Leggi di simmetria e scenari da incubo

"L’epoca dell’imperialismo è caratterizzata non soltanto da due gruppi fondamentali di paesi, colonizzatori e colonizzati, ma anche dalle più svariate forme di paesi asserviti, indipendenti dal punto di vista politico, ma in realtà avviluppati in una rete di dipendenza economica, finanziaria e diplomatica. Simili rapporti tra i singoli grandi e piccoli Stati son sempre esistiti, ma nell'epoca dell'imperialismo capitalistico essi diventano sistema generale, elemento essenziale della politica della ripartizione del mondo, e si trasformano in anelli della catena di operazioni del capitale finanziario mondiale" (Lenin).

"La conseguenza non può essere meno simmetrica della causa" (principio di Curie).

La nozione di simmetria è familiare a tutti: in genere si pensa a forme rispondenti ad armonie prestabilite, a specularità rispetto ad un asse centrale, oppure a elementi in qualche modo simili anche se contrapposti, come pesi in equilibrio. Tutto ciò non è sbagliato, ma da molto tempo ci si è accorti che si può parlare di simmetria in senso più universale: un qualsiasi oggetto proietterà un'ombra che potrà essere anche molto allungata, ma vi saranno punti comuni che collegheranno l'uno e all'altra (relazione biunivoca); l'inerzia dell'acqua spostata da un remo avrà effetto simmetrico sulla barca facendola avanzare; la definizione del "bene" sarà, per esclusione, anche la definizione del "male"; una nuova forma sociale sarà la negazione di tutte le categorie di quella vecchia; e così via. Ogni stato simmetrico può diventare instabile a causa di piccole perturbazioni, e allora la sua dinamica può assumere aspetti catastrofici.

Solo nemici, dichiarati o latenti

È passato poco più di un anno dall'attacco agli Stati Uniti. Dopo la guerra all'Afghanistan sembra inevitabile quella all'Iraq, e forse è solo l'inizio di una guerra davvero "infinita", come si evince dalla nuova dottrina militare americana (che affrontiamo nell'articolo Imperialismo con l'acqua alla gola). L'iceberg della guerra rivela solo la sua rumorosa parte emersa, ma nell'assai più complesso scenario sottostante incomincia a delinearsi un nemico diverso da quello designato dalla propaganda. I cosiddetti "stati canaglia" non impensieriscono seriamente l'America, possono essere bombardati e distrutti in ogni momento. Solo l'esistenza di uno Stato nemico davvero potente potrebbe giustificare una dottrina militare fatta passare per nuova e i piani operativi in corso. Ma gli Stati potenti sono tutti amici. Almeno sulla carta. Che cosa significa allora questo attivismo militare?

L'Europa dei quindici ha appena deciso di allargare la Comunità ad altri dieci paesi entro il 2004. Si tratta di paesi il cui Prodotto Interno Lordo complessivo arriva appena al 4,5% di quello dell'Unione attuale, dove però porteranno una popolazione di 200 milioni di persone, compresa una manodopera addestrata a poco prezzo. In linea del tutto teorica si profila un grande mercato di produttori-consumatori guidato da un centro, Francia e Germania, assai critico nei confronti della politica estera anglo-americana. Il Giappone è in coma da dieci anni e non riesce a trovare rimedi per stimolare l'economia. La Russia, ha l'apparato produttivo in sfacelo, l'economia distrutta ed è costretta a svendere materie prime per mantenersi in vita perciò per ora non può integrarsi con i mercati maturi. La Cina e l'India hanno economie che, all'opposto, fra qualche anno saranno in grado non solo di integrarsi ma di procurare seri problemi di concorrenza. Si delinea un fronte mondiale di paesi che incominciano a considerare la politica americana se non ancora dannosa, perlomeno non entusiasmante.

