Ucraina, Georgia, Libano, Kirghizistan…

Puntini di sospensione, perché la serie potrebbe continuare. Si parla già di effetto domino e di democrazia contagiosa. C'è, negli avvenimenti, un'invarianza che potrebbe far pensare a una stessa regìa; ma bando alle dietrologie anti-imperialiste di maniera: ci vuol poco ad assecondare movimenti popolari che nascono sulla base di rabbia, malessere e fame. Aggiungiamo poi che tutti i paesi sconvolti dai recenti moti popolar-nazionali sono o fanno parte di aree strategiche e vedremo che il quadro non è poi tanto difficile da analizzare. Lasciamo quindi ai moralisti la suprema indignazione per l'interferenza contro la sovranità nazionale altrui. Se gli americani "interferiscono" non si può dire che lo facciano di nascosto: si tratta di una guerra dichiarata a chiare lettere dal governo degli Stati Uniti in prima persona in un mare di documentazione pubblica. Il cattivissimo prevaricatore imperialista sta semplicemente facendo pulizia di quel che resta della decrepita rete capitalistica "sovietica", per la quale non si possono avere rimpianti. Oltre tutto, a differenza che in altre occasioni (Vietnam, Nicaragua, Cile, Corea, ecc.), lo sta facendo pure in modo relativamente incruento. Gli "altri", cioè i concorrenti imperialisti degli Stati Uniti, non stanno certo a guardare, ma sono costretti ad agire con molta cautela.

L'Ucraina ha quasi 50 milioni di abitanti, industria e agricoltura abbastanza in buono stato, materie prime e una rete di oleodotti che l'attraversa. Si trova in posizione strategica rispetto all'Europa e sarebbe ben strano che da parte europea o americana non si facesse qualche sforzo per "interferire". La Georgia ha solo 6 milioni di abitanti ma è un polo nevralgico in quanto terminale sul Mar Nero dell'oleodotto transcaucasico proveniente dagli immensi campi petroliferi di Baku, da cui trae la materia prima l'industria petrolifera di trasformazione primaria. Il Libano, la "Svizzera del Medio Oriente", ha pochi abitanti (3,7 milioni), ma è assolutamente complementare alla politica di penetrazione americana nell'area, luogo ideale per il transito di petroldollari e di capitali per investimenti diretti, nonché per le attività di destabilizzazione nei confronti della Siria, ormai destinata ad essere, con l'Iran, uno degli obiettivi, militari o meno, della "guerra infinita". Il Kirghizistan, infine, paese con 5 milioni di abitanti, di etnia soprattutto turco-mongola (la Turchia, nella sua politica verso l'Eurasia vi ha investito importanti capitali nell'edilizia e nella grande distribuzione), è apparentemente sperduto in capo al mondo, ma è confinante con il Kazakistan, il Tagikistan, l'Uzbekistan e la Cina, tutti paesi che assumeranno nei prossimi anni un'importanza fondamentale nell'equilibrio (o squilibrio) fra le potenze imperialistiche.

Fin troppo facile, allora, prevedere un effetto domino, ma sarebbe errato pensare che le "rivoluzioni liberali" siano assecondate dagli USA col solo criterio del filo-americanismo. Il criterio è quello del controllo statale sull'economia. Il capitale americano ha bisogno di essere l'unico a disporre di uno stato di tipo centralizzato e controllato, mentre ha bisogno di imporre al resto del mondo l'apertura ai propri traffici in merci e soprattutto in valore, quindi il "libero mercato".

In Kirghizistan il leader caduto era un fisico formatosi a Harvard su cui gli americani contavano, ma sembra che il suo governo stesse, al solito, impiantando nel paese una nomenklatura politico-mafiosa a base parentale, di quelle che non possono fare a meno di mettere le mani sullo stato. Fra gli insorti vi sono invece ex politici "sovietici" che potrebbero garantire una liberalizzazione meno fasulla. Da questo punto di vista il Kazakistan, paese vastissimo, poco popolato e ricco di petrolio, potrebbe essere il prossimo candidato alla rivolta del malessere; oppure l'Uzbekistan, il paese di gran lunga più popolato (26,5 milioni di abitanti), industrializzato e militarizzato della cintura sud-orientale dell'ex URSS, e perciò da tempo individuato dagli USA come l'unico alleato che possa garantire materialmente una seria funzione sub-imperialistica nell'area. In tutti questi paesi vi sono già basi americane. Il Tagikistan ad esempio è già servito come base per le operazioni di guerra in Afghanistan, anche perché la presa simbolica di Kabul fu lasciata alle truppe guerrigliere dei tagiki afghani, alle quali è ora affidato, come agli altri "signori della guerra" locali, un settore del paese occupato (più o meno lo stesso criterio adottato poi con i Kurdi in Iraq).

Sia l'Uzbekistan che il Tagikistan sono retti da dittature feroci, il Kazakistan non può certo essere considerato un paese democratico e il Turkmenistan ha un governo simile a quello della Corea del Nord, considerato "stato canaglia", ma tutto questo ovviamente non intralcia i piani di Washington sulla democrazia da esportazione. Finché i governi non esercitano uno stretto controllo sull'economia e sulle risorse a favore dello sviluppo interno, possono benissimo essere considerati amici. Siccome però prima o poi tutti questi paesi sono costretti dalle popolazioni ridotte alla miseria a non farsi semplicemente rapinare, ecco che scattano contraddizioni acutissime, difficili da analizzare col metro della politica estera corrente.

Per esempio in Libano si sono succedute manifestazioni dei due schieramenti opposti con almeno un milione di persone ciascuna, e il fatto che esse abbiano mobilitato in totale più persone di quanti siano gli abitanti del paese, tolti i vecchi e i bambini, rende subito evidente che la partecipazione popolare è stata sia contro l'ingerenza siriana che contro quella americana. In Kirghizistan le manifestazioni di piazza sono state violentissime, sono stati assaltati carceri, ministeri, uffici pubblici e sedi televisive, con morti e feriti negli scontri; ma anche in questo caso gli schieramenti non hanno avuto affatto contorni politici precisi.

Una cosa quindi è certa: se le rivolte trovano il loro terreno fertile nelle condizioni di vita della popolazione, la loro protesta spontanea si ferma però alle rivendicazioni elementari, mentre il loro utilizzo massiccio per "creare situazioni" fa parte della normale politica di ogni paese imperialistico.

Rivista n. 17