e migliaia di persone hanno sconvolto le città, bloccandone la vita economica, percorrendo con furia i tranquilli quartieri della borghesia spaventata, buttando all'aria i leggendari caffè sui viali della capitale, incendiando ville opulente, saccheggiando per necessità, per spregio e per vendetta i grandi centri commerciali, le banche e persino i Tir dei soccorsi alimentari. E i giornalisti accorsi da tutto il mondo raccontavano perplessi di masse operaie scalmanate, presto raggiunte dalla piccola borghesia rovinata (questo li aveva colpiti in particolar modo), di comizi improvvisati, di assemblee scoordinate e di rabbia incontenibile, insomma di caos che si è riflesso sull'apparato politico con reiterati fallimenti di formule governative. Tre presidenti e vari candidati non sono riusciti ad affrontare la situazione, un superministro è stato licenziato in tronco, decine di funzionari locali sono caduti sotto la pressione della folla. La gravità del crollo economico, finanziario, politico e sociale che ha scosso la terza economia latino-americana ha annichilito per settimane la borghesia e la sua possibilità di governo.

Quello dell'Argentina è il più catastrofico crack nazionale dei tempi moderni. Neppure l'Unione Sovietica ha subìto una disfatta simile, dato che non è caduta per un fallimento in senso aziendale (non c'erano premesse economiche paragonabili, un commercio estero in discussione, rapporti finanziari sottoposti al giudizio dei mercati mondiali) ma per il collasso di un regime politico. Nell'800 l'Argentina attirava capitali dall'Inghilterra, come attirava proletari e tecnici da ogni paese d'Europa. Una immensa estensione di terre fertili e il clima temperato, uniti al capitale d'investimento, garantivano un'accumulazione agraria senza pari. Dal 1880 alla vigilia della Prima Guerra Mondiale la crescita era stata ininterrotta, a un tasso medio del 5% all'anno. L'Argentina era uno dei dieci paesi più ricchi del mondo, prima della Francia e della Germania. Aveva una "cultura nazionale", cioè un patrimonio di conoscenza utile alla produzione e riproduzione sociale, a livello statunitense o europeo. Come gli Stati Uniti, sembrava un serbatoio senza fine per la sovrappopolazione d'Europa. Il declino dell'imperialismo inglese – che le imponeva una dipendenza dai propri capitali ma che almeno era distante e non più in grado di interferire in modo determinante con il suo sviluppo nazionale – comportò però l'avanzata degli Stati Uniti, con ben differenti possibilità di interferenza. Com'era successo per gli altri paesi del Sudamerica, la storia dell'Argentina si era completamente integrata con quella dell'imperialismo maggiore e vincente; essendo la sua economia già globalizzata a cavallo del '900, non poteva essere diversamente. L'Inghilterra ne aveva controllato la finanza, gli Stati Uniti ne controllavano ora ogni settore, nell'ambito della loro politica continentale.

La borghesia nazionale argentina, approfittando delle ricchezze locali e dei capitali stranieri, si era arricchita troppo velocemente fin dalla raggiunta indipendenza (1816) e non aveva saputo costruire un'impalcatura sociale all'altezza delle sue velleità europeiste. Tradizionalmente vincolata all'esercito e quindi smidollata, di fronte allo sconvolgimento storico dovuto al passaggio di poteri tra imperialismi e alla fine della Seconda Guerra Mondiale, aveva risposto al fermento sociale imboccando una via populista e protezionista sotto l'egida dei militari.

Juan Domigo Peron fu, tra questi ultimi, l'elemento che permise una saldatura fra borghesia e proletariato attraverso la costituzione di un sindacato corporativo e di un governo "sociale". Contro i sindacati tradizionali e l'aristocrazia operaia furono scatenati i descamisados, i nuovi proletari poveri, contadini di fresca urbanizzazione. La politica populista fu sostenuta con misure dirigistiche in grado di rilanciare l'economia e di produrre delle ricadute vantaggiose sul proletariato, ma che, puntando sull'indipendenza economica, erano in conflitto con gli interessi nordamericani. Il tentativo di contrastare la crisi con misure protettive nazionalistiche, di stimolare produzione, mercato interno ed esportazioni produsse uno scontro con la parte ultra-conservatrice della borghesia, appoggiata dagli Stati Uniti. Scontro che ebbe il suo epilogo in una situazione interna di disordini sociali e nell'intervento della flotta nordamericana davanti a Buenos Aires (1955).

Il breve tentativo di politica indipendente era fallito. Successivamente la borghesia non fece altro che affrontare per altri trent'anni l'instabilità sociale ricorrendo a regimi militari e a repressioni inaudite. Neppure con il ritorno alla normalità democratica (1983) l'economia riuscì a risollevarsi, tanto che i redditi reali medi, in discesa dell'1% all'anno fin dal 1976, continuarono ad abbassarsi con lo stesso ritmo fino al 1989. Due tornate di iper-inflazione, due collassi bancari e il fallimento della riforma economica per arginarli provocarono il crollo della fiducia nell'economia e nella moneta nazionale, per cui gli argentini iniziarono ad utilizzare spontaneamente il dollaro statunitense e i capitalisti a inviare i loro capitali all'estero.

Deregulation: un piano per spianificare?

Tra il 1990 e il 1994 il Prodotto Interno Lordo argentino era cresciuto del 30%. Il paese aveva ancora ricche e quasi intatte risorse naturali, un'economia saldamente orientata all'esportazione, un'industria di base solida e diversificata. Tuttavia aveva difficoltà ad uscire dalla crisi ereditata dal governo Menem nell'89 e, soprattutto, sembrava impossibile dominare un'inflazione che aveva raggiunto punte del 200% al mese mentre il debito estero non accennava a diminuire. Siccome peggio di così non poteva andare, vi erano tutti i presupposti perché il problema venisse affrontato in modo drastico. Utilizzando le grandi risorse del paese e approfittando di un periodo di pace sociale, la borghesia argentina produsse un piano di liberalizzazione del mercato, di deregulation alla Reagan-Tatcher e di privatizzazione.

Certamente per lo Stato è una contraddizione varare un piano per evitare di… pianificare, ma evidentemente il capitalismo decomposto non produce finezze lessicali. Comunque alcuni successi arrivarono e l'economia crebbe anche dell'8% all'anno. Nel 1991 la borghesia argentina decise di prendere atto che l'economia era ormai basata su di una spontanea parità col dollaro e sancì legalmente il fatto avvenuto. Il mercato venne per legge ulteriormente liberalizzato con una sperticata apologia del libero commercio. A differenza di quanto era successo in periodo peronista, quando fu fisicamente stampata moneta per pagare le riforme sociali, adesso la massa monetaria venne tenuta sotto controllo facendola fluttuare intorno ad una determinata percentuale delle riserve in valuta pregiata. Carlos Menem come presidente e Domingo Cavallo come ministro dell'economia si fecero interpreti di una politica di ritorno all'età dell'oro. In particolare, il ministro chiamò "convertibilità" la parità fissa col dollaro, sottintendendo un parallelo assai improprio con la Caja de Conversion esistente prima del 1935, quando il peso era convertibile in oro.

Ma tre fattori fondamentali dovevano far fallire la riforma: 1) l'epoca non era più quella della potenza capitalistica sudamericana fra le due guerre, seppure già allora in declino; 2) pesanti condizioni internazionali, come la crisi messicana, la ben più vasta crisi asiatica e il boom delle borse a partire da Wall Street, facevano confluire i capitali mondiali verso i centri di accumulazione finanziaria anglo-americani; 3) la parità col dollaro eliminava l'iper-inflazione ma impediva che il valore delle merci prodotte in Argentina si confrontasse, tramite un equivalente-denaro nazionale, con le altre merci sul mercato estero: in pratica gli argentini producevano in pesos e scambiavano sul mercato estero in dollari. Ciò impediva l'adattarsi del prezzo al valore, e la riforma monetaria poté funzionare soltanto sulla carta. Infatti, secondo la legge del valore, solo se si produce alle stesse condizioni dei paesi concorrenti e solo se si mantiene una bilancia commerciale in perfetto equilibrio la parità può funzionare. Ma evidentemente la borghesia adotta altri parametri.

