Teoria e prassi dellanuova politiguerra americana (7)

V. L'invasione degli ultracorpi

Da Tampa a Kabul

Nel celebre film gli ultracorpi erano esseri alieni che, arrivati dallo spazio in forma di baccelli, si impadronivano degli umani invadendone il corpo. In quella loro meccanica riproduzione, erano un po' ottusi, il loro procedere era solo distruttivo: non avevano nessun rapporto con la specie di cui si stavano impadronendo. E alla fine venivano sconfitti non da armi speciali o da qualche espediente ma dalla capacità di lotta degli umani.

Dopo l'11 settembre, quando (prima dei bombardieri) la macchina propagandistica degli Stati Uniti iniziò l'attacco all'Afghanistan talibano, fu riesumato il gergo dell'escalation vietnamita e molti americani ne chiesero a gran voce la distruzione: l'Afghanistan doveva essere "ridotto all'età della pietra". Si trattava di una palese contraddizione rispetto ai grandi progetti degli esportatori di civiltà, benessere, democrazia e libero mercato. Oppure no? Comunque, a parte il cinismo e i macabri risvolti impliciti in un'affermazione del genere, la richiesta non aveva alcuna possibilità materiale di essere messa in pratica: l'Afghanistan era già stato ridotto all'età della pietra. Da decenni. L'occupazione sovietica si era basata sul metodo classico della terra bruciata. La successiva avanzata dei guerriglieri anti-russi e la ritirata di Mosca non lasciarono più nulla da distruggere alla successiva guerra civile che portò i talibani al potere: i combattimenti non produssero più macerie, si svolsero sulle quelle che c'erano già. Le città erano ridotte a tane multiple; ogni accenno d'industria era svanito; le scuole, gli edifici pubblici e le poche infrastrutture erano stati rasi al suolo; i villaggi erano stati svuotati; l'agricoltura, già di per sé primitiva, era stata ulteriormente colpita; sopravviveva la pastorizia, ma ad un prezzo enorme in vite e sofferenza a causa dei milioni di mine che le varie fazioni avevano disseminato per tutto il paese.

In questa situazione era piombata sul paese la guerra ultratecnologica dell'altro mondo, degli abitanti di un pianeta alieno che non avevano nessuna intenzione di perdere tempo per civilizzare i primitivi. Da un cielo solcato da macchine volanti scendevano bombe, razioni liofilizzate, soldati. Scese anche una polvere sperimentale di microchip (microcircuiti in granuli da spargere sulle superfici rendendole "intelligenti" cioè reattive ai segnali elettronici). Strumenti sofisticati scrutavano dall'alto i movimenti di milioni di puntolini caldi, indifferentemente uomini, capre, motori a scoppio, forni per il pane, che per un computer sono solo potenziali target, bersagli che emettono raggi infrarossi. Vale la pena, tanto per avere un'idea, di dare un'occhiata a tre degli strumenti che la civiltà aliena ha utilizzato per incrementare il tasso di primitivismo esistente nel mondo.

- Il Predator è un piccolo aereo senza pilota, silenzioso, dotato di occhi elettronici, un illuminatore laser e due missili; non è solo un velivolo da ricognizione, come si dice spesso, ma serve soprattutto per il combattimento, essendo in grado di coordinare altri tipi d'arma e di lanciare i due ordigni di bordo contro edifici, carri armati, convogli.

- Il B52 era un vecchio aereo per bombardamenti a "saturazione", o a "tappeto"; più volte ristrutturato, oggi oltre ad adempiere al suo vecchio compito è soprattutto utilizzato per lanciare bombe più o meno intelligenti, oppure triturare uomini con bombe a frammentazione, oppure ancora lanciare le daisy cutter, enormi bombe "convenzionali" che hanno l'effetto di piccole atomiche.

- Ogni unità delle forze speciali americane è una macchina da guerra autosufficiente e nello stesso tempo parte di un sistema, in grado di scatenare su di una piccola area una incredibile potenza di fuoco mirato; è formata da pochi uomini e si sposta in elicottero o con aerei da trasporto, più raramente è paracadutata o trasportata con veicoli.

In tutti e tre i casi macchine e uomini sono guidati a distanza, tramite un sistema informativo remoto, sulla base di dati accumulati nel passato o raccolti man mano si dispiega una missione. Il centro operativo è oggi situato a Tampa, Florida, Stati Uniti, ma potrebbe essere ovunque, perché la catena di comunicazione è in orbita nello spazio. La guerra in corso, di cui l'Afghanistan è stata una battaglia, è quindi fra avversari divisi da un baratro incolmabile che dovrebbe chiarire, alla luce di quanto detto finora, come sia materialmente impossibile condurre a questo modo una politiguerra per il preteso mondo nuovo. Il soldato americano è più che mai un soldato politico, ma se ne sta a Tampa, o sul B52 a settemila metri, o nel deserto col suo computer satellitare sulle ginocchia a illuminare obiettivi per la rete del massacro asettico e tecnologico, non potrà mai cooptare nella sua civiltà gli "indiani" del mondo, è programmato soltanto per ucciderli. Se continua così fra poco passerà all'equivalente biotecnologico della distribuzione di coperte infette dal vaiolo, come ai bei tempi della Conquista del West.

L'Afghanistan è più grande (200.000 Kmq in più) e ha più abitanti dell'Iraq (26 milioni contro 23). Se l'ottica del ridisegno mondiale per un nuovo secolo americano fosse davvero un ordine nuovo, dopo l'ondata anti-talibana il paese avrebbe dovuto far parte di un dettagliato piano di ricostruzione. Invece no, siamo a vecchi, molto vecchi espedienti, fatti di basi militari, governi fantoccio, ammazzamenti periodici. Il nemico non scompare mai, quando è utile che sia enduring, duraturo come la guerra infinita.

E chi se ne frega del campo sociale, buono solo per la propaganda che prepara il conflitto. Dopo trent'anni di una guerra che ha ucciso milioni di uomini, vi è un numero sterminato di vedove, che in Afghanistan non contano più nulla e vivono della carità dei parenti. I loro figli maschi, che possono evitare di essere sepolti vivi come le madri e procurare cibo, pascolare, fare qualche lavoretto, sono quasi tutti invalidi a causa delle mine e dei bombardamenti. Le vedove che diventano "adultere", cioè quelle che non volevano vivere sepolte in una società che le cancella, sono sepolte non metaforicamente e lapidate. Gli orfani di entrambi i genitori sono mezzo milione. Non c'è più cibo e anche dove c'è non si trova legna per cuocerlo. Un'antica società tribale come quella afghana ne risulta annientata. Perciò ritorna in grande la coltivazione del papavero, che rende più del grano. Tutto ciò non esiste nei grandi progetti del pianeta alieno, e dalle orbite satellitari non si vede nemmeno.

L'Afghanistan doveva essere una conquista rapida, per passare subito a quella dell'Iraq. Non si possono invadere due paesi contemporaneamente, o perlomeno non è razionale. Giusto. Dal punto di vista militare non fa una grinza. Appunto, dal mero punto di vista militare. E il grande progetto? A Kabul, per non avere troppi problemi si è convocato il conclave delle tribù, si sono comprati i capi a suon di dollari e si è eletto un capo per il governo fantoccio al quale si è subito fornito un consulente d'immagine per evitare che fosse troppo evidente il mantenimento del passato. Gli invasori alieni, come gli ultracorpi di Hollywood, hanno rubato l'anima di chi serviva allo scopo. Qualcuno, con una buona mancia, s'è fatto tagliare la barba talibana davanti alle telecamere. Dicono che anche qualche donna si sia tolta il burka. Inglesi, russi, australiani, italiani, tedeschi, ecc. stanno in piccoli fortini dai quali non si azzardano ad uscire. Del resto, sub-alieni come sono, al di là del filo spinato non saprebbero cosa fare. Intanto a Bagram, qualche chilometro a Nord, è sorta una grande base militare americana. Nel deserto, isolata, autosufficiente, aliena come non mai.

Da Umm Qasr a Baghdad

A pochi chilometri dal confine Iraq-Kuwait, gli invasori anglo-americani avevano trovato la prima resistenza militare: pochi soldati iracheni attestati a Umm Qasr, un villaggio di nemmeno duemila abitanti, avevano ingaggiato battaglia. Non avevano nessuna speranza di "vincere", ma avevano resistito per due settimane. Le truppe aliene avanzavano con la tecnica della guerra-lampo, perciò si lasciarono alle spalle le sacche di resistenza, distaccando qualche reparto per tenerle isolate. Lo stesso era successo ad alcuni chilometri di distanza, dove truppe britanniche avevano il compito di conquistare la cittadina portuale di Al Faw e assicurarne il controllo. Nonostante i combattenti iracheni fossero senz'acqua, senza copertura aerea e senza rifornimenti, avevano resistito anche a Bassora, An Nassiriyah, An Najaf, Karbala. Al Nord, a Mosul, Kirkuk, e in altre città, pochi soldati tennero il controllo fino alla fine, sebbene si trattasse di territori da tempo sotto amministrazione curda e quindi teoricamente più facili da "conquistare" da parte dei suoi peshmerga, ora alleati con l'invasore (là non giunto via terra ma via cielo, paracadutato).

