Atomizzazione della produzione ultra-socializzata

Sono considerati "atipici" i lavoratori precari, itineranti da un posto all'altro e sottopagati. Però anche i lavoratori "telematici", quelli che un lavoro fisso ce l'hanno ma senza "posto", non sono del tutto "tipici". Secondo IDC, una multinazionale specializzata in analisi di mercato, in Italia ci sono 7 milioni di persone che lavorano con mezzi telematici lontano dall'azienda. Una proiezione al 2007 li porterebbe a 10 milioni in Italia e a 100 milioni in Europa (in entrambi i casi il 40% degli occupati). Negli Stati Uniti sarebbero 106 milioni (65%). Non abbiamo le percentuali dei salariati per i vari paesi, ma per il momento dovrebbero essere una minoranza, per la nota convenienza da parte dell'industria e dei servizi ad avere un dipendente occulto che figuri come "imprenditore" sfruttatore di sé stesso.

Fino a pochi anni fa il contatto telematico con il luogo di lavoro era prerogativa dei manager, che avevano necessità di collegarsi alla rete aziendale interna anche quando erano in viaggio. In seguito si dotarono di tecnologie adatte anche i giornalisti, i rappresentanti di commercio, i distributori di merci. Oggi incontriamo sempre più spesso installatori di telefoni e di contatori elettrici, addetti all'assistenza tecnica, idraulici, elettricisti, interpreti, immobiliaristi, promotori finanziari, ecc.

Ai lavoratori mobili si aggiungono quelli del telelavoro, che da casa inviano il risultato della propria attività via Internet, i quali, in Italia, sono altri uno o due milioni (programmatori, traduttori, compilatori di data base, collaboratori a enciclopedie periodiche, ecc.). Siamo dunque di fronte a una massa enorme di lavoro erogato da salariati, forzati imprenditori di sé stessi, professionisti e artigiani, che entra a far parte di una rete in grado di far saltare ogni concezione del lavoro finora ritenuta "normale". La normalità sta diventando un'altra. Secondo la CGIL i lavoratori "atipici" in Italia sarebbero dai 5 ai 6 milioni. Con quelli "telematici" arriviamo a 13-15 milioni. Le cifre ovviamente riguardano anche situazioni ibride, che danno luogo a insiemi sovrapposti. Ma sono comunque cifre imponenti.

La disgregazione delle unità produttive, dei servizi, e in genere del lavoro umano associato, continua a ritmo accelerato. E non si tratta certo di una universale de-socializzazione della produzione, un passo indietro rispetto a ciò che Marx prevedeva come processo irreversibile. Anzi, più avanza l'atomizzazione del lavoro, più il lavoro stesso ha bisogno di essere integrato in una rete sociale inestricabile. Se da una parte ciò vuol dire che nei settori produttivi la produttività (e quindi lo sfruttamento) ha raggiunto vertici un tempo inimmaginabili, e quindi una conseguente possibilità sociale di distribuzione del plusvalore, dall'altra vediamo in atto la disgregazione del sistema capitalistico. Ci sarà sempre più bisogno di un piano generale d'industria per poter gestire una tale rete, ma la forma aziendale dell'industria non potrà mai giungere a realizzarlo. L'azienda è nemica della fabbrica, un po' come se fosse una sua sovrastruttura soffocante. Non ci sono limiti alle potenzialità della produzione industriale: lavoro sociale, reti di uomini che ne curano il buon andamento, professionalità, piano di produzione. Ma l'azienda non è interessata a questo, bensì al bilancio, voce profitto privato. Così la contraddizione tremenda non potrà che esplodere, perché queste reti di lavoro sociale sono formate da lavoratori "atipici", demotivati, impreparati, dediti perciò a un sabotaggio silenzioso e inconsapevole. E tutto ciò è semplicemente auto-distruttivo.

Rivista n. 18