Quindi l'Argentina, paese dall'economia tesa all'esportazione fin dalla sua nascita, finì per acquistare merci all'estero in dollari, moneta forte, e per vendere malissimo (cioè a prezzo troppo alto) con la stessa moneta; fu perciò penalizzata rispetto ai suoi concorrenti diretti e indiretti. Il progetto di Cavallo al momento funzionò, e nel primo periodo, dopo una fase di rodaggio, l'inflazione venne sbaragliata e anche i capitali incominciarono a ritornare dall'estero. La vasta campagna di privatizzazioni non lasciò quasi nulla sotto il controllo dello Stato e dal 1991 al 1997 vi furono nuovi investimenti, permessi da una politica espansiva d'indebitamento (il deficit spending, che non è certo "liberalizzazione", bensì il contrario) soprattutto nelle infrastrutture. Aumentò così la produttività nell'agricoltura e nell'industria private, tanto che, nel periodo considerato, il tasso medio di crescita salì al 6,1% annuo. Ma in realtà si stavano accumulando potenziali distruttivi che si sarebbero manifestati più tardi.

L'aver rinunciato alla sovranità monetaria nazionale comportò per l'Argentina un tasso di cambio internazionale pari a quello della moneta degli Stati Uniti, e quindi si venne a formare una situazione economica interna estremamente sensibile alle variazioni esterne dovute al comportamento dei paesi importatori, tutti con peso specifico maggiore di quello argentino. Per di più l'alta crescita fu anche pagata con l'emissione di buoni del tesoro internazionali ad alto interesse, che provocavano cioè un'uscita costante di valore. La gestione di un così alto debito estero per lo sviluppo interno poteva però avere un senso solo se la crescita economica avesse prodotto plusvalore a sufficienza non solo per i capitalisti interni, ma anche per pagare gli interessi ai possessori esteri. Comunque, siccome non si può sfruttare il proletariato più del massimo, il drenaggio di valore si ripercosse sui profitti, per cui i capitali nazionali se ne andarono all'estero (e qualcuno afferma che andarono a comprare titoli argentini, cosa che, se fosse provata , ci mostrerebbe un caso assai significativo di auto-cannibalismo capitalistico, di agire cieco del capitalista singolo, capace di uccidersi a scadenza pur di agguantare un profitto immediato). In poche parole, uno schema come quello di Cavallo – del resto obbligato – avrebbe potuto funzionare più a lungo soltanto se lo Stato avesse avuto la forza di controllare molto di più l'economia interna, molto di più i tassi di cambio esterni, molto di più i singoli capitalisti, non il contrario. Seguendo l'onda internazionale e confidando nelle virtù terapeutiche del libero mercato, la borghesia argentina fece tutto ciò che bastava affinché la crisi divenisse ben presto catastrofe.

Il fallimento

Le contraddizioni incominciarono a manifestarsi intorno al 1995, quando il Messico finì sull'orlo della bancarotta, svalutò la sua moneta e fu dichiarato insolvente. Ma qui intervenne direttamente il governo degli Stati Uniti a rimediare (in pratica comprandosi il paese con 30 miliardi di dollari e integrandolo nel blocco continentale del NAFTA). La situazione di insolvenza potenziale dell'Argentina convinse gli investitori internazionali, che si erano appena bruciati in Messico, a ritirare prudentemente i capitali investiti o prestati. L'incremento del prodotto lordo del 6% divenne un decremento del 4%, e il ritiro dei capitali produsse il crack di 12 banche.

Di fronte a queste avvisaglie, fu semplicemente rafforzato lo schema di controllo dell'economia, garantendo gli investimenti stranieri e innalzando i rendimenti dei prestiti. E in effetti nell'anno successivo l'economia dette segni di ripresa. Ciò convinse gli economisti e gli investitori della validità dello schema che, pur tenendo sotto pressione tutte le istituzioni economiche (o, anzi, proprio per quello), impediva perlomeno le tradizionali esplosioni di corruzione che in Sudamerica sono all'ordine del giorno.

Di fronte alla globalizzazione dell'economia, sempre di più le monete nazionali stabiliscono da sé stesse la propria convertibilità rispetto alle merci e ai valori della forza-lavoro, perché il denaro non è che l'equivalente generale, l'ombra della massa di merci prodotte, e nessun governo, tranne forse quello degli Stati Uniti, può controllare gli effetti dell'economia internazionale su quella nazionale. Sempre di più, quindi, le monete sfuggono alle manovre dei governi, ai quali non resta che agire – e lo fanno – sulla forza-lavoro locale, sugli stimoli alla produzione e sul prezzo del denaro all'interno dei confini nazionali.

Paradossalmente, la causa del disastro fu proprio il grande successo della politica economica tesa verso le esportazioni, aumentate dal 1991 al 2001 da 12 a 27 miliardi di dollari. A causa di ciò, la parità fissa del peso col dollaro, e con essa tutta l'economia argentina, fu demolita da alcuni fatti mondiali su cui nessun governo avrebbe potuto far leva: la stagnazione internazionale produsse il calo dei prezzi di alcune materie prime, tra cui i prodotti tipici dell'esportazione argentina, come la carne, i pellami, il grano, gli oli vegetali, la frutta e i rispettivi derivati industriali; il costo dei capitali necessari al sostegno dell'economia e quindi quello della gestione del debito incominciarono a salire; il dollaro si apprezzò rispetto al complesso delle monete su cui si basava l'interscambio argentino penalizzando le esportazioni anche da questo punto di vista; e ciò avveniva proprio mentre il Brasile, principale importatore di merci argentine, svalutava la sua moneta, il real.

Nel 1997 la crisi "asiatica" produsse una fuga di capitali, che ritornarono parte in Occidente e parte in aree alternative di nuovo capitalismo. Nel 1998, per superare la crisi e riavviare il ciclo di esportazioni, i paesi del Sud-Est asiatico svalutarono le loro monete. Se ciò produsse reazioni favorevoli in tutto il mondo finanziario e favorì le esportazioni dell'area, produsse anche, però, un ritorno di capitali in Asia, a questo punto sottratti ai paesi emergenti che li avevano attratti, come Turchia e Polonia. Per di più questi ultimi rappresentavano aree di "sovrapposizione" parziale degli stessi capitali e delle stesse merci da esportazione di Argentina e Brasile. Quando in seguito il real brasiliano fu svalutato ulteriormente del 20% rispetto al dollaro, lo stesso fenomeno si ripeté, ma in un'area di sovrapposizione di merci e capitali molto più limitata e quindi con effetti disastrosi per l'Argentina; la quale, con il peso legato al dollaro, e perciò rivalutato nei confronti del real, vide precipitare le proprie esportazioni verso il Brasile. Ma non solo: il governo brasiliano, in parte approfittando della situazione, in parte manovrandola con una accorta politica di fondi speciali per la promozione industriale, attirò, tra le altre, molte industrie argentine a produrre direttamente sul suo territorio. Il motivo era storico più che economico: l'Argentina è un paese industriale, non ha quasi contadini, e ha una delle popolazioni urbane più concentrate del mondo; il Brasile ha una popolazione quadrupla, assai sparsa nelle campagne e per il 25% composta ancora da contadini poveri.

Il rapporto Argentina-Brasile è quindi una riproduzione in scala minore del rapporto mondiale tra paesi a vecchio capitalismo e paesi "emergenti". In un certo senso è vero che le premesse per il collasso argentino sono di origine interna. Ma solo perché l'economia di un paese maturo non può sottrarsi alla feroce concorrenza mondiale acuita dal bisogno spasmodico di valorizzazione del Capitale divenuto apolide. Il sistema bancario raccoglie denaro dai capitalisti sparsi in tutto il mondo e lo unifica in un unico capitale controllato dai paesi più forti: la differenza con i maggiori paesi imperialistici sta nel fatto che l'Argentina non ha una sufficiente potenza politica e militare per far valere i propri interessi.

