La crisi giapponese

Non c'è eccesso di capitali senza eccesso di merci e viceversa. La sovrapproduzione capitalistica è necessariamente generatrice di esuberanza finanziaria e di rendita "parassitaria". La critica più aspra al parassitismo in genere è quella del capitalista industriale che si vede portar via una parte di plusvalore. Ma, nello stesso tempo, corre a far circolare il proprio profitto sul mercato nella speranza di trovare maggiore valorizzazione, diventando a sua volta finanziere e rentier.

Il Giappone ha percorso fino in fondo questa strada. La base produttiva si restringe, pur producendo più che mai, e si fa frenetica la ricerca di valorizzazione dei capitali. L'America, che fu lo sbocco privilegiato per merci e capitali giapponesi, non "assorbe" più. L'Asia si è chiusa in fretta con la crisi del '97. Adesso l'economia giapponese langue da dieci anni perché non sa che farsene dei suoi stessi capitali. Essa è ancora la più grande finanziatrice del pianeta, con 3.000 miliardi di dollari investiti all'estero. Quasi 350 miliardi di dollari sono impegnati nel debito pubblico americano; altri 340 sono prestiti delle banche ad attività americane; 360 sono investiti in Europa. I restanti sono in cerca di valorizzazione in giro per il mondo. Difficile farli rientrare, ovunque essi siano, primo perché già se n'erano andati trovando stretto l'ambito giapponese, secondo perché un loro ritiro metterebbe in ginocchio il mondo intero. Più difficile ancora trarne plusvalore/interesse.

La crisi si ripercuote perciò sulle banche: le 15 principali denunciano "sofferenze" per circa 200 miliardi di dollari, praticamente crediti inesigibili. Ma il guaio è che i dati autentici vengono nascosti per evitare una catastrofe. Gli analisti non governativi stimano che in realtà l'intero sistema bancario giapponese nasconda un buco di almeno 1.200 miliardi di dollari. La crisi industriale dal canto suo ha tagliato almeno 50 miliardi di dollari dalle azioni in portafoglio delle 10 principali banche (fino a poco fa le più grandi del mondo). Il guaio è che con i tassi allo 0,1% il sistema bancario non riesce a realizzare profitto con il suo normale lavoro. E altro non c'è: la produzione industriale è crollata dell'8% in un anno, il numero dei fallimenti è il più alto da vent'anni, la disoccupazione è la più alta da mezzo secolo. Il Prodotto Interno Lordo non cresce da 10 anni, anzi, vi sono state tre recessioni nel periodo e l'economia non reagisce più agli stimoli classici. Il sistema integrato industrial-finanziario giapponese ha perdite così gravi da non riuscire a riprendersi nemmeno con politiche ultra keynesiane, nonostante sia esportatore netto, possegga la produzione più robotizzata del mondo, sia all'avanguardia nell'organizzazione scientifica e nella qualità totale. O proprio a causa di tutto ciò? In effetti la legge assoluta del Capitale è quella di produrre sempre di più con sempre meno (meno capitali, meno operai) e perciò l'intera popolazione giapponese incomincia ad essere sovrappopolazione relativa, anche se il sistema la mantiene ancora occupata.

Un tentativo di soluzione è ancora una volta ricercato nell'azione dello Stato. Il governo ha già una volta finanziato la cancellazione dei crediti inesigibili delle banche e potrebbe ripetere l'operazione distribuendo la crisi su tutta la società (si parla di 130 miliardi di dollari). Ma ripetere troppe volte l'operazione sarebbe come cancellare le banche, diventate inutili. Taiichi Sakaiya, ex ministro dell'economia, ha detto: "Abbiamo paura che il Giappone possa diventare un'altra Argentina". Solo che l'economia giapponese è trenta volte quella argentina.

Rivista n. 10