Grandi scioperi, ma per grandi obiettivi

Da un nostro volantino per lo sciopero generale del 18 ottobre

Il giovane che cerca lavoro trova condizioni sempre più pazzesche: precarietà assoluta, orari da epoca pre-industriale, paghe ridicole, normativa nulla. Anche l'adulto non se la cava meglio: regole come contingenza, contratti integrativi ecc. non esistono praticamente più. E valgono per tutti incertezza e degrado delle condizioni di vita. Di fronte a tutto ciò, sarebbe necessario ricorrere in modo massiccio alla lotta, ma con la politica di concertazione succede esattamente l'opposto.

Una forte spinta alla lotta nelle fabbriche esiste, ma è frenata dai sindacati, responsabili verso l'economia del "paese". Sono così succubi dei "mercati" che non riescono neppure più ad avanzare banali proposte keynesiane sullo stimolo alla produzione indotto dai consumi proletari e quindi da salari e orari decenti. Sono così legati alla politica corrente che i loro uomini cedono assai spesso al cretinismo parlamentare. La forza proletaria sarà incanalata di nuovo in manifestazioni politiche come quelle del 23 marzo e del 14 settembre. Gli operai saranno di nuovo confusi con la piccola borghesia isterica che non vede il vero fascismo democratico a cui si è adeguato il mondo e moraleggia su quello vecchio che non esiste più. Milioni di proletari saranno fatti sfilare nelle piazze per interessi altrui, come fiancheggiatori di un'ala specifica della borghesia contro l'altra.

Epifani, come prima Cofferati, è stato chiaro: "Lo sciopero del 18 ottobre ha una duplice valenza: per difendere i diritti dei lavoratori, da un lato, e per richiedere al Governo una nuova politica industriale". La crisi della Fiat mette spietatamente in luce il significato di affermazioni come questa. Gli accordi sui "diritti" si possono sempre sottoscrivere, tanto poi si lascia che gli industriali, non certo intimiditi da un inesistente deterrente di lotta, facciano come vogliono sul campo. Ma gli accordi per una "nuova politica industriale" porteranno sicuri vantaggi ai capitalisti, mentre (come stiamo constatando nel caso della Fiat) sindacati grandi e piccoli, "opportunisti" o "rivoluzionari", s'inchineranno di fronte ai dati "oggettivi" dell'interesse nazionale sbattuti sul tavolo dal "padrone" e dal governo. E si metteranno a supplicare in difesa del "posto di lavoro", senza influire di una virgola sulle decisioni, invece di riprendere la sana tradizione del salario ai disoccupati.

Stanno scadendo molti contratti. Quello dei metalmeccanici è capofila. La FIOM, sotto la spinta della base, ha chiesto forti aumenti salariali. Nel contesto attuale è una finzione: il sindacalismo "responsabile" sa benissimo che le "condizioni oggettive" non li permettono quando contemporaneamente il sindacato è coinvolto nel sostegno dell'economia nazionale. L'inflazione è controllata a livello europeo ed è stata introdotta la moneta unica, quindi non sarà possibile per i capitalisti né ricorrere all'aumento dei prezzi come rivalsa dell'aumento dei salari né alla svalutazione competitiva per sostenere le esportazioni. Vincerà la responsabilità, e i forti aumenti salariali saranno dimenticati, se non li ricorderanno i lavoratori imponendoli con la forza.

Per rivendicare forti aumenti salariali e dedicarsi alla difesa intransigente del proletariato occorrerebbe non aver abbandonato il ruolo sindacale, né abbracciato la politica di responsabilità verso il sistema. Anche i sindacatini più sinistrorsi, alla prova dei fatti si mettono in coda: "Finiremo per chiedere allo Stato i soldi per la Fiat, che altro si può fare?" vanno dicendo. In effetti se tutti fossero obbligati a "fare altro" salterebbe l'intero sistema nelle pieghe del quale si è adagiato il sindacalismo attuale. E non sarebbe male se saltasse, come del resto è già successo, per esempio in Polonia nel 1980 quando l'apparato sindacale esistente crollò sotto l'ondata di milioni e milioni di proletari in lotta, che s'impadronirono della rete pre-esistente e la utilizzarono per i propri scopi.

"Se la classe operaia cedesse per viltà nel suo conflitto quotidiano con il Capitale, si priverebbe della capacità di intraprendere un qualsiasi movimento più grande", scriveva Marx. La tragedia è che oggi il proletariato non ha una sua organizzazione indipendente. La CISL si richiama al cattolicesimo popolare ed è un sindacato confessionale compromesso dalla sua storia legata al regime democristiano. La UIL nacque nel dopoguerra nell'ambito della politica atlantica appositamente per dividere il fronte "socialcomunista". Altri sindacatini, destri o sinistri, sono sorti per ragioni corporative, contingenti o a causa del vuoto lasciato dalle organizzazioni maggiori e non sono che un elemento di divisione e confusione. La CGIL è l'unico sindacato con una storia classista e una vasta rete organizzata ma, nonostante sventoli bandiere rosse, non è più un sindacato di classe. Può mobilitare milioni di proletari, ma lo fa su presupposti di collaborazione interclassista. La nostra corrente ha sempre agito all'interno della CGIL da quando è nata, a quando era diretta da rinnegati come i d'Aragona, fino a questo dopoguerra, quando è degenerata diventando un sindacato para-governativo con i Di Vittorio. Anche noi, contrari alla nascita di doppioni nocivi, abbiamo continuato a lavorarvi, controcorrente, dove i proletari ci riconoscevano, ci appoggiavano, ci eleggevano negli organismi rappresentativi e soprattutto dove fosse utile allo svolgimento delle lotte .

Rivista n. 9