Dopo alcuni anni di crescita zero e la verificata impossibilità di gestire il debito senza una massiccia ulteriore produzione interna di plusvalore (percepito come profitto o interesse dai possessori di capitali), gli investitori esteri e anche quelli interni incominciavano dunque ad abbandonare il campo. Ricordiamo che il plusvalore si suddivide in profitto, interesse e rendita, e che industriali, finanzieri e agrari lottano a morte per la ripartizione del plusvalore nelle sue tre componenti. Quindi "gestione del debito" significa uscita di interessi, e di conseguenza prelievo netto di plusvalore da parte dei capitalisti esteri ai danni di quelli locali o, più precisamente, data l'internazionalizzazione del capitale finanziario, prelievo generalizzato sul profitto dell'industria da parte della finanza. Se l'industria ci riesce, intensifica lo sfruttamento dei suoi operai per ristabilire il suo profitto.

Nel caso dell'Argentina la gestione del debito corrisponde alla trasformazione di profitto nazionale in interesse per il capitale globale, quindi a una produzione supplementare di plusvalore nazionale, oppure a una produzione supplementare di materie prime da esportazione, in modo che la rendita si appropri di plusvalore prodotto all'estero. Questa necessaria compensazione è pari a una ventina di miliardi di dollari. Tanto per avere un'idea, ciò vuol dire che, se fosse tutta ricavata da plusvalore supplementare, si dovrebbe estrarre da ognuno dei circa 8 milioni di lavoratori argentini che possiamo capitalisticamente considerare produttivi qualcosa come 2.500 dollari in più all'anno di plusvalore. E questo in un paese ex ricco che ha ormai il 44% della popolazione urbana sotto la linea di povertà, e dove il salario medio annuale lordo, per chi ce l'ha, era prima del crack di circa 6.000 dollari (tutti i dati sono in dollari-potere-d'acquisto se non specificato diversamente). La situazione è ora decisamente peggiorata per i proletari: l'Economist calcola che il reddito medio sia adesso la metà di quello precedente, quindi il salario attuale, mantenendo la proporzione, dovrebbe aggirarsi sui 3.000 dollari; siccome però il debito si paga in dollari internazionali, solo per gestirlo occorrerebbe oggi estrarre dal proletariato quasi il doppio del plusvalore. Cosa evidentemente impossibile.

Tuttavia la linea di povertà, che riguarda il ricordato 44% della popolazione, è di 1.400 pesos attuali all'anno, 700 dollari! Cosa si può ancora estrarre da un reddito del genere in un paese capitalistico maturo? D'altra parte, se i proletari resistessero al supersfruttamento, crollerebbe il profitto, cioè l'intero capitalismo argentino; se si alleassero ai capitalisti per chiedere la cancellazione del debito li rafforzerebbero dandosi una enorme zappata sui piedi, permettendo l'arraffamento facile dei tempi di Menem, quando il grasso colava anche sulle classi medie ma i proletari non stavano affatto meglio. E comunque il debito è in parte in mano agli stessi capitalisti argentini, alla loro frazione finanziaria, quella che ha beneficiato dell'arrivo di capitali stranieri e che ne ha portato i frutti all'estero. Essi saranno considerati indifferentemente traditori e alleati al capitale dei gringos se la crisi persisterà, oppure salvatori della patria se, approfittando dello sfascio, torneranno per acquistare a prezzi stracciati le industrie agonizzanti rilanciando il ciclo economico fino alla prossima crisi.

In ogni caso, sia che i proletari ascoltino gli appelli della sinistra peronista e dei gruppi e partiti "rivoluzionari", per una responsabilità diretta e autogestionale dell'economia, sia che ascoltino l'ordine imperioso del governo per ritornare alla normalità del supersfruttamento per la futura gloria della patria, farebbero oggettivamente i partigiani per una fazione o per l'altra della borghesia, ansiosa di ripristinare il profitto perduto. Invece di lottare per sé lotterebbero per gli sfruttatori, compresi i loro esponenti politici "di sinistra" che durante le rivolte inneggiavano alle nazionalizzazioni, pretendendo l'allontanamento dei loro colleghi corrotti, chiedendo a gran voce riforme, assistenza e redistribuzione del reddito, fiancheggiati da una parte della Chiesa. Del resto anche alcuni capi delle rivolte, terrore della borghesia che già vedeva soviet dappertutto, hanno subito accettato di venire affiancati alle commissioni governative per la riforma sociale e per la distribuzione dei viveri alle famiglie. Anonimi militanti intervistati hanno dichiarato che questa è la via per scatenare una guerra fra poveri e che torneranno a bloccare le strade, con o senza capi. Ma l'istinto senza programma e direzione non basterà a dar soddisfazione neppure alle richieste immediate; non c'è via d'uscita all'interno dei meccanismi capitalistici.

La situazione che si è venuta a creare è perciò estremamente contraddittoria: dal punto di vista politico la mancanza di ordine sociale impedisce che lo sfruttamento ricominci su una base più razionale; dal punto di vista economico si potrà trovare una soluzione solo depredando ulteriormente le risorse naturali da svendere all'estero in cambio di valuta pregiata (ma la rendita andrà ad accumulare capitali nelle tasche di chi già aveva accumulato più o meno "illegalmente", com'era successo in Russia). E forse essa sfocerà in eventi traumatici internazionali che interesseranno tutta l'area.

Negli anni passati, non potendo ricorrere alla svalutazione della moneta proprio a causa leggi varate, e non potendo accumulare all'interno, l'Argentina cadde nella spirale ben conosciuta di dover accedere a debito estero nuovo per pagare la gestione di quello vecchio, debito necessario sia per sorreggere ulteriormente l'economia interna, sia per impedire il collasso di alcune industrie particolarmente colpite. In tale contesto di tensione non fu possibile neppure lasciar fallire le industrie inefficienti, dato che il fermento di classe già stava salendo, come vedremo, a causa dell'abbassamento dei salari e della disoccupazione crescente.

Per tutti questi motivi l'Argentina diventò ben presto un paese non solo a basso rendimento per gli investimenti, ma a rischio dal punto di vista sociale, cosa che ovviamente fece precipitare una situazione già di per sé molto instabile. Con la caduta dei salari i prezzi interni di molti generi incominciarono a scendere, e così i profitti, proprio mentre tutti i servizi privatizzati portavano le tariffe al livello medio americano e i tassi d'interesse rimanevano quelli di un potere bancario insensibile alle sorti della nazione (a Buenos Aires prima della crisi si erogavano prestiti in dollari al 25% d'interesse).

A causa del debito e della situazione sociale estremamente tesa, l'ulteriore accesso al credito fu garantita dal Fondo Monetario Internazionale, alla solita condizione di mettere sotto tutela il meccanismo interno di produzione di plusvalore attraverso il controllo dei salari, della produttività e dei termini di scambio con il mercato mondiale. Con 155 miliardi di dollari di debito estero, con i salari reali di molto diminuiti rispetto al passato, con un tasso di disoccupazione ufficiale del 18,3% e con 16 milioni di poveri su 36 milioni di abitanti, l'Argentina non aveva molto margine di manovra. Nell'ultimo anno provò a rinegoziare parte del debito per 48 miliardi di dollari, ma troppo tardi. Il meccanismo del crollo era ormai irreversibile.

Il declino del peronismo descamisado non aveva comportato il declino del populismo, anzi, questo si è rafforzato in tutti i partiti. La classe operaia argentina è numericamente e organizzativamente forte, ma i sindacati sono completamente in mano al partito peronista che li utilizza per fini politici, e finora hanno frenato più che organizzato le lotte. Nonostante tutto, la pressione dal basso ha prodotto 7 scioperi generali nazionali, due a distanza ravvicinata, la caduta di tre ministri economici, quella del ministro del lavoro e del governatore della banca nazionale, configurando apparenti situazioni da dualismo di potere. Purtroppo senza una coerente direzione politica il movimento di massa, effettivo e potenzialmente eversivo (in alcune città vi sono stati moti violentissimi con distruzione di edifici-simbolo dello Stato), è andato del tutto sprecato.