L'avanzata delle truppe d'occupazione era dunque un po' disturbata da uno stillicidio di combattimenti che, pur non avendo nessuna possibilità di impensierire i comandi anglo-americani, li costringevano a distaccare continuamente forze di presidio che finivano per assottigliare le colonne avanzanti verso Baghdad; tant'è che si richiese l'invio di altri centomila uomini e una sospensione tattica dei combattimenti. Ma non ce ne fu bisogno. Mentre le truppe d'invasione si accingevano ad entrare in Baghdad, gli iracheni, assediati nei vari punti lungo le direttrici di avanzata, resi visibili giorno e notte da marchingegni elettronici, smisero di combattere. In parte perché non era più possibile resistere sotto il fuoco dell'artiglieria, dell'aviazione e soprattutto degli elicotteri d'attacco. In parte perché l'obiettivo era raggiunto.

Infatti sia da parte irachena che da parte anglo-americana gli obiettivi erano limitati: gli uni avevano obbligato l'avanzata a rallentare, impegnando migliaia di soldati invasori dei reparti distaccati, gli altri avevano raggiunto la capitale quasi senza perdite. Il grosso dell'esercito iracheno aveva avuto il tempo di dissolversi senza gli spaventosi massacri del '91, gli americani avevano potuto prendere Baghdad senza ricorrere ad un aumento delle truppe e dei mezzi e soprattutto senza combattere.

Come abbiamo già sottolineato, quella del tradimento degli Stati Maggiori iracheni è una spiegazione comoda, ma non necessaria. È vero che il gruppo dirigente iracheno era stato già assoldato dagli americani al tempo della sua presa del potere, del massacro dei militanti del PC d'Iraq, e della guerra contro l'Iran, quindi non ci dovremmo stupire più di tanto se fosse avvenuto di nuovo. E' invece molto meno fantasiosa l'ipotesi che i militari volessero preservare alcune forze per un'eventuale organizzazione della guerra clandestina invece di affrontare sul campo la maggiore potenza del mondo. Ma anche questa ipotesi, seppur logica, non è realistica, perché la borghesia irachena non ha mai espresso quell'unità e quel legame con la popolazione che sono necessari per la guerriglia. La piccola reazione armata a guerra conclusa sarà poco spontanea, come si dice, ma dimostra di non essere organizzata centralmente.

L'esercito iracheno si è semplicemente dissolto dopo aver fatto ciò che era necessario alla dissoluzione stessa, cioè prendere tempo, lasciare che i comandanti si imboscassero e farsi uccidere il meno possibile. Non sarà eroico alla maniera dei patrioti guerrafondai, ma è molto ragionevole.

Più che le varie ipotesi ci interessano però le cause e le conseguenze politiche. Il regime borghese del Baath degenerato non aveva nessuna possibilità di essere difeso e in questo senso il disfattismo dei soldati, consapevole o dettato dal terrore, è stato una buona soluzione. A prescindere dalla difesa dell'odiato regime, anche una "resistenza" contro l'invasore imperialista non avrebbe avuto senso. Un movimento armato popolare ha nondimeno bisogno di uno scopo, e quale sarebbe potuto essere? Difendere la patria? Ma le patrie medio-orientali non corrispondono ai confini tracciati dall'imperialismo inglese. Ingaggiare poi una battaglia per la battaglia contro gli americani sarebbe stato un suicidio: la guerriglia non s'improvvisa, ha bisogno di ambiente, dev'essere il risultato di un processo.

Nel vuoto politico esistente, neppure "lasciato" da una borghesia in fuga ma endemico, al quale aveva ovviato soltanto un controllo ferreo della società, per la prima volta nella storia irachena la moschea diventa un luogo di aggregazione politica. Se questo è il bel risultato dell'invasione e se per ora è l'unico elemento per cui si potrebbe combattere, è meglio che al momento non si combatta. È già stato islamizzato il movimento palestinese, un tempo laico, vagamente socialista e internazionalista, con i risultati tragici che sono sotto gli occhi di tutti; sono stati islamizzati paesi con governi laici come l'Egitto, l'Algeria, la Turchia, il Sudan, la Giordania, l'Iran. Sarà islamizzato anche l'Iraq, perché l'Islam, specie quello estremo jihadista, è utile agli alieni. È l'Islam che, dall'Egira a oggi, è nello stesso tempo il fattore e il prodotto storico non dell'unione, ma della divisione, checché ne dicano i sinistri coltivatori di simpatie per i rappresentanti di un passato che sono oppressi più dal loro sistema sociale che da quello degli alieni (cfr. PCInt., Le cause storiche del separatismo arabo).

Che differenza passa tra Baghdad e Kabul? Molte e nessuna. Comunque noi preferiamo procedere per invarianti: anche in Iraq la guerra ha portato agli stessi risultati. L'invasione è stata telecomandata persino per quanto riguarda le notizie inviate dai giornalisti embedded, incorporati. Per la prima volta nella storia delle guerre gli ultracorpi non hanno invaso i giornalisti entrando nelle loro teste ma hanno fatto entrare i giornalisti nella loro macchina aliena. Di elementi incorporati, non solo giornalisti, ne vedremo sempre di più in futuro. Anche nel caso iracheno il paese è diviso fra etnie; il governo è in mano agli americani, che presto avranno uno stuolo di servitori simil-alieni; la società è nel caos fra l'indifferenza degli invasori; anche qui sorgono le grandi basi nel deserto, isolate. Ne sono sorte quattro: una all'ex aeroporto di Baghdad, una a Taflil, vicino ad An Nassiriyah, una a Basur, vicino a Kirkuk, una nel deserto, in un non-posto che si chiama significativamente con la sigla asettica "H1", isolata, autosufficiente, aliena come non mai.

Da Baghdad a Washington

Se questa è l'alba di una nuova civiltà… Già durante l'invasione i kurdi sono stati platealmente utilizzati contro gli arabi; i turcomanni sono stati aizzati contro i kurdi; la tolleranza verso gli sciiti è stata utilizzata per intimorire i sunniti; le varie correnti sciite sono state messe l'una contro l'altra; il ricorso a parte della vecchia amministrazione ha spaventato chi da essa è stato imprigionato, torturato, e si aspettava almeno un cambiamento in questo senso. In pochi giorni è saltato uno dei pochi risultati positivi raggiunti dal vecchio regime, cioè il legame nazionale cementato dal carattere laico dello Stato baasista.

Il fenomeno di balcanizzazione è così esteso e improvviso che non sembra per nulla un frutto spontaneo del caos post-bellico. Nel Nord del paese, sotto amministrazione militare congiunta americo-polacca, si sta verificando contro gli arabi una pulizia etnica non diversa da quella che permise di teorizzare la "guerra umanitaria" contro i serbi in Kossovo. Al Sud, sotto controllo inglese, è incoraggiata la riorganizzazione degli sciiti, che sono la maggioranza della popolazione irachena. Nella zona centrale, sotto controllo esclusivamente americano, il governo d'occupazione sta riciclando l'apparato amministrativo sunnita del vecchio regime attingendo alla popolazione locale, che qui è, appunto, a maggioranza sunnita, con una minoranza privilegiata di piccola e media borghesia cristiano-caldea.

Sarà vero che due o tre mesi sono pochi, sarà vero che non si vuol dare l'impressione di occupare militarmente il paese, ci sarà qualche carenza di informazione sulla società invasa, ma se l'inizio non è stato eclatante, il proseguimento sembra ancora peggio. Le continue incursioni, i rastrellamenti, le sparatorie con centinaia di vittime non rappresentano un buon esempio di relazioni sociali. Non si tratta neppure dell'insorgere di formazioni guerrigliere tanto aspettato da molti: il macello di piccoli gruppi combattenti che si dice siano stati scovati in fantomatici "campi d'addestramento per terroristi" sembra piuttosto un'esecuzione in massa dei combattenti non iracheni sbandati, un espediente per evitare di avere troppi prigionieri scomodi da tenere in una Guantanamo mesopotamica.

Al centro di tutto questo c'è un nuovo governo formato da 23 ministeri, i cui titolari sono esclusivamente americani, e così gli undici tecnici che affiancano ognuno di essi. Come quartier generale per questi 276 emissari di Washington, c'è stata l'occupazione assai significativa dei palazzi dell'ex potere, evidentemente non bombardati, circondati da filo spinato e da armati dell'esercito alieno.

