L'angoscia marxologica e il prurito sinistro

Ci sono occhiuti marxologi che non perdonano certe nostre prese di posizione "settarie" ed "estremiste". Non gli va giù, ad esempio, che gli si rinfacci il patetico innamoramento per le "resistenze" islamiche. Non riescono a trattarle per quello che sono: frazioni della borghesia mondiale che lottano contro altre frazioni, chiamando alla loro guerra le popolazioni. Frazioni che lamentano gli effetti dell'imperialismo ma ne sono parte integrante, perché l'imperialismo non è "americano", è una fase del capitalismo. Frazioni che agiscono con metodi e per obiettivi per nulla assimilabili alle rivoluzioni borghesi antifeudali e anticoloniali di un tempo, alle quali i proletari avevano dato solidarietà e appoggio materiale.

Il marxologo non vede che il rapporto fra la borghesia americana e le altre è lo stesso che Lenin vedeva fra l'Inghilterra e i paesi da essa oppressi anche se liberi. La moderna dipendenza economica è altra cosa rispetto all'occupazione e al governo diretto del colonizzatore. Oggi quel tipo di "oppressione" è sostituito da una rete molto più complessa di relazioni economiche e non vi è più alcuna giustificazione teoretica per un "fronte unico popolare". Anche l'Italia è un paese occupato dagli americani, e sarebbe trattata come l'Iraq se la borghesia nostrana si ribellasse a questa occupazione trascinando il "popolo" in una rivolta contro Washington.

Compiuto l'errore di partenza, gli altri si susseguono a cascata. Il marxologo pensa di fabbricare impunemente analogie fra condizioni geostoriche non confrontabili. Stabilisce per esempio un parallelo fra Baghdad e Stalingrado, fra guerriglia irachena e resistenza filoamericana e anti-tedesca degli anni '40. Non s'accorge che, con quel metro, Saddam Hussein sarebbe Mussolini, che gli americani sarebbero i "liberatori" come nel '45, che i baathisti guerriglieri sarebbero i repubblichini di Salò scalzati dal potere, che la resistenza sarebbe quella messa al governo dai "liberatori" e che paragonare Baghdad a Stalingrado (città-fronte fra due immensi eserciti equivalenti) è semplicemente idiota. Individuare degli "invarianti" può aiutare a capire che cosa sia una guerra, ed è cosa importante, ma bisogna saperlo fare. Schierarsi con il criterio del tifo da bar, credendo che basti sparare contro i boys o farsi esplodere fra i civili per essere rivoluzionari, è un esercizio di dilettantismo al limite del reparto psichiatrico.

Il marxologo, contrariamente al comunista, è profondamente democratico. Per questo era schierato con gli americani nel '45, anche se adesso parteggia, chissà perché, per i nemici della democrazia. Eppure la vera democrazia è quella americana, non quella che scaturirebbe dalle "resistenze" islamiche (e bisogna saperlo prima, perdìo, non quando incominciano a chiudere scuole, minare monumenti storici, tagliare teste e lapidare adultere). Tra gli anni '50 e '60 il marxologo andava in pellegrinaggio democratico nei kibbutz per respirare un po' di socialismo applicato in queste rudi comuni collettivistiche, ma quando i russi decretarono che Israele era uno stato colonialista servo dell'imperialismo, si schierò di colpo, obbediente, e incominciò a vedere rivoluzionari antisionisti ovunque, salvo poi lamentarsi per l'infinito "settembre nero" sul popolo massacrato… dai governi arabi. Per quanto riguarda la democrazia faceva finta di niente, e dalla Conferenza di Bandung in poi (a proposito, la nostra corrente scrisse che essa "seppelliva per sempre" il periodo rivoluzionario borghese in Asia, ed era il 1955!) vive l'angoscia di essere democratico e partigiano dei peggiori regimi tribal-fascisti sedicenti anti-imperialisti.