Effetti della globalizzazione

La borghesia corrotta e le sue propaggini peroniste all'interno della classe operaia hanno fatto dire a quasi tutti i commentatori che la situazione argentina è frutto di contraddizioni interne. Ma non c'è nulla di più falso: se è vero che vi sono particolarità nazionali assai pronunciate, non è vero che sono esse la causa prima della degenerazione economica e sociale. Il collasso è dovuto soprattutto alla contraddizione fra la maturità del capitalismo argentino e la sua impossibilità di espansione internazionale; fra la sua storica predisposizione alle esportazioni e la mancanza di capitale finanziario per controllare il mercato dei paesi a capitalismo più giovane, come il Brasile (anche il Cile, in recessione da due anni, è un paese a capitalismo maturo, esportatore netto e quindi concorrente sia del Brasile che dell'Argentina); fra la tendenza all'egemonia statunitense tramite il blocco economico rappresentato dal NAFTA (trattato di libero scambio fra USA, Canada e Messico) e l'arroccamento in un trattato speculare ma impotente come il MerCoSur (Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay). L'Argentina è come una piccola Germania sudamericana: grandi potenzialità economiche ma nessuna voce in capitolo dal punto di vista finanziario e politico.

La grave recessione del 1995, dovuta al ritiro di capitali dopo la crisi messicana per mancanza di fiducia in paesi con situazioni analoghe, mostrò quanto fosse aleatoria ogni velleità riformistica di fronte ad avvenimenti non controllabili dall'interno. La riforma abbreviò la crisi razionalizzando il sistema finanziario interno, riuscì a riportare la crescita reale all'8% nel 1997, ma appena in tempo per subire l'impatto della crisi asiatica. Nel 1998 l'economia reggeva ancora, ma i risultati combinati della crisi finanziaria russa e delle speculazioni in Brasile provocarono insicurezza internazionale, per cui ritornarono in Argentina troppi capitali, con conseguenze opposte a quelle desiderate, e il governo fu costretto ad una politica di alti tassi d'interesse. L'effetto fu perverso: fu evitata l'inflazione, ma fu pure raffreddata l'economia, che vide dimezzato il tasso di accumulazione. Nei primi mesi del 1999 la situazione peggiorò e il PIL scese ancora di un punto, al di sotto del 3% su base annua. Nel dicembre dello stesso anno la crescita reale si dimostrò alla fine del 2,5%. Fu varato un piano di tagli alla spesa pubblica per diminuire il deficit, accompagnato da un aumento delle tasse; ma il ricavato servì semplicemente a gestire il debito estero invece che ad incrementare gli investimenti e quindi, keynesianamente, si ebbe per il 2000 la conseguente, ulteriore caduta del PIL, allo 0,8%. Di fronte al pericolo di una nuova mina finanziaria internazionale, il Fondo Monetario rattoppò la situazione iniettando nelle disastrate casse argentine 13,7 miliardi di dollari, cercando di evitare il crollo totale della fiducia nella ripresa. Invano. I dati erano ormai da catastrofe.

E la situazione non può che peggiorare. Se Messico, Russia, Turchia e Brasile erano in crisi sincronica negli ultimi anni '90, adesso molti altri paesi si aggiungono ad essi. Argentina, Cile, Perù, Polonia, Corea, Thailandia, Indonesia, Sud Africa, Hong Kong, Ecuador e Bolivia sono in gravi difficoltà che mostrano caratteristiche comuni, soprattutto quando si verifica l'accesso al mercato mondiale con lo stesso tipo di merci. Negli ultimi due paesi citati vi sono continue rivolte popolari neppure menzionate dai media: in Ecuador, per esempio, a sottolineare l'instabilità sociale, una parte dell'esercito è passata con i rivoltosi.

In Argentina la borghesia ha dimostrato di essere completamente senza risorse di fronte alla crisi e si è comportata in modo scomposto, isterico, in un clima di abbandono più che di reazione. Se è finito il ciclo peronista, che si sta impaludando in una politica senza senso e con le varie frazioni che si combattono in vere e proprie battaglie di strada, è anche finito il ciclo degli esperimenti ibridi che sposano una specie di neo-keynesianesimo al liberismo sfrenato. Le riconversioni del super-ministro dell'economia hanno provocato da una parte la liberalizzazione eccessiva in certi settori, ma dall'altra, anche e proprio per questo, la necessità di un rigido controllo statale dei movimenti di capitali, cosa che può mettere in pratica efficacemente solo un regime totalitario o il governo di un paese molto potente rispetto ai suoi concorrenti. Il moderno capitalismo soffre di queste contraddizioni ovunque, ma non può neppure lasciar libero corso ad una concorrenza selvaggia o al controllo totale, due estremi che lo paralizzano. Perciò in dieci anni si sono susseguite rivolte dovute soprattutto alle ondate di licenziamenti e alle tariffe liberalizzate, ondate di rabbia sociale come il santiagueñazo del 1993, le manifestazioni violente del 1996, le sollevazioni improvvise di Cutral-Cò, di Tartagal, Jujuy, Cruz Eje, Tucumàn e Corrientes, o l'imponente movimento dei piqueteros, dei cortador de rutas (lett.: tagliatori di strade), che ha organizzato decine di migliaia di giovani e di operai in picchetti durissimi a partire dalle lotte contro i licenziamenti fino a diventare, negli ultimi due anni, un movimento nazionale.

Di fronte al disgregarsi dell'economia e della coesione sociale, il proletariato non ha certo avuto carenza di iniziativa né di organizzazione. Ma erano gli obiettivi a mancare. Ogni volta che le manifestazioni ottenevano un "successo" con le dimissioni di un ministro o di un governatore locale, tutto ricominciava come prima, nell'inerzia totale dei sindacati che riuscivano a non farsi sopraffare da un movimento spontaneo dall'apparenza possente. Quando i dipendenti delle Aerolíneas Argentinas scesero in sciopero contro la privatizzazione, ottennero subito la solidarietà di altri strati del proletariato, e la parola d'ordine "nazionalizzazione" divenne quella di un movimento di massa in un grande sciopero allargato, appoggiato a questo punto ufficialmente anche dai sindacati. Ma era una parola d'ordine tipica del peronismo vecchia maniera, non tipica del proletariato, che deve rivendicare la salvaguardia delle proprie condizioni di vita indipendentemente dalle soluzioni governative, interclassiste, di compatibilità economica ecc. Se il mondo sempre più globalizzato provoca lo scombussolamento delle vecchie strutture di controllo della forza-lavoro è assurdo rivendicare il ritorno a strutture più vecchie ancora, occorre proiettarsi avanti e individuare una linea di difesa (o di attacco) coerente con la tendenza mondiale. In Argentina, come del resto ovunque nel mondo capitalistico maturo, non è successo nulla di simile, e pur grandiose potenzialità di mobilitazione sono andate purtroppo sprecate.

Di fronte al crollo economico e all'esplosione sociale la borghesia assunse il classico atteggiamento da classe morta, senza più iniziativa storica: si salvi chi può. I singoli capitalisti cercarono di arrangiarsi, spesso abbandonando agli incendi e ai saccheggi le grandiose ville urbane, specchio di una grandezza passata e di arricchimenti recenti poco chiari. Lo Stato fu ben rappresentatato dall'immagine dei ministri che abbandonavano in fretta e furia la Casa Rosada scappando dal tetto in elicottero, mentre la folla inferocita gridava di volerli ammazzare. La borghesia non ce la fa proprio a prevedere i propri guai, anche quando essi sono già ben leggibili negli avvenimenti. Essa si attacca al profitto fino all'ultimo, cieca rispetto al futuro, incapace persino di avere nei suoi politici dei buoni funzionari che prestino servizio a pagamento nei partiti ufficiali.

Prima del crack finale, mentre si andava alle elezioni in un clima di totale incertezza riguardo al futuro, le organizzazioni politiche, quelle dichiaratamente borghesi e quelle in grado di riferirsi ancora al proletariato, si adeguarono allo schema tradizionale democratico cercando di trarre vantaggi dalla solita "denuncia" delle malefatte altrui. Il proletariato, da parte sua, rispose nell'unico modo che gli rimaneva dopo la piazza: disertando il voto. Nonostante il voto obbligatorio, il 40% degli elettori non votò; l'Alianza perdette 5 milioni di voti e i peronisti 1 milione. Nella capitale vi fu una massiccia partecipazione – qualcuno parla di milioni di persone – alle assemblee e alle "feste contro-sistema" organizzate da varie frange della sinistra non ufficiale. Le feste!, un'altra manifestazione tipica del capitalismo maturo, che è capace di suscitare una "opposizione" a misura delle sue esigenze, come innocuo termostato per monitorare la temperatura sociale.