Per gli Stati Uniti non vi sono quindi "amici", ma solo nemici dichiarati e nemici latenti. Siccome questi ultimi rappresentano i pilastri dell'intero sistema che permette proprio agli Stati Uniti di esistere come imperialismo rentier alla massima potenza, il compito di mantenere solidale la compagine contro il "terrorismo" diventa problematico. L'integrazione mondiale fa coincidere gli interessi degli stati quando tutto funziona, ma esaspera la concorrenza quando c'è crisi. E la concorrenza giunge al parossismo nell'epoca dello sviluppo estremo dei vari monopoli nazionali, che si scontrano sul mercato mondiale nel tentativo di diventare monopoli globali. Ma che cos'è la concorrenza? Nella parte finale della sua opera maggiore Marx dimostra che la concorrenza non determina le variabili di cui si compone il processo produttivo bensì ne è determinata. Né il prezzo della forza-lavoro, né quello del denaro, né quello delle merci possono essere fatti risalire a qualcosa di diverso dalla forza-lavoro, perciò dire che le lotte delle multinazionali sui mercati sono determinate dalla concorrenza sarebbe come dire che "il prezzo del lavoro è determinato da sé stesso" (cfr. L'apparenza della concorrenza, Il Capitale, Libro III). La concorrenza fra Stati non è diversa da quella fra aziende, quindi, nel gran movimento di capitali, merci, uomini, eserciti e "terroristi", il carattere dello scontro è altrettanto "determinato da sé stesso", cioè dalla lotta per accaparrarsi il plusvalore, frutto del lavoro salariato, ovunque esso sia ripartito nel mondo, ovunque esso si muova dietro il miraggio della maggior valorizzazione ulteriore. A qualsiasi livello il valore in cerca di valorizzazione crea le proprie simmetrie speculari: capitalista contro capitalista, Stato contro Stato, esercito contro esercito. E anche simmetrie complementari come "guardie e ladri", proiettile e corazza, intelligence e terrorismo, industria e rendita, borghese e proletario, ecc.

Il mondo di molti dei nemici attuali degli Stati Uniti è lo stesso che un tempo faceva comodo alla politica americana ed è stato prodotto per buona parte dalla sua guerra occulta contro i nemici di allora. Su questo fatto ormai scontato e sulle malefatte dello Zio Sam in giro per il globo è disponibile una vasta letteratura, soprattutto di buona fonte americana. Ma se ci basiamo specificamente sulla jihad antiamericana, vediamo che essa ha ragioni più profonde di qualche errore tattico dei servizi segreti. Infatti ebbe origine proprio nei paesi che gli Stati Uniti avevano trasformato di volta in volta nel perno della loro politica internazionale, e farne l'elenco può aiutare a capire la portata del fenomeno. Tenendo ben presente un'altra importante, fondamentale simmetria: nella percezione imperialistica degli Stati Uniti, c'è il proprio mondo interno e un altro "diverso", complementare: cioè il resto del pianeta, considerato una utility, un'area di servizio.

