Stato di avanzata decomposizione

"Nel crack abbiamo perso il lavoro e rischiamo la pensione. Non si tratta solo di un paio di canaglie, la crisi delle corporation è sistemica" (un funzionario della Enron).

"Il capitale ha orrore dell'assenza di profitto, o di un profitto minimo, come la natura ha orrore del vuoto. Se il profitto è congruo, il capitale si fa audace. Un dieci per cento sicuro ne garantirà l'impiego dovunque; il venti lo renderà animoso; il cinquanta addirittura temerario; il cento per cento lo spingerà a mettersi sotto i piedi tutte le leggi umane. Assicurategli il trecento per cento, e non vi sarà delitto che non arrischi, neppure di fronte alla forca. Se tumulto e contrasto arrecano profitto, li incoraggerà entrambi. Il contrabbando e la tratta degli schiavi ne sono la prova" (cit. da Marx nel Capitale, Libro I, cap. XXIV).

Profitto con ogni mezzo

Fino alla metà del XVIII secolo la tratta degli schiavi era monopolio di stato e il contrabbando di neri verso il Nuovo Mondo era punito con la morte. Spesso era punito con la morte anche il contrabbando di merci, specie nell'epoca dei dazi e dei blocchi continentali napoleonici. O comportava la guerra, se lo praticavano gli Stati.

La tratta di schiavi – oggi salariati – esiste ancora. È affidata al libero mercato ed è generalizzata al mondo intero. Dal punto di vista della brutalità e di certe forme esteriori (navi stipate, violenza, morte) non è cambiata molto. Invece il contrabbando dell'odierno mondo globalizzato ha preso altre forme, più sofisticate. Ormai il volume di capitali in circolazione è di 20 volte superiore a quello delle merci, ed essi viaggiano, senza riguardo per le frontiere, non nelle stive delle navi o negli zaini degli spalloni bensì sui cavi delle reti telematiche.

In ogni caso saggi di profitto alti come ai tempi di Marx, ormai il Capitale se li sogna, anche nelle sfere dell'illecito di ogni genere. Per questo i suoi scagnozzi sono disposti ad qualsiasi delitto per molto meno. Per questo l'impiego di capitali, che richiede anticipo, è considerato old economy, roba vecchia, e la prassi comune è semplicemente il furto, l'estorsione, l'imbroglio. Ed è del tutto conseguente, per quanto riguarda il discorso che stiamo facendo, che l'imbroglio più diffuso sia quello di tipo contabile, meno rischioso del furto con scasso, della rapina a mano armata o dell'assassinio. Comunque, come nel caso esemplare della Enron che qui analizzeremo, le cronache dimostrano che gli agenti del Capitale non disdegnano l'intero ventaglio dei mezzi possibili, oltre alla la rapina contabile delle pensioni di 21.000 dipendenti, rimasti per di più senza lavoro.

Il crack della Enron ha cancellato dallo scenario del capitalismo privato americano 90 miliardi di euro. Quello della Worldcom, immediatamente successivo, ne ha cancellati 112. Altre migliaia di aziende private, banche, società di certificazione e assicurazioni sono o potrebbero essere in crisi per gli stessi motivi, che analizzeremo, non solo negli Stati Uniti. E anche il capitale pubblico ha dei problemi. La crisi statale argentina è scivolata su un'insolvenza di 155 miliardi di euro. Il Brasile e altri paesi in via di sviluppo arrancano nei debiti e sono nei fatti impossibilitati a pagarli. L'insolvenza complessiva fra privati non si conosce perché ha radici nell'imperscrutabile finanza globale, che si muove al di sopra delle frontiere nazionali. Però si sa che, in quest'ambito globale, il solo ribasso borsistico americano ha cancellato 8.000 miliardi di euro. Su base annua è come se fosse stata azzerata una somma pari all'intero prodotto degli Stati Uniti e nel resto del mondo ne è stata azzerata un'altra simile. Vi sono aziende come la Lucent, per anni uno dei fiori all'occhiello della new economy, che hanno visto il loro prezzo borsistico calare del 99% e stanno per essere espulse dal mercato o fagocitate praticamente gratis da qualche avvoltoio.

In massima parte ciò che in questi casi viene volatilizzato è capitale fittizio, il cui valore nominale è cresciuto senza una corrispettiva produzione di valore reale (profitto più salario). Non essendo in relazione diretta con la produzione, le fluttuazioni di valore del capitale fittizio non corrispondono all'effettivo andamento dell'economia, anche se riflettono ovviamente le ondate di euforia e di depressione a seconda che si profili nuova accumulazione o si constati che essa langue. Fondamentalmente, l'andamento dell'economia capitalistica si riflette nei dati del Prodotto Interno Lordo, che ormai registra in modo abbastanza fedele, anche dal punto di vista della teoria dell'accumulazione di Marx, l'ammontare del valore prodotto ex novo in un anno e le sue variazioni nel tempo. Perciò nell'andamento delle fluttuazioni sarebbe interessante conoscere non tanto il risultato in valore, fittizio, dei traffici finanziari quanto ciò che questi provocano di concreto, per esempio nel passaggio di mano del capitale iniziale, come vedremo subito.

Capitali fittizi e proprietà reale

È infatti evidente che se un titolo acquistato a 50 è venduto a 100, rivenduto a 200 e infine "valutato" in borsa a 50 dopo un crack, il calcolo realistico che occorre fare è D - D' - D'' - D, cioè 50 - 100 - 200 - 50. Nuovo valore alla fine del ciclo = zero. Ma se ora il primitivo possessore, quello che aveva comprato a 50 e venduto a 100, si presenta sul mercato, è altrettanto evidente che con il ricavato comprerà il doppio dei titoli ritornati a 50. La stessa cosa vale per la transazione successiva. Non è capitato granché dal punto di vista del valore complessivo, ma ora qualche capitalista ha raddoppiato il suo capitale, qualche altro (in genere piccolo possessore di denaro) è stato spennato e qualche altro ancora possiede il doppio dei titoli di proprietà di una o più aziende anche se si ritrova con lo stesso capitale iniziale. Una grande holding che possieda molte aziende, specie se comprate per un boccone di pane e all'estero, può fare i traffici che vuole, giocando sui bilanci parziali e consolidati.

Di solito si intraprendono grandi speculazioni con la speranza di influenzare il mercato e ricavare subito grosse cifre nette sia pure a bassissimo saggio di profitto. Per far ciò occorrono enormi quantità capitali da muovere in poco tempo, rastrellabili in genere nei meandri del sistema creditizio. Il quale fornisce anche quei piccoli differenziali d'interesse necessari allo scopo, per esempio permettendo di fare acquisti allo scoperto: si comprano certi titoli rilasciando un "pagherò" formato da altri titoli che non si posseggono ancora, fidando che i primi vadano al rialzo e i secondi al ribasso. Un gioco d'azzardo, quando non vi sia la possibilità di far succedere ciò che si spera. Ma se l'investitore-speculatore è in grado di reggere il gioco nel tempo, è possibile che alla fine dell'anno ricavi non solo le grosse cifre nette sperate, ma anche grosse cifre in percentuale sui capitali messi in moto.

