La guerra all'Iraq e… agli altri

La guerra globale degli Stati Uniti all'Iraq sembra aver perso l'impeto iniziale. Niente di più sbagliato. L'attivismo del governo USA, "internazionalista" come non mai, secondo la propria autodefinizione, è all'apice e l'Iraq è solo il perno attorno cui ruota la progressiva invasione del Medio Oriente. Per questo dura così a lungo il processo di assuefazione dell'opinione pubblica, sicuramente messo in atto di proposito. Nessuna delle operazioni iniziate durante la Guerra del Golfo è mai realmente cessata, per esempio i bombardamenti su installazioni militari e logistiche irachene. Le operazioni ancora in corso sono decine e ovviamente conosciamo solo quelle ufficiali: Phoenix Scorpion I-IV, Southern Watch e Quick Transit in Iraq; Desert Focus e Desert Falcon in Arabia Saudita; Vigliant Warrior, Vigilant Sentinel, Intrinsic Action e Desert Spring in Kuwait; Provide Comfort I-II e Northern Watch in Kurdistan. In tutto, finita la guerra del '91, sono stati utilizzati non meno di 100.000 uomini, di cui almeno 50.000 ancora in azione sul territorio. Nel frattempo sono state potenziate le basi esistenti e ne sono state costruite di gigantesche negli Emirati. Il ridisegno dell'intera regione è affrontato con cautela, contrariamente alle apparenze, ma avanza inesorabile. Per esempio, dopo la Guerra del Golfo, ben 42.000 soldati americani erano impegnati nella pacificazione fra le tribù curde e nell'organizzazione dei profughi nei territori del Kurdistan diviso fra i vari paesi della zona, tant'è vero che questi protestarono ufficialmente. Il Kurdistan è la regione in cui si trova la maggior parte del petrolio iracheno ed è comunque un elemento strategico per l'eventuale ulteriore balcanizzazione dell'area.

Dunque, tra gli obiettivi non c'è solo l'Iraq, anzi, l'obiettivo principale è l'Arabia Saudita. Il risultato della Guerra del Golfo, ricordiamolo, non ha portato né alla cacciata di Saddam Hussein, né all'occupazione del territorio iracheno o di sue parti, mentre le truppe americane non se ne sono mai più andate dall'Arabia e la presidiano militarmente e politicamente ancora oggi. Perciò la monarchia saudita si trova tra due fuochi: da una parte l'invasione americana di fatto, dall'altra gli attacchi del mondo fondamentalista islamico di cui peraltro è un fattore deteminante. La cacciata degli infedeli dai luoghi santi all'Islam e l'abbattimento dell'attuale famiglia reale è uno dei punti principali del programma jiyadista di bin Laden. Il pubblicizzato rifiuto della casa regnante di concedere basi per l'attacco all'Iraq è pura propaganda interna al mondo islamico: nei fatti la base aerea saudita di Prince Sultan ha rappresentato per gli Stati Uniti uno dei maggiori capisaldi logistici per la guerra in Afghanistan contro i talibani e Al Qaeda che, occorre ricordare, è composta per gran parte di combattenti sauditi. Prima dell'11 settembre il principe Abdallah, che sostituisce il re morente, aveva messo in guardia gli Stati Uniti sulla degenerazione dei rapporti fra i due paesi per la presenza militare e il supporto a Israele, e aveva chiesto che tutti i soldati americani lasciassero le basi saudite. Dopo l'attacco a New York e Washington è successo esattamente il contrario. Non solo le basi sono state rafforzate, ma ne sono state create altre in tutto il Medio Oriente.

L'Arabia Saudita non ha dunque più un governo indipendente. Negli Stati Uniti si parla ormai della sua politica interna in termini di interessi strategici americani che, nella scala delle priorità del Pentagono, vengono subito dopo quelli "vitali", quelli cioè legati alla difesa del territorio nazionale. È per esempio materia di discussione al Congresso americano se gli Stati Uniti debbano o meno intensificare le pressioni per la democratizzazione e la de-islamizzazione della società saudita. Non è strano, quindi, che l'Arabia prenda posizioni contrarie all'insediamento degli Stati Uniti nell'area e nello stesso tempo offra un sostanziale supporto per ogni operazione della guerra planetaria americana, compresa la rinuncia al comando sulle proprie forze armate, in possesso di tecnologie avanzate, ma non in grado di funzionare senza i tecnici americani. Per questo Bush in persona ha elogiato i sauditi per aver ottemperato senza discutere "alla totalità delle richieste loro avanzate".

Il comportamento dell'Arabia Saudita è da seguire attentamente perché sarà quello di molti altri paesi. Nella nuova dottrina militare americana è presente il concetto di guerra preventiva, ma non bisogna leggere tale proposizione alla lettera: la guerra, come abbiamo detto più volte, non si fa solo con i cannoni. Il presupposto della nuova dottrina è naturalmente la stretta alleanza con "tutti i paesi che promuovono fortemente la democrazia" per condurre insieme la "lotta contro il male". Ma queste democrazie amiche non esistono. L'Europa e il Giappone sono concorrenti, non amici, e hanno un bisogno vitale sia del petrolio sia del ritorno dei petroldollari, che finiranno entrambi prima o poi sotto controllo americano. Gli altri "alleati" di punta nella guerra planetaria sono al momento, oltre all'Arabia Saudita, l'Egitto, gli Emirati, il Pakistan, l'Uzbekistan e naturalmente l'Afghanistan. Non precisamente democrazie libertarie. Rimane Israele, dove effettivamente ogni tanto si tengono elezioni. Un osservatore militare americano scrive che questa è "una contraddizione fra retorica e realtà", ma sappiamo che la retorica, la menzogna e i media sono ormai armi come tutte le altre. La nozione di "guerra strettamente coordinata con gli alleati democratici" è esattamente quella che si evince dalla preparazione della "guerra all'Iraq" e dal comportamento dell'Arabia. "Se qualcuno nel governo pensa che la sfida all'Iraq sia percepita nel mondo come 'strettamente coordinata' con degli alleati, sta prendendo in giro sé stesso" dice l'osservatore; "all'estero si è venuti alla conclusione che ci sarà un attacco americano unilaterale e che sarà tollerato solo il minimo indispensabile di supporto logistico. La tendenza unilateralista è apparsa ben prima dell'attacco dell'11 settembre e con l'Iraq ha solo raggiunto la sua piena potenza".

Rivista n. 9