Tragico autunno per il proletariato boliviano

L'ennesimo fiammifero è stato gettato nella polveriera boliviana dalla privatizzazione del petrolio e del gas; soprattutto di quest'ultimo che, scoperto recentemente, scaturisce da quello che sembra sia il più grande giacimento d'America Latina. Un gasdotto doveva portarlo alla costa cilena e di qui, liquefatto, sarebbe stato caricato su navi cisterna dirette negli Stati Uniti, dove i gringos l'avrebbero pagato meno dei boliviani. La piccola borghesia rovinata dalla crisi si è sentita defraudata di una ricchezza nazionale, i contadini affamati l'hanno seguita (l'85% della popolazione non urbana è al di sotto della soglia boliviana di povertà) e gli operai hanno coronato il movimento con un massiccio sciopero generale a oltranza.

Il 19 ottobre scorso il sito dell'agenzia di stampa Econoticiasbolivia.com così commentava la durissima lotta dei proletari boliviani: "Dopo essere stati protagonisti in una massiccia esplosione sociale sfociata tragicamente in scontri con quasi 70 morti e più di 500 feriti, i lavoratori riuniti al convegno nazionale allargato del sindacato boliviano sono giunti ad una conclusione: i proletari, i contadini, le nazionalità oppresse e le mezze classi rovinate non sono riusciti a strappare il potere alla classe dominante perché non hanno ancora un partito rivoluzionario".

Una considerazione simile era serpeggiata fra le forze politiche dopo le grandi lotte seguite al collasso dell'economia in Argentina. In generale, è una posizione ricorrente, comune a molti raggruppamenti politici, in presenza di sommovimenti che, pur avendo una grande forza dirompente, non riescono a utilizzarla per un fine preciso, e non intaccano il potere della classe dominante.

Tale proposizione sembra dettata da buon senso ma è sbagliata. Dire: "Esiste una situazione rivoluzionaria però manca il partito che diriga le masse" è come dire che "esiste il verde, però mancano il giallo e il blu", e in effetti non può esservi il verde se mancano i colori base per ottenerlo. Ogni situazione, per quanto esplosiva, è sempre controrivoluzionaria se non c'è il partito. Proprio in Argentina e in Bolivia, i gruppi politici che si sono adoperati, sulla base del loro programma "popolare", nell'organizzazione delle lotte, hanno riprodotto né più né meno ciò che c'era già, cioè sindacalismo, populismo, anarchia e soprattutto democrazia assembleare, vale a dire piccoli parlamentini che ovviamente non hanno nulla a che fare con la rivoluzione. Di parlamento ve n'è già uno di troppo, senza bisogno di piccoli cloni (nel caso boliviano i cabildos, organismi democratici pretesi "di massa").

È indubbio che in Bolivia i grandi scontri dell'autunno 2003 hanno avuto una connotazione di classe, dato che contadini e piccola borghesia rovinata hanno seguìto i proletari, soprattutto i minatori, nerbo del proletariato boliviano da sempre. Ma il problema degli scopi di una lotta così vasta e incontenibile va al di là del generosissimo slancio proletario. Zuvieta, il capo del sindacato dei minatori, ammetteva in assemblea che qualcosa era sfuggito di mano: "Nessun sindacato né partito di sinistra ha immaginato lo scopo del conflitto che si avvicinava. Non abbiamo imparato la lezione del massacro di febbraio. Quello del 12 ottobre a El Alto è stata la scintilla che ha scatenato la guerra contro il governo e l'imperialismo. Da allora il conflitto è sfuggito al nostro controllo. È fuori controllo. Questo comporta la necessità urgente che ci organizziamo meglio" (Econoticiasbolivia.com).

A febbraio la polizia e l'esercito avevano ucciso 35 persone e ne avevano ferite 210. In aprile i minatori in fermento avevano ottenuto il ricambio al vertice del loro sindacato pretendendo capi radicali. Ma non ce n'erano. Zuvieta aveva promesso di chiamare alla lotta per "una società egualitaria senza oppressori né oppressi" (le parole della politica latino-americana sono più roboanti del loro valore pratico), ma l'asse politico portante della lotta è stata l'incostituzionalità del decreto per la privatizzazione del gas. Nessuna rivoluzione, dunque, nessuna "colpa" del partito che non c'è, ma tragico versamento di sangue proletario per il fiancheggiamento di interessi piccolo-borghesi e anche nazionalisti borghesi.

Per la Bolivia è un terribile ripetersi di avvenimenti. La grande capacità di organizzazione e di scontro (migliaia di minatori sono scesi sulle città brandendo candelotti di dinamite) è da decenni incanalata verso obiettivi costituzionali eppure mai domata. Le spinte materiali sono evidentemente più forti del tradimento permanente dei capi sindacali e politici. Ancora una volta tutto si è risolto nei soliti coordinamenti di organismi locali senza che potesse nascere e svilupparsi un centro politico nazionale in grado di superare la questione del gas, gli interessi interclassisti e il generico odio per i gringos colpevoli di tutti i mali. La borghesia locale compradora dell'imperialismo è disprezzata, ma non vista come agente del Capitale, perciò ogni populista borghese ha buon gioco nel mostrarsi adeguato per un ricambio del corrotto e venduto di turno. Fino alla prossima, ennesima richiesta di dimissioni di un presidente, alla prossima marcia di minatori con dinamite, ai prossimi caduti, ai prossimi impotenti cabildos o come diavolo li chiamerà la piccola borghesia democratica, costituzionale, populista, che impesta il movimento operaio e lo manda al macello per niente.

Rivista n. 13