Si capisce che per lo speculatore internazionale che possa muoversi in tal modo, chiunque esso sia, la tentazione di puntare al 100%, o più, citato da Marx è fortissima. Per questo le aziende di una certa dimensione, ridotte a contentarsi di piccoli saggi di profitto nella sfera produttiva, diventano attivissime nella sfera speculativa. Un alto funzionario che abbia sufficiente libertà d'azione, può in questo modo, com'è successo alla Enron e alla cerchia di affaristi che essa ha finanziato per la corsa alla presidenza americana, sfruttare le conoscenze interne all'azienda e speculare in proprio. In genere, però, la grande speculazione si basa su fluttuazioni altrettanto grandi e le escursioni personali sono insignificanti rispetto al mercato. D'altra parte anche potenti gruppi non riescono a tradurre sistematicamente in pratica meccanismi dall'apparenza così semplice come lo sfruttamento di informazioni interne e l'incursione sui mercati nel tentativo di influenzarli. Essi sono in assoluta concorrenza, agiscono in modo scoordinato e soprattutto lo fanno in un mercato mondiale che è enormemente più vasto delle possibilità di ognuno di loro. Allora si fa strada la spinta alla specializzazione: alcune aziende, come la Enron, appunto, "perdono" poco per volta il contatto con la merce fisica trattata in precedenza e diventano puri mediatori di capitali, entità organizzate in grado di offrire al denaro altrui gli strumenti necessari per le alchimie finanziarie più complesse.

Ogni tanto qualcuno azzecca il "colpo" e si porta a casa il malloppo, come è successo nel commercio dell'energia elettrica in California, dove l'elettricità era solo un tramite per enormi speculazioni. Oppure come nel caso dello speculatore "filantropo" Soros o di alcuni fondi comuni che raccolgono "capitale di rischio". Il movimento speculativo diventa autoreferenziale quando si sincronizza, cioè quando l'azione degli speculatori influenza il campo stesso sul quale essi puntano tutti insieme la loro attenzione. Ovviamente una grande holding che concentri la sua attenzione su di un bacino d'interessi limitato ha più facilità di un privato nel provocare movimenti a suo favore. Se possedere molte aziende permette di stilare bilanci artefatti per spingere in alto le proprie quotazioni in borsa, avere la facoltà di crearne di nuove, messe in piedi apposta per queste operazioni, offre "una marcia in più". La Enron giunse a farlo illegalmente, cioè esagerando. Ma con tutta evidenza è una pratica assai diffusa.

In genere, però, anche la grande speculazione deve accontentarsi di ciò che offre il normale movimento oscillatorio caotico e mediamente imprevedibile. Ben diverso sarebbe il caso in cui, invece di uno speculatore singolo, di fronte al quale stanno solo altri speculatori e un mercato di complessità insondabile, vi fosse una potente nazione in grado di influenzare, almeno in parte, il mercato stesso, di rappresentare un mediatore di capitali e di falsificare in continuo bilanci per mostrare alte prestazioni anche se ha il fiato corto. Certamente un annuncio di variazione dei tassi americani, per esempio, o un vasto piano di sostegno alla produzione di quella che è considerata la locomotiva dell'economia planetaria, ha una massiccia influenza sul mercato finanziario globale. Quando Greenspan, dal vertice della Federal Reserve, la più potente istituzione monetaria del mondo, commenta l'andamento dell'economia, il mondo finanziario si mobilita. Sarà un caso, ma ci sono dichiarazioni ottimistiche della Federal Reserve all'inizio dell'incredibile ascesa della borsa sulle aziende tecnologiche più o meno fasulle, così come ci sono dichiarazioni pessimistiche alla vigilia della discesa. Noi crediamo poco alla capacità di previsione di Greenspan e un po' di più alle materiali possibilità dell'economia americana nell'influenzare il mercato del valore virtuale, magari usando Greenspan come portavoce.

Gli Stati Uniti godono di una posizione privilegiata. Anche se non fosse vero che la utilizzano coscientemente e sistematicamente per rapinare i possessori di capitale finanziario degli altri paesi, come sospettano in molti, l'assecondare pratiche generalizzate di speculazione da parte delle proprie multinazionali, le più grandi del mondo, porta sicuramente a casa capitali esteri. Se un Soros è riuscito a sconfiggere l'Inghilterra – non un Bantustan, l'Inghilterra! – con 10 miliardi di dollari piazzati in gran segreto, figuriamoci cosa possono fare gli Stati Uniti mobilitando un ammontare come quello che il Congresso ha messo a disposizione dell'esecutivo dopo l'11 settembre (intorno ai 400 miliardi di dollari). Il processo ad aziende tipo Microsoft sarà sempre una farsa finché esse garantiranno il monopolio americano su settori strategici come il software di base. Diciamo che la posizione privilegiata aiuta di fatto il capitale americano a mantenere ben solide le sue posizioni di dominio nonostante le ricorrenti difficoltà.

Germi di auto-estinzione

L’economia, dicono gli stessi economisti, non è una scienza. Una delle difficoltà maggiori che essi trovano nel loro lavoro al servizio del Capitale è la previsione. Si sa che un'analisi retrospettiva delle dichiarazioni degli esperti alla vigilia delle più gravi crisi offre uno spettacolo desolante: non c'è traccia di consapevolezza di quel che sta per accadere, si sbaglia o si azzecca a caso, tutt'al più cercando nel passato regole statistiche da proiettare nel futuro. In genere tali crisi esplodono al culmine di un periodo di accumulazione, comunque anche questa invarianza non viene presa in considerazione. Dopo la crisi del '29, che diede inizio alla Grande Depressione, sono stati presi provvedimenti in ordine alla stabilità del sistema, ma la capacità di previsione non è migliorata, come dimostrano, per citare le più vicine, sia la crisi borsistica dell'87 sia quella "asiatica" del '97. Due economisti avevano appena ricevuto il premio Nobel per aver escogitato particolari algoritmi di previsione quando il fondo di cui erano consulenti fallì miseramente, proprio alla vigilia della disastrosa crisi asiatica.

Nella concezione borghese, che si basa sull'osservazione pedestre e soprattutto a posteriori degli avvenimenti, la crisi è fisiologica nel capitalismo, per il quale è naturale attraversare fasi di boom e di riaggiustamento. Tale atteggiamento è sembrato ancor più giustificato dopo che le politiche d'intervento statale hanno dimostrato di essere davvero anticicliche, cioè di essere abbastanza efficaci per evitare catastrofi come quelle del passato. Ma la concezione è ovviamente campata in aria, per la semplice ragione che in natura non esiste nessun sistema organico che si "riaggiusti" in eterno. Esistono solo sistemi che si muovono verso livelli superiori di organizzazione o si estinguono. Anche la stabilità nel tempo è raggiunta attraverso un processo di crescita dalle modalità generalizzate: esponenziale all'inizio, esso mostra nessariamente, nel tempo, un "punto di flesso", per poi continuare con incrementi decrescenti fino ad un appiattimento "asintotico" dagli esiti catastrofici. Se nei sistemi complessi, specie quelli viventi, vi fosse soltanto stabilità, non esisterebbe nessuna possibilità di cambiamento e di evoluzione, forme nuove sarebbero impossibili.

Marx dimostra che la teoria della crescita continua e della conseguente stabilità capitalistica è un non-senso. Il sistema è altamente autoreferenziale e crea da sé, ad un livello sempre più alto, le sue proprie contraddizioni, fino a negarsi. La Enron era parte del sistema, ma era essa stessa un sistema. Era nata come modello ridotto di quello più generale, proprio come strumento di servizio coerente col tutto, in grado di innescarsi sulla circolazione del denaro e indirizzarlo verso la valorizzazione comunque, anche se negli ultimi tempi era un compito disperato. Già il fatto che esista questa necessità di creare strumenti per l'esasperata circolazione, per la frenetica inflazione e deflazione fittizia dei valori nominali, dimostra che il sistema è con l'acqua alla gola e fa fatica a sopravvivere. Succede come nelle colonie di batteri lasciate senza cibo, il cui comportamento è anti-intuitivo per l'osservatore: il loro metabolismo, invece di diminuire per mancanza di energia, aumenta, provocando un movimento parossistico delle unità impazzite. Per cui se il cibo non si trova, il movimento stesso contribuisce ad accelerare la fine a causa dell'ulteriore dissipazione di energia non rinnovata.