Simmetrie sospette

Il particolare integralismo wahhabita d'Arabia diventò una potenza dopo l'ascesa pazzesca della rendita petrolifera assecondata dagli americani in seguito agli accordi di Teheran e di Tripoli (1971) e, soprattutto, in seguito alla Guerra del Kippur (1973) e al secondo shock petrolifero (1978), due eventi che fecero salire il prezzo del petrolio da 3 dollari al barile fino a 40. L'integralismo sunnita, originario dell'Egitto, esplose quando Sadat mise il paese nelle mani degli Stati Uniti. Pakistan e Malaysia, loro alleati, videro salire l'onda integralista nello stesso periodo. In Indonesia la jihad fu proclamata da parte di alcuni movimenti islamici, la cui radice va cercata in quell'Ansor (Seguaci dell'Islam) complice nel massacro di cinquecentomila "comunisti" all'avvento del governo filo-americano di Suharto. Una versione della guerra santa esplose con i moti che fecero cadere lo Scià in Iran, altro baluardo americano. Il sostegno a oltranza di Israele produsse l'islamizzazione della causa palestinese, prima laica e socialisteggiante. La pressione sulla Libia di Gheddafi provocò anche in quel paese una rivitalizzazione dell'islamismo. Il colpo di stato islamico in Sudan seguì i tentennamenti del governo Nymeiri, la cui repressione di islamici e "comunisti" fu condotta in parallelo con quella in Libia e in Egitto. Furono poi conseguenza della politica americana o comunque occidentale la conquista talibana dell'Afghanistan, la guerra civile in Algeria e l'islamizzazione dell'ex occidentalizzatissimo Libano, un tempo chiamato "Svizzera del Medio Oriente". Il Pakistan, utilizzato nella guerra afghana e come cuscinetto contro l'India, è ben più compromesso con Osama bin Laden di qualunque altro paese, ed è fornace di fondamentalismi come pochi altri, ma proprio per la sua "utilità", diversamente dall'Iraq, non è affatto nel mirino (anche se ha perso ogni sovranità, al pari dell'Arabia Saudita, degli Emirati, dell'Egitto, della Turchia). Persino la Giordania, creatura dell'imperialismo britannico e perno delle relazioni occidentali col Medio Oriente, vide l'ascesa dei Fratelli Musulmani, e, poco dopo la Guerra del Golfo, re Hussein fu costretto a cooptarli nel parlamento hashemita offrendo loro 34 seggi su 80. In Bosnia migliaia di combattenti islamici accorsero per contrastare il terrore etnico (praticando essi stessi il terrore con il macabro rito di tagliare la testa ai nemici). Un innesto della jihad in Europa, tentato dapprima attraverso gli organismi umanitari in concorrenza col monopolio delle ONG occidentali e poi con truppe regolari al servizio dell'esercito bosniaco, fallì soprattutto per l'intervento di europei e americani, sfociato negli accordi di Dayton. Anche la Turchia, paese nato da una rivoluzione borghese laica, pagò la propria alleanza con gli Stati Uniti con la recrudescenza dell'islamismo, che finì per generare un partito in grado di vincere le elezioni, come s'è visto di recente. L'Iraq, oggetto delle attuali attenzioni internazionali, nacque così com'è nel 1963, quando Saddam Hussein era un agente della CIA e questa sostenne il partito Baas nel suo colpo di stato. La "politica di contenimento", che prevedeva di utilizzare l'Iraq contro l'Iran degli ayatollah, dopo una guerra lunga e sanguinosissima si ritorse contro gli Stati Uniti e portò di riflesso all'occupazione del Kuwait, alla Guerra del Golfo e ad un'islamizzazione dell'Iraq, sino ad allora il più laico di tutto il mondo islamico.

Ci troviamo dunque di fronte a un fallimento globale, con caratteristiche impressionanti, delle "relazioni" del mondo occidentale con l'Islam, o c'è qualcosa di molto più complesso dietro all'apparentemente inesplicabile politica americana? E la domanda, partita in questo caso da considerazioni sull'Islam, non potrebbe porsi anche rispetto al resto del mondo, dove i rapporti degli Stati Uniti con gli "altri" sono ugualmente equivoci?

Finanza islamica

Limitiamoci per un momento all'Islam: è questa una forza così prorompente contro l'imperialismo? Ha caratteristiche oggettivamente rivoluzionarie anche senza esserne consapevole? Rispondiamo sì alla prima domanda: si tratta di una forza preoccupante per l'imperialismo americano. Rispondiamo assolutamente no alla seconda, dato che non esistono, nel mondo globalizzato, forze fresche, "barbare", in grado di infondere nuova vitalità al modo di produzione attuale. Pur con la sopravvivenza di retaggi antichi e nella diversità dei livelli di sviluppo, nell'epoca dell'imperialismo post-coloniale tutto è omologato al Capitale. E nasce un'altra simmetria.

