Abolizione dei mestieri e della divisione sociale del lavoro

Decisa lotta per l'abolizione della divisione sociale del lavoro, delle carriere, dei titoli e della specializzazione professionale (cfr. PCInt., Il programma rivoluzionario immediato, punto h, Riunione di Forlì, 28 dicembre 1952).

"La divisione del lavoro offre anche il primo esempio del fatto che fin tanto che gli uomini si trovano nella società naturale, che esiste la scissione fra interesse particolare e interesse comune, che l'attività è divisa non volontariamente ma naturalmente, l'azione propria dell'uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, lo soggioga, invece di essere da lui dominata. Non appena il lavoro comincia ad essere diviso, ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico" (K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca).

Tre grandi stadi nella divisione sociale del lavoro

Non è nostro intento, qui, riprendere in dettaglio la storia della divisione del lavoro; tracceremo quindi un rapido schema al solo scopo di introdurre alla situazione attuale.

Le società dei raccoglitori, ai primordi della specie umana, vivevano dei prodotti della natura senza ulteriori trasformazioni. Con la caccia e l'uso del fuoco la necessità di "lavoro" crebbe, ma rimase ugualmente minima rispetto alle forme sociali successive. La natura era il presupposto originario della produzione sociale, un'estensione delle stesse comunità umane. Attraverso una cooperazione nel processo di lavoro le comunità primordiali si appropriavano delle condizioni oggettive di esistenza producendo sé stesse e i propri mezzi di sussistenza. Non esisteva ancora una vera divisione sociale del lavoro, esisteva solo una divisione funzionale legata a fattori del tutto fisiologici come età, sesso, forza fisica, ecc. In questo tipo di organizzazione Marx ed Engels identificano una divisione naturale del lavoro. Con lo sviluppo delle forze produttive, cioè con l'aumento della popolazione, con lo sviluppo della tecnica e il sorgere di nuovi bisogni, alla divisione naturale si sovrappose la divisione sociale del lavoro.

La prima grande divisione apparve con l'allevamento e l'agricoltura come risultato di un lungo processo naturale. Animali adatti all'allevamento e piante che potevano essere coltivate fruttuosamente permisero, con l'applicazione di lavoro umano, un aumento della produzione alimentare e differenti qualità di apporti energetici. Nuove produzioni come la tessitura, la filatura e in generale tutto l'artigianato domestico, resero più profonda la stessa divisione del lavoro. Le comunità tribali di regioni e climi diversi svilupparono bisogni diversi, perciò anche mezzi di produzione adatti ai diversi tipi di valori d'uso. A partire da questa differenza nel modo di produrre e riprodurre la propria esistenza, esse incominciarono a scambiarsi i rispettivi prodotti, prima come risultato di un'esuberanza o carenza di certi valori d'uso, successivamente secondo un'applicazione di criteri di valore, legati al tempo e all'energia occorrenti per produrre un certo oggetto. Gli allevatori-coltivatori avevano un vantaggio materiale importantissimo rispetto a chi era rimasto allo stadio di raccoglitore: producevano più di quanto non consumassero. Perciò si svilupparono nuovi consumi come pelli finemente conciate, filati, ceramica, ecc. L'aumento della produzione e il conseguente aumento del fabbisogno di forza-lavoro portò anche modificare profondamente l'arte della guerra e i suoi scopi, dato che si passò dalla guerra rituale o di sterminio a quella che poteva fornire territorio, beni e schiavi. Si sviluppava in parallelo la proprietà privata e la divisione in classi.

La seconda grande divisione si ebbe quando la produzione di manufatti iniziò a diventare autonoma rispetto alla sfera agricola e alla produzione famigliare. Alla metallurgia, che per sua natura ebbe fin dall'inizio carattere sociale, si affiancò l'artigianato dei metalli e della ceramica, fino alla comparsa di forme proto-industriali, come l'arte siderurgica presso gli Etruschi e quella fittile presso i Greci. Alla produzione schiavistica poco per volta si affiancò quella di classi intermedie. I gruppi a base tribale nel frattempo si erano fusi in comunità più ampie delimitando il territorio e dotandosi di un apparato di difesa. La guerra ora poteva anche essere condotta a puro scopo di conquista e di razzia mirando a terre, cose e uomini. Si sviluppò ulteriormente la divisione sociale del lavoro con la formazione dei primi ceti amministrativi-burocratici, religiosi e militari. La divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale iniziò a permeare la società.

La terza grande divisione fu annunciata dalla comparsa della classe dei mercanti. Molto presto, già nella preistoria, alcuni uomini si erano dedicati quasi esclusivamente allo scambio: sono state tracciate con precisione alcune "vie" dell'ocra, della selce e dell'ossidiana, materie prime e semilavorati di largo uso fino al neolitico. Ma una vera e propria classe, non più legata direttamente alla produzione e dedita solo allo scambio dei prodotti, specie quelli manufatti, sorse relativamente tardi, insieme con i modi di produzione classico ed asiatico. Più tardi ancora, comparve il denaro, prima marginalmente, come misura di riferimento, poi come equivalente generale. Comunità sempre più numerose, federate o centralizzate, furono spinte a unificare e controllare territori sempre più estesi che potevano essere difesi (o da cui si poteva partire per attaccarne altri) solo con eserciti permanenti, poteri centralizzati e metodi di produzione razionali e controllati. Questi embrioni di classi comportarono anche gli antagonismi fra le stesse, perciò la necessità di coercizione interna e ulteriori specializzazioni nella divisione sociale del lavoro fino alle soglie dello Stato completamente realizzato.

Con lo sviluppo del capitalismo su larga scala si impose infine una divisione del lavoro in generale che permeò tutta la società separando nettamente la produzione sociale in sfere separate come quella agricola, industriale, commerciale, finanziaria, militare, ecc. A loro volta queste sfere si suddivisero in nuove specie e sottospecie come divisione del lavoro in particolare, fino alle mansioni specifiche di ogni singolo individuo.

La divisione manifatturiera del lavoro, risultato delle caratteristiche di specifici processi produttivi, esplose con il capitalismo, sconvolgendo, rivoluzionando, amplificando la produzione fino a limiti prima impensabili. Ma tale divisione fu rivoluzionata a sua volta dalla ricerca, tipica del capitalismo sviluppato, della massima produttività, vale a dire della massima produzione con sempre meno operai. Detto in altri termini, della massima produzione di plusvalore relativo, quello che si ottiene non aumentando l'orario di lavoro o il numero degli operai ma aumentando l'efficienza del processo lavorativo in generale.

La divisione manifatturiera, che d'ora in poi chiameremo tecnica per via dell'estinzione della manifattura, si distingue da quella sociale per un fatto d'importanza primaria. Scrive infatti Marx: "Che cosa caratterizza la divisione manifatturiera del lavoro? Il fatto che l'operaio parziale non produce nessuna merce; che solo il prodotto comune degli operai parziali si trasforma in merce" (Marx, Il Capitale, libro I, cap. XII). La divisione tecnica compare prima della manifattura, ogni volta che si è presentata la necessità di grandi produzioni; qui considereremo però solo il periodo capitalistico. Vedremo che la società nuova abolirà completamente la divisione sociale del lavoro e muterà la natura della divisione tecnica, mutazione che è già addirittura in corso.

Lo sviluppo delle forze produttive raggiunto da un paese capitalistico si riconosce dal grado di sviluppo della divisione sociale del lavoro. Siccome alla base dello sviluppo moderno della forza produttiva sociale vi è un'organizzazione sempre più diversificata, si tratta di stabilire se nella società attuale stiamo vivendo una fase di ulteriore ampliamento della divisione sociale e tecnica del lavoro o se invece stiamo assistendo, almeno nei paesi più industrializzati, a una sua regressione. La consistenza di questo fenomeno ci può indicare chiaramente quanto l'imperialismo sia già davvero una società di transizione e come, in tal caso, si ponga come non utopistica la questione della transizione politica rivoluzionaria, specie per quanto riguarda il suo strumento essenziale, cioè il partito come organo di classe, anticipatore della società futura.

Oggi

Il lavoro razionalizzato in fasi

La divisione tecnica del lavoro, che Marx chiama divisione del lavoro in senso proprio, opera a priori all'interno del processo produttivo: quando l'operaio entra in fabbrica non può far altro che sottomettervisi perché è nella natura dell'ambiente produttivo moderno il prevedere la suddivisione del lavoro in fasi, stabilite da un progetto rispondente a uno scopo. Essa è un invariante che si sviluppa spontaneamente in tutte le forme di società che hanno raggiunto un certo livello di organizzazione, dalle antiche società costruttrici di mirabili monumenti, alle chiuse comunità feudali, ai modernissimi paesi del sistema capitalistico. Tale differenziazione dei compiti nel processo produttivo presuppone l'esistenza di un piano di produzione per la loro disciplina, di un'autorità che sia fattore di ordine nel processo di produzione e riproduzione dell'organismo sociale. Queste caratteristiche sono comuni nella storia, ma il capitalismo si appropria di esse trasformandole drasticamente. Allo sviluppo specificamente capitalistico della divisione tecnica del lavoro corrisponde un equivalente sviluppo della moderna divisione sociale del lavoro. Quest'ultima, benché poggi sulla evidente divisione dei mestieri presente nella società, specie all'interno del processo produttivo globale, è di natura qualitativamente diversa dalla divisione tecnica.

Marx ricorre due volte alla stessa immagine come esempio per due fenomeni diversi: quando dice che il lavoro domestico rappresenta un reparto esterno della fabbrica nella generale divisione tecnica del lavoro (cfr. Il Capitale, libro I, cap. XIII) e quando osserva che il singolo capitalista beneficia della divisione sociale del lavoro in quanto utilizza tecnologie, metodi, scienza e macchine che non sono il risultato dei suoi dipendenti ma del generale reparto esterno sociale che alimenta tutte le fabbriche. Occorrerà tenere presente questa osservazione di Marx quando affronteremo la struttura della fabbrica moderna e la natura della divisione tecnica del lavoro attuale. Lo sviluppo della forza produttiva del sistema industriale si deve sempre ricondurre al carattere sociale del lavoro utilizzato, vale a dire alla divisione sociale del lavoro, ai riflessi che la produzione materiale ha sulla ricerca, sul lavoro intellettuale, sulla scienza e sulla tecnologia. Il capitalista non ha alcun ruolo in ciò, se non quello di fornire un utilizzatore finale dei risultati sociali. Cercando il massimo profitto, egli attinge al "reparto esterno" sociale della fabbrica, ed è quello, quello soltanto, che gli fornisce i mezzi di produzione, i metodi, la tecnica ecc. ad un valore sempre più basso, in modo che possa aumentare o almeno non diminuire il saggio di profitto (cfr. Il Capitale, libro III, cap. V).

Si può dire che senza la divisione sociale del lavoro non sarebbe possibile la divisione tecnica specificamente capitalistica. Si ha il massimo di divisione tecnica quando la razionalizzazione del processo produttivo impone una particolare qualificazione a chi esegue una fase lavorativa, e nello stesso tempo una specializzazione, nel senso che l'operatore deve avere una conoscenza sempre più vasta (o un'abilità tecnica sempre più raffinata) su un campo sempre più limitato. La conoscenza è un fatto sociale che, se anche può nascere sporadicamente in una singola fabbrica, non vi rimane di certo circoscritta come succedeva nella bottega del mastro artigiano, che tramandava i segreti del mestiere solo al figlio o al garzone.

È evidente che con diversi "specialisti" in un dato campo si ottiene un perfetta omologazione tra di loro e quindi una perfetta intercambiabilità degli addetti alla produzione. Nello stesso tempo, si viene a verificare una rigida divisione dei ruoli legati alle fasi del processo produttivo. Se la divisone tecnica del lavoro è uno degli elementi portanti del "dispotismo di fabbrica" (che ha solo cambiato volto rispetto a quello descritto da Engels ma non è meno violento), essa è anche un limite del capitalismo in quanto tale. Sviluppatasi al massimo grado la divisione tecnica per asservire l'operaio al piano di produzione, essa unisce in un nesso inestricabile i diversi lavoratori industriali dispersi nella società ed in concorrenza tra loro, facendone parti di un unico meccanismo produttivo. Se, come abbiamo visto, all'interno di un sistema di fabbrica sotto una stessa proprietà, ogni operaio parziale non produce alcuna merce, ciò che è venduto non è il prodotto del suo lavoro specifico ma quello che nasce dal lavoro dell'operaio globale, perciò il valore si materializza solo quando questo prodotto esce dalla fabbrica e si presenta sul mercato.

