Dal fronte interno israeliano

"Quali fattori storici impediscono l'unità della nazione araba? Chi crede di rispondere a tale quesito facendo risalire all'imperialismo tutte le cause della scissione che strazia il mondo arabo dà una visione incompleta del fenomeno. E si capisce benissimo il perché, se si pensa che la 'balcanizzazione' della nazione araba si verificò molto prima che sorgesse l'imperialismo" (Le cause storiche del separatismo arabo, 1958).

Cinquanta ufficiali e 350 militari di truppa israeliani della riserva sono agli arresti per aver rifiutato di prestare servizio nei territori occupati. Si è trattato di uno dei sintomi più evidenti del logorìo sociale provocato dalla guerra in corso. In tempo di guerra un così grave atto di insubordinazione è normalmente represso con la massima energia, ma in questo caso le reazioni dello Stato Maggiore sono state forzatamente caute. Di fronte alla determinazione dei soldati e soprattutto alla possibilità che la protesta si estendesse, sono stati imprigionati solo sette ufficiali, mentre gli altri sono stati rinviati a giudizio di fronte al tribunale militare.

Con una manifestazione di evidente disfattismo i soldati rifiutano di obbedire agli ordini, di reprimere la popolazione palestinese, di partecipare ai rastrellamenti di massa, di uccidere indiscriminatamente, di evacuare le zone dove per rappresaglia vengono demolite sistematicamente le abitazioni civili. Siccome tutta la popolazione adulta di Israele, terminato il servizio militare, è "riservista" delle varie armi, l'insubordinazione esce dai confini delle caserme per coinvolgere la società nel suo insieme, apre un fronte interno. Poco per volta intorno al rifiuto dei militari è nato un piccolo movimento comprendente 7.000 civili. Ogni settimana di fronte al carcere dove sono rinchiusi gli ufficiali si radunano migliaia di persone a manifestare la loro solidarietà e, mescolati alla folla, vi sono anche centinaia di soldati in borghese. Il movimento si è radicato in una parte della popolazione ebraica, saldandosi a precedenti raggruppamenti contro la guerra e chiede il ritiro unilaterale delle truppe dai territori occupati.

Al momento non vi sono condizioni storiche e sociali per andare oltre a uno sbocco di tipo pacifista. Tuttavia l'importanza del fatto non va sottovalutata. Pretendere la pace in tempo di guerra e opporre un rifiuto organizzato all'ordine di combattere è oggettivamente uno straordinario atto disfattista. Inoltre, e soprattutto, l'episodio mette in luce la differenza fra la modernità della società israeliana e l'arretratezza di quella palestinese, fra il nazionalismo piccolo-imperialista della prima e quello primitivo della seconda. In seno alla società palestinese un altrettanto netto rifiuto della guerra è impensabile: troppe sono le condizioni che legano ancora lo scontro all'esigenza di "liberazione" nazionale. Fatto che pesa come un macigno, quindi, rispetto alla maturazione di una lotta comune fra proletari israeliani e palestinesi contro le proprie borghesie, allo sviluppo di una fraternizzazione fra le rispettive truppe, com'era successo durante la Prima Guerra Mondiale nel contesto di nazioni combattenti che avevano risolto da un pezzo la loro questione nazionale.

La percezione israeliana del conflitto è completamente diversa da quella palestinese per questo motivo, non solo perché Israele è nella veste di paese oppressore. La società israeliana è capitalisticamente più avanzata di quelle che la combattono. A differenza di quella palestinese, essa ha compiuto definitivamente la sua rivoluzione nazionale e non ha neppure avuto nella sua storia quella antifeudale. Il suo modo più avanzato di porre la "questione palestinese" è quello di assimilare la popolazione araba come in parte ha già fatto, riducendo il problema "nazionale" ad una discussione per i diritti civili, un po' com'è successo in Sudafrica. Nonostante il super-nazionalismo della borghesia israeliana nel suo insieme (una sua parte ha vocazioni di semplice sterminio nei confronti dei palestinesi), alla base dello sviluppo di Israele non vi è più la spinta nazionale, bensì l'equilibrio politico che consenta una tranquilla accumulazione.

La percezione palestinese è invece quella di una popolazione ancora dominata dal problema del territorio su cui svilupparsi, territorio che le è stato sottratto dopo anni di terrorismo ebraico e almeno tre guerre generali perse. Tradita da decenni di politica infame delle borghesie dei "fratelli arabi" più che sconfitta dalle armi israeliane cui ha anzi resistito, senza un vasto proletariato al suo interno e persino senza una vera borghesia alla sua guida, essa non ha potuto dar vita ad uno Stato sul territorio rimasto, né ha potuto esprimere un programma politico unitario sul quale si potessero collegare i milioni della diaspora palestinese.