Dall'Iraq per ora non si possono cavare dollari, al contrario, occorre portarne. Ma potrebbe essere un investimento, anche se il condizionale è d'obbligo. Le grandi aziende appaltatrici hanno avuto i contratti sull'unica base di futuri guadagni. I meccanismi di penetrazione e d'intervento sono stati ampiamente illustrati dai periodici economici e dall'abbondante letteratura sulla cricca affarista bushita per ritornarvi in dettaglio: basti accennare al fatto che è prevista la generazione futura di 80-100 miliardi di dollari in profitti per mezzo di un pacchetto di contratti gestito esclusivamente dagli Stati Uniti. Si farà naturalmente di tutto affinché la realtà corrisponda almeno a questo progetto, ma diciamo francamente che rispetto alla manifestazione di una nobile leadership mondiale questa miserabile rapina sembra un po' poco, roba da gangster.

Il denaro in valuta locale viene per ora stampato solo per pagare gli stipendi all'apparato burocratico baasista e incomincia a circolare il Dollaro, come si è già sperimentato in Libano. In dollari sono anche i primi accordi per gli aiuti umanitari alla popolazione. È chiaro che questa mossa impedisce l'affermarsi dell'Euro, con cui il precedente regime intendeva iniziare le transazioni sul petrolio. L'invasione e l'occupazione stanno portando dunque ai risultati sperati, cioè il controllo del flusso di petroldollari verso l'Iraq e di qui verso gli Stati Uniti. E si prenderanno due piccioni con una fava: 1) una quota sulla rendita e 2) il rinnovo della potenza del Dollaro, che minacciava di essere in declino. Un flusso di soldati da Washington a Baghdad (e oltre) per produrre un flusso di dollari dal mondo al Medio Oriente e di qui a Washington! La lotta del Bene contro il Male si alimenta di denaro.

Se nell'operazione, come ogni tanto scappa detto ai governanti americani, saranno coinvolti anche l'Iran e l'Arabia Saudita, per molti anni la supremazia americana potrebbe ancora essere garantita da un immenso potere di ricatto verso gli altri paesi industriali. Dal punto di vista della teoria marxista, il controllo del flusso di valore da Baghdad (e dagli altri paesi nominati) a Washington rappresenterà una manipolazione, ottenuta con la superiorità militare, delle leggi del valore e della rendita. Si tratta di vedere come reagiranno tutti i paesi del mondo industrializzato a questa prospettiva, e soprattutto se saranno in grado di percepire la grande debolezza oggettiva che obbliga gli Stati Uniti ad agire in modo così spudorato e di approfittarne per colpire duro, magari in modo sotterraneo.

La complicità assurda e i ridicoli distinguo nei confronti della politiguerra americana non permetteranno tanto facilmente alla cosiddetta Unione Europea di togliersi il cappio dal collo. Eppure la storia delle invasioni dimostra che esse rappresentano il coronamento di un ciclo ma nello stesso tempo l'inizio di un altro. La fase USA-IV è appena incominciata e già presenta incognite gravide di conseguenze esplosive. Intanto negli altri paesi del Golfo, nel raggio d'azione di un bombardiere, sono sorte nove grandi basi militari americane. Nel deserto, isolate, autosufficienti, aliene come non mai.

Da Baghdad a Kabul via Teheran

Baghdad non è diventata una Stalingrado, non diventerà neppure una Beirut e tantomeno una Algeri durante la rivoluzione nazionale. Altre sono le condizioni attuali e soprattutto le premesse. Quindi gli alieni americani si stabiliranno in una copia meno disastrata di Kabul, in un contesto però più articolato politicamente e soprattutto economicamente. Ma se quello che stanno facendo i pianificatori del nuovo ordine ha un senso, anche solo militare, per fissare gli interessi imperialistici degli Stati Uniti, allora il prossimo passo sarà l'Iran. Kabul, Baghdad, Teheran. La sequenza è in crescendo, il criterio è: dall'età della pietra all'industria moderna e alla grande massa di popolazione attraverso il filo nero del petrolio. In Iran non si ritornerà allo Scià, ma il nocciolo era lì già allora, quando l'Inghilterra fu eliminata dalla scena persiana in seguito alle nazionalizzazioni di Mossadeq e alle sollevazioni popolari seguite dal colpo di stato organizzato dalla CIA per mezzo di Pahlevi, un sub-alieno che si credeva erede di Ciro il Grande.

I due più grandi paesi del Medio Oriente, come non smettono di ricordare i falchi di Washington, non possono essere considerati separatamente. Dal punto di vista economico essi sono gli unici dell'area ad aver raggiunto e superato la fase capitalistica della manifattura, dato che producono da tempo semilavorati per l'industria (settori siderurgico, tessile, chimico) e beni di consumo durevoli. Dal punto di vista politico, se il regime baasista era nemico, quello komeinista è storicamente arcinemico.

Lo sbandierare la guerra all'Iraq come elemento di stabilizzazione del Medio Oriente è pura propaganda; essa deve proseguire, poiché lasciata a metà è invece inutilmente destabilizzante. O meglio, la destabilizzazione avrebbe senso solo se fosse sfruttata per allargare l'influenza degli alieni anche all'Iran, per collegarsi a Kabul e così via.

La Siria è già stata accusata delle solite nefandezze, passibili del castigo armato automatico previsto da Washington. Mentre scriviamo si sta battendo la grancassa sulle centrali elettriche nucleari iraniane. C'è una perversa lucidità nel folle piano neocons, ed è che una volta iniziata la sua realizzazione, nessuno si può più fermare, né chi lo propugna, né chi lo avversa. L'Iran ha le carte in regola per un'operazione di ridisegno ancora più dell'Iraq, a parte le riserve di petrolio, che non sono paragonabili. È tre volte e mezza più esteso, ha il triplo di abitanti, per di più giovani, ed è la vera porta sull'Asia. Nonostante l'immane carneficina della guerra 1980-88 si è ripreso e ha un'economia mista, una buona industria manifatturiera e un'agricoltura che permettono una certa "distribuzione del reddito" (6.300 dollari pro capite contro i 2.300 dell'Iraq).

Il terzo polo su cui si "dibatte" pubblicamente a proposito di invasione è l'Arabia Saudita. Studi dettagliati commissionati dal governo americano "dimostrano" che il regime di Riyad è coinvolto nella rete di supporto ai traffici in merci, capitali, aiuti e finanziamenti di attività "terroristiche" tramite le moschee e la comunità islamica internazionale. Non ha importanza che ciò sia vero o falso, sta di fatto che la famiglia reale saudita, che è il governo effettivo d'Arabia, è passato da migliore alleato degli Stati Uniti a quasi-nemico a causa dell'infedeltà dimostrata, soprattutto con la diversificazione degli investimenti in petroldollari, dirottati verso attività finanziarie dell'islamic banking.

La corsa verso l'Asia passa dunque attraverso l'Iran fra i due "problemi" collaterali che sono Siria e Arabia. La caduta del primo paese sarebbe un buon regalo per Israele, che si potrebbe tenere il Golan senza problemi e vedrebbe eliminato il sostegno ai palestinesi e a Hizbollah in Libano, in cambio dello smantellamento di alcuni insediamenti ebraici sul percorso della road map che porta allo Stato palestinese; la caduta del secondo provocherebbe l'immediato arresto del flusso di denaro ai palestinesi e alle attività jihadiste. Ma il rischio della destabilizzazione a livello così vasto si fa troppo grande: come diceva Keynes, i piani a lunga scadenza sono magari perfetti, ma al loro coronamento saremo tutti quanti morti e sepolti.

Per questo si corre ai ripari: lungo tutta la fascia Sud dell'ex URSS, dal Caucaso alla Cina, gli Stati Uniti stanno preparando accordi con i vari paesi e soprattutto stanno costruendo basi militari nelle steppe centroasiatiche, quindi ancora in luoghi deserti, quindi isolate, autosufficienti, aliene come non mai.

Effetti collaterali dell'invasione aliena

Ci dobbiamo concedere una piccola pausa prima di incamminarci verso la conclusione del nostro viaggio fra i prodotti della decomposizione capitalistica e dei contraccolpi che essa provoca. La parentesi ci serve per introdurre a un discorso successivo, riguardante proprio il baratro che separa gli alieni dall'oggetto delle loro attenzioni cioè l'universo degli "effetti collaterali" i bombardati, gli sradicati, gli aiutati con la guerra umanitaria, i liberati, ecc. Vogliamo e dobbiamo essere dei razionali osservatori della realtà, ma non dimenticheremo mai che l'oggetto della nostra attenzione è l'uomo in carne ed ossa.

Gli avvenimenti che ci stanno sotto agli occhi posseggono di per sé una forza così dirompente che questa potenzialità esplosiva è già stata sufficiente ad assordare e accecare un mucchio di persone. In primo luogo paradossalmente la maggior parte di chi si dice comunista e pensa di lavorare coerentemente con questo presupposto. Il meccanismo è semplice: di fronte all'enormità della potenza americana si può fare ben poco di concreto se non c'è una forza uguale e contraria. Ma siccome la rabbia è tanta e l'individuo non ce la fa a reprimerla, ecco che qualsiasi cosa va bene purché abbia l'apparenza di una "opposizione" al rullo schiacciasassi americano. E l'attività in sintonia con il processo di preparazione del futuro, che richiede un lavoro di più generazioni, è considerata in generale quasi con disprezzo. Di fronte a questo meccanismo, la ragionevolezza può poco o niente, è come parlare di religione.