Perciò, mentre nella divisione sociale del lavoro abbiamo nient'altro che una manifestazione dell'anarchia capitalistica, nella divisione tecnica moderna abbiamo sì il dispotismo, ma anche l'autorità, il piano e la potenzialità di negazione del capitalismo. Marx fa notare come questo risultato dell'attuale modo di produzione si collochi fra la potenzialità della società futura (senza divisione sociale del lavoro) e il comunismo primitivo di certe comunità indiane all'epoca ancora esistenti (che non conoscevano divisione del lavoro tout court) su cui si diffonde non a caso nello stesso paragrafo (Il Capitale, libro I, cap. XII).

Un'immagine molto chiara dell'evoluzione dei criteri con cui si affronta in genere l'argomento del mestiere, e quindi quello della divisione sociale o tecnica del lavoro è data dalla storia del sindacalismo: all'inizio le leghe di mestiere tendevano ancora a raggruppare fabbri con fabbri, carpentieri con carpentieri ecc. indipendentemente dai luoghi in cui lavoravano; oggi un falegname e un meccanico che lavorino in una fabbrica chimica hanno il contratto dei chimici. Allo stesso modo essi, come operai parziali, contribuiscono al prodotto finito in quanto cellule differenziate dell'operaio globale chimico pur non avendo individualmente nulla a che fare con distillatori, provette e molecole. I due operai continuano ad essere falegname e meccanico, ma il loro mestiere individuale non conta più nulla di fronte alla più importante divisione sociale esterna, il capitalismo l'ha già reso indifferente.

Mentre alla divisione sociale – a parte la grande divisione in classi – corrisponde un frazionamento degli operai in categorie e sub-categorie concorrenti fra loro, la divisione tecnica presuppone al contrario centralizzazione, aderenza aprioristica ad un preciso piano di produzione, costituzione di un corpo organico che si muove per uno scopo. Oggi il piano è quello del capitalista, ed è finalizzato ad estrarre la maggior quantità possibile di plusvalore: domani, nella società senza classi, sarà il piano scaturito dal cervello sociale per pianificare la produzione-distribuzione adatta a soddisfare i bisogni della specie umana. Marx a questo proposito sottolinea la particolare importanza dell'argomento: "Nonostante le numerose analogie e i nessi fra la divisione del lavoro all'interno della società e quella entro un'officina, esse sono non solo differenti per grado, ma anche per natura".

Infatti abbiamo visto che la divisione tecnica risponde a uno scopo e agisce quindi a priori, mentre la divisione sociale opera solo a posteriori nell'anarchia del mercato e della concorrenza, dove la corsa non è verso un fine ma ai ripari, al rattoppo, al rimedio. Là vige il noto bellum omnium contra omnes di Hobbes, citato da Darwin per spiegare la legge fondamentale che regola la dinamica del mondo animale: l'esistenza bestiale è vissuta grazie all'istinto di conservazione e sottomessa alla necessità di sopravvivenza, esattamente come avviene nella società capitalistica. Fino a che continueranno ad esserci mercato, concorrenza e classi sociali – cioè capitalismo – anche la specie umana non riuscirà a sollevarsi realmente al di sopra della condizione animale.

Novità o invarianti?

Una ventina d'anni fa, sull'onda di una delle ricorrenti ristrutturazioni del sistema produttivo – questa volta partita dal Giappone anche se in base a vecchi modelli americani – in campo "marxista" e sindacale vi fu un fremito di novità, come se si fosse di fronte a una di quelle svolte epocali così care al mondo della sinistra, sempre previste e mai avvenute, almeno all'interno del capitalismo sviluppato. Si incominciò a parlare di crisi del keynesismo, di post-fordismo, di de-industrializzazione, di post-modernismo, ecc. Persino sindacalisti meno incastrati nella logica corporativa incominciarono a innamorarsi della "qualità totale" e, post-gramscianamente, a straparlare di co-determinazione, preferendo tradurre alla lettera la parola tedesca Mitbestimmung che vuol dire semplicemente co-gestione o, nel modo più reazionario, partecipazione.

Con i nuovi sistemi di produzione capitalistici la borghesia millantava di aver raggiunto nuovi orizzonti per i lavoratori. Essi non sarebbero più stati semplici oggetti, accessori della macchina in operazioni ripetitive e sempre uguali ma sarebbero invece diventati i nuovi soggetti della produzione. Qualificati e in continua formazione culturale e tecnica, avrebbero beneficiato di un bagaglio di conoscenze e responsabilità atto a coinvolgerli e farli partecipare attivamente al bene comune dell'economia aziendale. Roba vecchia che circolava già ai tempi di Tasca e di Gramsci e che ora si presentava in una camaleontica versione tra il naїf e il corporativo fascista, ma che nella sostanza era sempre lo stesso triviale prodotto dell'ideologia borghese. I lavoratori, dal canto loro, non avevano visto aprirsi paradisi in terra, avevano solo provato il solito aumento dei carichi di lavoro mentre la produttività andava alle stelle.

Siccome procediamo per invarianti e non inventiamo nulla, ribadiamo che la svolta, quella sì rivoluzionaria, che caratterizza il capitalismo non è il passaggio dal taylorismo alla qualità totale o post-fordismo o post-industrialismo, come molti credevano e credono, ma dalla manifattura (operai-artigiani e macchine utensili) alla grande industria (operai parziali e sistema di macchine). Di lì in poi non è successo più nulla di significativo per quanto riguarda i rapporti fra l'operaio e il sistema capitalistico. Non esiste discontinuità tra sistema taylorista (o fordista) e moderni metodi di produzione. Esiste invece una dinamica continua che trasforma gli strumenti tecnici e organizzativi semplicemente proiettandoli ad una scala più estesa di quella precedente. In altri articoli abbiamo fatto l'esempio della catena di montaggio: essa non muore affatto, semplicemente diventa così estesa che gli immediatisti non la vedono più; le fasi di montaggio sono le singole fabbriche, mentre la "catena" è rappresentata dalle ferrovie, dalle rotte marittime e aeree, dalle autostrade che le collegano.

Il famigerato metodo outsourcing (approvvigionamento di parti e semilavorati all'esterno della fabbrica) che contribuirebbe a deindustrializzare interi paesi occidentali, non è altro che vecchio insourcing (produzione tutta interna) per settori vastissimi, se solo si fosse capaci di vedere più in grande. La rete produttiva tende a diventare orizzontale per quanto riguarda le relazioni tra fabbriche e la specializzazione nei prodotti (soprattutto nei semilavorati), tende a superare strozzature organizzative mettendo in parallelo le lavorazioni. Ma ogni produzione pianificata non può che essere sequenziale, quindi gerarchica, e non può che riprodurre in grande la fabbrica fordista verticale (a parte il fatto che occorre precisare – contro chi trasforma la dinamica reale in concetti immanenti – che proprio Ford introdusse su larga scala l'impiego di materiale costruito all'esterno su ordinazione e su disegno dei progettisti interni, così come la verticalissima Fiat di un tempo era circondata da un gigantesco tessuto industriale indotto che la forniva). È una balla gigantesca la favola secondo cui, con la moderna produzione, si siano diversificati i prodotti per venire incontro al sacro cliente individualista: costui è sempre più coglionato con merci che gli passano come personalizzate ma che in realtà sono costruite assemblando moduli ultra-standardizzati e prodotti in quantità enormi da pochi fabbricanti per industrie di montaggio. E, in certi casi, queste ultime si sono universalizzate, possono cioè "fabbricare" indifferentemente prodotti finali diversi, su commissione di fabbriche "virtuali", cioè senza stabilimenti.

Muore il mestiere, si sviluppa la forza-lavoro universale

Taylorismo-fordismo, dunque, non significa banalmente catena di montaggio, cronometro e produzione di massa (che starebbe in opposizione alla produzione snella del toyotismo, così chiamato per via della fabbrica d'automobili che l'applicò per prima). All'interno del ciclo industriale moderno le merci che contano (anche quelle di lusso) si fabbricano solo con i metodi della produzione di massa, è un assioma. Il metodo di Taylor ha significato innanzitutto l'affermarsi di un'organizzazione del lavoro che lo stesso ideatore chiamò "scientifica" contro i residui del mestiere, cioè della divisione sociale del lavoro che entrava ancora in fabbrica. Risultato del macchinismo, conquista rivoluzionaria del capitalismo che ha distrutto la produzione parcellizzata artigiana sancendo il passaggio dalla sottomissione formale alla sottomissione reale del lavoro al capitale (passaggio, cioè, al preponderante drenaggio di plusvalore relativo), il taylorismo non è altro che il culmine obbligato cui doveva condurre l'affermarsi del moderno sistema industriale, fatto rivoluzionario, dato che è l'industria, spogliata dal carattere capitalistico, la "vera natura dell'uomo" (Marx).

Con l'introduzione del metodo "scientifico" le fabbriche della fine '800, tecnicamente moderne ma ancora permeate della passata divisione del lavoro, persero per sempre ogni contenuto artigiano sull'intero arco del processo lavorativo. La vecchia figura dell'operaio-artigiano, che sapeva fare di tutto, fu sostituita da una forza-lavoro semplice, generica, ultra parcellizzata per il cui addestramento bastavano pochi minuti. Ma sarebbero bastati pochi minuti anche per fare dello stesso operaio un altro operaio con altre mansioni e tutto ciò ripetuto decine di volte lungo una vita lavorativa. Nacque l'operaio parziale, disprezzato dai vecchi operai artigiani, specializzato in singole fasi del processo produttivo, addetto a una macchina che non lo serve più come puro strumento di lavoro, ma che lo asservisce come se fosse egli stesso uno strumento. Era però un operaio intercambiabile, universale, in grado di riassumere in sé, nel tempo, anche quella nuova figura che ora giganteggiava, l'operaio globale, la comunità sociale che rendeva possibile una massa di produzione mai vista e che integrava scienza, abilità, organizzazione e quindi una enorme capacità eversiva potenziale dell'ordinamento esistente.

È vero che il sistema di macchine si emancipò dalla condizione di mero strumento dell'attività lavorativa umana e divenne il soggetto che utilizza lo strumento-operaio; è vero inoltre che per estrarre plusvalore dagli operai l'immane dotazione di lavoro-morto-capitale impose una condizione estraniata alla produzione sociale; è vero infine che così il lavoro morto assunse dominio totale sul lavoro vivo. Ma la conoscenza del processo produttivo fu sottratta al cervello individuale del maestro artigiano per diventare un prodotto del cervello sociale, distribuita nelle diverse cellule parziali dell'operaio complessivo, anche se oggi è al servizio del capitalista per la produzione di plusvalore. Ora la trasmissione della conoscenza non avveniva più da padre in figlio e da mastro artigiano a garzone ma dall'apparato della conoscenza sociale direttamente a non importa quale numero di operai da addestrare. E tale conoscenza non poteva più morire col suo portatore ma viveva di vita propria, e si evolveva in sintonia col progredire della produzione sociale, della scienza, del metodo, dell'organizzazione, ecc. che questa comportava.

Nel modo di produzione capitalistico, in ogni sua epoca, il fondamento dell'accumulazione è l'aumento della parte di lavoro non pagato rispetto a quella che serve all'operaio per riprodursi. A parità di durata della giornata lavorativa, o anche in caso di sua diminuzione, il capitalismo tende sempre a divorare avidamente lavoro non pagato. L'organizzazione scientifica del lavoro e il massiccio utilizzo di macchine e attrezzature che permettono di eliminare forza-lavoro dal processo produttivo, fa sì che il Capitale sopravviva facendo a meno di un numero crescente di proletari. I quali, relegati solo in minima parte nell'esercito industriale di riserva e quasi tutti nella sovrappopolazione relativa, non vengono eliminati, sopravvivono con ripartizioni sociali del valore senza produrne (o partecipano alla produzione di plusvalore mascherati da liberi prestatori d'opera, Marx faceva l'esempio del lavoro a domicilio, molto diffuso alla sua epoca). In ogni caso dimostrano che, vivendo della ricchezza ripartita in centinaia di milioni, la società intera potrebbe ormai fare a meno del Capitale.