Nella realtà capitalistica il cibo che scarseggia non è rappresentato dalla merce, che anzi di per sé viene prodotta in esuberanza, ma dal plusvalore realizzato da reimmettere nel ciclo. Le unità sociali si agitano dunque scompostamente dietro segni di valore in un caos apparentemente inestricabile. Ma di queste unità il capitalismo ne genera anche di particolari, raggruppabili in una classe a sé fra tutti gli insiemi possibili: il proletariato. Queste speciali unità sono passibili di comportamento univoco, secondo un programma orientato che ne rappresenta il "cibo" teoretico. E nella classe dominante provocano sempre una paura incontrollabile.

Miseria crescente, legge assoluta del Capitale

Non c'è mai esuberanza di capitali senza esuberanza di merci, e queste sono "troppe" in relazione non solo alla possibilità di acquistarle ma anche di utilizzarle. L'autoreferenza è palese: badando solo alla circolazione delle merci e dei capitali non è possibile stabilire se ci sono troppe merci perché non si consuma abbastanza o se non si può consumare abbastanza proprio perché si producono merci in eccesso rispetto ai bisogni. E i bisogni sono a loro volta indotti dalla possibilità di consumo. Insomma, siamo al quesito dell'uovo e della gallina. La pletora di capitali va sempre messa in relazione con la legge della miseria crescente, la "legge assoluta" della produzione capitalistica: il numero dei proletari cresce, ma meno di quanto cresca il capitale messo in moto da essi nel ciclo produttivo. Ciò rende inevitabile il fatto che nel capitalismo moderno di proletari ce ne siano sempre "troppi" in senso assoluto. Quindi anche la crisi è inseparabile dal procedere storico di questa forma economico-sociale, fino alla sua catastrofe ultima.

Per superare questo nodo il Capitale dovrebbe realizzare una condizione di equilibrio fra tutti i fattori della produzione, ovvero aumentare proporzionalmente sia la produzione-plusvalore che il lavoro-salario. Dovrebbe cioè auto-negarsi, perché un sistema del genere potrebbe essere in equilibrio soltanto alla condizione di avere un controllo perfetto su tutti i fattori di produzione e distribuzione. Ma tale controllo ridurrebbe il mondo all'assurdità di un unico capitalista globale; e senza capitalisti, senza concorrenza, senza mercato, non può esserci capitalismo.

Comunque anche un capitalismo posto in equilibrio imperfetto, quindi dedito a continua autoregolazione spontanea, è impossibile. E questo ancora per motivi intrinseci al sistema: l'aumento della produttività, cioè l'aumento del rendimento per quanto riguarda la sfera produttiva (applicazione della scienza, della tecnologia e dell'organizzazione in modi sempre più razionali) si scontra con la diminuzione del rendimento sociale. La finitezza del pianeta e soprattutto la sua suddivisione in nazioni fa sì che il plusvalore generato nelle aree di vecchio capitalismo tenda a ritornarvi accresciuto dopo aver girato il mondo. Tende, ma non sempre vi riesce, perché ad un certo punto qualcosa s'inceppa. In primo luogo il proletariato delle nuove industrie ne reclama una parte, dato che il suo livello di vita cresce con il crescere del Capitale, "partecipa al banchetto", come dice Lenin, pur se rosicchia solo le briciole. Anche se gli operai non scendono direttamente in lotta, la borghesia tenta di intervenire per impedire l'abbassamento del loro livello di vita al di sotto della soglia di rottura: lo fa per calcolo ma soprattutto per atavico istinto, derivante dal terrore provato nelle rivolte sociali e nei tentativi rivoluzionari del proletariato. In secondo luogo reclamano una parte anche le varie borghesie nazionali, specie quelle giovani, che sono avidissime in quanto frutto di un capitalismo sviluppato grazie ai finanziamenti dall'estero senza essere passato attraverso l'accumulazione originaria locale. In terzo luogo, poiché nulla rimane per gran parte delle masse del mondo "in via di sviluppo", relegate allo stato di mera sovrappopolazione, esse sono impossibilitate a consumare alcunché, e dunque non possono certo rappresentare uno sbocco per la pletora di capitali.

Persi di vista i "fondamentali"

Un bel guaio per il Capitale moderno. Esso avrebbe assolutamente bisogno di potenziare i fattori di accumulazione come nella sua infanzia e maturità, ma una volta giunto alla fase senile non può fare altro che soffocarli, adattandosi alla legge auxologica, cioè degli incrementi di sviluppo a saggio decrescente. I bambini crescono, i vecchi no; e anche se crescessero, come gli alberi, la nuova massa si aggiungerebbe alla massa che già esiste in percentuale decrescente (a un centimetro l'anno il tronco si accresce del 10% sul diametro di 10 centimetri, ma dell'1% quando ha raggiunto il metro). Il risultato è che si stabilizza la tendenza alla diminuzione del saggio di profitto e, alla lunga, non essendoci l'allargamento conseguente della produzione, anche della massa (la massa del plusvalore si ottiene moltiplicando il salario per il saggio di sfruttamento; quindi, a produttività costante, se scende la massa dei salariati scende la massa del plusvalore). In poche parole: mentre una volta si poteva passare dal 10% di profitto su 10 miliardi al 9% su 12 incrementando ugualmente la massa, oltre a un certo limite non si può continuare, dato che il capitale prodotto in precedenza non basta ad anticipare la quantità necessaria all'incremento, e soprattutto non esiste una popolazione consumatrice a tal punto da far salire i parametri del modello in modo equilibrato. Non si può insomma, quando si dimezzi il saggio di profitto, raddoppiare il capitale anticipato per mantenere costante la massa e nel frattempo non assumere, anzi, licenziare operai.

Ecco che allora in modo del tutto spontaneo, nel senso di anarchico, caotico, ai capitalisti individuali, abituati ovviamente ad agire all'interno delle logiche capitalistiche, si presentano delle apparenti opportunità legate alla natura dei mercati finanziari. Quando ad esempio si fa salire in borsa il prezzo del lavoro passato (quello che per i capitalisti è il "valore di mercato" delle aziende) e su di esso si ottiene la fiducia dei possessori di capitali per farseli consegnare, è chiaro che a saggio storicamente calante si può far corrispondere una massa crescente. Finché il gioco dura. Sulla base di queste bolle borsistiche si scatena il cosiddetto takeover, la fusione non amichevole tra aziende, in genere condotta con l'utilizzo di opzioni basate sul valore fittizio di borsa. Abbiamo analizzato l'incursione di America On Line contro Time-Warner sul n. zero della rivista, ma nel campo della new economy c'è stato un periodo in cui tale pratica aveva raggiunto livelli parossistici. En passant: mentre scriviamo, il complesso AOL-Time-Warner "vale" il 70% in meno rispetto al momento della pur recente fusione.