L'Islam rappresenta certamente un fenomeno etnico, culturale ecc. molto importante, ma la vera ragione delle reazioni che suscita in Occidente vanno ricercate nell'emergere di una potenza economico-finanziaria a sé, basata soprattutto sugli enormi flussi di petroldollari che, ricordiamo, sono plusvalore proveniente soprattutto da Occidente e Giappone. Questi flussi di plusvalore sono costanti, quindi si accumulano, e rappresentano un drenaggio incessante che fa scendere il saggio di profitto dei paesi acquirenti di petrolio. Nonostante vi sia un impedimento ormai storico ad una maggiore unità musulmana sia sulla base del vecchio nazionalismo panarabo che su quella dell'Islam, dati i confini assurdi tracciati dal vecchio imperialismo inglese, la rendita petrolifera ha dato il via a un forte sistema bancario islamico inter-statale. Si tratta di una rete bancaria come qualsiasi altra, globalizzata come i capitali che ne riempiono le casse (opera in 75 paesi), ma funziona con principii derivati dal Corano. In pratica la legge islamica vieta l'usura, e il mondo bancario che vi si riferisce raccoglie fondi per attività di investimento in industrie, costruzioni, commercio, ecc. evitando di chiedere un interesse (equiparato all'usura) e facendosi invece pagare i servizi resi. Caratteristica che gli permette di starsene fuori dal controllo tradizionale di Londra, Francoforte, Basilea e soprattutto di Washington. Le cifre sono contraddittorie, perché si va dalla pura raccolta di capitali e attività all'estero (un migliaio di miliardi di dollari) al controllo complessivo di una massa immensa di ricchezza in grado di sconvolgere il mondo se fosse utilizzata a questo scopo (l'Arabia Saudita ha ad esempio depositi, proprietà immobiliari e azionarie per 1.200 miliardi di dollari solo negli Stati Uniti e possiede una delle più grandi banche americane, la Citigroup).

Perciò per gli americani il pericolo vero non è l'Islam in quanto tale e nemmeno l'integralismo jihadista, che hanno utilizzato quando faceva comodo. L'incubo è la possibile saldatura fra gli interessi economici e politici di una parte così vasta del globo (un miliardo e trecento milioni di persone) e quelli di paesi che non siano gli Stati Uniti. Per questo motivo occorre scavare un fossato fra i paesi industrializzati e il mondo islamico (meglio sarebbe dire "petrolifero", come dimostra il tentativo di scalzare il governo populista in Venezuela, altro grande produttore, che islamico non è). Oggi tutti versano il proprio tributo di plusvalore alla rendita petrolifera, ma solo due paesi intascano di ritorno tale rendita in forma di depositi nelle loro banche: Stati Uniti e Inghilterra. Ecco perché Blair è tanto servizievole nei confronti degli Stati Uniti, tanto che persino alcuni imbarazzati laburisti vecchia maniera hanno battezzato il loro capo "barboncino di Bush".

Al di là delle dichiarazioni crociatiste dell'amministrazione Bush, gli Stati Uniti non devono soltanto mettere in atto la guerra, sia aperta che (soprattutto) sotterranea, contro i "paesi canaglia" e il "terrorismo". Né devono soltanto assicurarsi che la vasta campagna politico-militare garantisca loro il controllo del processo sempre più spinto di globalizzazione. Il problema fondamentale è come far rientrare i paesi più importanti, volenti o nolenti, in questo quadro senza provocare il collasso dell'odierno sistema mondiale degli equilibri. Sarebbe una catastrofe generalizzata se il mondo industrializzato smettesse di finanziare l'America con le eccedenze di capitali e se quello non industrializzato rivendicasse una rendita e un reddito "equi" per le materie prime e per gli schiavi salariati disponibili a miliardi.

Va specificato che per noi il termine "terrorismo" ha un significato assai diverso da quello attribuito dal clan bushita (così viene definito ironicamente dai liberals americani l'entourage affaristico della dinastia Bush). Tuttavia, per comodità, qui adotteremo quello tipico dell'attuale crociata, sinonimo di "nemico degli Stati Uniti". Nella sua accezione più larga comprende le forze irregolari, gli stati nemici e quelli amici che si dimostrassero in grado di covare ostilità, o semplicemente dubbiosi sulla preparazione unilaterale dell'attacco in Medio Oriente. Per legge di simmetria la determinazione guerresca degli Stati Uniti non è che uno degli elementi di terrorismo nell'equilibrio generale delle energie, come è dimostrato abbondantemente dalla storia millenaria degli opposti Terrori e dalla semplice legge newtoniana dell'azione e reazione. Siamo dunque di fronte non tanto a scenari di polizia internazionale quanto a una guerra di tutti contro tutti. Gli americani sono assai bravi nel costruire modelli e scenari, ma anche a trarre conseguenze dalla dinamica storica dai fatti empirici, senza tanta ideologia. Non è un caso che proprio dagli Stati Uniti ci vengano gli studi più interessanti sul reale processo in corso. Ma ogni metodo utilizzabile per interrogare i modelli-mondo porta a conseguenze inevitabili. Sempre le stesse. Questi studi sono tutti catastrofisti: il mondo, suggeriscono, si troverà nei guai se… la buona volontà degli uomini non prenderà il sopravvento. Il fatto è che alla soluzione di questi problemi la volontà degli uomini e dei governi contribuisce ben poco.