Il passaggio dalla manifattura al macchinismo industriale introduce di per sé le condizioni di una dinamica micidiale per il capitalismo. Si può discutere sulla sua durata, ma non sulla sua fondatezza, cioè sulla sua rispondenza a leggi. Marx dimostra che la massa totale del plusvalore prodotto dipende dal numero degli operai occupati e solo in subordine dal loro saggio di sfruttamento. Perciò da 10 operai, anche se essi per assurdo potessero lavorare 24 ore su 24, non si può trarre tanto plusvalore quanto se ne trae da 100 che lavorassero anche solo 6 ore (240 ore/plusvalore contro 600). Con un modello formale che pubblicammo una decina di anni fa dimostrammo che, siccome la tendenza del capitalismo è quella di estendersi e di proletarizzare sempre più persone ma anche di impiegare sempre meno operai e sempre più macchine, il risultato storico è che la massa del plusvalore prodotto in rapporto alla popolazione segue l'andamento di una curva che in un suo punto raggiunge un massimo storico per poi flettere.

Il mestiere previsto dalla modernissima divisione sociale del lavoro per milioni e milioni di persone, soprattutto per le giovani generazioni a venire, non è neppure il dis-occupato bensì il mai-occupato. E il processo è assolutamente irreversibile.

La "nuova" organizzazione del lavoro non affronta affatto questi problemi ma li aggrava. Essa, in un sistema profondamente integrato macchine-uomini, dove predomina un'altissima organiche del capitale, flessibilità totale del processo produttivo e dell'uso della forza-lavoro, più un generalizzato abbassamento del monte salari per via della globalizzazione dei mercati che mette in concorrenza operai americani e cinesi, tedeschi e brasiliani ecc., non può che prendere atto di una situazione impossibile da riformare e cercare di mettere toppe, che si dimostrano tra l'altro sempre meno efficaci.

In una situazione del genere la divisione sociale del lavoro viene mascherata dalla borghesia con la diffusione di un marcato collaborazionismo, per cui la classe operaia dovrebbe avere un "atteggiamento di responsabilità" nei confronti del vantaggio comune tra operaio e capitalista per il bene dell'azienda e dell'economia. Perciò, di fronte al formarsi dell'asse interclassista abbiamo all'interno della classe il trionfo della concorrenza, dell'individualismo, del carrierismo e dell'indifferenza verso i problemi sociali.

Ricomposizione tecnica delle mansioni e qualità totale.

Il tipo di divisione tecnica del lavoro che fu impropriamente chiamato taylorismo divenne obsoleto all'interno del sistema produttivo industriale d'Occidente all'inizio degli anni '60, vent'anni prima, cioè, che si iniziasse a parlare di produzione snella e qualità totale fuori dal Giappone. Si iniziò col discutere su una crisi della "linea di montaggio", poi venne una mai ben definita "ricomposizione delle mansioni", infine, spesso navigando a vista, si passò ad esperimenti pratici. La linea di montaggio in sé, cioè la sequenza gerarchica delle operazioni che portano al prodotto finito, non morì affatto ed è viva e vegeta tuttora, mentre nei maggiori stabilimenti si estinse effettivamente la catena di montaggio tradizionale, sostituita quasi ovunque da gruppi più flessibili all'interno dei quali la parcellizzazione delle operazioni era sostituita da un nuovo tipo di cooperazione fra operai, le cui operazioni non avvenivano più in sequenza, una dopo l'altra, ma in parallelo, contemporaneamente.

Nelle fabbriche in cui la parcellizzazione delle operazioni era spinta al massimo, e quindi la divisione tecnica del lavoro era notevole, nel corso di anni e anni di lavoro monotono si verificavano casi di nevrosi, spesso al limite del ricovero nelle strutture psichiatriche. La scarsa attenzione all'ergonomia del posto di lavoro e la ripetitività dei movimenti provocava tensioni nel fisico, dolori, danni fisiologici permanenti, tanto che in certi periodi l'assenteismo per malattia toccava il 25% della forza-lavoro. Si disse che la linea di montaggio era "alienante" e si indirizzarono proteste e scioperi contro la "ristrutturazione". Per noi l'alienazione del lavoro era – è – ben altra cosa, poiché la sua essenza risiede nella contraddizione fra produzione sociale e appropriazione privata; contraddizione che nessuna lotta con simili obiettivi ha il potere di scalfire.

La ricomposizione delle mansioni dunque non fu altro che un espediente per mitigare un'alienazione psicologica che portava scompensi organizzativi e soprattutto lotta sindacale. Fu invece approfondita la vera alienazione sociale, dato che la nuova cooperazione fra operai parziali non era certo un ritorno a quella degli operai-artigiani ricordati da Marx, riuniti sotto lo stesso tetto e unificati dal quel complesso unico di ordini, di approvvigionamento, di macchine e di utilizzo dell'energia che fu la manifattura ai suoi inizi.

Non vi fu naturalmente una precisa data di nascita delle teorie né delle pragmatiche applicazioni che via via si affacciarono alle cronache, ma piuttosto un lento adeguamento del processo produttivo alle nuove tecnologie, ai nuovi prodotti, ai nuovi mercati e soprattutto all'aumento generale della massa di prodotti richiesti durante il boom economico del dopoguerra. L'industria, semplicemente, non poteva procedere a un adeguato aumento del numero dei salariati, e doveva, secondo le leggi scoperte da Marx, adeguare le forze produttive attraverso una variata composizione organica del capitale e quindi attraverso un "risparmio" di forza-lavoro. La ristrutturazione dell'apparato produttivo è una costante nella storia del capitalismo e questa particolare fase richiese circa un decennio. Tra l'altro in Europa vide rinascere come reazione l'operaismo e l'immediatismo anarco-sindacalista, che furono alla base del successivo connubio interclassista con il movimento studentesco sfociato nel Sessantotto.

Un altro decennio occorse perché la ristrutturazione perenne entrasse nella fase della produzione snella e della qualità totale. Diversamente da quanti pensano che questi modelli produttivi siano nati in Giappone dopo la guerra, in realtà essi ebbero origine negli Stati Uniti molto prima della guerra e furono perfezionati nell'arco della sua durata. Nell'epoca eroica della crescita tumultuosa della produzione di massa, l'enorme aumento del numero delle merci sfornate dalle catene di montaggio produceva, per sua natura e per pura legge statistica, un aumento più che proporzionale dei difetti di fabbricazione. Non si poteva fermare la catena, dato che si sarebbero fermati tutti gli operai che vi lavoravano: perciò si erano ampliati i controlli e si erano istituiti gruppi di riparazione dei difetti all'uscita della catena. Quando il numero dei controllori e dei riparatori arrivò, in casi non isolati, a superare il numero degli operai produttivi, va da sé che il Capitale dovette correre ai ripari. Nel 1920, alla Western Electric, un matematico e un manager iniziarono perciò ad affrontare il problema, separando la funzione della qualità dalla produzione e affidandola direttamente ai progettisti e ai membri della direzione tecnico-organizzativa. Inoltre introdussero per la prima volta l'indagine statistica dettagliata come strumento di conoscenza dei problemi di fabbricazione. Nel 1938 venne applicata per la prima volta l'indagine statistica abbinata al metodo del campionamento presso l'Ufficio Nazionale del Censimento americano. Come si vede tutto resta nel campo del semplice sviluppo del cosiddetto taylorismo, cioè dell'indagine sui fenomeni della produzione, della loro formalizzazione e della ricerca di una soluzione ottimale, il tutto affidato a una separazione netta fra l'esecutore e la direzione tecnica.

Durante la guerra, l'ingigantirsi ulteriore della produzione e la tensione prodotta dal clima bellico portarono ad un altro importante passo avanti: i metodi del taylorismo vennero applicati nel senso di una trasformazione organizzativa finalizzata alla partecipazione attiva di tutti i soggetti per conseguire uno scopo comune e, dal punto di vista organizzativo sociale, grandioso: vincere la guerra. Il compito di individuare, evitare e soprattutto prevenire i difetti (problema assai più complesso di quanto non appaia a prima vista) passava all'operaio parziale.

A questo punto si apriva un problema non indifferente: come conciliare il nuovo compito dell'operaio parziale con quello che era stato il compito di una direzione tecnica che, al contrario, era un elemento coordinatore del processo produttivo globale? In realtà il principio di organizzazione scientifica del lavoro non era intaccato, il compito che Taylor aveva affidato alla direzione tecnica rimaneva e anzi assumeva nuovo peso specifico nel processo globale. Veniva invece dato un potente colpo di piccone alla separazione dei compiti secondo gerarchia sociale, cioè agli ultimi residui di divisione sociale del lavoro persistenti dentro la fabbrica: la forza produttiva sociale continuava la sua corsa verso la rottura delle catene che la imbrigliavano sempre più. Sappiamo dagli interrogatori di Speer, ministro dell'industria tedesca negli anni della guerra, che lo stesso era avvenuto in Germania, dove i massicci bombardamenti alleati non fermarono per un minuto il suo efficiente apparato produttivo fino al 1945. Così in Giappone, dove gli invasori americani trovarono un apparato produttivo intatto su cui, alla fine del conflitto, i responsabili della qualità statunitensi chiamati per collaborare alla ricostruzione, applicarono i propri metodi. I quali furono a loro volta copiati dall'industria giapponese ricostruita e diedero origine al mitico Total Quality Control, di cui oggi non parla ormai nessuno (e non solo perché non è più una "novità", come vedremo).

Solo a partire dal 1980 vi fu un'influenza in senso inverso. Nel frattempo, sia negli Stati Uniti che in Europa si fecero quegli esperimenti, già ricordati, di ricomposizione tecnica delle mansioni (Martin Marietta, ITT, Olivetti, ecc.). Detto con il nostro linguaggio, si tentò di riformare la vecchia divisione tecnica del lavoro. L'operazione consistette nel responsabilizzare il singolo operaio o gruppi di operai nella qualità della fabbricazione e del montaggio, in modo da eliminare i difetti all'origine e di conseguenza eliminare controllo e riparazione. Si trattava, come poi scrissero (utilizzando tra l'altro i nostri termini) gli autori dell'ultra-celebre La macchina che ha cambiato il mondo, di eliminare dal processo produttivo "tutto ciò che non producesse direttamente plusvalore".

L'essenza delle trasformazioni nel processo produttivo

Fosse davvero tutto qui rimarremmo nel campo della normale ristrutturazione industriale come controtendenza alla caduta del saggio di profitto e non varrebbe la pena di aggiungere questo articolo rispetto a quanto è già stato scritto da Marx. Ma il fatto che nel Capitale non sia descritta tanto l'industria dell'800 quanto il suo sviluppo futuro, ci deve mettere in guardia contro ogni descrizione statica degli avvenimenti. Il divenire dell'uomo in quanto tale, cioè uomo-industria, esprimente la sua vera "natura antropologica", presenta un continuo conflitto fra l'espansione della forza produttiva sociale raggiunta e il tipo di società che a un certo punto si dimostra freno e catena per un ulteriore sviluppo. Se è così, allora le metamorfosi del processo produttivo lungo l'arco storico, hanno un'importanza enorme. Maggiore di quanto traspaia dalla semplice osservazione di un breve periodo in cui gli uomini sono dediti a razionalizzare una volta di più la produzione di merci. Senza questa visione globale della moderna produzione salta ogni concezione dinamica dell'intero percorso umano, ogni comprensione di che cosa sia veramente il capitalismo, soprattutto salta la valutazione del momento storico in cui stiamo vivendo, che fece comprendere alla nostra corrente l'urgente necessità di riprendere il discorso di Lenin sulla natura dell'imperialismo. Oggi più che mai, nel momento in cui questo giunge alla presente fase di (tentata) pax americana.