Naturalmente non è una tornata elettorale che risolve le cose; e il governo uscito dalle elezioni riuscì a malapena a gestire l'ordinaria amministrazione, mostrando un'impotenza politica totale. Nel frattempo la situazione sociale si andava deteriorando, cioè facendosi sempre più interessante. Nel Nord, nella città di General Mosconi, ripartì un movimento dall'apparenza insurrezionale: il governatore locale fu costretto alla fuga con tutti i consiglieri, l'amministrazione locale e la polizia, mentre i piqueteros dominavano la piazza e impedivano alla polizia di far arrivare rinforzi e di rientrare in una città praticamente sotto il controllo degli insorti. Il governo centrale inviava direttamente un suo ministro, Cafiero, per negoziare con i ribelli. La situazione era talmente confusa che lo stesso ministro dichiarava l'impossibilità di trattare con qualcuno perché non c'erano organizzazioni che potessero essere considerate come interlocutrici. Soprattutto non c'era uno Stato in grado di trattare, in quanto ciò che succedeva a General Mosconi non era un caso isolato ma uno dei tanti "casi Mosconi" potenziali sparsi per tutta l'Argentina. Il ministro aveva ragione: i piqueteros avevano in mano la situazione in molte città e ogni concessione del governo centrale non sarebbe stata attuata dalle sue strutture decentrate, dalle sue rappresentanze legali che si erano dissolte, ma dagli insorti stessi, da una rappresentanza illegale, che in quel momento non riconosceva lo Stato. Occorreva però trovare una soluzione perché nel frattempo l'esempio stava contagiando anche il distretto di Tartagal, dove la popolazione era insorta con le stesse modalità.

Di fronte al nulla di fatto e alla impossibilità di "dialogo" per latitanza del governo centrale, in settembre si tenne un'assemblea generale del movimento dei piqueteros. Si riunirono 1.500 delegati in rappresentanza di 30.000 effettivi del movimento organizzato. In parallelo alla riunione fu coordinato il più massiccio blocco stradale nazionale che mai avesse avuto luogo fino ad allora: il picchetto contemporaneo delle maggiori vie di comunicazione del paese. La situazione protratta di insicurezza sociale e l'evidente ritiro dei capitali non solo da parte degli investitori esteri ma anche dei risparmiatori argentini (i grandi capitalisti avevano già ritirato nei sei mesi precedenti 20 miliardi di dollari, il 24% dei depositi bancari complessivi) cominciò a spaventare la piccola borghesia, che a dicembre iniziò la classica corsa agli sportelli per mettere in salvo il gruzzolo. Poiché non esiste sistema bancario in grado di resistere più di qualche ora a questo fenomeno quando si generalizzi, il governo non poté far altro che ordinare il blocco dei prelievi, fissando un massimo mensile (el corralito) per le spese di sopravvivenza delle famiglie.

Di fronte all'evidente collasso di tutta l'economia, e siccome il blocco del movimento di capitali non può essere protratto nel tempo senza uccidere l'economia che si vorrebbe salvare, sia agli Stati Uniti che al Fondo Monetario Internazionale non restò che auspicare una svalutazione controllata da parte del governo per impedire una svalutazione spontanea e disastrosa da parte del mercato finanziario mondiale.

La nuova insurrezione partì dalle industrie della città occidentale di Neuquén ai piedi delle Ande, e si estese a tutta la valle del fiume omonimo in uno sciopero generale poi ripetuto nelle settimane successive. Anche in questo caso la parola d'ordine, arretrata, fu incentrata sulla nazionalizzazione delle industrie in crisi. Poco per volta lo sciopero coinvolse tutte le categorie fino ai servizi pubblici, in primo luogo poste e telefoni, dilagando fino al confine orientale sulle coste atlantiche, dove a La Plata fu occupata la sede centrale della banca regionale. Il MTA, una frazione non allineata della CGT, il maggior sindacato argentino, proclamò da Buenos Aires per il 13 dicembre un ulteriore sciopero generale nazionale, costringendo tutte le altre componenti sindacali ad appoggiare l'iniziativa.

Da questo momento il "caso" argentino esplose su tutti i giornali del mondo. I capitalisti, cattivi gestori del Capitale, non si erano accorti, a cominciare da Wall Street, di aver ignorato come al solito una miccia accesa sotto un barile di polvere, per di più nel retroterra preferito (l'America Latina) del capitalismo più potente del mondo. Si erano resi conto improvvisamente che l'Argentina non è una repubblica delle banane, ma un vecchio paese industriale la cui importanza nell'area è maggiore di quanto pesi percentualmente il suo Prodotto Interno Lordo: un paese che è campo di investimento e di speculazione internazionale almeno da quando ottenne l'indipendenza all'inizio dell'800. In un'economia globale il suo collasso economico non può essere privo di conseguenze, e d'altra parte il suo debito estero non può essere semplicemente comprato come quello del Messico.

Qualcosa è andato storto? No, questa è la normalità

E' impressionante come la borghesia internazionale non riesca a capire che cosa sia "andato storto" in Argentina e si intestardisca a cercare cause soggettive in questo o quel governante, in questo o quel programma economico, in questo o quel partito. Certo, a tutte le borghesie fatti del genere bruciano assai, dato che amerebbero evitarli a casa propria. Ma non possono ammettere che il difetto sta nel manico e che questo è il funzionamento normale della loro società, che non vi sono cause specifiche da cercare al di fuori del caotico scambio di valore in un sistema complesso e incontrollabile, cioè senza variabili che si possano mettere sotto controllo definitivo.

Le crisi odierne scoppiano in modo diverso da quelle di un tempo, come già Engels notava alla fine dell'800. I cicli tra l'una e l'altra si fanno più brevi e meno evidenti, mentre i crolli catastrofici sono più dilazionati e la distruzione di valore avviene senza che la si possa analizzare secondo schemi periodici ordinati. Vale a dire che il mondo capitalistico vive in una specie di crisi cronica, proprio perché la distruzione di valore si accompagna in modo permanente alla sua produzione. Del resto, terminati definitivamente sia il ciclo dell'accumulazione originaria che quello del drenaggio di plusvalore assoluto (l'utilizzo in massa di manodopera a basso costo è ormai fenomeno marginale anche nel Terzo Mondo), la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto obbliga i capitalisti a centralizzare quantità enormi di capitali, a farli agire in massa e ad aggirare la caduta del saggio generale intascando una massa crescente. Questo fenomeno però, oltre a comportare l'anticipazione di molti capitali da parte di molti capitalisti, comporta anche l'accaparramento della massa di profitti da parte di pochi. Nel mondo finanziario ciò è particolarmente chiaro: molti possessori di capitale "investono" sui mercati, ma pochi riescono a ottenere un saggio d'interesse (profitto individuale) alto; la maggior parte riesce a conservare il capitale invariato, ma sono numerosi quelli che lo perdono del tutto. Così, mentre gli economisti, che sono pagati per infondere ottimismo nel sistema, mettono l'accento sullo strepitoso aumento dei profitti individuali, tacciono sul fatto che da decenni l'aumento del valore totale prodotto dal sistema mondiale copre a malapena l'aumento della popolazione. Tacciono soprattutto sul fatto che l'interscambio mondiale di merci, quello che dovrebbe rappresentare il fiore all'occhiello del capitalismo globalizzato è fermo – in percentuale sul prodotto lordo mondiale – al valore del 1913.