Borghesie perennemente in guerra fra loro

Il terrore di stato non ha bisogno di essere descritto da noi, vi sono ottime pubblicazioni di attenti studiosi borghesi liberal (in prima fila, al solito, gli americani) che elencano minuziosamente gli episodi dell'immane accumulo di violenza raggiunto dalla società attuale. Il terrore simmetrico e complementare nasce in specifici ambienti, ha "brodi di coltura" molto caratteristici. Trova la manodopera in società dove la disperazione dei miserabili si confronta con ricchezze sfrenate in grado di comprarne i servizi, ma si procura anche reti di comando e mezzi nelle aree in cui il capitale, libero di agire al di fuori delle regole del paese di provenienza, esprime la massima aggressività. Qui abbisogna di milizie particolarmente spregiudicate, in grado di muoversi sui mercati ai margini della legge, e le recluta fra le classi dominanti. Così una violenza inaudita si scarica sulle popolazioni civili, direttamente o per interposte organizzazioni statali (ovviamente mai "canaglia" quando siano alleate dell'America, come dichiara esplicitamente la Casa Bianca, in deroga alle chiacchiere sui "diritti civili"). Non è strano che i primi ad alimentare la guerra occulta siano proprio gli stati più potenti, dato che sono i loro servizi segreti a costituire il regno delle scorribande sotterranee per l'arruolamento di partigianerie di ogni tipo, utili agli interessi "nazionali", quelli cioè delle rispettive borghesie perennemente in guerra tra di loro. Non c'è migliore scuola terroristica che essere sul libro paga di queste forze, spesso difficili da distinguere dalle lobby private di sfere d'industria o addirittura da singole aziende. Senza contare l'ingaggio delle cosiddette mafie, ormai diventate veri stati negli stati, complementari al sistema legale, ramificazioni non troppo secondarie di un capitale che necessita sempre più di zone franche, senza regole. Nel mondo del capitalismo maturo l'esercito terrorista è praticamente inesauribile, perciò invincibile.

La posizione ufficiale dell'amministrazione Bush è figlia degli uffici di pubbliche relazioni. Sembra scritta da qualche sceneggiatore di Hollywood come nei migliori film americani di fantapolitica, ma è infinitamente lontana dall'esprimere le vere necessità dell'America e quindi dal descrivere i suoi compiti reali. Il mondo che un imperialismo come quello americano deve necessariamente forgiare per la difesa a oltranza dei propri interessi, e poi mantenere sotto controllo, è lo stesso che produce di continuo terrorismo e quindi va (andrebbe) inquadrato in un piano realistico. Lo spazio di manovra degli strateghi è assolutamente limitato dal fatto che di un mondo del genere ve n'è uno solo, il che non consente di scegliere tra più obiettivi per gli attacchi rigeneratori. Non c'è che il pianeta così com'è. E non si può fargli guerra come se fosse alieno, di un'altra galassia. Allora, quando in questo scenario si spara, è molto facile spararsi sui piedi.