Gli americani inventarono dunque i nuovi metodi produttivi a partire dal 1920, ma non li applicarono se non parzialmente. Come abbiamo visto, quando negli anni '80 riscoprirono la qualità totale e la produzione snella si accorsero che i giapponesi, avevano fatto propri da trent'anni i metodi consigliati e anzi li avevano perfezionati. All'epoca divenne celebre un aneddoto, rigorosamente autentico: "Quante settimane di scorte avete?", chiese un ingegnere americano in visita alla Toyota. Il tecnico giapponese che l'accompagnava guardò perplesso l'interprete: "Minuti, voleva dire, vero?". A monte e a valle di questo dialogo stanno determinazioni gigantesche, cause ed effetti di portata rivoluzionaria. Tecnici, manager ed esperti di organizzazione occidentali iniziarono un pellegrinaggio verso il Giappone ricavandone molti insegnamenti pratici ma quasi nulla dal punto di vista teorico. Tutto era già stato inventato e persino applicato, seppure parzialmente, negli Stati Uniti. Dopo vent'anni, cioè oggi, le fabbriche occidentali e quelle giapponesi si somigliano molto, il Giappone non è più l'esempio miracoloso né il concorrente che fa paura e una crisi senza ritorno blocca da tre anni (dieci per il Giappone) l'economia mondiale sulla non-crescita, minacciando di diventare recessione dura. Delle ristrutturazioni, compiute da tempo, non parla più nessuno. Che cosa è successo?

Il toyotismo non era riproducibile integralmente altrove, e del resto non poteva sopravvivere neppure in Giappone. Esso era un ibrido, per noi piuttosto raccapricciante, fra l'organizzazione scientifica del lavoro di stampo tayloristico e caratteristiche antiche sopravviventi nella società nipponica. Se gli industriali americani non potevano neppure sognarsi di avere una classe operaia integrata a vita in un complesso-fabbrica dove la cooperazione fra operai parziali diventava davvero una totale collaborazione di classe, dal canto loro gli industriali giapponesi non potevano illudersi che il loro sistema resistesse anche solo per alcuni aspetti di fronte all'avanzata globalizzatrice del Capitale. Quarant'anni sono tanti, è vero, ma esso aveva già incominciato a scricchiolare in Corea, che l'aveva importato, ma dove la società era meno chiusa al resto del mondo, e quindi più permeabile.

Normalmente il capitalismo non utilizza vecchie forme sociali, preferisce spazzarle via. Quando le utilizzò, come fece con lo schiavismo in America, lo fece in condizioni molto particolari, più per l'arretratezza della stessa classe capitalistica che per razionalità storica: gli schiavi "rendevano" molto meno dei proletari e la guerra civile fu inevitabile anche se i nordisti – schiavisti quanto i loro nemici – non la condussero certo per nobili scopi. Ma in Giappone vi fu l'eccezionale incontro fra il modo di produzione altamente sociale e razionale d'Occidente, già pronto per una società non alienata, e la persistenza di forme comunitarie e gerarchiche antiche, in grado di fornire non solo la cooperazione fra operai parziali, ma di fonderli mostruosamente in un sistema partecipativo, come se non si fossero ancora affermate le moderne classi antagoniste, o, addirittura come se esse non vi fossero già più.

L'abilità o l'istinto del leggendario ingegnere della Toyota Taiichi Ohno fu di capire che, nel Giappone del 1946, era ancora possibile, sfruttando condizioni sociali irripetibili, dar luogo a una comunità-fabbrica per spingere al massimo l'accumulazione. Dopo qualche anno, passato il periodo delicato di tutte le fasi di transizione, non ci sarebbe più riuscito neppure il padreterno. Così invece fu plasmata una parte di storia della produzione, che, se da una parte era basata sulle reminiscenze di una forma pre-capitilistica, dall'altra rappresentava un saggio, sia pur in nuce, della potenza di una nuova forma sociale. Si trattava perciò di un ibrido che non poteva durare. E infatti non durò.

In Occidente quella fase di transizione, che aveva visto le fabbriche-falansterio di Owen a New Lanark (Inghilterra) e Harmony (USA), con tutti gli esperimenti industrial-sociali che vennero in seguito, era già passata da più di un secolo. Tra l'altro molti di quegli esperimenti avevano avuto caratteri più moderni perché già sorti non solo sulla spinta più o meno utopistica di alcuni "capitalisti sociali" ma anche in critica al capitalismo.

Il toyotismo dimostrò assai presto che, oltre una certa scala della produzione, esistevano limiti insuperabili di razionalizzazione e di applicazione di criteri scientifici al processo produttivo. Oltre di essi nulla più funziona se gli operai non sono partecipi e motivati. Il vecchio dispotismo di fabbrica con una gerarchia di comando piramidale si era rivelato già inefficiente ai tempi di Taylor ed era stato sostituito con il frazionamento delle responsabilità secondo criteri esclusivamente tecnici che avevano sostituito la scala del potere interno legato al "padrone". Ora subentrava un sistema che avrebbe dovuto (il condizionale è d'obbligo per ragioni di classe) funzionare come un corpo organico, cioè con un programma – diciamo – genetico, in grado di essere appreso da capitalisti, direttori e operai, e di essere alla base di un grande sistema a settori che non dipendono da un vertice ma che si auto-organizzano.

In mezzo all'enorme quantità di spazzatura "tecnica" prodotta sull'argomento, vi sono rari esempi di comprensione del problema da parte di alcuni autori che, nel tentativo di conciliare l'esigenza prorompente di funzionamento organico da parte delle forze produttive con la feroce disorganicità del modo di produzione capitalistico, per le loro analisi traggono spunto dai sistemi complessi, dalla termodinamica, dalla teoria dell'informazione e dagli organismi viventi. Ma la borghesia, come il modo di produzione che la esprime, non è compatibile con i processi organici, per i quali né il tempo né i valori d'uso sono monetizzabili. Quindi non potrà mai superare lo stadio del tentativo e non succederà mai che noi si possa togliere quel condizionale. Comunque, dal punto di vista della divisione tecnica e sociale del lavoro, il capitalismo ha già dato dimostrazioni che vanno ben più in là della ricomposizione delle mansioni, della qualità totale e della produzione snella, insomma del toyotismo, come vedremo.

L'impresa disperata di umanizzare il capitalismo

Non staremo a riprodurre ora le cifre che dimostrano l'impoverimento relativo crescente del proletariato, al quale va una quota sempre più piccola del valore complessivo che egli solo produce. Non riprenderemo neppure il discorso sulla proletarizzazione crescente della popolazione mondiale, compresa quella degli Stati Uniti, che genera sacche di povertà assoluta, non solo relativa. Quel che qui ci interessa è che l'umanità sta vivendo in uno dei sistemi sociali meno umani che siano esistiti nella storia, mentre il grado di sviluppo raggiunto dalle forze produttive permetterebbe ormai di vivere in una società completamente diversa. Per questo ogni tentativo di far durare il capitalismo è da trattare come opera di irriducibili avversari.

La crisi cosiddetta petrolifera o energetica del 1974-75 fu in realtà una crisi dell'assetto generale capitalistico. In un mondo che già non riusciva a disciplinare i flussi internazionali di valore, tutti i maggiori paesi industriali avevano visto sincronizzarsi le rispettive curve del saggio di profitto (il quale è facilmente ricavabile dagli incrementi percentuali della produzione industriale anno per anno). Quel che era peggio è che la sincronizzazione avveniva su indici bassi, mentre la curva storica dell'accumulazione mondiale passava dalla crescita geometrica all'andamento asintotico, cioè da incrementi costanti o addirittura crescenti a incrementi calanti. Era inevitabile che di fronte a questo flesso (cambiamento di tendenza) nella curva storica dell'accumulazione l'intero sistema mondiale premesse alla ricerca di una soluzione in controtendenza.

Con l'introduzione dei metodi prima descritti il mondo della produzione ha cercato dal suo interno di scongiurare l'enorme sciupìo sociale esistente, non tenendo conto che dal punto di vista capitalistico generale la fabbrica non è un'isola razionale in un mondo anarchico e irrazionale, ma solo un fattore della produzione di plusvalore. Al capitalismo non importa un bel nulla della tecnologia, dell'organizzazione scientifica del lavoro, della qualità e della ricomposizione delle mansioni, se non come vie per la ricerca del massimo plusvalore. Mentre per noi sono le basi per la società successiva, e per questo ci interessano. Alla Toyota il ciclo lavorativo dell'operaio era calcolato in quarant'anni e la massa operaia era trattata a bilancio come la massa di impianti, ammortizzabile al prezzo medio raggiunto dalla forza-lavoro dopo una ventina d'anni, dato che per tenerla legata alla comunità-azienda il salario era fortemente progressivo in relazione all'anzianità. Una volta la forza-lavoro era energia usa-e-getta che si comprava sul mercato; ma se il sistema si fa complesso e l'insieme degli operai rappresenta una massa di conoscenza utile al profitto, ecco che si incomincia a concepire quel che viene chiamato "investimento in risorse umane".

Ora non basta più. Sennonché dopo l'assestamento dei risultati raggiunti è difficile immaginare una nuova fase significativa di ristrutturazione. Cosa si potrà escogitare dopo tutto ciò? La qualità è un'arma a doppio taglio: l'eliminazione degli sprechi in linea di produzione comporta un miglior progetto, un raffinamento delle lavorazioni, un montaggio accurato, insomma un prodotto di qualità migliore, quindi più duraturo. Il mercato quindi dovrà essere piegato ai nuovi bisogni indotti, ma è un circolo infernale a cui molti si stanno sottraendo. Perciò poco per volta si abbandonano le velleità riformistiche implicite nelle teorizzazioni dei progettisti e dei manager, tutto diventa di nuovo routine e si passa ad altro. Il sistema nel suo complesso non riesce a raggiungere ciò che si è prefissato, cioè una capacità di auto-organizzazione in ogni suo organo e cellula, e i mostra infine per quello che è sempre stato: un puro apparato produttivo finalizzato all'accumulazione per sé stessa. Nei processi di lavorazione si intravede un caos implicito che prima si voleva dominare e si teorizzano elementi indeterministici per poter sviluppare ulteriori "teorie del superamento". Superamento del taylorismo, del toyotismo, della qualità, di tutto, per tornare alla giungla, che permette l'ineffabile comodità di non progettare, di navigare a vista, di applicare il "mordi e fuggi" del capitalismo selvaggio.

Queste le teorie e parte della pratica. Ma un capitalismo siffatto morirebbe in pochi mesi, con nostra grande soddisfazione. Invece il maledetto sistema non muore affatto. Come le specie animali si adattano darwinianamente alle mutate condizioni ambientali o scompaiono del tutto, il capitalismo ha trovato nuovi metodi, nuove simmetrie per rigenerarsi, e continua a trovarne. Naturalmente, questo non significa la sua sopravvivenza eterna. Riproducendo le proprie condizioni di esistenza il capitalismo deve negare continuamente sé stesso. E molto prima che esploda la potenza della nuova forma sociale, esso ne anticipa alcune caratteristiche.

Il nocciolo del sistema è rimasto quello della produzione secondo il metodo scientifico. All'esterno di questa struttura portante, c'è un ambiente fluido che rappresenta da una parte pura pirateria capitalistica (Enron ecc.), dall'altra realizzazione di forme anticipatrici, esperimenti che la società nuova conduce già in questa. Al momento limitiamoci ad osservare che l'evoluzione del sistema produttivo, quella appena analizzata, ha effettivamente comportato un superamento delle barriere di specializzazione e di categoria. La ricomposizione tecnica delle mansioni compresa la responsabilità – oggi contro natura – nel buon andamento dell'intero processo produttivo, ha portato ad una trasformazione del vecchio operaio parziale, mentre l'operaio globale sembra sempre più a quello tratteggiato da Marx nel VI Capitolo inedito del Capitale. Il nuovo operaio parziale, l'operaio ricomposto, fa parte di un'unità autosufficiente, che produce, controlla e verifica i risultati man mano che si realizzano, mentre l'operaio globale si espande oltre i limiti dello stabilimento perché allo stesso tempo fa parte di un sistema più ampio, la fabbrica reticolare di cui abbiamo già parlato, collegata con tutto il sistema di trasporto e comunicazione.