Ovviamente questi giochi basati sulla confusione fra valore e prezzo possono funzionare solo per pochi. Nel gioco d'azzardo, il risultato è a somma zero, chi vince porta via a chi perde, con tanti saluti ai cosiddetti fondamentali, cioè ai parametri produttivi su cui una volta si basavano gli scambi anche in borsa. Ma, proprio perché il ragionamento individuale sui giochi di borsa è indotto dalla natura del sistema, tutti coloro che possono si buttano a metterlo in pratica. Non appena però i nodi vengono al pettine (la bistrattata legge del valore di Marx si vendica sempre delle ciarle sui prezzi) si scoprono le porcherie che i dirigenti e gli istituti di controllo mettono in atto per ottenere il risultato. Tutto quel che un momento prima era perfettamente legale in quanto routine consolidata, diventa illegale. Perciò al pubblico sembra che il marciume del sistema sia dovuto a pochi elementi corrotti e che basti mandarli in galera per mettere ordine.

Vecchia struttura, nuovi espedienti

Fu quello che successe anche al tempo dei titoli-spazzatura, una quindicina di anni fa. Alcuni personaggi che si erano inseriti nella corrente spontanea creata dal sistema finirono in manette, ma il loro metodo diventò pratica generalizzata in virtù del reale movimento speculativo su cui si erano gettati per far soldi. Gli individui vanno e vengono, ma il sistema resta. Per questo ha ragione l'oscuro funzionario che abbiamo citato all'inizio. Quello che dobbiamo chiederci è se i fenomeni che stiamo osservando da qualche anno fanno parte del capitalismo da sempre o se si tratta di fenomeni nuovi, che inducono gli uomini a comportamenti "criminali" all'interno dei meccanismi di accumulazione, e se quindi possiamo trarne qualche indicazione particolare, utile per la nostra preparazione.

Dal punto di vista della struttura del capitale non è cambiato praticamente nulla e tutto ciò che esiste nella sovrastruttura capitalistica che serve all'uso del denaro come capitale era già conosciuto da Marco Polo, dai banchieri lombardi e fiorentini e dai mercanti della Lega Anseatica. Quel che è cambiato enormemente è il bisogno frenetico di valorizzazione, quindi il numero degli strumenti, la velocità delle transazioni e di conseguenza l'ingigantire della quantità di capitale circolante nell'unità di tempo. Solo in minima parte questa velocità è dovuta alle reali necessità della produzione, pur divenuta vulcanica e diffusa ovunque. Per il resto è dovuta all'angoscia del capitalista che non sa più cosa fare per escogitare espedienti in grado di garantirgli un ritorno qualsiasi dal suo capitale.

Ecco una definizione appropriata: il capitalismo moderno vive di espedienti. I nostri critici di un tempo, quelli che non erano d'accordo sul fatto che ci fosse una crisi cronica e che la massa del profitto prodotto – chissà perché – non potesse scendere, argomentavano che c'era ancora un mucchio di spazio per lo sviluppo. Intere aree del pianeta, a loro dire, erano ancora da conquistare al capitalismo moderno, la Russia, la Cina, l'India, l'Africa, sulle quali il capitalismo si sarebbe gettato avidamente. Evidentemente non pensavano affatto che le aree arretrate del pianeta fossero tali proprio perché il capitalismo si era sviluppato in altre aree e aveva bisogno semplicemente di serbatoi di manodopera e soprattutto di materie prime a basso prezzo.

Noi non neghiamo affatto, l'abbiamo detto tante volte, che una specie di fascismo mondiale, con tanto di esecutivo, esercito, polizia e magistratura sovranazionali, possa indirizzare i capitali in esubero verso aree a sviluppo controllato. Non sarebbe la prima volta, anche se il fenomeno finora si è manifestato in modo evidente solo in ambito nazionale. Ma riteniamo che prima di raggiungere tale situazione saltino altri meccanismi, politici e non economici, nei rapporti fra le nazioni. O meglio, fra le altre nazioni e gli Stati Uniti, l'unica potenza che potrebbe sovrintendere un direttorio mondiale per la diffusione – non del capitalismo, che c'è già – ma della produzione, distribuzione e accumulazione locale. Potrebbe farlo anche l'ONU, ma si tratta di un istituto di rappresentanza che, come tutti i parlamenti, produce solo chiacchiere. Ecco perché siamo sempre stati più propensi ad attribuire questo ruolo futuro direttamente agli Stati Uniti. Vent'anni fa ci fu affibbiata una strana teoria del superimperialismo, sarebbe interessante parlarne adesso.

Produzione di plusvalore in pericolo

Certo, le riviste specializzate borghesi sbandieravano tabelle in cui si vedevano i profitti salire, la produttività esplodere, la disoccupazione oscillare intorno a cifre ormai considerate fisiologiche. America è il mondo. Se salgono i profitti vuol dire che sale il plusvalore, e se sale anche il valore mondiale prodotto ex novo ogni anno (plusvalore più salario) vuol dire che sale anche la massa del profitto, no? Oltre tutto l'incremento dei salari è storicamente inferiore rispetto a quello del plusvalore, cui andrebbe quindi ascritta la maggior parte dell'aumento del valore complessivo.

Il ragionamento a prima vista non fa una grinza, ma è sbagliato. È vero che il capitalismo muore se non aumenta la massa del plusvalore; proprio per questo il capitalista cerca ogni espediente per non farla diminuire. Ad esempio accorciando il tempo di rotazione del capitale, cioè il ciclo di accumulazione individuale. Aumenterebbe così la massa del plusvalore annuo, e chi ci critica avrebbe ragione dato che comunque viene mantenuto il rapporto fra capitale anticipato e profitto. E finché tale rapporto è positivo c'è aumento. Ma l'anno solare non è il vero ciclo di rinnovo del capitale, è solo un ciclo contabile. Sarebbe sminuire la dinamica del capitalismo pensare che tale ciclo sia potuto rimanere lo stesso per secoli. In effetti i cicli di rinnovo si accorciano sempre di più, e ciò è riflesso anche nei bilanci aziendali dove si riscontrano tempi di ammortamento sempre più brevi. Basti pensare al tempo di obsolescenza di un computer. Parte del capitale fisso subisce quindi fino in fondo il logoramento tecnico, quello che Marx chiama "usura morale", provocando un troppo veloce passaggio di valore nel prodotto e quindi una diminuzione del profitto. Si capirà mai che la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto deriva proprio dall'aumento della produttività, cioè dal fatto che per ottenere una stessa massa di profitto si utilizzano sempre meno operai? Dice Marx: oltre un certo limite non si può ricavare da pochi operai tanto plusvalore quanto se ne ricava da molti; siccome la giornata lavorativa può essere al massimo di 24 ore e ogni capitalista non può sfruttare meno di un operaio, dato un certo capitale anticipato occorre fatalmente aumentare il numero degli operai per aumentare la massa complessiva del plusvalore. Storicamente uno sforzo produttivo sempre più grande ha come risultato un incremento del plusvalore sempre più piccolo. Oltretutto a scapito del salario, dato che l'operaio è comunque pagato a tempo, indipendentemente dal fatto che il ciclo si abbrevii storicamente. Tutto ciò significa che se il ciclo di rotazione del capitale complessivo va accorciandosi e l'incremento contabile annuo rimane più o meno lo stesso, come sta succedendo, allora la massa del plusvalore prodotto entro il ciclo diminuisce. La controprova l'abbiamo guardando alle cifre fornite dagli stessi capitalisti: da qualche anno a questa parte il prodotto lordo mondiale cresce mediamente del 3% all'anno in termini reali; ciò significa che, siccome la popolazione cresce dell'1,3% all'anno, si profila addirittura una crescita pro capite quasi a zero. Il trionfalismo passato dei capitalisti riguardava soltanto i paesi industrializzati e per di più soltanto certe aree all'interno di essi. In un mondo globalizzato occorre guardare ai dati globali.