Ma l'angoscia esistenziale del marxologo è niente in confronto al terribile prurito sofferto dal gruppettaro che si fa incondizionato difensore delle masse islamiche oppresse. Marxista-leninista tutto d'un pezzo, glossa i sacri testi e vi deriva nientemeno che una teoria della religione rivoluzionaria. Il "marxismo-leninismo", come la marxologia e contrariamente al comunismo, è profondamente democratico, ma presenta più sfumature. Alcuni accettano tutto, democrazia, parlamentarismo, nazionalismo, pacifismo. Altri li rifiutano in teoria ma li accettano poi nella pratica, perciò si contorcono assumendo "posizioni" indicibili. La rivoluzione borghese, ad esempio, è per definizione democratica. Perciò chi vede rivoluzione popolar-borghese in Iraq, Iran, Palestina o Afghanistan (Kurdistan non più) è per definizione democratico (anche se un talibano, un ayatollah o un wahabbita gli spiegherebbe che una scuola coranica o un consiglio tribale sono più democratici della democrazia). Naturalmente le "masse islamiche oppresse" sono religiose e quindi la religione è automaticamente cooptata fra le "forze propulsive" della rivoluzione popolare contro l'oppressione imperialistica "neocoloniale". Per Gramsci la borghesia non aveva più "forza propulsiva", ma ciò non gli impedì il fronte con la borghesia per la democrazia. Per Stalin gli USA erano una potenza "neocoloniale", ma ciò non gli impedì la spartizione neocoloniale di Jalta e la competizione da grande potenza borghese. Non basta introdurre il termine "neocolonialismo" affinché ogni guerriglia diventi guerra rivoluzionaria di liberazione nazionale.

Una volta un ragazzino ci ha gridato in una riunione pubblica: "ma allora siete con gli americani!". Venuto su poppando alla mammella della democrazia resistenziale portata all'Europa con i bombardieri americani, non s'accorgeva che i suoi antenati politici diretti facevano i partigiani per gli odiatissimi marines. Ci mostrava in tutta chiarezza la vera origine del prurito marxista-leninista: essere sempre partigiani di qualcuno. Non saper essere comunisti e combattere per il futuro, soli con la propria classe, ma stare con una parte borghese contro l'altra, come nel minestrone antifascista che raccolse socialisti, borghesi, comunisti, sindacalisti in quel fronte democratico che fu il principale assassino della tattica rivoluzionaria.

Una riprova illuminante sono le elezioni irachene fortemente volute, senza rinvii, dall'occupante americano. Non c'è partigiano della "resistenza" araba che sia riuscito ad evitare il ridicolo ricorrendo alla critica delle "elezioni tradite". Non è vero, dice costui, che gli iracheni hanno votato, è stata una messa in scena! Non è vero che hanno votato otto milioni, nemmeno la metà ha votato! (e sarebbe già più di quanto votino realmente nei liberissimi Stati Uniti). Bravi coglioni, così cadete nella trappola tesa dagli americani: vi sarebbero andate bene le elezioni non truccate e l'elezione di un governo anti-americano. Come se da qualche parte al mondo vi fossero elezioni che possono evitare di fregare il "popolo" ed esistessero governi "indipendenti". Il "popolo", per noi comunisti, come si dovrebbe sapere, non è precisamente il metro di misura. Siamo legati a una classe precisa, non al miscuglio di tutte le classi. Certo, noi eravamo con i Mau Mau e la loro zagaglia barbara; eravamo con i Congolesi, con gli Algerini, con i Vietnamiti e con gli Angolani. Eravamo con quei "popoli" quando facevano guerra agli Stati colonialisti. Ma adesso i colonizzati non ci sono più. Adesso siamo con il proletariato di ogni paese, classe senza patria e senza aspirazioni "nazionali", non con i nazionalisti.

Ah, dimenticavamo il petrolio. Gli americani farebbero la guerra per "rubarlo" agli arabi. No, stolti resistenziali difensori della proprietà nazionale: la fanno per "rubare" plusvalore prodotto dagli operai dei paesi industriali senza petrolio. Appoggeremmo dunque una guerra d'Europa, Giappone e Cina contro gli Stati Uniti?

Rivista n. 17