Ancora una verifica. Le strutture militari attuali possono servire a confermare le caratteristiche del mondo produttivo, dato che il modo di condurre la guerra è sempre stato un tutt'uno col modo di produrre le merci. Gli eserciti sono le strutture più gerarchiche al mondo, con tanto di vertice e base della classica piramide organizzativa. La divisione sociale del lavoro è netta e così la divisione tecnica. Le mansioni continuano ad essere definite dalla specializzazione conseguita. Eppure anche in questa specifica forma organizzativa qualcosa è cambiato. L'esercito attuale degli Stati Uniti è formato da un nucleo professionale controllato dallo Stato, intorno a cui ruota non solo il mondo della produzione classica di armamenti, ma anche un mondo di aziende fornitrici di servizi militari in outsourcing, compresi quelli adatti a svolgere "lavori sporchi", difficili da far rientrare nei compiti delle forze ufficiali. Il nucleo funziona come una fabbrica diffusa e il "soldato ricomposto" non è più il fantaccino-matricola addestrato a compiti elementari in una divisione del lavoro come quella del primo taylorismo; egli fa parte di un gruppo di fuoco altamente affiatato, in grado di affrontare situazioni diverse, capace al limite di agire secondo criteri tratti dalla situazione immediata ed elaborati in base ai dati forniti da sistemi informativi remoti con cui è collegato. Ogni modulo di questo esercito può, nell'apparente isolamento, cioè con il solo collegamento ad una centrale operativa cui invia le informazioni per concentrare le armi del sistema, condurre una guerra parziale come tassello nel gran mosaico visibile e nascosto della guerra globale d'oggi.

Domani

La piaga del culturalismo e dell'ordinovismo

Al sorgere della nostra corrente fummo impegnati in una lotta contro l'opportunismo culturalista; all'apogeo dell'esperienza storica del PCd'I – l'unico partito cui fu permesso dalle circostanze un embrione di centralismo organico – fummo sconfitti da una controrivoluzione che adoperò fra i suoi strumenti una variante peggiorata del culturalismo, cioè l'ordinovismo (tra l'altro rappresentato dagli stessi personaggi). Oggi la concezione culturalista della partecipazione al ciclo produttivo – non della rivoluzione, di quella non si parla più – si sposa benissimo con gli aspetti dell'azione sindacale, che rispetto alla lotta diretta privilegia gli aspetti legislativo-giuridici; domani, durante la fase di transizione alla società nuova e anche dopo il trapasso, quando il nuovo potere si insedierà con lo Stato provvisorio, la rivoluzione – possiamo esserne sicuri – avrà ancora a che fare con queste concezioni infiltratesi nel movimento proletario e con personaggi che faranno il diavolo a quattro per una "rivoluzione culturale". Non si dice forse che "tutto sarà sempre come adesso, se non si cambia la testa degli uomini"?

È ovvio che la rivoluzione è anche un problema di conoscenza e di programma, si tratta di capire dove essi si cristallizzano nei fatti. Persino un Lenin si era lasciato andare a un qualche "educare le masse" di troppo, non sempre pronunciato nella foga della propaganda. Perciò non staremo a sottilizzare sull'uso dei termini. Il problema è invece quel che sta dietro ad essi, perché nascono dalla convinzione che il cambiamento sociale sia un problema di idee e di azione dei singoli e della loro somma, quindi di "cultura", di numero e di maggioranza in una concezione lineare e alquanto puerile della complessità sociale. Ogni rivoluzione è un divenire materiale che trascina, travolge, distrugge, forze materiali. Su tutto ciò fioriscono idee e opinioni, ma esse vengono dopo e non influiscono sull'andamento della storia, della quale sono prodotto e non fattore.

La cultura dominante è quella della classe dominante, e fin qui siamo all'Abc. Ovviamente essa c'entra con la divisione sociale del lavoro, con quella tecnica, con i mestieri, con le specializzazioni e tutto ciò che è argomento di questo articolo. Ma non fu la "cultura" a prendere la Bastiglia, né la borghesia in quanto classe fisica di borghesi: furono i sanculotti analfabeti, i bottegai e i contadini rovinati, i nobili decaduti. Né fu la cultura a introdurre il telaio meccanico, il motore elettrico o il computer per gestire i dati nell'ambito della qualità totale, così come non furono le idee a dar vita alla controrivoluzione fascio-nazi-staliniana (che le rispettive ideologie chiamavano ovviamente rivoluzione). Prima si muove il mondo, l'uomo registra, e solo dopo elabora. Per il proletariato il problema del trapasso rivoluzionario si pone in maniera ancora diversa che per la borghesia. Quest'ultima aveva effettivamente maturato una sua "egemonia" – per dirla alla Gramsci – all'interno della vecchia società: come classe proprietaria aveva in mano i mezzi di produzione, i traffici, la finanza e stava intaccando anche la proprietà terriera. Aveva in mano la società civile (che tra l'altro Gramsci interpretava come sovrastruttura sociale mentre Marx l'identificava con la struttura). Il proletariato, in quanto classe padrona esclusivamente della sua forza-lavoro, non può conquistare un'egemonia graduale all'interno di questa società. Solo la rottura rivoluzionaria che lo porterà al potere, in una vera e propria biforcazione storica, le metterà nelle mani tutta la strumentazione tecnica e sociale di cui avrà bisogno. La grande Rivoluzione d'Ottobre non fu una questione di cultura o di egemonia fu una questione di forza.

È la cultura della classe dominante che ha fregato gli operai della Toyota, quelli della General Motors e quelli della Fiat sulla "partecipazione" ai destini dell'azienda. Tutti sanno com'è andata a finire. E comunque non può esserci una "cultura proletaria" da contrapporre all'ideologia borghese. Quando sarà il proletariato ad essere classe dominante – e lo sarà soltanto nella fase della sua dittatura per aprire le porte alla nuova società – non vi sarà comunque una "cultura proletaria" in contrapposizione alla "ideologia borghese", perché verrà eliminato il terreno materiale in cui affondano le radici della divisione in classi, della divisione sociale e tecnica del lavoro e quindi della cultura specifica di una classe e delle sue sottoclassi.

La partecipazione ad un cambiamento sociale non è un fatto culturale e neppure tecnico, è un fatto politico, ed ha più attinenza con la guerra che con le discussioni, i testi e le letture. L'uomo della società nuova non "parteciperà" a piani di produzione stesi da qualcun "altro", ma vivrà il piano nel senso che, producendo la sua propria vita, ne sarà parte organica.

Holonic Manufacturing System, realtà o fantasia new age?

Come sarà possibile estirpare dall'abitudine mentale degli uomini e dalla loro prassi la divisione sociale del lavoro, il carrierismo, il fatto che ognuno è inquadrato in un mestiere? Se escludiamo di poter "cambiare le teste" semplicemente con una politica "culturale", quali strumenti la società si dovrà dare al fine di realizzare un cambiamento di portata così grande? Come potrà cioè introdurre nella sua struttura cambiamenti materiali così grandi e potenti da influenzare velocemente le idee degli uomini?

Certo il partito, in quanto organo della classe deve avere consapevolezza e controllo sui processi sociali fino a raggiungere la capacità di progettarne alcuni aspetti fondamentali; ma in tutta evidenza i compiti futuri della rivoluzione appaiono così immani di fronte a ciò che ha lasciato la società borghese da far sembrare velleitario qualsiasi progetto sociale a breve termine. In effetti – come stiamo cercando di dimostrare in questa serie di articoli sul programma rivoluzionario immediato – non è così: lo stesso capitalismo sta maturando da tempo al suo interno forze e strutture che permetteranno un domani, di avere già pronta una solida base di partenza per il cambiamento radicale della società. Non occorreranno miracoli, occorrerà solo forza liberatrice e aderenza al programma storico della rivoluzione.

Proviamo a percorrere un tratto di strada all'interno della modernissima organizzazione di fabbrica per capire che fine hanno fatto, già adesso, la divisione sociale e tecnica del lavoro, il mestiere, il carrierismo, ecc., non solo dal punto di vista potenziale ma, in certi casi, anche effettivo. Lo faremo con un esempio, una delle tante teorie dell'organizzazione, dei sistemi e dei metodi di ricerca scientifica, avvertendo una volta di più il lettore che all'interno di questa società il proletario non realizza nulla per sé, non s'impadronisce di alcuna parte della società civile, non conquista alcun gradino sulla via dell'egemonia di classe. Le dinamiche soggiacenti alla maturazione delle condizioni di produzione e riproduzione già adatte alla società futura sono assolutamente indipendenti dalla questione del potere: il più grande ostacolo è la difficoltà di giungere alla formazione del proletariato come classe per sé e quindi allo sviluppo del suo partito politico.

Holonic Manufacturing System non è altro che un nome come tanti altri che alcuni ricercatori hanno dato ai fenomeni della produzione fin qui analizzati e ai quali, a posteriori, hanno tentato di sovrapporre un modello teorico. Quindi non stiamo parlando di un modello astratto, di una proposta o di un progetto dettagliato, ma di un fenomeno esistente del quale alcuni uomini stanno tentando di capire la natura. Il sistema di produzione olonica è il derivato specifico di una teoria generale dei sistemi complessi, applicabile non solo all'industria ma a tutto ciò che è organizzato, compresi i fenomeni viventi. La teoria generale, che non è specificamente legata al mondo della produzione, risale allo scrittore-filosofo Arthur Koestler (noto soprattutto per il romanzo antistalinista Buio a mezzogiorno), che la formulò alla fine degli anni '70. La parola "olone", dal greco, significa "porzione del tutto". Un individuo è un olone in quanto è parte della società con la quale interagisce. Anche un gruppo di individui che sia in relazione con un tutto fatto di gruppi interagenti è un olone.

Nell'ambito di un processo produttivo l'olone rappresenta un'unità autonoma e cooperativa, atta a trasformare, trasportare, immagazzinare o convalidare informazioni od oggetti fisici. Tuttavia, proprio perché unità interagente con un ambiente di unità simili, non può essere isolata. Siccome risponde ad un programma interno (altrimenti non sarebbe in grado di auto-organizzarsi), e a uno esterno (altrimenti non avrebbe scopo ad auto-organizzarsi e mettersi in relazione con altre unità), essa risponde anche a un principio di autorità. Ogni sistema olonico è di conseguenza una "olarchia", ovvero un sistema di unità che cooperano secondo un ordine prefissato per raggiungere un obiettivo comune. La differenza con le "gerarchie" è evidente: non è necessario che l'autorità risieda in un uomo, in un gruppo o in una classe. In un sistema di produzione, l'olarchia integra l'insieme complessivo delle attività del settore industriale, dall'acquisizione degli ordini alla progettazione e alla produzione, fino alla famigerata uscita dalla fabbrica, quando il prodotto diventa merce.

A questo punto dobbiamo inserire un sotto-esempio che ci serve, per contrasto, a verificare per quali altre vie si corrompono le potenti anticipazioni. Lo ricaviamo da un sito Internet dedicato alla scienza non ufficiale, un'ibridazione fra le conoscenze acquisite e condivise con la mistica orientaleggiante new age. Leggiamo: la teoria olonica "rappresenta il primo modello scientifico di coscienza che utilizza un linguaggio e una logica cibernetica-informatica per comprendere e spiegare come la coscienza e l’energia fisica interagiscono tra loro creando il mondo. Il modello permette di spiegare l’evoluzione della coscienza dalla fisica, alla biologia alla condizione umana in modo coerente con la Teoria Sistemica Generale dell'Evoluzione, offrendo nuove prospettive per la comprensione psicosomatica del cervello e della coscienza. Permette di riassumere in un linguaggio moderno sia gli antichi modelli di anima, che i dati di neuropsicologia per creare una visione e un modello olistico di essere umano". I pilastri della nuova conoscenza sarebbero principalmente: l'ipotesi Gaia, il paradigma olografico, la sincronicità, la teoria generale dei sistemi, il vuoto sub-quantistico e il modello cyber-olonico! Non ha importanza capire questo guazzabuglio insensato o sapere cosa sia esattamente tutta questa conoscenza "alternativa", per ora ci basta la conclusione del paragrafo citato: è necessario "considerare la coscienza come parte essenziale della ricerca e della scienza stessa, conducendo un'affascinante opera di riconciliazione tra scienza, natura e spiritualità".