Abbiamo visto, anche in numeri precedenti, che non esiste guerra "asimmetrica" all'interno del mondo borghese: esistono solo mezzi tecnici diversi e potenza diversa. Se la guerra c'è, essa è necessariamente "simmetrica". I modelli degli economisti, dei geopolitici e dei militari, si tratti di simulazioni al computer o di schemi dettati da semplice buon senso, hanno ormai da anni disegnato scenari capitalistici da incubo: eventi che portassero il sistema a situazioni di non-equilibrio scatenerebbero inevitabilmente la corsa a nuove supremazie con ogni mezzo, con possibili esiti catastrofici anche dal punto di vista della lotta di classe. Da questo punto di vista la "nuova" dottrina militare americana è vecchia come il mondo. Riportata alla scala mondiale, è la stessa dottrina che ogni stato nazionale ha sempre adottato nei suoi affari interni. È naturale che ogni borghesia moderna cerchi di mitigare la guerra fra le proprie industrie, di limitare i danni dovuti alle sacche di "illegalità" (utilizzandole comunque quando sia il caso) e di non far scattare lo scontro fra le classi tramite gli ammortizzatori sociali da una parte e l'apparato poliziesco dall'altra. Tutto ciò assomiglia molto alla guerra di intelligence, mediatica, raideristica, così insistentemente evocata in questi giorni sul piano militare. Del resto: la lotta di classe non è forse per il marxismo parte integrante della "questione militare" in senso lato? L'unica guerra effettivamente "asimmetrica", cioè irriducibile a schemi di equilibrio entro questo sistema, è infatti quella fra le classi, ed essa non è certamente dimenticata dalle varie borghesie.

L'incubo di una Palestina mondiale

Per illustrare l'incubo che turba i sonni dei geopolitici – anche molto prima che si scateni la lotta di classe – abbiamo fatto più volte l'esempio eclatante della guerra palestinese: Israele è lo stato più potente del mondo in rapporto alle dimensioni, mentre la popolazione palestinese non ha nulla; sembrerebbe una guerra completamente "asimmetrica", di quelle che il più forte vince in un amen. Eppure dura da decenni. Il forte oppressore mette in bilancio un risultato politico-militare quasi nullo, anzi, del tutto negativo, mentre il debole oppresso può vantare una riserva apparentemente inesauribile di energia. La ricava certamente dalla propria disperazione, ma soprattutto da un ambiente interstatale, interclassista e internazionale esteso dai miseri quartieri di Gaza agli sfavillanti palazzi d'Arabia. Per gli Stati Uniti non c'è niente di peggio della prospettiva di trovarsi in una posizione difensiva di fronte ad un mondo ostile, inafferrabile e sfuggente, invece di avere la consueta iniziativa contro un nemico ben definito come bersaglio. Essi sono consapevoli che sarebbe la prospettiva della fine del capitalismo e l'inizio di uno sconvolgimento mondiale.

Come per Israele contro i Palestinesi, ma a scala mondiale, per gli Stati Uniti il nemico è dunque l'ambiente che essi stessi producono. Solo che in questo caso l'ambiente – come abbiamo detto – è l'intero pianeta. Dove, al posto di un popolo ridotto allo stremo, disperso e fatto regredire al livello di sopravvivenza, ci sarebbero grandi paesi con miliardi di abitanti. L'attacco dell'11 settembre, al di là delle leggende subito prodotte dalle enormi contraddizioni delle versioni ufficiali sui fatti, non è che la ripetizione a scala allargata di episodi già successi in precedenza. Addirittura le stesse Twin Towers furono oggetto anni fa di un attentato fallito.

Nessuno può sapere chi effettivamente si è rivolto all'ambiente per reclutare gli esecutori materiali. Nessuno ci dice nulla sul mandante. Potrebbe essere chiunque: da al Qaeda, all'Iraq, alla Cina, alla vindice mafia giapponese come adombrato nel film Pioggia nera, o una delle organizzazioni della guerra interna americana, che mobilita quattro milioni di patriot anti-stato tra i quali vi sono 400.000 miliziani armati (la strage di Oklahoma City e il milieu da cui provenivano i suoi autori dimostrano che questa possibilità esiste), o settori della stessa borghesia americana, come affermano i sostenitori della teoria del colpo di Stato.