È tutto comprensibile e non vogliamo affatto fare un discorso al di fuori della mischia, ci vorrebbe. Sappiamo criticare con decisione anche il solipsismo di chi crede di essere il germe dell'umanità futura senza tener conto che ogni germe ha bisogno di un programma genetico e che si può riprodurre solo ciò che c'è già. Non ci crediamo l'embrione della rivoluzione a venire, ma una cellula fra tante della rivoluzione in corso, invisibile, anonima, distruttrice di vecchie forme, comprese quelle, per ora assai confuse e non abbastanza diversificate, che rappresentano il milieu comunista. Come diceva la nostra corrente nel '22, noi non siamo una parte del processo rivoluzionario, siamo nel processo, da questo siamo prodotti.

La paura di essere emarginato dalla cosiddetta realtà, di essere considerato un iperuranico, come dissero effettivamente a noi una volta, è una delle più potenti armi che l'attivista mette in mano al nemico. Il comunista, in quanto elemento della polarità militare tra classi, è l'alieno degli alieni, deve essere considerato diverso, nemico, per la semplice ragione che fa parte davvero di un altro mondo. Questa emarginazione che i militanti subiscono nelle epoche sfavorevoli produce purtroppo una paura atavica, naturale, che in alcuni è addirittura terrore esistenziale, tanto che scivolano poco per volta nell'esistente tout-court, facendosi dominare dall'ansia di non aver mai "fatto abbastanza" per riuscire ad essere legati alla realtà. Finché la realtà ingloba. E vediamo come lo sa fare bene.

Qual è l'unica strada per evitare l'isolamento? Sembra così difficile e invece è ovvia e vecchia come la storia del mondo: l'unica medicina per le crisi esistenziali da "aderenza alla realtà" è appartenere ad una realtà antitetica, proiettata nel futuro, anticipatrice per quanto riguarda i rapporti sociali oltre che per la comprensione del mondo. L'individuo non può, dato che se non fa parte di una società non è nulla; ma il far parte di una società nel mondo così com'è non è altro che precipitarglisi dentro a capofitto. La soluzione è mettersi in sintonia con il divenire storico, che per noi è sinonimo di partito storico, ovviamente inteso non come un organismo formale di questa società, ma come anticipazione effettiva della società che diviene, in comune con altri che siano stati spinti alle stesse conclusioni.

Altra soluzione l'umanità non l'ha mai trovata, per la semplice ragione che non c'è. Non possiamo essere volontaristi "facitori" di partiti formali, ma sentirsi parte del partito storico è un risultato enorme che va sentito prima che cercato.

Torniamo all'opposizione contro la guerra. Si sono organizzate manifestazioni, si sono fatte assemblee e comitati, Internet è diventata rovente di sdegno e indignazione, sono state esposte milioni di bandiere pacifiste. Si è persino sperato in una Stalingrado, in una palestina generalizzata, compresi i militi che si fanno saltare in aria, si volevano le perdite americane, migliaia di cadaveri yankee per ovviare alle frustrazioni, comprensibili, indotte da overdose di potenza nemica. Si è infine gridato al tradimento quando non è successo un bel nulla e gli americani hanno imbastito la presa di Baghdad con una vittoria alla Sun Zu, lasciando l'amaro in bocca ad ogni reporter rimasto senza fatti eclatanti per il suo padrone e il suo pubblico.

Ma le guerre, quelle visibili e quelle travestite da "rapporti sociali", vanno viste nell'ottica che abbiamo tentato di tratteggiare. Ogni combattimento, da quello sindacale a quello più propriamente politico (e ogni lotta di classe è lotta politica), è intrapreso per ottenere un risultato. Nel corso dell'azione vale un principio militare che nessuno ha mai potuto scalfire da Sun Zu a von Clausewitz, da Spartaco agli operai della UPS: la conservazione delle proprie forze e soprattutto la coerenza tra azione, perdite e importanza dell'obiettivo da raggiungere. Abbiamo visto che per l'antico generale cinese è un bravo comandate colui che sa ottenere la vittoria al limite senza combattere. È ciò che hanno capito benissimo gli americani. Perché mai invece i loro avversari dovrebbero badare a infliggere inutilmente, cioè con la garanzia dello sterminio, "le maggiori perdite possibili al nemico"? Per che cosa? Neppure la Comune di Parigi, che pure aveva fatto errori enormi e aveva un obiettivo gigantesco per tutta l'umanità, poteva avere un simile scopo. E questo vale per l'Iraq come vale per la Palestina, a dispetto di tutta la rabbia che si possa avere in corpo.

Il nemico alieno, rappresentante di una società che muore, va isolato in primo luogo dal sorgere di una polarità politica, da rappresentanti del futuro di specie che rifiutano ogni categoria dell'avversario. Il primo comandamento militare è: non combattere sul terreno del nemico, non fare mai ciò che lui si aspetta che tu faccia. Perciò non farti invadere la testa dalla sua ideologia che ti porterà inevitabilmente contro la rivoluzione. Se esalta la democrazia, rifiutala; se lancia crociate non arruolarti nella crociata opposta; se recluta partigiani, smascherali.

L'estrema ratio dell'immolazione dei corpi

È risaputo che lo stato-nazione iracheno, organizzato secondo un modello fra il satrapico e il tardo-prussiano più che modernamente fascista, aveva combattuto i "sovversivi" democratici interni, sterminando prima di tutto i membri del vecchio Partito Comunista. Ma questo non avrebbe giustificato nessun appoggio a una qualche "resistenza" di tipo antifascista come alcuni avrebbero voluto. Altrimenti, i "resistenti" avrebbero dovuto acclamare la "liberazione" di marca americana come successe qui nel '45. Avrebbero dovuto dar vita a un moto partigiano filo-americano, come quello dei curdi, che hanno ampiamente dimostrato la continuità storica delle partigianerie (e le loro speranze verranno certamente tradite). In una situazione ancora più confusa si trovano i "mujahiddin del popolo" iraniani, aiutati e armati dal governo iracheno contro il regime di Teheran e considerati terroristi dagli americani, quindi a rigor di logica "resistenti" contro l'invasione dell'Iraq. Nessuna "resistenza" partigianesca è mai stata rivoluzionaria, nessuna guerra "popolare" sarà più rivoluzionaria dopo la fine del ciclo rivoluzionario borghese ovunque, specie con la conclusione del ciclo coloniale.

Da una fredda analisi dei rapporti di classe e militari (lo sappiamo che proprio questa freddezza è l'aspetto più difficile da digerire di fronte a eventi che ci sconvolgono di rabbia) risulta che la soluzione migliore sarebbe stata quella di un disfattismo contro la testa del proprio esercito, cosa che in parte sembra si sia verificata. Il fatto che il disfattismo sia stato parziale e in qualche caso con un deleterio disorientamento delle truppe spiega il collasso sociale seguito all'occupazione. Probabilmente gli alieni hanno persino lasciato accendere di proposito i focolai di razzia teppistica per distogliere l'attenzione dalla propria attività primaria di salvaguardia dei pozzi e costringere la borghesia locale a uscire allo scoperto, a offrirsi come forza di polizia per l'emergenza economica e sociale postbellica. O collaborazionisti non mancano mai.

La sconfitta degli Stati Uniti, così irragionevolmente pensata, sarebbe certo buona cosa dal punto di vista della rivoluzione, dato che essi sono il migliore strumento del Capitale mondiale. Ma per ottenere questo immane risultato occorrerebbero forze, armi e condizioni adeguate, a partire da un indebolimento dall'interno del sistema di controllo planetario degli stessi Stati Uniti. E qui può fare molto di più la continuazione delle invasioni aliene fino ai limiti di sopportabilità del sistema, quando la massa critica delle popolazioni toccate potrebbe far saltare tutto il bel disegno. Possono fare di più soprattutto i proletari americani, con tutti i loro difetti, molto, molto di più che non gli iracheni, i palestinesi, i siriani, gli egiziani, ecc. che si sono offerti per l'estrema ratio della "immolazione dei corpi".

Non è stata quella visibile la vera guerra condotta dall'imperialismo in salvaguardia del capitale. Nello scontro fra le classi, che anche solo la sopravvivenza di questo sistema di sfruttamento comporta, anche senza le grandi battaglie sociali, i morti ci sono sempre, giornalmente, e sono infinitamente più numerosi di quelli che sono capitati sotto le bombe nella pseudo-invasione dell'Iraq. Gli americani non presidiano più i territori invasi con le truppe. Alla loro politica non serve. Hanno gettato la loro rete mondiale di basi aliene, dalle quali escono per brevi operazioni di polizia per farvi ritorno, lasciando che siano le borghesie partigiane a fare il lavoro sporco sul campo. Combattere gli "amerikani" sul loro terreno senza che il combattimento faccia parte di un movimento mondiale, immaginare che un qualche livello di violenza individuale o di gruppo possa scalfire l'apparato mondiale dell'Imperialismo Unico è follia pura.