Non è certo questa l'occasione per affrontare il tema della mistica contemporanea in quanto tale, un settore della produzione che si inserisce ai primi posti nella classifica mondiale del fatturato. Ma è necessario perlomeno rivolgerci la domanda: perché una teoria come quella olonica ha avuto solo due sbocchi significativi, quello della produzione industriale e quello del variegato e indistinto mondo della pseudoscienza new age? Perché è stata recepita proprio dall'ambiente che è massima espressione del rovesciamento della prassi, dell'applicazione della volontà come progetto, del realismo esasperato nei confronti della scienza, dell'organizzazione, del profitto, ecc. e, per assoluto contrasto, dall'ambiente dell'evasione dalla realtà, del ritorno alla purezza del mito, della fuga verso mondi fantastici? La domanda va affrontata secondo il metodo che troviamo nell'Ideologia tedesca, da cui la risposta: il primo polo rappresenta il movimento reale che realizza l'abolizione dello stato di cose presente; il secondo è il concetto della vita come evasione dall'insopportabile stato di cose presente.

Dalla fabbrica-comunità alla Gemeinwesen

La parola fabbrica indicava in origine il laboratorio artigiano, che non era quello che intendiamo oggi, ma era già il risultato di una estesa divisione sociale del lavoro che produsse, fin dal XII secolo, un ambiente atto a raggruppare i centri lavorativi e a sviluppare il lavoro salariato. Nel tardo medioevo indicò il complesso necessario a costruire grandi opere pubbliche, come mura, cattedrali, palazzi pubblici. L'accezione moderna risale alla comparsa della manifattura. Ma, a parte il termine, come abbiamo visto, è oggettivamente fabbrica qualsiasi attività umana che raggruppi un certo numero di individui con compiti differenziati miranti ad un unico scopo. È fabbrica, quindi, sia il cantiere della piramide di Cheope, che l'atelier di Fidia, la tessitura in cui lavorano i ciompi e l'immane organismo di cinquecentomila uomini teso a spedire sulla Luna l'inutile bozzolo di umanità capitalistica nel 1969. In tutti i casi siamo di fronte a una comunità, intenzionale o meno, i cui membri sono legati da uno scopo sia individuale che collettivo. Era inevitabile che l'altissima socializzazione capitalistica del lavoro esaltasse il carattere della comunità produttiva. È altrettanto inevitabile che essa evochi già da adesso la comunità di domani.

Dal falansterio di Fourier alle realizzazioni di Owen, dagli studi moderni basati sulle teorie dell'informazione, della complessità o del caos alle fabbriche oloniche, passando dai binomi Taylor-Ford e Ohno-Toyota, la comunità-fabbrica è una realtà che scaturisce dal materiale disporsi di uomini, strumenti e ambiente per uno scopo individuale e collettivo. Adriano Olivetti, influenzato dal super-industriale Ford, ma soprattutto dal semi-utopista Owen e dal fondatore dell'antroposofia Steiner, tentò di realizzare una comunità-fabbrica che andasse oltre gli stabilimenti e si proiettasse sul tessuto urbano e sulla campagna. Consapevole che l'unità integrata di territorio e fabbrica poneva enormi problemi pratici, giunse a patrocinare un movimento che si chiamava, appunto, "Comunità": "Evidenti erano i contrasti fra gli interessi della fabbrica e la proprietà edilizia e terriera… Se io avessi potuto dimostrare che la fabbrica era un bene comune e non un interesse privato, sarebbero stati giustificati trasferimenti di proprietà, piani regolatori, esperimenti sociali audaci di decentramento del lavoro… Occorreva creare un'autorità giusta e umana che sapesse conciliare tutte queste cose… Investita di grandi poteri economici, doveva fare nell'interesse di tutti ciò che io facevo nell'interesse della fabbrica. Non c'era che una soluzione: rendere la fabbrica e l'ambiente circostante economicamente solidali. Nasceva allora l'idea di una Comunità… un'impresa di tipo nuovo al di là di socialismo e capitalismo" (A. Olivetti, 1951). La nostra corrente criticò questa pia illusione proudhoniana mettendo in ridicolo l'accozzaglia di intellettuali raccolta intorno al generoso portafogli dell'ingegnere utopista.

Naturalmente il risultato invariante delle comunità-fabbrica, specie quelle più riuscite, è sempre stato quello di elevare alla massima potenza l'auto-sfruttamento degli operai, ma quale forza ha suggerito tale soluzione "sociale" a centinaia di industriali come Olivetti in duecento anni di storia? Quale forza suggerisce oggi nuovi e più potenti modelli di comunità? Ecco perché c'interessano tanto quegli aspetti che Marx definisce "condizioni materiali della produzione e delle relazioni umane corrispondenti ad una società senza classi nascoste nella presente società così com'è" (Grundrisse, cap. sul denaro). Vi sono quindi aspetti della società presente che non solo si conserveranno nella società futura ma fanno già parte di essa, ne rappresentano un potente prodotto anticipato e, nello stesso tempo, un fattore.

Il moderno operaio parziale, flessibile e universale, racchiude sempre più in sé stesso le funzioni dell'operaio totale. Egli infatti è in grado di svolgere la maggior parte dei ruoli all'interno del processo produttivo, compresi molti che facevano parte non solo della divisione tecnica del lavoro, ma della divisione sociale, come il progetto, l'organizzazione, il controllo del processo. Dato un programma generale di produzione, il gruppo di lavoro composto da operai – che a questo punto sono "parziali" soltanto contingentemente – assume capacità di auto-organizzazione locale, si comporta in piccolo come l'operaio globale di Marx. L'individuo stesso assume questa caratteristica, anche se la può manifestare, per adesso, unicamente nel tempo, cioè svolgendo nella sua vita lavorativa mansioni diverse ma una alla volta.

Spesso, per descrivere il comportamento organico di un sistema complesso, ci riferiamo alle cellule che compongono gli organi e a questi come parti di un organismo. È vero che le cellule di un organo sono intercambiabili, muoiono e si riformano in continuazione; ma quelle di un rene, di un fegato o di un cuore possono essere sostituite solo da altre di rene, fegato e cuore. Perciò l'operaio moderno (olonico, se si vuole), paradossalmente, sarebbe più organico della cellula di un organismo vivente, in quanto in grado di essere davvero intercambiabile, una vera cellula staminale del processo produttivo (la cellula staminale è quella ancora indifferenziata dell'embrione, in grado di differenziarsi a seconda dello sviluppo dei vari organi).

Le aziende modulari che fanno parte di holding flessibilissime, in grado di affrontare senza problemi le tempeste della concorrenza mondiale, devono diversificare rapidamente le loro produzioni o attività locali, utilizzando la stessa struttura e gli stessi operai per produrre di volta in volta merci adatte ad un mercato isterico. Il vantaggio immediato nella guerra di concorrenza fra aziende capitalistiche è che non viene mai intaccata la continuità e la regolarità dei processi lungo la catena della produzione che, dal punto di vista capitalistico, è catena del valore. Lungo tutta la linea produttiva, che si ramifica ben oltre i confini della proprietà che si fa valere sui singoli tratti, è giocoforza che i processi locali debbano essere integrati nel processo globale, perciò scompare una divisione a priori, il confine tra le diverse parti, così come succede all'operaio parziale che deve essere giocoforza non solo partecipe ma olone dell'operaio globale, parte di un tutto, e riprodurne in piccolo, come nei frattali, il programma generale.

Non poteva essere diversamente. Nella fabbrica moderna il vecchio reparto sequenziale che eseguiva operazioni lineari discrete, una dopo l'altra, si è evoluto. La serie di operazioni eseguite in parallelo, che l'olarchia fa confluire nel risultato finale – sia esso la piramide egizia che la capsula americana sulla Luna – rimane come invariante in tutta la storia della produzione. Rimarrà tale nella società futura, che non vagheggerà certo isole di produzione steineriane. Scomparirà la caratteristica tipica della divisione tecnica del lavoro: il dispotismo del piano di produzione aziendale. Scomparsa l'azienda e rimasta l'industria, lo sostituirà il piano di produzione generale, che non potrà essere nuovamente una gerarchia piramidale, questa volta estesa al mondo, ma consisterà in un insieme di istruzioni elementari, come nella struttura del codice genetico di un essere vivente, in grado di essere adoperate nella rete produttiva fino al suo più piccolo nodo (o cellula, o elemento olonico se si preferisce).

L'ideologia borghese isola l'individuo con il suo libero arbitrio, la sua volontà e la sua libertà, ponendolo di fronte ad un'astrazione metafisica della società. Ma l'individuo, specie se uomo produttivo, non è di fronte alla società, ne fa parte. Essa è l'estensione della sua propria vita. Tolta l'alienazione del lavoro, la separazione del suo prodotto dal produttore, rimane l'essere sociale (Gemeinwesen), la società umana in cui è semplicemente assurdo parlare di divisione del lavoro e anche di lavoro come di attività separata dalla vita.

L'evidenza della prova

Questi dati di fatto, che ormai non solo serpeggiano ma grandeggiano nella società capitalistica così com'è, producono effetti visibili a tutti. Nel numero 4 di questa rivista pubblicammo due articoli, uno intitolato Rottura dei limiti d'azienda, l'altro Proletari, schiavi, piccolo-borghesi o… mutanti? riportavamo le evidenti prove del cambiamento. Nel primo erano riportate considerazioni e cifre sul cosiddetto lavoro atipico, nell'altro si descriveva una fabbrica particolare aperta 24 ore su 24, senza orari, senza controlli dispotici sul processo produttivo, nella quale lavoro, riposo, gioco, alimentazione e auto-organizzazione facevano parte del programma produttivo, l'unico al quale quella comunità doveva rispondere. Abbiamo detto lavoro "atipico" e fabbrica "particolare", ma può ancora essere definita con questi termini una realtà produttiva che si sta sviluppando a macchia d'olio e coinvolge già milioni di persone in tutto il mondo?

Il lavoro produttivo, la divisione sociale del lavoro, la divisione tecnica e tutto l'ambiente che gravita intorno alla fabbrica si sta integrando in una combinazione inestricabile. Siamo già in grado, tutti, di individuare strutture ordinate emergenti dal caos capitalistico. E sono già embrioni di qualcos'altro. Molti pensano che si tratti di piccole realtà, eccezioni ecc. anche se il numero di lavoratori è grande. Non è vero. Hanno iniziato alcune grosse realtà produttive a cambiare, quelle piccole sono venute dopo e, queste sì, avendo meno inerzia dovuta ai giganteschi impianti, ecc. si sono adeguate sopravanzando gli iniziatori. La Fiat, per esempio, ha superato la classica divisione tecnica tipica del modello fordista e ha adottato un sistema modulare caratterizzato da una progettazione generale con produzione just in time e con un sistema di controllo centrale degli stabilimenti in tutto il mondo. I reparti sequenziali non esistono più e sono sostituiti da piccole Unità Tecnologiche Elementari che funzionano come elementi paragonabili agli organi di un sistema vivente complesso (cfr. n. 2 di questa rivista, Immaginate una fabbrica…). La sua contraddizione è quella di dover risiedere, nonostante la sua nuova struttura, in ettari ed ettari di vecchi stabilimenti concepiti per un sistema vecchio di almeno due fasi. Proviamo a immaginare l'azione degli ottusi sindacati attuali di fronte ad una prospettiva di smantellamento drastico dei mega-stabilimenti a favore dei nuovi modelli produttivi.

Nelle più moderne industrie operano gruppi di operai "olonici" capaci di svolgere tutti i lavori e preparati per farlo bene. Perciò parlare di "divisione tecnica del lavoro" in una fabbrica non più funzionante secondo una gerarchia verticale diventa sempre più inappropriato. In effetti è in azione un vero e proprio cervello sociale esteso al mondo materiale della produzione. Chi non lo avverte che in modo epidermico, o chi è incredulo, se è disagevole leggersi qualche centinaio di testi sull'argomento, provi a fare su Internet (lo specchio fedele dell'anarchia capitalistica ma anche delle sue potenzialità di rottura rivoluzionaria) una ricerca per parole chiave degli argomenti qui trattati: ci si accorgerà di essere davanti a una gigantesca e diffusa capitolazione ideologica della società borghese di fronte al marxismo, esattamente come previsto dalla nostra corrente.