Questa situazione provoca un'estrema mobilità dei capitali, che viaggiano in continuazione intorno al pianeta alla ricerca disperata di valorizzazione. Siccome al capitalista singolo non importa nulla del "sistema", egli accorre nei luoghi dove il proprio "investimento" promette di fruttare, lasciando quelli dove le proprie aspettative sono state frustrate. Perciò diventa una molecola entro un movimento caotico, deterministico ma assolutamente imprevedibile, e quindi senza possibilità di controllo; provoca insomma un fenomeno molto simile a quelli meteorologici. L'Argentina, come vecchio paese capitalistico ricco di risorse umane e naturali, ha rappresentato per un certo periodo e per circostanze non solo interne un attrattore dei capitali sopra citati. Venute meno le condizioni di valorizzazione, i capitali se ne sono andati così com'erano venuti. Nel movimento complessivo pochi capitalisti avranno realizzato il loro profitto, ma affinché questo fosse possibile molti avranno realizzato poco o niente e altri saranno stati eliminati dalla scena. Per esempio, possessori di capitali italiani possedevano titoli pubblici argentini per circa 20 miliardi di dollari che fruttavano un super interesse del 12,5%; immediatamente dopo il crack i titoli che erano stati comprati a 100 peso-dollari erano svenduti a 36 dollari; a quel prezzo il capitale originario era diminuito del 64% e il rendimento virtuale per il nuovo compratore saliva alle stelle (la cedola era sempre del 12,5% su 100 e non su 36), pur correndo egli il rischio non solo di vedersi negato l'interesse, ma di vedersi azzerare completamente il capitale alla scadenza dei titoli.

I 155 miliardi di dollari di insolvenza totale verso l'estero rappresentano nello stesso tempo il più grande crack statale della storia del capitalismo e la misura di quanto capitale mondiale raccolto in quel territorio abbia smesso di valorizzarsi, senza contare il capitale interno (41 miliardi di dollari in buoni del tesoro più i depositi liquidi), cancellato dal blocco recente che gli impedisce di trovare scampo mentre l'inflazione lo decima.

Dopo dieci anni di parità fissa con il dollaro e l'accumulo di tensioni che non potevano che esplodere di colpo, era inevitabile che la cancellazione di capitale esuberante dovesse passare, come abbiamo visto, attraverso una svalutazione drastica, altrimenti ci avrebbe pensato il mercato mondiale con effetti ancor più disastrosi. Così al caos finanziario si è aggiunta vera cancellazione di ricchezza in mano agli argentini: anche se non è possibile un calcolo preciso se ci si basa sui prezzi, il fatto che il valore del peso sia stato più che dimezzato in rapporto al dollaro rappresenta un taglio enorme nelle condizioni di vita del proletariato, che sarà chiamato a offrire sul mercato una quota maggiore di forza-lavoro ad un prezzo inferiore. Infatti, benché i risparmi degli argentini fossero per lo più in dollari, quindi in teoria garantiti, essi sono una minima parte rispetto ai debiti e ai contratti internazionali, che bisognerà onorare in dollari. Come se i nostri creditori improvvisamente pretendessero la restituzione del doppio del dovuto.

Comunque dal primo dicembre i depositi a risparmio sono congelati e i dollari saranno forzatamente cambiati in peso svalutati. Perciò anche i risparmi saranno più che dimezzati, cosa che ha fatto imbufalire le mezze classi che possono permettersi qualche riserva. Ma la rabbia non è sufficiente a far cambiare lo stato dei fatti e le varie proposte non giungono a definire una soluzione: semplicemente una soluzione non esiste, se non si vuole cancellare lo stesso risparmio che resta con un'altra tornata di iper-inflazione o con il forzato utilizzo delle riserve da parte di chi rimane senza reddito a causa della crisi. Il blocco bancario spezza lo stesso principio di legalità borghese e toglie alla borghesia ogni credibilità persino da parte delle non-classi che normalmente la sostengono; oltre ad essere disastroso anche perché congela il capitale delle attività sommerse, dato che la produzione in nero non può ricorrere alle esenzioni per l'industria. E il 40% dell'economia argentina è in nero! Il risultato è un'economia strangolata: la catena dei pagamenti fra consumo, distribuzione e produzione è spezzata in ogni passaggio dall'impossibilità di superare il tetto prefissato di prelievo mensile; tutte le operazioni sull'estero richiedono l'approvazione della banca centrale e il tempo di approvazione è tale da scoraggiare totalmente le importazioni, con pregiudizio del funzionamento di alcune industrie e con una situazione disastrosa per esempio nel settore sanitario, basato quasi per intero sull'importazione di merci statunitensi e tedesche; i privati sono costretti a limitare i consumi dovendo privilegiare il pagamento dei debiti, soprattutto dei mutui; i disoccupati sono passati dal 18,3% al 25%, così la produzione ristagna e il governo prevede una recessione del 5%, mentre gli economisti parlano più realisticamente del doppio.

Di fronte al fallimento clamoroso di un esperimento liberista, i liberisti si chiedono angosciati: dove si è sbagliato, chi è colpevole? Essi sanno che la risposta è vitale, non solo per il recupero dell'economia argentina, ma per la comprensione dei fatti, in modo da riuscire a programmare quale dovrà essere la politica economica futura, non solo in America Latina ma in tutti quei paesi che non hanno il potere di influenzare i flussi di capitali (cioè il mondo intero ad esclusione degli Stati Uniti).

A posteriori tutti sanno trovare le pecche di una determinata politica, ma nessuno aveva osato far notare che proprio la liberalizzazione in genere è pagata con il debito statale, vale a dire che i profitti privati sono finanziati con debito pubblico. Questa era la situazione in Argentina fin dal 1996, quando si pensò che lo schema Cavallo ormai funzionasse da sé e quindi il suo ideatore fu licenziato. Nessun economista è ora disposto ad ammettere che lo schema Cavallo è uno schema di liberalizzazione forzata, controllata dallo Stato, e che se viene meno questo controllo autoritario e totalitario il sistema "libero" va liberamente a catafascio per l'azione combinata delle spinte interne e dell'agire cieco e individualista del singolo possessore di capitali. Non si riesce proprio ad imparare nulla dagli Stati Uniti, maestri di liberismo totalitario internazionalista.

Così, invece di essere libera di stampare moneta come ai tempi dell'iper-inflazione, la borghesia argentina fu libera di stampare buoni del tesoro ad alto interesse per attirare capitali esteri e per finanziare il deficit fiscale spalancato dalla politica reagan-tatcheriana di detassazione; invece di mantenere una decenza riformista intervenendo contro l'impoverimento della popolazione, a favore di infrastrutture e di distretti industriali di punta, e quindi per un indirizzo totalitario degli investimenti come in un paese normale, fu libera di intascarsi alti profitti senza badare alle conseguenze; invece di compensare con poli di sviluppo dei servizi la chiusura delle strutture industriali inefficienti nelle congestionatissime aree urbane, fu libera di reprimere le agitazioni proletarie, specialmente dei disoccupati che stavano aumentando; invece di razionalizzare il sistema previdenziale, fu libera di varare un ambizioso quanto vorace ed inefficiente sistema privato di assicurazioni individuali che obbligava comunque lo Stato a pagare le vecchie pensioni maturate, senza avere in contropartita nuovi contributi.

E' ovvio che la pressione del Capitale internazionale dovesse far sbandare un sistema cui era stato tolto il timone, fino a farlo sfasciare sugli scogli. Ora, non ci passa neppure per la mente di fare un'apologia dello schema Cavallo, simile a tanti altri escogitati dalla borghesia; ma è certo che se l'Argentina – ad esempio – raccoglieva di tasse una cifra pari al 20% del PIL facendone cattivo uso, ed era in concorrenza con un'economia come quella brasiliana che ne raccoglie il 30% centralmente indirizzato allo sviluppo, qualcosa doveva accadere, alla faccia del liberismo.