E forse anche peggio. Abbiamo infatti visto che gli Stati Uniti, almeno da Pearl Harbor in poi, praticano la cosiddetta compellence, consistente nel preparare il contesto di un conflitto in modo che l'avversario sia costretto a fare ciò che lo danneggia maggiormente e lo rende più vulnerabile di fronte a un attacco scatenato al momento opportuno. La storia di questo particolare modo di agire non è ancora stata scritta, ma siamo sicuri che la compellence è stata applicata sia in Israele che in Iraq e che l'America ha tanti nemici per conto suo, ma molti se li costruisce ad arte.

La vita umana come rottura di polarità

Abbiamo affrontato con von Clausewitz il principio di polarità. Abbiamo visto che tale principio è valido in astratto e che la dialettica della guerra porta sempre a metterlo in causa. Ora, siamo di fronte a un imperialismo che è veramente alieno di fronte alle forze che combatte e che lo combattono. E nel combattimento era sicuro, proprio per la sua caratteristica di confronto fra avversari di potenza immediata non confrontabile, che scaturisse il fenomeno della "immolazione dei corpi". Come chiamare le persone che si fanno saltare? Terroristi, martiri o, con il ridicolo riciclaggio del termine giapponese, kamikaze?

Qui ci sono alcune doverose osservazioni da fare sul comportamento degli "islamici" e in genere delle cosiddette società "arretrate" che la beota e telecomandata opinione pubblica occidentale non riesce assolutamente a penetrare. Già i termini virgolettati esprimono una generalizzazione superficiale ed errata: il mondo islamico non è omogeneo, include società chiuse come quelle beduine ferme da millenni (fino a 20 anni fa la popolazione della penisola arabica era per l'80% nomade) e società storicamente cosmopolite (di cui sono stati esempi l'antico splendore di Baghdad come ponte per l'Asia e quella sorta di illuminismo di tradizione nordafricana, riflesso di ritorno del califfato di Cordoba); c'è la diaspora palestinese, ormai quasi completamente polarizzata fra due classi, borghesia e proletariato, attive entrambe sul mercato mondiale delle merci, dei capitali e della forza-lavoro; c'è l'Islam pakistano, quello cinese e quello dei neri americani. Per quanto riguarda molte delle società cosiddette arretrate, esse portano spesso con sé residui di comunismo primitivo e di conoscenze che potrebbero addirittura essere uno strumento rivoluzionario nella transizione alla società futura e nella demolizione di quella capitalistica.

Perciò il combattimento fino alle estreme conseguenze, la partecipazione alla battaglia fino all'utilizzo del proprio corpo come arma contro il nemico, sono aspetti che non vanno affrontati nell'ottica volgare della borghesia occidentale che vede soltanto fanatismo insensato, gesto che "non paga", come se tutto dovesse corrispondere alla civiltà del denaro. Vi è nel comportamento della reazione islamica alla strapotenza americana un misto di moderno terrorismo di Stato, di connivenza pura e semplice nell'ambito di piani generali di compellence e un residuo di società comunistiche, addirittura matriarcali, in cui il sangue dell'individuo è in effetti il sangue dell'intera comunità colpita, così come lo è quello del combattente, il quale non tanto si "suicida" quanto offre al corpo sociale un'arma di tipo particolare.

In un articoletto del 1961 questo tema viene ripreso di fronte al problema generale della morte e vale la pena riportarne un brano:

"Nel comunismo naturale e primigenio, anche se l'umanità è sentita nel limite dell'orda, il singolo non ha scopi che consistano nel sottrarre bene al fratello ma è pronto ad immolarsi per il sopravvivere della grande fratria senza alcuna paura. Sciocca leggenda vede in questa forma il terrore del dio che si plachi col sangue. Nella forma dello scambio, della moneta, e delle classi, il senso della perennità della specie sparisce, e sorge quello ignobile della perennità del peculio, tradotta nella immortalità dell'anima che contratta la sua felicità fuori natura con un dio strozzino che tiene questa banca e pesa. In queste società che pretendono di essere salite da barbarie a civiltà si teme la morte personale e ci si prostra alle mummie, fino ai mausolei di Mosca, dalla storia infame" (A Janitzio la morte non fa paura).

Di fronte all'uso della propria vita come arma generalizzata salta ogni possibilità di dialettica intorno al concetto di polarità. Proprio perché il combattimento prevede la salvaguardia delle proprie forze per mantenere la superiorità o per non cadere nel disequilibrio, l'uso del proprio corpo rende gli avversari occidentali completamente alieni. Essi non hanno quell'arma. Essi non riescono ad immaginare che la guerra non è solo fra eserciti, anche se praticano il genocidio come normalità. Essi strillano quando muoiono donne e bambini, dopo averne ammazzati a milioni. La loro potenza di integrazione nei confronti del povero selvaggio vacilla.

A tirar pietre contro i carri armati ci si suicida, a farsi saltare in un supermercato anche. Ma c'è una differenza fra chi adopera un'inutile pietra, spesso come parte di uno spettacolo per i cameramen delle Tv appostati, e chi adopera la propria vita come innesco di un'arma da guerra. Vile, faceva notare Susan Sontag, non è il suicida, è l'asettico militare che schiaccia un bottone, fa partire il missile e spegne vite altrui senza subire conseguenza alcuna. Ora, noi non attribuiamo categorie morali alle cause e agli effetti delle guerra ma, pur ritenendo l'antico sacrificio rituale della vita un'arma inadeguata, osserviamo che lo stesso militare avrà un atteggiamento meno asettico sapendo che a premere bottoni potrà scatenare una ritorsione esplosiva che volatizza i suoi figli sull'autobus della scuola. Il cortocircuito è evidente. Terribile e inumano quanto si vuole, ma è la vendetta del principio di azione e reazione sulla sola azione gratuita. Doveva succedere per forza, mandando carri armati contro le fionde. Doveva succedere per forza, mandando mezzi volanti a bombardare puntolini che emettono raggi infrarossi col calore del loro sangue. Succede e succederà tutte le volte che si piazzeranno basi aliene nei deserti inaccessibili e di lì si vuole parlare di ridisegno del mondo. Non si può raggiungere un equilibrio qualsiasi quando da una parte si pianificano guerre con l'unica opzione "zero morti" (propri) e dall'altra si fa della propria morte un'arma ad alto rendimento: un morto per n morti.

D'accordo, è raccappricciante e spaventosa questa contabilità di morte, ma l'uccisione terroristica di civili non è stata inventata in Medio Oriente e neanche nell'antichità quando anzi i vivi servivano per chiedere riscatti: l'ha inventata il signor Churchill ed è stata entusiasticamente adottata dal signor Roosevelt e da coloro che hanno ereditato il loro metodo, da Hiroshima ad Hanoi. Uccidere senza combattere, premendo tasti di computer, non è combattimento, è assassinio. Per quanto le suddette categorie morali ci siano estranee, è forte il tentativo di far notare che è assai criticato il metodo di chi uccideva semplicemente aprendo i rubinetti del gas.

I "martiri" islamici non sono affatto dei poveracci che non hanno nulla da perdere, mossi soltanto da disperazione. O perlomeno la disperazione che li porta ad affrontare una morte certa non è della stessa natura di quella che muoverebbe un occidentale all'eroismo suicida che piace un sacco ai militaristi senza scrupoli, e a Hollywood. La maggior parte dei cosiddetti kamikaze non è affatto "diseredata", come dimostra l'anagrafe dei caduti palestinesi. I volontari per la difesa dell'Iraq non erano partiti tanto dalle bidonville o dai campi profughi quanto dalle università. Molti di loro erano professionisti, intellettuali, ufficiali degli eserciti arabi. Non avevano da perdere "soltanto le loro catene", anzi. Gli attentati avvenuti a guerra finita, in Marocco e in Arabia Saudita, come pure quelli dell'11 settembre confermano ampiamente.

Quello che i giornalisti e i frequentatori del blablaggio televisivo non vogliono capire è che esistono ancora società in cui il corpo sociale prevede un uso collettivo del corpo individuale. O perlomeno ne esiste il ricordo, che viene in superficie quando la tensione sociale è al culmine ed è richiesto al massimo grado lo sforzo collettivo di autodifesa. Ma una società che ha paura della morte e che manifesta la sua volgarità nell'utilizzo a scopo di lucro di ogni accanimento terapeutico su corpi ormai distrutti, sull'allungamento venale della pura esistenza, spesso sofferenza, a scapito della vita, non può afferrare il senso della difesa collettiva dell'organismo di cui si fa parte. Forse l'hanno capito gli americani, ma su questo verremo dopo.