Nella società di domani la divisione tecnica del lavoro come la conosciamo oggi non ci sarà. Essa non verrà abolita per decreto ma si estinguerà non appena cambieranno le condizioni del potere di classe. Questo perché già oggi è diventata qualcos'altro rispetto al piano-dispotismo di fabbrica. La società futura non farà che togliere complicazioni di classe oggi incrostate su una struttura che essa stessa non sopporta già più.

Tolte le classi ormai superflue, oggi non abbiamo che proletari costretti a vendere la propria forza-lavoro sul mercato mondiale; essi sono separati dalle condizioni della produzione e dai prodotti del loro lavoro; per essi il lavoro non è vita ma un mezzo per procurarsi di che sopravvivere. Se dall'intera giornata di lavoro togliamo il plusvalore, fine ultimo della produzione capitalistica, rimane solo lavoro per sé e per gli altri.

I rapporti di produzione capitalistici presuppongono come scopo dell'attività umana lo scambio in base al valore e l'appropriazione dei prodotti del lavoro da parte di alcuni a spese di altri; ma se togliamo lo scambio in base al valore rimane la produzione-riproduzione della specie umana come soddisfazione dei bisogni di ogni suo membro. Lavoro sociale e tempo di vita coincideranno per il godimento dell'intera società. L'uomo-società affermerà nello stesso tempo la propria umanità e quella dell'altro uomo, perché il lavoro di ognuno soddisferà i bisogni degli altri così come il bisogno soddisfatto esalterà il contributo differenziato di ogni uomo al lavoro sociale.

Rinascimento prossimo venturo?

Nel 1971, con il saggio Il Medioevo prossimo venturo, un ingegnere romano metteva in guardia contro le conseguenze della crescita "disordinata" delle infrastrutture moderne (reti elettriche, telefoniche, ferrovie, strade, ecc.), le quali nascono mal progettate, per nulla integrate fra loro, con criteri casuali di profitto invece che di razionalità, e quindi degradano fino a collassare, spesso per mancanza di revisione e manutenzione. Nel 1986 lo stesso autore sentì il bisogno di passare dalla critica dell'anarchia capitalistica alle proposte per superarla e scrisse Rinascimento prossimo venturo, una specie di progetto per un capitalismo razionale, che per noi è una contraddizione in termini e che gli stessi argomenti esposti confermano tra l'altro impossibile. In quasi metà delle pagine si sostiene la necessità di "progettare la società della conoscenza, che è la vera, unica fonte di ricchezza", in una vera e propria rivoluzione della cultura, dell'apprendimento, dell'informazione e dell'educazione.

Questo autore non è uno dei nostri preferiti, anzi. Soprattutto perché ogni sua proposizione è basata esclusivamente su tecnicismi. Senza un minimo di comprensione verso i risvolti economici, politici e sociali del capitalismo non si capisce, tecnicamente, come si potrebbero prevenire i disastri da lui così ben descritti, o anche solo correggerne gli effetti. Nonostante tutto dobbiamo ammettere che la rivoluzione multidisciplinare che egli propone per il prossimo Rinascimento è di gran lunga preferibile alle sciocchezze metafisiche dei riformisti d'ogni tipo: se non altro proprio perché basata sui presupposti tecnici e scientifici già presenti in questa società, che sarebbero da indirizzare e ordinare. Quali forze lo possano effettivamente fare non dipende certo dai suggerimenti di un tecnico.

Nel caso del riformismo classico abbiamo un fenomeno che ha le stesse radici ideologiche dell'olone-new-age cui accennavamo prima, cioè una sterminata letteratura di proposte per un miglioramento fantapolitico della società, solo descritto con una terminologia parlamentare; nel caso del rinascimento prossimo venturo abbiamo un tecnico borghese che fa il suo mestiere e lo fa cercando di insegnare ad altri che questa società così com'è non può più funzionare. Comprendendo che si deve agire sulla realtà produttiva, si dimostra uno degli infinitesimi elementi di quel "movimento reale che abolisce" ecc. ecc. Tra l'altro in quanto docente di ingegneria dei sistemi e manager industriale, fa un mestiere che non è ormai una semplice specializzazione ma una integrazione di molteplici conoscenze. E per di più fa parte di una scuola internazionale che, studiando i problemi collegati ai sistemi complessi, rappresenta un settore di quel cervello sociale che – se non altro oggettivamente – mette già in dubbio l'utilità di mantenere in vita il capitalismo.

Tra le concezioni derivate da una lettura non troppo attenta di Marx, c'è quella del cosiddetto uomo completo che la società futura dovrebbe realizzare. Ora, se è vero che l'ingegnere di cui sopra è da considerare un uomo più completo dell'operaio parziale fordista, è anche vero che ciò non gli impedisce di sparare fesserie. Se noi lo potremmo utilizzare come contro-esempio dell'idealismo di un Gramsci, non è per una sua presunta completezza, ma è perché fa parte del cervello collettivo di questa società così com'è. Evitando di parlare di "politica" si fa portavoce delle grandi forze che tentano di erompere, mentre Gramsci, Stalin e tanti altri nella loro epoca, pur meno volgarmente "tecnici", si erano invece fatti portavoce di grandi forze conservatrici, contro cui lottammo inutilmente.

L'organizzazione del lavoro nella società futura sarà dunque una generalizzazione dell'uomo completo sul modello dei grandi del Rinascimento? Sarà possibile un'umanità composta di individui in grado di riassumere in sé lo scienziato, l'architetto, il pittore, lo scultore, il filosofo l'ingegnere e il poeta? Certamente, com'è anche affermato un po' ironicamente da Marx nella citazione che abbiamo usato in apertura. Già adesso in parte succede. Ma in questo modo rimaniamo nell'ambito di ciò che può essere l'individuo, che sarà di sicuro bravo, magari anche più di Michelangelo, che sarà determinazione di una società "elevata" quanto si vuole, ma che non lo utilizzerà sicuramente, con altri miliardi di individui, allo scopo di produrre insensatamente "capolavori d'artista" in serie.

La dinamica storica che porta al comunismo sviluppato non può essere un ritorno a fasi che l'umanità ha già percorso, almeno da quando la conoscenza e l'attività della nostra specie, con lo sviluppo del lavoro sociale, sono diventati più che mai un prodotto del cervello sociale. Il concepire la generalizzazione dell'uomo completo riferita agli individui è un nonsenso. Sarebbe come generalizzare una specie di bricolage d'altissimo livello. La società capitalistica ci ha già fornito delle soluzioni. Essa ha già prodotto risultati superiori ad una moltiplicazione-omologazione dell'uomo rinascimentale, "ha compiuto ben altri portenti delle piramide egizie, degli acquedotti romani e delle cattedrali gotiche, ha condotto ben altri movimenti delle migrazioni dei popoli o delle crociate", ha rivoluzionato i rapporti di produzione e continua a rivoluzionarli. Così nel Manifesto.

Il passaggio dalla società capitalistica a quella comunistica coincide con la fine delle società naturali. Tutto ciò che sta prima di questo passaggio, compreso il Rinascimento, fa parte delle società naturali che vengono dialetticamente negate, cioè superate per gli aspetti transitori e inglobate nella nuova forma sociale per quelli invarianti. Invece di infondere la perfezione ideale al marmo scolpito o, come intendeva Michelangelo, liberare dall'amorfa materia marmorea l'ideale platonico di perfezione, l'uomo libererà sé stesso. Tramite la nuova comunità umana, cercherà di realizzare armonia di forme e organicità di scopi non tanto nel marmo quanto nel suo stesso corpo sociale. Gli equivalenti dei david e delle cappelle sistine ci saranno, ma il contesto, quello di allora e quello di adesso, no di sicuro.

Il programma rivoluzionario immediato elenca fra le misure realizzabili nel brevissimo periodo l'eliminazione della divisione del lavoro tout-court, sociale e tecnica, nel senso che la società non ne avrà più bisogno e anzi la riterrà dannosa finché persiste. Ciò non significa che saranno eliminate le operazioni utili a razionalizzare al massimo il processo produttivo, a far sì che il flusso produttivo sia suddiviso in operazioni più o meno semplici in modo da ottenere il miglior rendimento nell'utilizzo dell'energia collettiva. Ciò che oggi è necessariamente "divisione tecnica" in senso sociale, perché comporta sia il dispotismo di fabbrica che la suddivisione in classi di mestieri all'interno della generale "divisione sociale" del lavoro, nel futuro si ridurrà alla serie di operazioni necessarie a raggiungere un fine produttivo, all'interno del progetto globale continuo che si darà la nostra specie.

Il semplice concetto di cooperazione fra diversi produttori esclude che si ritorni a forme di lavoro organizzato individualmente come quello dell'artigiano o anche dell'artista, ammesso e non concesso che un comunista possa far differenza tra i due e anche fra di essi e l'operaio parziale. E siccome la cooperazione manifatturiera è scomparsa per sempre, ecco che la divisione manifatturiera del lavoro sta facendo la stessa fine.

La suddivisione delle operazioni che sta alla base della divisione tecnica – di cui quella manifatturiera non è che un aspetto specifico – non scomparirà affatto: essa è la caratteristica produttiva dell'uomo da quando si è differenziato dagli altri primati. Oggi lo studio scientifico delle fasi nel processo produttivo ha raggiunto vertici che la primitiva parcellizzazione taylorista delle operazioni non poteva neppure immaginare, e permette un ciclo complessivo, dalla materia prima al prodotto finito, assai meno dissipativo in materiali, forza-lavoro e tempo. Tra l'altro è solo con uno studio accurato delle fasi e delle operazioni che è possibile affidare alcune lavorazioni ai robot che un domani potranno benissimo lavorare al nostro posto. Tutto ciò oggi è conteggiato in valore, e i robot sono solo un ausilio del lavoro umano, mentre potrebbero essere un sostituto. Domani il processo produttivo farà parte del generale metabolismo sociale, dato che non vi sarà certo "febbre" né produttiva né da costi.

Non sarà necessario far coincidere il tempo di lavoro di ognuno con il tempo di produzione come si fa oggi: nelle società più umane di quella attuale non c'era né il cronometrista né la cartolina da timbrare (e quelli di oggi finiranno nel museo della preistoria umana, insieme con le selci scheggiate, le catene degli schiavi e i computer personali). Già adesso la maggior parte dei prodotti industriali ha un contenuto irrisorio in ore di lavoro, nonostante la dissipazione intrinseca all'anarchia capitalistica e quella dovuta alla concentrazione della produzione in poche aree del mondo, allo spostamento della popolazione verso di esse e quindi all'enorme spreco distributivo. Figuriamoci quando il lavoro sarà liberato. Il capitalismo non potrà mai realizzare un vero sistema integrato di fabbriche, dimensionate per i bisogni di aree predefinite, comunicanti fra di loro e indirizzate da un piano di produzione generale; un sistema che ricalchi tutte le aree abitate dall'uomo, disegnate dal lavoro di generazioni e generazioni e che riproduca in forma tecnico-produttiva il pulsare vitale della specie umana.

Il passaggio dall'attuale "ricomposizione tecnica delle mansioni", frase dal significato alquanto incerto, alla morte definitiva della divisione tecnica e sociale del lavoro sarà breve. Si troverà un termine adeguato per descrivere ciò che faranno gli uomini e come, dato che il linguaggio cambierà, come cambiano tutte le sovrastrutture e tutti gli strumenti della produzione.

L'ingegnere, l'avvocato e la società futura

In La natura del partito comunista, del 1925, Bordiga, al solito in difesa della concezione del partito come organo della classe e non come parte di essa, ribadisce alcuni punti fermi anche sulla divisione del lavoro, in questo caso a proposito della composizione del partito per classi e mestieri. Era allora in discussione la direttiva dell'IC di organizzare il partito sulla base dei reparti di fabbrica, criterio operaista contro cui la nostra corrente si era sempre battuta proprio perché ciò sanciva non solo la divisione sociale del lavoro, ma anche la suddivisione in categorie, mestieri, reparti, ecc. Di fronte alle accuse di intellettualismo (per il rifiuto degli espedienti tattici frontisti, ecc.) Bordiga innanzi tutto rilevò che Marx aveva ritenuto importantissimo l'abbandono della propria classe da parte non solo degli intellettuali ma pure dei grandi borghesi, fatto che è un vero sintomo della rivoluzione in marcia. In secondo luogo fece notare che, quando il partito era saldamente guidato dalla Sinistra, esso era composto per la maggior parte da proletari, anche negli organismi dirigenti, mentre con l'avvento della direzione centrista operaista si erano spalancate le porte a tutti e alla guida del partito non vi erano ormai che avvocati, professori e filosofi. In terzo luogo ironizzò sul fatto che nella società futura, per i grandi compiti di progettazione sociale, occorreranno di sicuro gli ingegneri, mentre avvocati e filosofi saranno spazzati via.