Il parco buoi internazionale

È in questo mondo globalizzato che scoppiò la crisi asiatica nel 1997. Capitali in esubero che non trovavano valorizzazione in patria, specialmente giapponesi, si riversarono nelle aree di nuovo capitalismo in Asia. Il meccanismo era il solito: la raccolta dei capitali singoli era avvenuta attraverso il sistema bancario internazionale che li aveva adoperati per prestiti allo sviluppo e alla produzione diretta. Siccome la remunerazione era buona, dati gli alti tassi di sviluppo dei giovani capitalismi asiatici, si era moltiplicato l'effetto attrattore, per cui le cautele sulla copertura delle esposizioni bancarie erano state lasciate da parte, spesso in barba ai limiti legali.

Ai primi segni di difficoltà i capitali avevano incominciato a defluire e la "sofferenza" delle banche divenne un problema centrale, aggravando la situazione delle aziende locali e dei capitali stranieri che non potevano essere portati via subito. Questo a grandi linee. Il risultato che qui ci interessa è il flusso di capitali che, stornati dall'Asia, incominciarono ad affluire verso gli Stati Uniti, dato che proprio in quel periodo erano in ascesa gli investimenti nelle nuove tecnologie. Il capitale proveniente dall'Asia, sommato a quello che già confluiva dall'interno e da ogni parte del mondo, contribuì a gonfiare la gran bolla speculativa durata fino al 2000. Era successo al mondo un po' quello che in genere succede al "parco buoi" delle singole borse nazionali: era stato scorticato.

Tutto ciò aveva ovviamente provocato una gran disponibilità di capitali all'interno degli Stati Uniti. Se pensiamo che è il Capitale a muovere gli uomini e i governi piuttosto che il contrario, possiamo facilmente constatare l'effetto pratico provocato da una tale sovrabbondanza: la necessità di conservare i suddetti capitali, anzi, di accrescerli con ogni mezzo. L'enorme ammasso di denaro mondiale presente sul territorio degli Stati Uniti è dunque ormai da tempo un fattore primario della cosiddetta globalizzazione. Da qualche anno questa massa di valore ha comportamenti atipici. Per esempio, l'amministrazione Clinton accumulò nel bilancio federale il più grande saldo positivo della storia americana. In poco più di un anno esso è stato azzerato da capitoli di spesa a sostegno dell'economia e degli armamenti. Siamo di fronte alle più genuine espressioni militaristico-finanziarie dell'imperialismo classico, quello che si studiava da giovani militanti marxisti, altro che nuove teorie di superimperialismo. Di "super" ci sono la potenza e la dimensione globale, quelle sì. La guerra non si fa solo con le bombe e, di fronte a un mondo che recalcitra quando sente sul collo il fiato dell'America, la guerra interimperialistica trova le sue "simmetrie" spontanee.

Il Giappone non è stato bombardato, ma da potenza economica che faceva paura con la sua esuberanza produttiva e con le sue campagne di acquisti di aziende e immobili sul suolo americano ora è in crisi nera da dieci anni. La Russia è crollata non appena ha tentato di integrare il suo mercato con quello occidentale, e all'epoca si era anche fatto il conto di quanto sarebbe costato evitare il suo tracollo: 30 miliardi di dollari, da aggiungere a una cifra quasi pari che circolava al suo interno confrontandosi con rubli che venivano spinti sempre più verso un prezzo nullo. Anche la crisi del Messico, che precedette quella argentina, fu provocata da un debito di 30 miliardi di dollari, ma essa fu superata "grazie" a un prestito condizionato, stanziato dall'amministrazione Clinton, della stessa cifra. Perché la Russia no e il Messico sì? La condizione era l'entrata del Messico negli accordi NAFTA con USA e Canada in contrasto con il MerCoSur (Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay), reo di proclamata indipendenza economica. In questo modo, gli Stati Uniti si garantivano un blocco che, neanche a farlo apposta, comprendeva sia un'estensione verso i mercati del capitalismo avanzato canadese, sia l'accesso alla forza-lavoro quasi gratis delle maquiladoras messicane (fabbriche a bassa composizione organica di capitale possedute in gran parte direttamente dall'industria nordamericana) e dell'immigrazione clandestina "controllata", cioè lasciata volutamente filtrare, dato che l'operaio clandestino costa molto meno di quello regolare (i paesi del Centro America da soli forniscono agli USA 400.000 latinos all'anno). La Russia non poteva offrire nulla del genere: la sua manodopera non interessava, i suoi tecnici e scienziati potevano essere comprati per molto meno, le sue materie prime sarebbero state vendute comunque per un tozzo di pane.

I capitali in fuga e i loro parcheggi

Sono anni che la stampa specializzata si occupa dei flussi di capitali, della guerra finanziaria e industriale, della funzione svolta dagli istituti economici internazionali come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l'Organizzazione Mondiale per il Commercio. Tra gli stessi economisti americani, quindi vicini al problema, vi è chi non esita a dire che questi organismi non sono altro che strumenti assai malleabili di fronte all'internazionalizzazione degli interessi interni degli USA. Ma com'è possibile l'affermarsi di una onnipotenza americana, dato che questi organismi sono pur sempre espressione di più realtà nazionali, frutto di accordi, controlli, rapporti multilaterali?

La spiegazione sta nel fatto che il Capitale globale va inteso nel senso della sua massima astrazione, come valore prodotto nel passato che circola per il mondo in cerca di valorizzazione. Non appartiene a nessuno, non è guidato dagli uomini ma guida gli uomini nelle loro azioni. E i singoli capitali di cui si compone non appartengono a determinati individui che alla fine della catena. Ma prima, assemblati in grandi masse, appartengono soltanto ai circuiti del credito e dell'azionariato, cioè le banche, le finanziarie industriali, i cartelli azionari e i grandi fondi d'investimento. Questi sono i veri possessori dei capitali loro affidati. Il possessore individuale è oggi nella stragrande maggioranza dei casi un semplice risparmiatore che ha affidato i suoi soldi a qualcuno in cambio di un interesse. Di fronte alla quantità di denaro raccolta da un sistema del genere, ciò che possiede un capitalista singolo, fosse pure Bill Gates, è un'inezia, assolutamente non in grado di influire sui mercati. La proprietà privata è oggi più che mai negata proprio all'interno del sistema della proprietà privata.

Ogni capitale, per diventare capitale maggiorato deve passare attraverso la produzione di plusvalore. In questo senso è il Capitale complessivo che determina dove e come produrre tale plusvalore. Però non sempre si trovano occasioni produttive dove fissare il valore affinché si valorizzi. In questo caso i capitali non adoperati nel ciclo produttivo devono essere parcheggiati da qualche parte. Quando il mondo virtuale della finanza e delle borse è sotto il segno del rialzo, diventa automaticamente un attrattore di capitali. Quando al contrario precipita, i capitali fuggono verso lidi più sicuri. È una banalità, ma carica di conseguenze. La prima è la sopravvalutazione del complesso immobiliare: durante le crisi il classico "mattone" è da sempre il bene rifugio più ricercato, il possessore di capitali in fondo non ha troppa fantasia, né potrebbe averla. Lo capì bene Hilferding quando, negli anni '20, in presenza di un'iperinflazione che non mostrava di placarsi, propose di sostituire tutta la massa di marchi che non riscuoteva più fiducia con un'altra massa di valore arbitrario (cioè stabilito a tavolino) garantita dal patrimonio immobiliare dello Stato. Il Rentenmark non era diverso dai marchi che sostituiva, il legame con gli immobili statali era un fatto puramente psicologico, ma funzionò.