Terribili ibridazioni

Il cristianesimo primitivo aveva un culto del martirio. La teoria idiota del kamikaze dal cervello lavato al servizio di oscure sette terroristiche non dovrebbe appartenere nemmeno agli ebrei fondamentalisti che amano la leggenda aurea di Masada, cioè degli eroici Zeloti che combatterono i Romani fino all'ultimo, sopprimendosi infine a vicenda, comprese donne e bambini, per non cadere prigionieri. Gli Zeloti d'oggi, suscitati per contraccolpo da una forza che non si può combattere ad armi pari, rappresentano un fenomeno generalizzato a cui partecipano e parteciperanno ancora di più migliaia di individui che si spargono per il mondo a praticare "terrorismo", indipendentemente da chi ne possa tirare in tutto o in parte le fila. Un fenomeno che non è liquidabile con battute sulla psiche primitiva, il fanatismo politico-religioso o qualche pensata da giornalista.

Se si capita in un paese islamico, in una regione dove sia rimasto un minimo di socialità pre-capitalistica, ci si accorgerà che il "cognome" non è ancora diventato, come da noi, un codice anagrafico di riconoscimento, ma è ancora un segno di appartenenza alla tribù. Giornalisti corrotti fino al midollo dalla civiltà, riportando squarci di vita dai paesi in guerra, si perdono nel miscuglio fra società antica e capitalismo trattando i clan come mafie locali: in parte è vero, ed esse hanno spesso un prezzo in dollari, ma si tratta comunque ancora di richiami atavici al sangue condiviso. Fenomeni in via di estinzione, sottoposti al rullo compressore del capitalismo che avanza, ma lì abbiamo ancora qualche segno di una società in cui l' "individuo" non esiste. La vita del singolo è una parte di quella comune, perciò morire per la collettività è un po' come continuare a vivere attraverso di essa. Per questo "funziona" quello che per noi è un macabro rituale, il sostentamento alle famiglie dei martiri (pagato quasi tutto dall'Arabia Saudita con odioso doppiogiochismo). La sovrapposizione del moderno capitalismo con le vecchie società produce ibridi spaventosi come i bin Laden. Ma è il capitalismo che utilizza le forme arcaiche, mai viceversa. L'aveva capito Saddam Hussein, che aveva impostato un sistema di governo capitalistico accentrato, tecnologico, laico, di tipo fascista, un incrocio fra modernità e tribalità, dove i rapporti di potere erano intrinsecamente collegati ai clan, foraggiati e adoperati. Come stanno facendo adesso gli invasori alieni.

Fin qui un doveroso tentativo di comprensione. Ma in quanto comunisti non possiamo né felicitarci di un ritorno al martirio, né auspicare l'estendersi di mezzi arcaici per la guerra all'imperialismo (cioè al capitalismo, ricordiamolo). In quanto comunisti rifiutiamo di immaginare utili alla nostra rivoluzione, anche dal punto di vista immediato, le dottrine, i metodi e le tecniche di rivoluzioni passate. La conoscenza della storia passata del mondo sarà utilissima per la conoscenza della stessa società futura, ma nessuna società vecchia può apportare armi utilizzabili contro quella presente per sgombrare il campo a quella nuova.

Per combattere questa società occorre mettere in campo il futuro, non il passato. Ogni dinamica verso un obiettivo fa sì che sia il futuro a riflettersi sul presente, così come la meta si riflette sui movimenti dell'uomo in cammino e lo guida. Quindi c'è bisogno dei metodi e degli strumenti che, presenti già oggi, sono anticipazioni del domani, programmi che sono forgiati dalla sua azione sulla società presente e su alcuni uomini che vi operano. Il ricorso al passato non serve neppure alle società che lottano per non essere completamente sopraffatte dalla volgarità egoistica, consumistica e plutocratica occidentale.

Cinque miliardi di "Indiani"

Gli europei e gli americani conoscono la società arabo-islamica meglio degli arabi stessi, per la semplice ragione che i paesi imperialistici studiano la società di quelli che dominano (o hanno dominato), meno sviluppati, per interesse diretto, mentre questi ultimi diminuiscono l'attenzione verso il loro passato e tendono ad occuparsi dei problemi posti dallo sviluppo moderno. In tale contesto, inoltre, le popolazioni hanno altro a cui pensare che non alla propria cultura nazionale, devono per esempio sbarcare il lunario. Buona parte del patrimonio storico e della memoria dei popoli orientali fu salvata dagli Inglesi mentre i loro sistemi andavano allo sfascio sotto l'incalzare del mercato mondiale. Va da sé che la borghesia imperialistica, al di fuori delle accademie, estrae dal cumulo di conoscenza solo ciò che le serve a scopo di dominio.

Non c'è miglior "scontro di civiltà" di quello che si costruisce a tavolino sulla base del fatto materiale – e determinato storicamente – che tale scontro significa sopravvento delle società fresche e moderne su quelle antiche e decadenti o semplicemente sopraffatte. Al di là degli stereotipi ricavati da Huntington, la storia avrebbe il potere di mostrare ai ciechi, se solo volessero vedere: i metalli sconfissero la pietra, il ferro sconfisse il bronzo, il modo di utilizzarlo dei barbari sconfisse quello dei Romani, le acciaierie sconfissero le botteghe artigiane. Quando Cortes, Pizarro e i loro conquistadores arrivarono in America trovarono tribù organizzate ancora secondo modelli della barbarie intermedia, se non più antichi. I loro guerrieri non avevano paura della morte e combattevano ritenendo un onore farsi scannare per la comunità. E furono scannati a centinaia di migliaia. Gli Zulu dell'Africa del Sud combatterono valorosamente contro gli inglesi e i boeri affrontando i fucili con le loro zagaglie; il risultato lo conosciamo. Gli Indiani del Nordamerica contrastarono l'invasore con ogni mezzo di cui disponevano, ma avevano nel sangue la guerra tribale, con i suoi riti, le sue stagioni, le sue regole legate al ciclo della natura. Impiegarono duecento anni per imparare che l'invasore li combatteva secondo regole industriali per le quali non esistevano azioni in armonia con la natura e che questa andava semplicemente dominata e sfruttata fino ad esaurimento, mentre il nemico poteva essere eliminato come un insetto nocivo. Ma era tardi, dato che furono sconfitti non tanto dai proiettili quanto dalla nuova civiltà che aveva tolto loro l'ambiente. Oggi ci sono cinque miliardi di "Indiani" nel mondo.

Qui non vogliamo assolutamente sostenere che il combattimento debba essere sempre evitato quando sia sicuro che uno scontro è ad armi impari, quando vi sia guerra "asimmetrica" come dicono oggi. Tutt'altro. Vogliamo però sottolineare che contro l'imperialismo, come hanno dimostrato le guerre anticoloniali, non ha mai vinto un modello militare preso dal passato ma uno preso a prestito dal nemico moderno. Oggi l'America può imporre una guerra in cui il volume di fuoco, la necessità di spostamento rapido e le comunicazioni rappresentano il confine fra il combattimento e lo sterminio. L'Iraq è per lo più un deserto piatto dove nulla sfuggirebbe ai sensori di ogni tipo convogliati su di esso. Una soluzione immediata sarebbe quella, prospettata da molti, di trasformare le città in giungle dove scatenare la guerriglia. Ma ciò, a parte le considerazioni già fatte, non è possibile in una sola città, dovrebbe succedere in tutte e non solo in Iraq. Soprattutto, occorrerebbe avere un potente sostenitore che inviasse armi, munizioni, sostentamenti. Ma non c'è, non solo perché l'Iraq, isolato, occupato e controllato, sarebbe un paese "partigiano" difficile da raggiungere, ma anche perché al momento le nazioni più potenti del mondo dopo gli Stati Uniti non sarebbero in grado di sponsorizzare alcuna guerriglia senza attirarsi le bombe americane. Sentiamo che cosa diceva la nostra corrente a proposito dei Nordamericani e della loro funzione civilizzatrice nel mondo:

"Non avevano avuto bisogno di una rivoluzione antifeudale, sostituita egregiamente da una semplice campagna venatoria su di una selvaggina bipede, estranea alla Genesi e alla redenzione del Cristo, ai lumi della Riforma come a quelli dell'Illuminismo filosofico".

E proseguiva, citando Engels:

" 'Qui non esistono dinastie, non nobiltà, non esercito permanente, all'infuori di un manipolo di uomini per la vigilanza degli indiani (Engels non poteva sapere che sono i suoi connazionali tedeschi di sessanta anni dopo... a fare da indiani) nessuna burocrazia con impiego stabile e diritto a pensione. E con tutto questo noi abbiamo qui due grandi masnade di affaristi politici che alternativamente entrano in possesso del potere, e che depredano e fan bottino coi mezzi più corrotti e ai più corrotti scopi; e la nazione è impotente contro queste due grandi bande di politici, che apparentemente sono al suo servizio, in realtà la dominano e la saccheggiano" (da: Non potete fermarvi, solo la rivoluzione proletaria lo può, distruggendo il vostro potere, 1951).