Dopo alterne vicende, alla fine del 2001 fu chiamato nuovamente Cavallo, il presunto artefice del miracolo economico precedente. Ma neppure gli dei avrebbero più potuto far nulla; e siccome il perno principale della crisi era la combinazione fra la parità fissa col dollaro e il caos "liberista", la prima mossa fu quella di avviare una politica di sganciamento dal dollaro e di controllo della pacchia privata rispetto al debito pubblico. Di per sé era l'unica cosa che si potesse fare, ma l'effetto immediato fu quello di spaventare ancor di più i capitalisti interni e di allontanare definitivamente quelli esteri. Di fronte al nervosismo della proprietà individuale e al pericolo di crollo, Cavallo dovette correre ai ripari e rincarare la dose: mentre il governo precedente aveva costituito un sistema bancario "deregolato" collegato ad una banca centrale indipendente, ora si procedette a liquidare entrambi nel tentativo di ritornare a un controllo statale dei flussi finanziari, i fondi pensione privati furono obbligati a investire in titoli del tesoro e si pretese un ulteriore prestito di 8 miliardi di dollari dal FMI. Non essendo possibile bloccare immediatamente l'accesso ai depositi bancari, queste misure provocarono il panico e, tra luglio e novembre, furono ritirati 15 miliardi di dollari. Il 30 novembre le banche private avevano già perso profitti per 1,3 miliardi di dollari; la banca centrale da sola 1,7 miliardi. E questo era ancora niente in confronto ai profitti che stavano per bruciare a causa della conversione dei prestiti da dollari a nuovi pesos: ben 10 miliardi di dollari persi. L'interesse interbancario fu portato al 1.000% per evitare speculazioni, in pratica un divieto delle transazioni monetarie. La produzione industriale scese complessivamente del 18% nel solo mese di gennaio (ma il settore tessile mostrò un tracollo del 56,1%, quello meccanico del 65% e quello delle costruzioni del 54,1%), e questo nonostante il fatto che la svalutazione avrebbe in teoria fatto aumentare le esportazioni. Il peso incominciò a fluttuare stabilizzandosi provvisoriamente a 2,10 per dollaro. La spesa pubblica fu immediatamente tagliata di 10 miliardi di dollari (dai 49 miliardi previsti fu portata a 39).

Il 1° dicembre fu infine inevitabile il blocco bancario. Dopo tre settimane, l'economia inchiodata e il caos finanziario provocarono il movimento di imponenti masse proletarie che, provenienti dalle periferie dell'ex fascia industriale, si diressero su Buenos Aires per conquistare la piazza della capitale. Ad esse si mescolarono sottoproletari e piccolo-borghesi, in un crescendo di scontri, subito estesi ad altre città.

La piazza, la paura e la prospettiva

La goccia che fece traboccare il vaso fu l'annuncio del taglio di 13 punti percentuali degli stipendi pubblici. "L'Argentina precipita nel caos", titolarono tutti i giornali del mondo. La prima ondata di rivolta ottenne le dimissioni del superministro dell'economia, Cavallo, ma evidentemente non era una vittoria sufficiente a fermare lo slancio. Il governo pensò di riuscire a controllare la piazza decretando lo stato d'assedio e ordinando alla polizia di sparare, nella certezza che, come al solito, dalla "società", cioè dalla borghesia e dalle mezze classi, salisse il coro di richieste di ordine e di legalità. Non salì nulla e il governo rimase isolato: questa volta il disordine della società civile si era fatto palese portando in piazza anche le classi rovinate, quelle che avevano avuto qualcosa da perdere e l'avevano perso, ora mobilitate nella speranza di recuperarlo.

Il 19 dicembre, a Buenos Aires, capitale nazionale ma anche centro nevralgico della provincia omonima, in cui si ammassa più della metà dell'intera popolazione argentina, i lavoratori in rivolta iniziarono la distruzione sistematica degli uffici pubblici, specialmente le banche, incendiando i mobili e buttando gli archivi dalle finestre. Lo stesso giorno 2.000 "saccheggiatori" assaltavano il primo grande supermercato, dando il via a una prassi velocemente imitata anche nei confronti dei singoli negozi. Una massa enorme di persone cominciò a convergere dalla "periferia della ruggine" (fatta cioè di fabbriche abbandonate) verso la Plaza de Mayo dove stazionavano già decine di migliaia di proletari e dove tutti sarebbero rimasti fino al giorno dopo in una confusione indescrivibile. I primi autocarri inviati dal governo per la distribuzione di viveri ai più poveri furono assaltati e svuotati direttamente sulle strade, prima che arrivassero nelle città.

Dopo i primi attacchi della polizia, gruppi di soli uomini, adottando la tecnica dei piqueteros, diedero luogo a sommosse e distruzioni in luoghi scelti con cura, in modo da attirare le truppe e permettere alle donne e ai bambini di saccheggiare con calma nei luoghi sguarniti. Con questa tattica furono svuotati supermercati e negozi anche a Rosario e Mendoza, città con altissima disoccupazione, e solo a Cordoba si contarono 40 saccheggi collettivi. Gli obiettivi presi maggiormente di mira furono quelli delle catene di distribuzione straniere, specie WalMart e Carrefour. I McDonalds sulla strada dei dimostranti furono tutti incendiati. Pubblicizzando al massimo il proprio intervento il governo riuscì a distribuire in provincia 200 tonnellate di viveri, una goccia nel mare, 20 grammi di cibo per ogni affamato ufficialmente riconosciuto. Intanto studiava un piano di produzione di kit di sopravvivenza alimentare, del tipo di quelli gettati in Afghanistan.

Alle 23 del 19 dicembre la folla, in piazza, ascoltò alle radio portatili il discorso del presidente assediato. Tentò cortei di protesta, ma era disorganizzata. Alle 2 di notte, di fronte alla minaccia di sgombero serrò i ranghi. Sotto l'attacco della polizia si disperse e si riaggregò. Alle 16 del giorno dopo la polizia non era ancora riuscita a farla sloggiare. Alle 18,30 il presidente propose un'alleanza di salvezza nazionale alle due principali forze politiche, subito rifiutata dalla piazza. Alle 19,52 un elicottero doveva prelevare il governo dalla terrazza della Casa Rosada. Ma senza una prospettiva di vittoria sulla base di un programma chiaro il rifiuto del compromesso fu più dannoso che utile. La repressione fu violenta: alla fine si contarono 35 morti, circa 100 feriti da armi da fuoco, 4.500 arrestati.

Nei giorni seguenti cadde il presidente de la Rùa, sostituito da Ramon Puerta, presidente per un giorno. Di lì in poi la paura e la confusione regnarono fra la borghesia e i suoi rappresentanti politici. I peronisti, che avevano la maggioranza al Congresso e al Senato, misero in moto le loro lobby per una lotta di potere, cercando di sfruttare la spinta dal basso dei nuovi descamisados. Ma, al solito, se i fatti si presentano la prima volta (quella di Peròn) come tragedia, la seconda diventano farsa. Mentre le fazioni peroniste iniziavano un gioco al massacro politico nei palazzi, le loro rispettive truppe si scannavano in piazza. Costituzionalmente, in caso di vacanza del presidente, il posto di questi spetta al presidente del Congresso, ma le varie fazioni opposero rifiuti incrociati con il pretesto che la piazza non avrebbe sopportato i vecchi tromboni della politica. Era vero, ma non c'era chi opporgli. Come succede in questi casi, venne eletto un altro personaggio di transizione, un oscuro governatore di provincia, Rodriguez Saá, con l'accordo che si sarebbe tolto dai piedi non appena la situazione si fosse chiarita, specie in vista delle elezioni presidenziali.

Ma che fa un presidente, per di più provvisorio, in una situazione di sfacelo economico e di tensione sociale estrema? Non può far altro che seguire il corso degli avvenimenti e tentare di evitare il peggio mostrandosi più "rivoluzionario" dei battitori di pentole, fedele al motto patriottico "sovranità politica, indipendenza economica, giustizia sociale", vero sfottò politico di fronte alla realtà sottolineata dalla piazza. Infatti, per accontentare il "popolo sovrano" e anche la Chiesa argentina che chiedeva pace sociale, Saà promise la Luna, promise cioè di fare chiarezza sulla vera natura del debito estero, di sospendere il suo pagamento, di utilizzare i fondi così risparmiati per la creazione di un milione di posti di lavoro, di varare un piano alimentare per eliminare la cronica emergenza-povertà, di introdurre un salario minimo per gli operai e un tetto massimo per gli stipendi dei funzionari, di sfoltire la burocrazia buttando fuori tutti coloro che non avevano un chiaro compito produttivo, di eliminare i ministeri "sociali" e sostituirli con coordinamenti decentrati. Tutto questo e anche l'opposto, in quanto contemporaneamente sanciva il blocco bancario e prometteva agli investitori stranieri, per tenerli buoni, di pagare il debito estero. Mossa incauta, non solo perché le casse erano vuote, ma soprattutto perché nell'era dell'informazione si può dire di tutto e il contrario di tutto solo quando non ci sono milioni di persone inferocite in piazza. Perciò le dimissioni furono inevitabili sotto la pressione congiunta della folla, che si sentì presa in giro, e del capitale internazionale stufo di questa specialità populista argentina.