La massa immobiliare come fissatore di valore

Ovviamente non è la psicologia che fa girare il mondo capitalistico, ed ovviamente essa non ha alcuna influenza sull'andamento reale della crisi, ma quando si diffonde l'incertezza sulla valorizzazione si concretizza una psicologia di massa da cui il singolo è molto influenzato. Certo per lui comprare una casa per speculazione vale quanto comprare titoli, come dimostrano le tabelle degli incrementi storici dei prezzi. Ma l'immobile ha il pregio di sgombrare il campo da troppi capitali e congelarli per un po' di tempo. Negli Stati Uniti i prezzi degli immobili sono aumentati in un anno fino al 40%. Ciò significa che è stato fissato capitale virtuale per un 40% di tutti i valori immobiliari del paese, ma nelle compravendite avvenute a quei prezzi lievitati il capitale è passato di mano in modo del tutto reale. I capitali fissati nel mattone saranno lo stesso svalutati o rivalutati dalle oscillazioni, ma torneranno in circolazione quando la crisi sarà passata. L'immobile è quindi un tramite di valore come un altro.

Il discorso si può estendere all'intero campo della rendita, tranne che all'agricoltura, la quale, come abbiamo visto in un articolo precedente, è ormai uscita dai meccanismi puramente produttivi per entrare nell'ambito dei servizi improduttivi (nel senso che è quasi del tutto assistita). La differenza è che, mentre la casa riguarda il singolo possessore di capitali, il resto della rendita, tolta appunto l'agricoltura, riguarda l'approvvigionamento delle materie prime per il ciclo industriale, energia, metalli, legname, ecc. Siccome le materie prime non sono distribuite uniformemente sui continenti, l'accesso ad esse diventa una questione non solo economica ma politica. Se ad esempio venisse negato l'accesso al petrolio a una nazione modernamente industrializzata, essa sarebbe messa in ginocchio peggio che con una guerra. Nel 1975, dopo la guerra del Kippur, il petrolio fu utilizzato massicciamente come tramite di valore per una guerra sotterranea senza armi convenzionali fra gli Stati Uniti, le altre potenze imperialistiche e i paesi produttori. La Russia si sta mantenendo in piedi con la svendita di materie prime, unico modo per accedere a valore prodotto altrove, data la condizione catastrofica in cui si trova il suo apparato produttivo. Il colpo di stato in Cile, capeggiato da Pinochet contro il governo di Allende, fu la conseguenza politica di un tentativo pratico d'indipendenza nell'estrazione e produzione del rame. Il Cile era un moderno stato sovrano e il suo governo era eletto secondo i crismi della democrazia tanto osannata dagli americani; la Russia è ancora la seconda potenza mondiale, almeno sulla carta (e comunque lo è dal punto di vista degli armamenti). Possiamo immaginare quale tipo di autonomia nazionale possano avere gli stati africani o molti di quelli asiatici e latino-americani.

Tutto questo per dire che c'è uno strettissimo legame tra la produzione del plusvalore, la circolazione dei capitali tramite i settori creditizio e azionario, e l'estrazione, lavorazione e commercializzazione delle materie prime. Ricordiamo che il sistema borsistico si è ormai da molti anni integrato con quello delle materie prime attraverso l'emissione di titoli sulla loro estrazione o produzione. Le due maggiori borse mondiali specializzate per le transazioni su materie prime di ogni genere sono a Londra e Chicago, ma ve ne sono di analoghe in molti altri luoghi: lì si possono trattare tonnellate di ferro, grano o diamanti senza mai veder nulla di tangibile, anche molto tempo prima che la materia venga estratta, coltivata o lavorata.

Una Enron? Migliaia!

Per il nostro discorso sulla decomposizione del Capitale abbiamo scelto l'esempio della Enron proprio perché si tratta di un'azienda a tutto raggio, significativa per la sua adesione totale ai meccanismi del modernissimo capitalismo speculativo. Il fallimento della Worldcom sarebbe più esemplare dal punto di vista quantitativo, la situazione di AOL-Time-Warner dal punto di vista delle oscillazioni di valore, e la corsa ai ripari di IBM e General Electric dal punto di vista delle industrie globalizzate più grandi del mondo. Come abbiamo visto, però, la Enron non era più una "fabbrica", nel senso che non produceva più, direttamente, un qualche tipo di merce o servizio alla produzione. Essa era diventata un intermediario fra i capitali volatili del capitalismo senile e prometteva la copertura di rischio sugli "investimenti", utilizzando il mondo fisico delle miniere, dei pozzi petroliferi e della produzione solo come garanzia virtuale di ultima istanza (in realtà non esiste al mondo istituto finanziario che agisca in piena copertura del rischio; per esempio la legge americana impone alle banche solo una copertura del 16%). Dunque la specialità del gigante finanziario era il trading, attività per la quale era considerata un esempio di dinamicità e intraprendenza. Che fosse specializzata nel settore energetico era ininfluente ai fini dei capitali che smistava.

Trading company di per sé significa azienda commerciale, ma un po' di storia ci aiuta forse a capire meglio la natura di queste moderne macchine del Capitale. Le compagnie commerciali, nate in Italia con le Repubbliche marinare mille anni fa, perfezionatesi in Inghilterra nel '200 e in Germania nel '500, hanno rappresentato l'alba del capitalismo. Oggi, con curiosa simmetria, ne rappresentano la morte. Le Compagnie delle Indie inglesi e olandesi già erano, al culmine della loro potenza mercantile, un misto di Stato, di Banca e di Commercio. Poi venne il declino, e il testimone dell'imperialismo passò agli Stati Uniti. Il nuovo dominatore non era da meno dei suoi predecessori, ma la sua supremazia non era basata sul sistema classico delle colonie. Gli bastavano produzione, finanza e armi. Fino all'amministrazione Reagan aveva un sistema bancario molto specializzato e la funzione di trading era svolta da operatori specifici, in pratica le banche commerciali e i broker privati, coloro che soprattutto compravano e vendevano titoli, opzioni e altri oggetti finanziari.

Fino a una ventina di anni fa, le banche d'investimento, specie americane, trattavano con disprezzo questo mondo e facevano trading solo per i loro clienti principali. Poi, con l'esplosione finanziaria e la deregolamentazione dei mercati iniziata proprio in America, praticamente tutti gli operatori del Capitale furono da esso forgiati come intermediatori finanziari. E fu l'epoca dei corsari di Wall Street, immortalati anche da letteratura e cinema. Gli eccessi produssero un po' di galera per qualcuno e alcune nuove regole. Ma se banche e borse erano soggette a leggi e a controlli da parte di appositi istituti pubblici, le aziende private continuavano a fare liberamente gli affari loro. Il Capitale per la propria sopravvivenza deve giungere a una regolamentazione che ammortizzi gli eccessi dell'anarchia concorrenziale, della guerra di tutti contro tutti, ma i singoli capitalisti o i gestori di capitali altrui vorrebbero operare in piena libertà. Meglio, vorrebbero essere del tutto dispensati dall'osservanza della legge.