Il testo non specifica in qual modo e passa ad altro. Ma prendiamo lo spunto e chiediamoci come bisogna affrontare la sopravvivenza degli ingegneri, la scomparsa degli avvocati, o comunque se avrebbe senso oggi una discussione su quali categorie della divisione sociale del lavoro attuale sopravviveranno cambiando natura. Soffermiamoci sull'ingegnere, dato che la figura dell'azzeccagarbugli è già sistemata. In una società poco avanzata, dove elementi del passato comunistico primordiale sopravvivevano, non occorrevano conoscenze tecniche particolari per costruire un ponte di tronchi o di corde, tale conoscenza c'era ed era condivisa, il ponte veniva costruito da tutta la comunità o da qualsiasi parte di essa. Un po' più complicata la costruzione di un ponte di pietra o mattoni ad arco in una società più evoluta; ma anche in questo caso non c'era bisogno di un "ingegnere", erano sufficienti le conoscenze possedute dalla comunità nel suo insieme, magari attraverso gli anziani o i più abili e forti lavoratori. Spostandoci avanti nel tempo e nello sviluppo sociale, troviamo ancora l'utilizzo di conoscenze condivise e applicazione di lavoro sociale indistinto, come al tempo delle grandi cattedrali. Lì era già presente e ben delineata la figura dell'architetto-ingegnere, ma il grosso del lavoro era ancora fornito dalla popolazione e dai mastri artigiani delle corporazioni, in grandi fabbriche collettive.

Il passaggio dall'assenza di divisione sociale del lavoro alla sua formazione e consolidamento, infine alla sua scomparsa, è dovuto allo sviluppo delle forze produttive. Sarà proprio questo sviluppo a rendere facile la soppressione non solo della figura dell'avvocato, ma anche quella dell'ingegnere cristallizzato in un singolo individuo. In una società organica non sarà neppure pensabile l'affidare per esempio una grande opera o un piano urbanistico non solo a una persona, ma nemmeno a un gruppo particolare configurato in atelier. Non necessariamente tutti gli individui dovranno essere in grado di progettare – un ponte o una città non importa – ma ci saranno quelli in grado di farlo all'interno di una comunità che vedrà in loro uno degli elementi del cervello sociale. Il comunismo, inteso come movimento permanente, ha innalzato categorie e classi, oggi le sta distruggendo, domani le eliminerà del tutto. Non ci sarà l'ingegnere: ci sarà il responsabile di una parte specifica del lavoro sociale e non sarà esentato per questo dalla parte generale

L'odierna ricomposizione delle mansioni è già un superamento della divisione tecnica perché riduce considerevolmente il numero delle specializzazioni e delle categorie, eliminando definitivamente dall'organizzazione del lavoro molte separazioni. Questa tendenza non farà che continuare, ovviamente senza gli impedimenti di oggi, verso il massimo di prestazione indifferenziata di lavoro da parte di ciascuno. Nello stesso tempo, a differenza di oggi, saranno utilizzate al massimo le sue capacità particolari, che rappresentano le positive differenze presenti nel corpo di ogni organismo vivente. Già ora, esistono delle "banche del tempo" dove individui che svolgono un lavoro diverso scambiano reciprocamente, per soddisfare bisogni diversi, lo stesso numero di ore di lavoro, indipendentemente dalla sua natura e valore. Sono in molti oggi, nonostante vivano in una società che esalta il denaro, l'egoismo e la sopraffazione, a dedicarsi al lavoro volontario in campi nei quali al capitalismo non conviene investire e spendere. E sono campi in genere dove non è agevole operare, e dove spesso si rischia la vita. Al di là delle organizzazioni e degli organizzatori di tutto ciò (a parte poche eccezioni è provato che la quasi totalità dei fondi raccolti servono per la vita delle strutture stesse e non per gli aiuti) milioni di persone offrono lavoro gratuito alla società. L'umanità ha sempre prodotto individui che sfuggono alle leggi del sistema dominante, dediti ad attività senza corrispettivo di valore.

Conoscenza globale contro divisione fra arte, scienza e lavoro

Per abitudine si è soliti vedere una contrapposizione, che nella realtà non esiste, tra il mondo dell'arte, della scienza e della produzione. Questa visione è un riflesso della divisione sociale del lavoro che racchiude i singoli mestieri e le attività in compartimenti stagni. Ma la stessa divisione del lavoro capitalistica ha strappato all'individuo la conoscenza dei processi naturali rendendola un fatto sociale, collettivo. La scienza della borghesia rivoluzionaria ha rappresentato un enorme passo in avanti nella teoria della conoscenza e della prassi rispetto alla visione istintiva, propria della società greca, o speculativa, propria di quella medioevale. Per conoscere i particolari dell'indagine la scienza borghese si è dovuta staccare dai nessi naturali o "filosofici", si è specializzata in ogni singola branca della conoscenza imponendo la sua divisione del lavoro.

Questa è stata una condizione necessaria. Essa non poteva non lasciare traccia nell'ideologia, attraverso la quale si finiva per concepire i fenomeni della natura come isolati dal loro contesto, sconnessi dal vasto insieme che le società antiche ancora consideravano e che l'umanità di oggi incomincia a riconsiderare molto faticosamente. Lo fa come può. Quando lo scienziato borghese invoca la cosiddetta "interdisciplina" a proposito della ricerca scientifica, non fa che sancire la necessità che discipline separate comunichino, non intende eliminare la separatezza. Siamo ancora ben distanti dall'unificazione della conoscenza e quindi dall'eliminazione prima di tutto della differenza di natura tra filosofia, scienza, tecnica e arte.

Eppure si fa strada fra alcuni "scienziati" e "filosofi" una consapevolezza: fintanto che la scienza continuerà ad avere come oggetto innumerevoli discipline separate e continueranno ad esistere gli ultra specialisti che sanno tutto su niente o niente su tutto, sarà impossibile giungere a un ulteriore "salto di paradigma", quel salto di qualità nella conoscenza tipico delle feconde fasi rivoluzionarie. Oggi è acquisito il fatto che nuova conoscenza non si raggiunge per merito di scienziati geniali ma per mezzo del sistema mondiale di ricerca che sta dietro di essi. Da alcuni anni compaiono saggi su teorie del tutto, sull'ordine emergente dal caos, sulle semplici leggi della complessità, sull'unificazione delle forze. E vendono come best-seller prima ancora che la pubblicità se ne impadronisca e ne faccia vendere ancora di più. Il capitalismo frena tutto ciò lesinando capitali, imponendo brevetti, indirizzando gli obiettivi secondo il profitto, pretendendo tempi brevi per i risultati, privilegiando i progetti che mettono in moto impianti enormi (ed enormi appalti), come nella fisica delle particelle. Minando le basi dell'avanzamento scientifico, base a sua volta della produzione moderna, il Capitale si dimostra del tutto autodistruttivo.

Tutti i sistemi sociali sono sistemi complessi e quello capitalistico più di tutti. Mai come oggi gli uomini hanno interagito pur teorizzando l'individuo come granello accostato ad altri e non particella di materia-energia immersa in un continuum spazio-temporale. La scienza sarebbe già orientata verso un paradigma nuovo rispetto alla società vecchia, ma come farà mai l'uomo ad avvantaggiarsene se il suo sistema sociale fa ancora parte del passato? Oltre che tra di loro gli uomini interagiscono con le cose, con l'ambiente, con i rapporti sociali che essi stessi hanno realizzato e oggi con le determinazioni di valore, per mezzo dell'accumulo di una conoscenza sterminata, la quale, nonostante tutto, non è che un inizio. Tutte entità impalpabili, difficili da intuire sulla base dei vecchi processi del pensiero, e soprattutto impossibili da rappresentare, formalizzare, modellizzare. Se non interverrà un nuovo ambiente sociale, gli scienziati faranno semplicemente il loro mestiere, parteciperanno alla divisione sociale e tecnica del lavoro, e continueranno a sfornare previsioni catastrofiche accompagnate da incoerenti buoni propositi per salvare il capitalismo.

Il modo di produzione capitalistico, basato sulla legge del valore e sulla sovrastruttura che ne consegue, non blocca solo lo sviluppo della forza produttiva sociale ma anche quello dell'intuizione, dell'attività normalmente definita "creativa" e che vale tanto per lo scienziato quanto per l'artista. Questo perché viene eliminato dall'orizzonte di ogni ricerca ciò che non è passibile di essere trasformato in denaro. Con la rivoluzione sociale dell'inizio '900 non maturò soltanto lo sconvolgimento delle forme artistiche e letterarie ma anche quello dei limiti raggiunti dalla scienza di allora. Non fu un movimento "culturale", fu una rivoluzione. E il gran fermento artistico rifluì con la controrivoluzione, dando origine alle manifestazioni artistiche di regime, straordinariamente simili in tutto il mondo.

Anche la conoscenza non procede in modo gradualistico-riformista ma per grandi salti epocali. Come abbiamo visto qualche tempo fa (Einstein e alcuni schemi di rovesciamento della prassi), l'umanità ne è consapevole e ha tracciato diversi schemi per la comprensione del fenomeno.

Nell'età evolutiva, il bambino auto-organizza la propria futura esistenza confrontando continuamente l'istinto con l'ambiente in cui cresce, perciò l'intuizione è fondamentale per stabilire continue relazioni e quindi accumulo non lineare di conoscenza. È questa la natura dell'uomo. L'isolamento degli elementi della natura è stata una necessità passeggera che fluirà nel bagaglio conoscitivo futuro come mero strumento e non come paradigma. L'umanità di domani si muoverà secondo una dinamica analoga a quella del bambino, riappropriandosi della sua enorme capacità di apprendimento per razionalizzare successivamente il sistema della sua produzione e riproduzione: "Nella parte decisiva della sua dinamica la conoscenza prende le sue mosse sotto forma di una intuizione, di una conoscenza affettiva, non dimostrativa; verrà dopo l'intelligenza coi suoi calcoli, le sue contabilità, le sue dimostrazioni, le sue prove. Ma la novità, la nuova conquista, la nuova conoscenza non ha bisogno di prove, ha bisogno di fede! non ha bisogno di dubbio, ha bisogno di lotta! non ha bisogno di ragione, ha bisogno di forza! il suo contenuto non si chiama Arte o Scienza, si chiama Rivoluzione!" (A. Bordiga, Critica alla filosofia).

Letture consigliate

  • Karl Marx, Friedrich Engels, L'Ideologia tedesca, Editori Riuniti, 1970.
  • Karl Marx, Manoscritti economico filosofici del 1844, Einaudi, 1968.
  • Friedrich Engels, Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori Riuniti, 1970.
  • Karl Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XII, Divisione del lavoro e manifattura; cap. XIII, Macchinario e grande industria; Libro III, cap. V, Economie nell'impiego di capitale costante; Utet, 1974.
  • Lettera di A. Bordiga a Salvemini (sul nostro sito).
  • PCInt., Riconoscere il comunismo, Quaderni Internazionalisti.
  • Amadeo Bordiga, Intellettuali e marxismo, (sul nostro sito).
  • Amadeo Bordiga, Natura del partito comunista, L'Unità del 26 luglio 1925, ora in Origine e funzione della forma partito, Quaderni internazionalisti.
  • Operaio parziale e piano di produzione, n. 1 della rivista.
  • Einstein e alcuni schemi di rovesciamento della prassi, n. 4 della rivista.
  • Womack-Jones-Roos, La macchina che ha cambiato il mondo, Rizzoli, 1991.
  • Autori vari, Olivetti 1908-1958, edizione interna per il cinquantenario, 1958.
  • Roberto Vacca, Il Medioevo prossimo venturo, Mondadori, 1971; Rinascimento prossimo venturo, Bompiani, 1986.

Rivista n. 12