La presidenza di Saà durò otto giorni. Lo seguì un quarto presidente, Eduardo Duhalde, dell'apparato peronista, governatore della provincia di Buenos Aires, già candidato alle presidenziali del '99, avversario dell'ex presidente Menem, anch'egli peronista. Mancò poco che cadesse anche lui: la Corte Suprema, a maggioranza menemista, con ventotto procedimenti penali in corso a carico dei suoi membri a causa dell'annullamento illegale di un processo per corruzione all'ex presidente, all'inizio di febbraio annullò il corralito, il blocco dei depositi bancari. Dichiarare incostituzionale il blocco, sapendo che i 65 miliardi di dollari in depositi e risparmi erano ormai solo virtuali, aveva il significato di un suicidio economico o, in realtà, di un golpe strisciante, attuato attraverso il tentativo di aizzare le masse insorte contro il governo. Ma il cacerolazo (ovvero la "grande pentolata", dato che i dimostranti battevano cucchiai sulle pentole per fare fracasso), aveva esaurito il suo slancio e non successe nulla, perché il governo decise di permettere il prelievo di piccole somme mensili.

Comunque non capita spesso che una sollevazione popolare con forti connotati proletari faccia cadere ripetutamente più governi prima di esaurirsi. Era invece inevitabile che, caduto l'ultimo, esso fosse sostituito con un altro praticamente uguale. L'impossibilità di governare, il disfacimento della politica tradizionale sotto l'attacco delle masse è il primo sintomo di dualismo di potere, e la storia insegna che è anche il momento in cui possono succedere in alternativa soltanto due cose: o il proletariato prende il potere subito, o l'avversario si riorganizza e diventa più forte che mai. In Argentina ovviamente non era presente che la seconda soluzione, perché l'alternativa reale esiste solo quando la massa abbia un programma preciso e sia organizzata da un partito rivoluzionario per attuarlo.

Il governo di unità nazionale di Duhalde è certamente il risultato delle pressioni dell'alta borghesia che non aveva fiducia nella possibilità di rapido recupero dei tre governi precedenti. I quali non avevano ancora realizzato chiaramente la lezione del "boom di Cavallo" (o di Reagan, o della Tatcher), cioè che per la deregulation liberista l'industria e la finanza devono essere poste sotto stretto controllo delle regole e non affidate alle chiacchiere a ruota libera di chi pontifica sul libero mercato. La svalutazione drastica del peso, il protezionismo nazionalista che già sta riprendendo piede, il sicuro coinvolgimento delle industrie privatizzate nel pagamento della normalizzazione e dei suoi costi immani, tracciano un modello per tutta l'America Latina, giacché tutti i paesi più importanti di quell'area sono in una situazione economica simile a quella argentina, Brasile in testa, con i suoi 170 milioni di abitanti e una macchina economica che, in confronto a quella degli altri, è gigantesca: un PIL di 1.130 miliardi di dollari contro 476 miliardi del secondo paese (che è l'Argentina).

Dal punto di vista sociale, ciò che chiede il Fondo Monetario Internazionale è di per sé in grado di re-innescare la rivolta: un piano di ridimensionamento della spesa pubblica, un aumento dei prezzi dei prodotti base, un aumento della tassazione e delle tariffe per coprire le spese, una rinegoziazione del debito estero e probabilmente la dichiarazione d'insolvenza verso i privati possessori di titoli pubblici sul mercato internazionale, sono tutti provvedimenti che intaccano la possibilità di far circolare allegramente il plusvalore nella società. Per cui è vero che la classe media è colpita, ma è anche vero che forte è la tentazione di rivalsa sulla fonte del plusvalore, il proletariato, per quanto sia adesso difficile spremere ancora qualcosa dai salari ridotti all'osso dei lavoratori e con la disoccupazione dilagante. Come al solito, i piani sulla carta lasciano il posto al riequilibrio spontaneo del mercato, alla concorrenza selvaggia che si occupa di ristabilire brutalmente un nuovo livello di relazioni di valore. Non bisogna dimenticare infatti che quanto è successo in Argentina si inserisce in un ciclo economico mondiale ormai vicino alla recessione generalizzata, quando molti paesi hanno già risolto il problema delle infrastrutture locali progettate espressamente per attirare capitali esteri e investimenti diretti; e non c'è più posto per nuovi rampanti candidati.

Tutta la retorica peronista non muoverà un peso dalle tasche di un capitalista argentino, che sente di certo maggiormente il richiamo del profitto che non quello della patria, né muoverà un dollaro da quelle di un capitalista estero se i borghesi argentini non dimostreranno per primi fiducia nel loro stesso sistema (cosa che non succederà): un circolo vizioso che ha provocato ben prima del blocco bancario una fuga di capitali verso lidi migliori, lasciando la piazza interna alle speculazioni più a rischio anche se più redditizie. Infatti dal 1991 al 2001 è raddoppiato il flusso di capitali verso l'estero, portando i depositi argentini in altri paesi da 50 miliardi di dollari a 101 miliardi, secondo le cifre ufficiali (di più secondo le stime degli economisti), quindi il doppio del capitale attualmente bloccato nelle banche nazionali. Questo ammontare, pari ai due terzi del debito, in teoria basterebbe a risollevare l'economia, ritornando in parte come debito interno del paese (un po' come succede in Italia e in Giappone, dove gran parte dei titoli del debito pubblico sono posseduti dai residenti), in parte investendosi direttamente in attività produttive. Ma già quei dollari se n'erano andati in quanto neppure al tempo del "miracolo economico" c'erano garanzie di valorizzazione, figuriamoci nella situazione attuale.

L'utilizzo delle risorse interne di un paese ricco come l'Argentina sarebbe più che sufficiente per ovviare a qualsiasi difficoltà se… il ciclo del capitale non avesse tempi e modi che non si decidono in Argentina. Il rischio è di svendere le proprie ricchezze naturali come l'Africa, come la Russia, come il Brasile. Perciò la paura della borghesia argentina ha basi materiali, ed è contagiosa. Non solo molti paesi sudamericani sono in condizioni simili, ma l'unica via d'uscita è proprio quella citata, cioè il ricorso al mercato estero per vendere le proprie materie prime e i propri semilavorati (lana, pellami, carne, ecc.). Essendo la rendita plusvalore altrui ripartito nella società, le ricchezze naturali, marxisticamente parlando, sono come valuta pregiata, direttamente dollari, euro, sterline, yen, a seconda di dove sono venduti.

L'alternativa è vendere alcuni suoi prodotti di punta come le automobili, e le macchine agricole o industriali, sfruttando più ancora il proletariato argentino, ammesso che sia possibile. Ma questo è il modo migliore per innescare una spirale di concorrenza e di svalutazione reciproca che non può portare da nessuna parte; può soltanto portare a una crisi generalizzata e una destabilizzazione politica, in un'area che possiede già per conto suo tensioni potenzialmente esplosive.

Letture consigliate

  • The Economist; tutti i numeri da dicembre a marzo compresi contengono articoli sulla situazione economica e sociale argentina, alcuni accessibili liberamente sul Web, altri solo per gli abbonati (http://www.economist.com/).
  • CIA Factbook 2001, utile soprattutto per la possibilità di comparazione dei dati riguardanti l'America Latina e gli altri paesi, in quanto sono tutti riportati in dollari-potere-d'acquisto (http://www.odci.gov/cia/publications/factbook/index.html).
  • La Nacion, il maggior quotidiano argentino (http://www.lanacion.com.ar/, per gli articoli sulla rivolta usare il motore di ricerca interno).
  • Clarin, altro quotidiano argentino (http://www.clarin.com/diario/).
  • Cacerolazo, sito dedicato alle manifestazioni di massa (http://www.cacerolazo.com/).
  • Indymedia Argentina (http://argentina.indymedia.com/).
  • Piketes.com: sito specifico sulle lotte (http://www.piketes.com.ar/).
  • Alteritat, sito utilizzato per organizzare i picchetti via Internet (http://alteritat.net/).

Rivista n. 7