La storia della Enron è quindi un esempio chiarissimo della contraddizione fra il Capitale che si è reso autonomo e i capitalisti legati ancora all'obsoleta proprietà individuale, testardi nella loro velleitaria determinazione di chi dice: il denaro è mio e ne faccio quel che voglio. Il Capitale ovviamente vince sul capitalista singolo, ma nello stesso tempo vive del fatto che esso esista, che sia espropriato e rimesso in piedi continuamente, che sia torturato dall'angoscia della valorizzazione, che alimenti perennemente il massacro reciproco sul mercato. E che sfrutti il più possibile gli operai. Lo deve pur fare "qualcuno", che sia un borghese in senso proprio o un funzionario di stato. Il padrone del Capitale non può essere un computer in cima a un grattacielo come in certa fantascienza. Ci vogliono gli uomini perché la macchina funzioni e soprattutto perché ci sia un "modo di produzione". L'hardware e il software, la "ferramenta" e il programma, rappresentano mero capitale fisso.

Ecco perché nel multi-disastro non è finita solo la Enron, ma è stato coinvolto tutto un mondo di fallibilissimi uomini, capitalisti e funzionari di capitale anonimo, un mondo uscito dalla deregolamentazione, dalla globalizzazione, dalle nuove tecnologie, dalla speculazione, dall'esplosione dei fondi pensione e di quelli puramente lucrativi, dal boom dei derivati borsistici, da tutti i fenomeni più caratteristici del capitalismo senile.

Ecco perché erano tutti complici: l'ente certificatore di bilanci, l'autorità di vigilanza sulla Borsa, le agenzie che valutavano l'affidabilità, i fondi comuni d'investimento, le banche e gli uomini di governo. C'era bisogno di bassifondi delinquenziali, di fogna sociale, per dare liberà agli operatori umani del Capitale. Questo grandeggia anonimo e spersonalizzato, ma ha bisogno di omuncoli capitalisti che si sporchino le mani per abbinare alla grandezza della globalizzazione il mondo meschino della proprietà privata e della "gestione del potere". Che qualche miliardollaro rimanga appiccicato illegalmente alle tasche dei funzionari fa parte del sistema. Che ci sia anche l'aspetto complementare, quello dei processi e della sbrigativa quanto superficiale pulizia, è del tutto normale, fa parte della ricerca di quell'equilbrio così teorizzato ma così concretamente impossibile. Il Capitale non può essere ripulito, può solo sparire.

Aspetti dell'autonomizzazione del Capitale

La Enron nacque nel 1985 a Huston, Texas, dalla fusione fra un'azienda di estrazione e distribuzione di gas naturale e una fabbrica di metanodotti. La fusione fra la rendita e l'industria permise il drenaggio di plusvalore altrui nella società, quindi un'ascesa rapidissima e una grande disponibilità di capitali. Negli anni '90, con l'esplosione della finanza, il commercio di energia si rivelò particolarmente adatto a far da attrattore di capitali che, sulla base di una penetrazione sul mercato dei derivati (titoli e opzioni su altri titoli e opzioni, il delirio della finanza), arrivarono a frotte. Sull'onda del successo l'azienda texana si fece paladina della deregolamentazione come via rivoluzionaria per cambiare nientemeno che l'economia del pianeta, per la quale lo Stato diventerebbe superfluo.

Il campo di battaglia della rivoluzione sarebbero stati gli uffici tecnologici, Internet e il mondo della finanza "derivata", dove contratti su oggetti reali sparivano dietro nuvole di contratti su valori virtuali, siglati a copertura di rischi di investimento o di pura speculazione. Le armi principali sarebbero state due: la conoscenza "degli ambienti" e la comunicazione, tanta comunicazione, nel senso di immagine. Il capitalismo si regge non tanto su produzione e consumo di valori d'uso ma sulla produzione per la produzione, notava Marx, quindi è inevitabile una prevalenza del peso specifico delle transazioni fra aziende, specie quando il mondo bancario e borsistico, regolamentato e sottoposto a leggi, non è accessibile a chi è un po' sputtanato sui mercati (basso rating) o vuol fare operazioni poco pulite. Ma quando la valorizzazione è in crisi, anche fra aziende non si discute di torni e presse ma di capitali. Quindi la Enron, specializzandosi nel garantire miracolosamente a compratori e venditori una copertura sulle oscillazioni dei prezzi, era diventata un punto di riferimento per transazioni fra aziende. Si occupava di tutto. Partita da gas e petrolio, ormai spaziava sull'intero ventaglio delle materie prime, specie quelle sensibili agli umori dei mercati e quindi particolarmente "performanti" sul piano speculativo. Senza vedere mai un camion di merce, aveva inventato strumenti finanziari per coprire persino i rischi meteorologici. Naturalmente commerciabili a loro volta. Hanno un che di esoterico questi future sul tempo e le option su di essi.

La connessione con i politici era la norma, come dimostra la pubblicazione degli elenchi dei personaggi dell'amministrazione Bush coinvolti, alcuni dei quali usciti direttamente dai libri paga della Enron. Quest'ultima intermediava su tutto, ma il suo cuore pulsava in sintonia con l'affezionato mondo originario dei petrolieri. Un mondo ovattato e segreto, come quello di tutte le aziende private (quando gli affari vanno bene; quando vanno male si preferisce il salvataggio pubblico). Badando al sodo e non all'apparenza, si potrebbe dire che la Enron non era la struttura di un business industriale ma una scintillante bisca clandestina. Nello stesso tempo agiva nella legalità, almeno nei limiti in cui questa può essere brutalmente piegata al massimo profitto. I suoi 21.000 dipendenti erano per la maggior parte specialisti di altissimo livello tecnico per quanto riguarda il mondo pazzesco della finanza moderna. Non gestivano più affari nel mondo delle merci proprie ma capitali altrui, che affluivano nei suoi uffici discreti a decine di miliardi di dollari al giorno da ogni parte del mondo.

Questa specie di borsa virtuale, di banca globale, era in grado di agire senza controlli, senza obblighi di capitalizzazione, senza dimostrazioni di solvibilità e senza tutte le procedure a cui le banche e le borse sono tenute nei confronti delle autorità monetarie. Perciò era un sistema pericolosamente orientato verso enormi esposizioni finanziarie non appena si fossero innescati problemi di fiducia (né più né meno delle "piramidi" finanziarie che fecero scoppiare l'Albania). Si costituivano società legate alla holding, si apriva presso di esse una linea di credito e le si ripagava con le azioni della holding stessa. Come ha spiegato l'economista Krugman, era come impegnarsi a fornire una certa merce per trent'anni, sottostimare di proposito il suo prezzo di costo e poi iscrivere a bilancio i profitti fasulli per soli due o tre anni, sbandierando al pubblico successi strepitosi per far salire il prezzo delle azioni e pagare con quelle i creditori, le pensioni e parte dello stipendio dei dipendenti, tutti brutalmente truffati. Il tutto era certificato non da un ente pubblico indipendente, ma da un'altra azienda, meglio se una delle più grandi del mondo nel settore della certificazione come la Arthur Andersen, pagata dalla Enron stessa e quindi assai co-interessata al traffico (è stata lasciata fallire come la sua complice).