È evidente che la frase cruciale di tutta la citazione è quella che riguarda i tedeschi. Oggi non solo questo paese, ma tutto il mondo è nella condizione di vestire i panni degli indiani, cioè di essere messo nelle riserve a produrre plusvalore a vantaggio della superpotenza con l'alternativa di essere sterminati come insetti nocivi. E per chi si dovesse ribellare, ci sono già pronti i modelli "etnici" di combattimento, fatti di "terroristi", di "martiri" e di partigianerie più o meno tribali, di vecchi arnesi nazionalistici come la sovranità nazionale. La compellence è estesa al pianeta.

La vita ai margini del Capitale

Questo è un sistema che predispone le condizioni affinché sorga ad un certo punto un problema da risolvere, problema che, vedi un po', non è risolvibile in altro modo che con l'intervento armato americano. Agli Stati Uniti non importa affatto che le ragioni accampate non siano verosimili; non gl'importa se i loro critici s'indignano per loro pagliacciate crociatiste; non gl'importerebbe neppure se l'intero mondo fosse terrorizzato di fronte alla sfacciata dichiarazione di guerra preventiva. Anzi, come ha detto Bush a chi lo faceva notare: "good", i rompiscatole sarebbero individuati meglio e iscritti nella lista nera. È fin troppo facile per gli Stati Uniti sfruttare la reazione allo stradominio americano nel mondo per far scaturire dei nemici fatti su misura e procedere al loro annientamento "chirurgico", oppure lasciarli sopravvivere alla macchia, senza correre il minimo pericolo. Se l'occupazione del Medio Oriente e a "rischio militare zero", come disse vent'anni fa il solito Luttwak esponendo un piano d'invasione dei campi petroliferi, figuriamoci quanta preoccupazione possono suscitare i bin Laden e i Saddam Hussein. È l'ambiente ai margini del Capitale che fa paura, che è terreno di reclutamento di persone che non hanno nulla da perdere, dove agiscono gli Stati più dei "terroristi" famosi. Non è appunto un corollario indifferente il fatto che gli Stati Uniti ereditino l'ambiente dei "terroristi" o addirittura i loro Stati, adeguandoli senza troppi scrupoli ai propri scopi. È la fine che stanno facendo, dopo gli afghani e i kurdi, i "mujahiddin del popolo" iraniani: prima partigiani dell'Iraq, dotati da questo anche di armamento pesante nella guerra contro l'Iran, classificati fra i gruppi terroristi dagli americani, ora perseguitati e minacciati di essere usati come merce di scambio nella nuova situazione, privati dei fondi e dei beni dell'organizzazione, obbligati ad essere partigiani del nuovo padrone americano contro l'Iran se non vorranno soccombere, e per avere una possibilità di ritornare nel loro paese una volta che fosse "liberato".

Ci sono fin troppi aspiranti combattenti genuinamente infuriati contro lo stato di cose presente e pronti anche all'estremo sacrificio. Ma proprio per questo essi saranno utilizzati propagandisticamente e, assecondando tendenze presenti nelle loro società, spinti al "martirio". Il corollario sarà una reazione brutale contro l'ambiente che li produce, mirando ai vertici delle organizzazioni, come in Israele, muovendo da quelle grandi basi aliene, isolate nei deserti. All'imperialismo maggiore non importerà nulla delle proprie vittime, le adopererà sfacciatamente. Ma nel frattempo le forze avversarie saranno logorate, mantenute sulla scena quel tanto che basta per scatenare la prossima battaglia di questa enduring war. Persino alcune frange borghesi si rendono conto di quanto siano stati utili l'11 settembre, bin Laden, Saddam Hussein e hanno paura delle conseguenze. Ci sono candidati in abbondanza per i prossimi bombardamenti americani.

Bombardamenti che saranno legittimati per amore o per forza. Per gli alieni, vincitori delle guerre di un secolo, Dresda sessant'anni fa o Baghdad oggi non hanno conosciuto il "terrore" ma una esercitazione legittima di forza e di diritto. Già, perché ad ogni guerra finita si costruiscono campi di concentramento, si istruiscono processi per i vinti e si stampano nuovi libri di scuola per insegnare la storia dal punto di vista dei vincitori, come successe qui, come sta succedendo in Iraq.

Non è agevole trarre conclusioni su quale sia il modo migliore per combattere l'imperialismo da parte di forze non rivoluzionarie. Esse finiscono in ogni modo per fare l'interesse di qualche potenza o per essere macinate dalla guerra globale. Mentre per noi, se vogliamo davvero essere coerenti con le premesse programmatiche e i fini rivoluzionari, non ci sono dubbi: il luogo di combattimento più efficace è nel ventre della balena, come avrebbe detto Orwell, adoperando tutti i mezzi che ci mette a disposizione la bestia, anzi, escogitandone di ancor più avveniristici.

Infine: non è casuale che molti esponenti borghesi stiano in questo periodo tracciando una mappa del potere mondiale, degli interessi espliciti e impliciti, delle necessità dell'imperialismo e delle preoccupazioni delle borghesie nazionali che stanno velocemente perdendo la loro residua sovranità. In ogni caso, a costo di essere pedanti e ripetitivi, diciamo che occorre strappare ovunque i cartelli: "partigiani cercansi".

La vita nel ventre della balena

La direzione del moto storico, l'andare verso… che abbiamo già preso in considerazione, è irreversibile. Se il determinismo ha un senso, gli Stati Uniti sono ciò che la storia del globo li ha portati ad essere. Ma siccome la dialettica dei rapporti fra società e paesi esclude che si possa interpretare la storia come una serie di passaggi meccanici, senza quelle biforcazioni rivoluzionarie alle quali o c'è rottura sociale o c'è continuità, ecco che l'imperialismo unipolare americano va osservato anche dal punto di vista degli effetti che esso produce sugli stessi Stati Uniti e non solo sul mondo degli altri. Nel mondo degli alieni si può essere alieni anche nei propri confronti.

Le rivoluzioni trasformano i paesi ma anche sé stesse. Ha potuto raggiungere questo risultato la "rivoluzione americana"? No, perché non c'è stata una rivoluzione nel vero senso della parola, che abbia forgiato una nazione "Stati Uniti" opposta allo stato di cose precedente. C'è stata piuttosto una continuità. La guerra d'indipendenza è servita agli americani per continuare in proprio la politica coloniale degli inglesi e questa è stata la trappola fatale che ha bloccato il percorso storico, rendendo così peculiare la popolazione americana, specie il proletariato. Quest'ultimo non ha potuto sviluppare una lotta di classe organizzata con veri sindacati e soprattutto non ha visto la formazione di una organizzazione politica del proletariato non solo a causa dei veri e propri massacri di attivisti, che hanno sempre decapitato sul nascere le organizzazioni proletarie, ma anche per quelle ragioni sociali profonde per cui un popolo non può essere libero se contribuisce ad opprimerne un altro.

La politica coloniale, che ha coinvolto e corrotto la popolazione americana, adesso le si ritorce contro, non continua solo verso l'esterno, ma si afferma anche all'interno. La conseguenza è tremenda: gli Stati Uniti sono una colonia di sé stessi e questo fenomeno è registrato con più forza proprio dalle frange borghesi americane spaventate dagli scenari futuri.

Milioni e milioni di americani si sentono prigionieri di uno Stato che non percepiscono come un loro organismo. Per noi europei è persino difficile comprendere questa ostilità, dato che la nostra storia ha sempre visto lo Stato come strumento ambiguo, che può reprimere ma anche dispensare benefici ottenuti con la lotta classista, come le leggi sull'orario di lavoro ecc., oppure uno strumento da conquistare e da adoperare. Per milioni di americani il loro stesso Stato è un alieno, un qualcosa che non fa parte del paese. Non importa se le forme del rifiuto prendono tinte che vanno dal nazismo all'anarchia, con ibridazioni curiose e forme di milizia armata assolutamente particolari: il dato di fatto è che buona parte dell'America si sente colonizzata dall'America.

Di fronte ad una oggettiva situazione come questa, è ridicolo certo antiamericanismo di maniera che attribuisce agli "americani" gli effetti dell'imperialismo, così come è ridicolo attribuire gli assassinii in massa della nostra epoca vuoi ai "tedeschi", vuoi ai "russi" e non alla natura del capitalismo. Gli americani sono la prima vittima della colonizzazione interna dell'imperialismo americano. Se gli Stati Uniti hanno avuto per un secolo una esuberanza di capitali tale da portarli a dominare il mondo, è perché questo capitale è stato prodotto da un proletariato che non ha potuto mettere in atto alcuna forma di difesa sindacale contro la precarietà dovuta al mercato del lavoro selvaggio. Per questo la lotta di classe negli Stati Unite finisce così spesso a revolverate o, com'è successo più volte nel settore minerario, a colpi di dinamite.