Data per scontata l'esistenza di Israele come unica entità statale in Palestina, la borghesia ebraica ha maturato una visione "boera" della questione nazionale palestinese immaginando i Territori come delle specie di bantustan, locali. Per questo le frange "avanzate" della borghesia israeliana giungono al massimo a proporre una soluzione pacificatrice di tipo sudafricano, uno stato multietnico con eguaglianza di diritti civili. Ovviamente non c'è paragone fra le due situazioni: il movimento dei neri contro l'apartheid, pur guidato dalla piccola borghesia, aveva una spiccata impronta proletaria in quanto nera era il proletariato sudafricano nella sua totalità. La borghesia palestinese non ha questo retroterra, ed è costretta a rivendicare essa stessa il bantustan palestinese, cioè il dominio su fazzoletti di terra trapuntati di insediamenti ebraici, aree frazionate a macchia di leopardo, impossibili da gestire e da difendere, che mai potranno essere uno Stato vero.

La rivoluzione nazionale palestinese poteva vincere solo nell'ambito di quella panaraba, ma quest'ultima aveva già esaurito la sua spinta mezzo secolo fa, per cause soprattutto interne al mondo arabo. Oggi è rovinoso, per la popolazione palestinese e per il proletariato in particolare, identificarsi con una borghesia cadavere, ben rappresentata dal suo leader, inchiodato all'impotenza non tanto "dagli israeliani" quanto dalla storia. Per quanto sia difficile riconoscerlo, la soluzione della "questione palestinese" non è più nelle mani dei palestinesi né in quelle dei "fratelli arabi" e neppure in quelle degli Stati Uniti, che pur potrebbero costringere Israele a qualche concessione. Che del resto, com'è ovvio e provato, si dimostrerebbe subito inutile.

In tale contesto il disfattismo dei militari israeliani è importantissimo perché mostra il primo cedimento sul fronte interno dell'unico protagonista in grado di agire praticamente per una soluzione. La fine di questa guerra dipende come sempre da condizioni internazionali, ma le modalità della pace dipendono dalle conseguenze che atti del genere hanno sull'intera società israeliana. Sappiamo quale razza di pace ha sempre inteso Israele se il suo fronte interno rimane intatto.

Mentre andiamo in tipografia si conclude il vertice arabo di Beirut sulle proposte saudite per la pace in Palestina. Sarà un caso ma, contemporaneamente, gli israeliani immobilizzano Arafat entrando con i carri armati fin nel perimetro interno della sua residenza. Siccome finora l'azione israeliana è stata mirata ad assassinare un gran numero di dirigenti palestinesi, è chiaro che il "piano di pace" saudita corona, volente o nolente, l'imposizione israelo-americana di una nuova leadership palestinese.

Nel documento finale approvato al vertice si chiede a Israele di dichiarare ufficialmente che una "pace equa è anche la sua opzione strategica", basata sul ritiro dai territori occupati nel 1967 e da quelli occupati in seguito nel Libano, sulla soluzione del problema dei profughi e sull'accettazione di uno stato palestinese con capitale Gerusalemme Est. Non c'è neppure un riferimento agli insediamenti ebraici in territorio palestinese. In cambio i paesi arabi si impegnano solennemente… a fare ciò che già stanno facendo. Cioè ad "adoperarsi per la sicurezza nella regione", a "considerare chiuso il conflitto arabo-israeliano" e a non ospitare "palestinesi il cui comportamento sia contrario alla pace". Un ennesimo tradimento della "causa" palestinese, un tempo parte integrante della più vasta questione panaraba.

I vari piani americani sono sfociati in una politica di sopraffazione militare che il governo Sharon non avrebbe mai potuto mettere in pratica isolatamente. Nello stesso tempo la politica sotterranea degli Stati Uniti dopo l'11 settembre si è materializzata in un ulteriore passo dell'Arabia Saudita, obbligata a presentare un pacchetto di proposte che, guarda caso, assomiglia molto al "piano Tenet", scritto dalla CIA. A Beirut c'è stato qualche tentativo di opposizione da parte della Siria, rappresentata da Assad, mentre l'Egitto ha disertato l'incontro sotto la pressione delle manifestazioni interne. Ma l'accordo è stato infine raggiunto velocemente, in ossequio alla "diversità" degli stati sovrani e sulla pelle dei palestinesi. Il panarabismo è morto e sepolto. Mentre sulle sue rovine si erge vittorioso lo storico separatismo arabo, che produrrà – forse – uno staterello in più, si fa strada in tutta la sua enormità un paradosso: a sconfiggere i due gemelli politici Sharon e Arafat potrebbe essere non l'Intifada ma la saldatura fra la popolazione d'Israele e i soldati di Tsahal, l'esercito nazionale ebraico.

Rivista n. 7