Il terrorismo, quello che hanno in testa i compilatori di piani strategici del Pentagono, è un'infrastruttura dell'intero sistema del Capitale. Esso non è eliminabile, può solo essere gestito e non sempre vi si riesce. Come nel mondo della giungla darwiniana si salva il fittest, il più adatto, cioè chi sviluppa capacità conseguenti di lotta per la sopravvivenza, così succede nella comunità degli uomini e degli Stati capitalistici. Non si vede assolutamente perché ciò non dovrebbe valere anche per la crescente infrastruttura simmetrica Terrore-terrorismo, che infatti sopravvive adattandosi benissimo, internazionalizzandosi, dotandosi di apparati e metodi modernissimi, lasciandosi plasmare dalle contraddizioni del Capitale. Essa, a differenza degli Stati, non ha bisogno di territorio nazionale: si tratti dei killer professionisti dell'intelligence americana o dei sognanti borghesi del pianeta terroristico speculare alla bin Laden, o dei miserabili reclutati nelle aree di confine della civiltà, ebbene, nel mondo della flessibilità del Capitale e del lavoro, l'infrastruttura del terrore simmetrico è anch'essa flessibile. E, data la sua particolare natura, lo è al massimo grado. Può allignare in Afghanistan, a Washington o a Riyad. Infastidita da una guerra locale, può semplicemente spostarsi ovunque. Anzi, è più a suo agio dove sono presenti masse internazionalizzate, come nelle metropoli d'Occidente, dove si può trovare il modo di fabbricare tonnellate di esplosivo o qualche veleno micidiale con materiali accessibili a chiunque sullo sconfinato mercato capitalistico.

La vera antitesi è con la società futura

L'infrastruttura terroristica è dunque il prodotto del fisico determinismo e delle sue simmetrie al pari dell'universo in cui è avvolta: causa-effetto, azione-reazione, predatore-preda, materia-antimateria, e quindi Terrore-terrorismo. Cioè: ogni terrorismo di stato produce facilmente un terrorismo anti-stato e viceversa. Vale in ogni caso il paradosso dell'uovo e della gallina. Di fronte a questo tipo di simmetria non è possibile affidarsi alle chiacchiere dell'ONU o a processi diplomatici che durano anni e non fabbricano che protocolli "sottoscritti solo per essere strappati" (Lenin).

Gli Stati Uniti tengono in considerazione l'ONU unicamente quando fa da loro portavoce, la NATO è svuotata di funzioni, gli accordi internazionali non vengono firmati, la Corte Internazionale non è riconosciuta, il FMI e la Banca Mondiale sono trattati come strumenti di politica interna, i trattati di libero scambio tra altri Stati sono visti come minaccia, ecc. ecc. Dal punto di vista capitalistico non si capisce come si potrà rispondere all'anarchia mondiale indotta da una globalizzazione incontrollata se non nasceranno strumenti adatti. E non saranno gli organismi appena elencati perché, per quanto passibili di riforma, funzioneranno sempre come parlamenti interstatali, non potranno mai prendere decisioni univoche. Alla globalizzazione occorre una riforma globale.

Il terrorismo non è una gerarchia, non si può decapitare. È una rete, come il capitalismo; eliminato un terrorista ne nasce un altro (è significativo il fatto che al Qaeda significhi data base, e che l'organizzazione realizzata da bin Laden prenda il nome dal programma di gestione elettronica della sua struttura). Anche il Capitale elimina (espropria) continuamente capitalisti singoli, ma non per questo si estingue. La sua dannazione viene da un'altra antitesi, quella capitalismo-comunismo. Essa è generata dal sistema stesso, ma non può rimanere eternamente al suo interno, può solo farlo saltare, liberandone uno di livello superiore. È un'antitesi che produrrà gli strumenti adatti, trasformando la simmetria speculare fra capitale e lavoro in una simmetria del tutto diversa, quella fra la negazione dell'umanità e la sua affermazione, attraverso l'internazionalizzazione del proletariato e della sua rete d'organizzazione a tutti i livelli.

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I concetti di "dissuasione" e "deterrenza" sono familiari nello studio delle relazioni internazionali. Riguardano la politica di uno Stato che, agendo nel sistema internazionale, punta a dissuadere o far desistere altri agenti dall'intraprendere azioni o adottare politiche che possono essere dannose o pericolose al proprio interesse o sicurezza. Credo personalmente che un altro di concetto - quello di compellenza - formulato molto tempo fa da Thomas Schelling, aiuti a capire meglio le politiche regionali [americane]. Compellenza, secondo il concetto di Schelling, è ogni politica che tenda ad agire su un dato scenario in modo da costringere l'avversario ad adottare quelle politiche che meglio si adattano ai propri interessi [senza lasciargli alternative] (Afif Safieh, Deterrence or compellence?).

Rivista n. 10