La mancanza della lotta di classe storicamente organizzata, prima dei borghesi contro i feudali e poi del proletariato contro i borghesi, ha impedito il radicarsi dell'illuminismo, e l'inesistenza di un urbanesimo diffuso ha facilitato l'affermarsi di ciò che rappresentava il nerbo della prima immigrazione, cioè ogni espressione settaria e bigotta insita nelle credenze religiose dei colonizzatori contadini. Nella Nuova Inghilterra gli antenati dell'America erano loro agio con i roghi delle streghe più che con Galileo o Cartesio. Per cui la stessa tecnologia, così importante nel modo di vita americano, diventa una religione e, dato l'ambiente, non può non generare un'altra religione: l'antitecnologia. Il mito della tecnologia diventa il miglior strumento, attraverso i media, per creare una spirale di causa-effetto che è assolutamente funzionale allo Stato borghese. Si viene così a formare e consolidare un brodo di coltura biotech in cui cresce benissimo il nuovo soldato politico, a metà fra il cavaliere templare e il mercenario di tanti film hollywoodiani. Come nel film Starship troopers, un B-movie nel quale è rappresentata la genesi del guerriero nazi-comunista del futuro, dove l'individualismo spinto e rétro si mescola con l'appartenenza dei guerrieri ad un tutto comune, a una macchina da guerra atta a difendere il futuro della specie contro gli alieni, dove l'individuo, come ammette un militare ormai spacciato, non è altro che la cellula di un corpo sociale. Un ripugnante e nello stesso tempo affascinante prodotto di una società di transizione.

Solo che nel nostro caso sono gli alieni, i più vicini strumenti del Capitale, ovunque essi siano, a ridurre la specie (in modo particolare quella sua parte che abita il Nord-America) ad omologarsi sulle esigenze di salvezza del modo di produzione vigente. Non c'è stata alcuna machiavellica congiura di imperi e imperatori: nella politiguerra della fase USA-IV tutto consegue da tutto, e nessuna forza sociale o militare corrente potrà far saltare le odiate basi nei deserti, sempre più isolate, autosufficienti, aliene, che stanno radicandosi anche nella loro patria d'origine contro il "popolo" che dovrebbero difendere. Quest'ultimo è il definitivo segno di debolezza. Se c'è bisogno di estendere il controllo alieno anche sul proprio territorio vuol dire che la situazione rischia davvero di andare fuori controllo.

Negli Stati Uniti una legge del 1878 proibisce l'uso di truppe federali in questioni che non riguardano la guerra contro il nemico. A Waco, Texas, dove nel 1993 una delle tante sette americane si era rifiutata di sottostare alla prepotenza delle autorità e si era asserragliata nella propria comune locale, furono fatti arrivare i carri armati, vi fu un assedio, furono lanciati gas CS che il governo aveva appena bandito firmando un trattato internazionale; e infine vi fu la sparatoria, l'assalto e l'incendio in cui morirono 30 donne, 25 bambini, 22 uomini e 4 agenti. La comune davidiana di Waco fu demonizzata, ridicolizzata e poi dimenticata, ma molti ritengono l'episodio un precedente simbolico e non credono affatto alla tesi ufficiale del suicidio collettivo col fuoco: per la prima volta dopo lo sterminio di indiani l'esercito aveva massacrato dei cittadini americani in una battaglia campale. Uscendo da basi militari dietro casa, a cui nessuno fino ad allora aveva fatto caso. Ma che c'erano, ed erano in grado di rendere operative le loro truppe e i loro mezzi in pochi minuti.

Nel suo documento sulla ricostruzione della forza militare degli Stati Uniti la banda bushita scrive a questo proposito che occorre "ridurre gli organici della Guardia Nazionale e della riserva delle Forze Armate, a meno che non si riconosca che queste strutture sono mezzi per fornire una barriera contro una genuina, improvvisa emergenza militare su vasta scala. Continuare a fare affidamento su un grande numero di riservisti per ordinarie missioni di polizia è inappropriato e miope". Nel caso di una vera forza militare interna, allora, occorre non limitare i mezzi ma, al contrario ampliarli. "Occorre adeguare le missioni dei due eserciti di riserva alla realtà del post Guerra Fredda" e i riservisti devono ricevere le stesse attenzioni delle truppe professionali dislocate nelle zone "sensibili" del mondo. "L'importanza di questi cittadini-soldati per collegare la crescente forza armata professionale con la grande corrente della società americana non è mai stata così grande e il fallimento nel prendere provvedimenti per adattare le loro missioni ha messo in pericolo questo legame. Essi possono giocare un grande ruolo nella pianificazione di guerra degli Stati Uniti, più grande di quanto non sia mai stato". Essi non devono, inoltre, essere visti solo come truppe d'appoggio per i reparti principali, ma protagonisti di missioni difficili, come quelle nei Balcani.

Non forze di polizia, quindi, ma vere forze armate. È curioso che si parli di constabulary duties, doveri propri della polizia, per quanto riguarda la missione internazionale delle Forze Armate Federali e si rifiuti tale appellativo per le forze interne, che finora è stato appropriato al ruolo effettivo. Curioso e strano, a meno di non pensare in grande; come i neocons, che, consapevoli del "rischio zero" nelle guerre contro gli "Stati canaglia", istintivamente concepiscono il pericolo più grande proprio in casa.

Letture consigliate

  • Sun Zu, L'arte della guerra, Edizioni del Borghese, 1965.
  • Karl von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, 1970.
  • Karl Marx, Friedrich Engels, Écrits militaires, Éditions de L'Herne, 1970 (contiene diversi testi non reperibili in italiano, alcuni qui citati).
  • Lev Trotsky, Come si arma la rivoluzione, Newton Compton, 1977.
  • Partito Comunista Internaz., Alle radici della guerra, Prometeo n. 1 del luglio 1946.
  • Partito Comunista Internaz, Corea è il mondo, Prometeo II serie, n. 1 del 1950, ora in America, nella nostra serie dei Quaderni Internazionalisti.
  • Partito Comunista Internaz., Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe, in Partito e classe, Edizioni Programma comunista, 1972.
  • Partito Comunista Internaz., Deretano di piombo, cervello marxista, in Il programma comunista n. 19 del 1955, ora in Dialogato con Stalin, nella nostra serie dei Quaderni Internazionalisti.
  • Partito Comunista Internaz., Lezioni delle controrivoluzioni, Bollettino interno n. 1, 1951, ora disponibile nella nostra serie dei Quaderni Internazionalisti.
  • Partito Comunista Internaz., Marxismo e questione militare, Il programma comunista nn. 23 del 1961, 1-9-10 del 1962, 5-12-13-23 del 1963, 1-2-13-14 del 1964, 6-7-8 del 1965, 2-3-4-1-12-13 del 1966. Disponibile all'indirizzo: http://www.ica-net.it/quinterna/ 1946_70indifesa/questione_militare01.htm
  • Dinamica dei processi storici, teoria dell'accumulazione, Quaderni Internazionalisti.
  • Controllo dei consumi, sviluppo dei bisogni umani, su questa rivista, nel n. 3.
  • Gary Schmitt, Power & Duty: U.S. Action is Crucial to Maintaining World Order, Los Angeles Times, 23 marzo 2003.
  • White House, The National Security Strategy of the U.S., Washington, 20 sett. 2002.
  • PNAC, Project of a New American Century, Rebuilding America’s Defenses, reperibile sul sito dell'organizzazione: http://www.newamericancentury.org
  • PNAC, Statement of Principles, stesso sito.
  • Edward Luttwak, C'era una volta il sogno americano, (specialmente l'articolo "La corsa agli armamenti geo-economici"), Rizzoli, 1994; La grande strategia dell'Impero Romano, Rizzoli, 1981.
  • Barton Gellman, "Pentagon Would Preclude a Rival Superpower", Washington Post, 11 marzo 1992.
  • Frontline, intervista a Barton Gellman, del Washington Post, 20 febbraio 2003.
  • Patrick E. Tyler, "Pentagon Drops Goal of Blocking New Superpowers", The New York Times, 24 maggio 1992.
  • Michael Lind, How Neoconservatives Conquered Washington and Launched a War, 10 aprile 2003, sul sito di Antiwar.com.
  • The hard path to new nationhood e The Shadow men, in The Economist rispettivamente del 17 e 24 aprile 2003.
  • Bruno Rizzi, La burocratizzazione del mondo, Edizioni Colibrì, 2002.
  • James Burnham, La rivoluzione manageriale, Bollati Boringhieri, 1992.
  • Cornelius Horst, I soldati politici in Europa, in Signal n. 13, 1944.
  • Jack Finney, L'invasione degli ultracorpi, Edizioni Lanterna Magica, 1976. Dal romanzo è stato tratto il celebre film di Don Siegel, a doppia lettura, anticomunista e antimaccartista, voluta dall'autore.

FINE

Rivista n. 11