Era necessario affrontare, anche se di sfuggita, questi particolari tecnici per capire a che punto di decomposizione sia arrivato il luccicante capitalismo della new economy. E il bello deve ancora venire. Dicevamo che le più grandi multinazionali stanno correndo ai ripari. Ciò significa che pagheranno ancora di più le società di certificazione affinché facciano meglio il loro lavoro, che è in fondo quello di ogni commercialista: insegnare i trucchi per rendere legale ciò che non lo è, o tener nascosto ciò che non si può rendere legale. L'Economist, periodico del fondamentalismo liberista ma anche attento ai guai che possono provocare i liberisti, in tutti i suoi articoli sul caso Enron sottolinea il problema: chi controlla i controllori se questi, per fare il loro mestiere, devono essere pagati da chi deve essere controllato? E, aggiungiamo noi, chi controlla non soltanto i controllori ma il Capitale anonimo che è diventato più potente dei più potenti Stati?

Il materasso, il mattone e… l'Argentina

Dicevamo che il bello deve ancora venire perché non esiste soluzione. I grandi guadagni personali spingono all'ampliamento del sistema. Secondo gli esperti europei di trading, nell'Unione Europea il mercato di aziende come la Enron raddoppierà in un paio d'anni, non appena si passerà alla privatizzazione e alla deregolamentazione dell'energia elettrica, del gas e dei combustibili in genere. Poi arriveranno le telecomunicazioni, l'acqua, la raccolta e lo smaltimento rifiuti, ecc. ecc., tutti settori che hanno dimostrato di essere attrattori di grandi e, specialmente, piccoli capitali. Questi ultimi, moltiplicati per milioni di unità possono essere conglobati per utilizzi in grande stile. Abbiamo visto quali. E in Gran Bretagna, Olanda, fra poco Spagna, esistono già Borse dell'energia che si stanno orientando verso il mercato immateriale dei future e delle option, come in tutte le borse.

In tempi di non-inflazione i soldi non investibili restavano liquidi, "sotto il materasso", come si dice con metafora contadinesca. In tempi di inflazione l'immobile, come abbiamo visto, è diventato classico rifugio di capitali. Ma anche la bolla immobiliare può scoppiare, come si è visto in Giappone, con risultati più disastrosi ancora di quelli provocati dall'afflosciarsi delle borse: in questo caso è in agguato il "doppio colpo", quello che scatta quando i possessori di capitali si rendono conto che anche i prezzi degli immobili (e di qualsiasi altro bene rifugio) sono irrealistici, e si rassegnano quindi a mantenere i capitali in forma liquida, cioè a non investirli. Si ritorna insomma al materasso, rischiosissimo in caso di inflazione.

Oppure si cercano altre strade, non meno rischiose, ma non così arcaiche e rivelatrici di totale impotenza. I capitali scalpitano quando sono costretti all'immobilità e si rivelano insopportabilmente ansiogeni per i loro possessori. Così questi si rivolgono ad aree di investimento che normalmente evitano, quelle degli stati con basso rating, cioè che riscuotono un voto basso dagli istituti di valutazione dell'affidabilità e che perciò emettono prestiti ad alto interesse per invogliare i capitalisti nonostante tutto. Il sistema internazionale del controllo dei flussi di capitali è rappresentato dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale e dall'Organizzazione Mondiale per il Commercio, che dovrebbero garantire gli stati da bancarotte totali. Tale insieme forma una specie di direttorio che "consiglia" i capitalisti-Stato e finisce ovviamente per determinare le mosse di quelli privati. Come una massa di capitali si era incanalata verso la Enron e altre aziende simili, altre masse di capitali si erano accodate al flusso che gli organismi internazionali avevano provocato proprio per dirigerle verso i paesi sotto controllo, o scoraggiarle. Perciò, prima ancora della crisi asiatica del '97, una parte dei capitali mondiali si era indirizzata verso l'Argentina, in parte sotto forma di prestiti, in parte sotto forma di investimenti diretti o indiretti. Non si pensi a singoli possessori che si siano recati in Argentina per operare di persona: la raccolta è capillare e viene attuata tramite le banche, i fondi d'investimento, gli istituiti di intermediazione e, non da ultimo, anche da aziende come la Enron. L'Argentina attirò in pochi anni 150-200 miliardi di dollari, forse più. Il paese era uscito da una crisi profonda, era storicamente uno dei più ricchi del mondo in risorse naturali a garanzia dei capitali investiti, prodotti dell'allevamento, cereali, materie prime alimentari, minerali, ecc. e la sua economia era stata riformata con successo con il "piano Cavallo" (cfr. n. 7 della rivista). Contrariamente a quanto s'è letto a varie riprese, non si trattava di un "paese in via di sviluppo", ma di un paese moderno, industriale, con una popolazione più urbanizzata della media europea. Aveva cioè tutti i numeri per riscuotere più fiducia di altri e, perché no, stimolare la speculazione. Ma a causa del passato oscuro e delle incertezze sulla tenuta dei piani economici, aveva emesso, sulla base di un basso rating concesso dai controllori internazionali, buoni del tesoro all'11% d'interesse annuo, tasso che di questi tempi sballa qualsiasi normale propensione al rischio individuale e istituzionale. Quando il governo argentino si trovò di fronte alla fine del boom dovette affrontare una crisi dimostratasi presto insensibile alle cure. Allora tentò di correre ai ripari con alcune alchimie finanziarie che, amplificate dall'avidità della borghesia locale come da quella dei capitali internazionali, precipitarono il paese nel disastro. Il castello di carte basato sulla fiducia, come al solito, si era dimostrato il vero asse portante del boom e del flusso di capitali. Quando si vide che le alchimie erano tali e la fiducia mal posta, i capitali se ne andarono e l'esposizione finanziaria si mostrò in tutta la sua enormità.

Molti paesi sono nelle stesse condizioni, in primo luogo il Brasile, che ha attirato capitali con una oculata politica di agevolazioni (in parte responsabile del disinvestimento in Argentina). Ma i capitali se ne possono andare al primo segnale di pericolo. Oggi il Brasile è considerato virtuoso come l'Argentina fino a poco prima del collasso, domani sarà lo stesso per il Venezuela o per il Cile. Perciò è sbagliato pensare che quando scoppia una crisi di questo genere, Enron o Argentina, sia "colpa" di qualche capitalista d'azienda o di qualche capo di governo. Il Capitale è come un rullo compressore che spiana la via alla propria sopravvivenza, fregandosene dei capitali singoli. Una piovra in grado di stritolare qualsiasi struttura locale non appena faccia muovere anche solo la punta di uno dei suoi tentacoli.

Da quando l'imperialismo è diventato la caratteristica della "fase suprema" del capitalismo, problemi di questo genere ce ne sono sempre stati. Ma ora vi sono esagerazioni che il Capitale e i suoi possessori più coscienti (nel senso di più potenti e in grado di intervenire nel sistema) non possono sopportare. C'è quindi un gran bisogno di mettere ordine nei flussi esistenti e di impedire che se ne creino di nuovi in grado di scombinare gli affari. Non è difficile individuare lo stato capitalistico che se ne occuperà massicciamente in prima persona.

Letture consigliate

  • Questo articolo è ricavato dalla trascrizione di una conferenza tenuta a Roma il 6 aprile 2002. I dati e le vicende sul caso Enron provengono in gran parte dagli articoli comparsi su: The Economist del 19 e 26 gennaio, del 2 e 9 febbraio 2002, rintracciabili (a pagamento) all'indirizzo: http://www.economist.com/.
  • Globalizzazione, Quaderni internazionalisti, 1999.
  • Il fallimento argentino, "n+1" n. 7, marzo 2002.
  • Dinamica dei processi storici - Teoria dell'accumulazione capitalistica, Quaderni Internazionalisti, 1992.

Rivista n. 9