Soddisfazione per gli attacchi all'America

Dall'11 settembre ho gran soddisfazione nel vedere che ora gli americani hanno paura e sono convinto che la guerra all'Iraq abbia, tra le altre, anche la motivazione di trattenere lontano da casa le forze che loro stessi hanno generato e che potrebbero colpirli di nuovo sul loro territorio. E non è che le cose gli vadano tanto bene in campo militare, dove il soldato "tecnologico" non vede neppure il nemico che massacra, mentre il guerrigliero si espone di persona (perciò non è vigliacco come il primo, come scrisse Susan Sontag). È vero, la situazione sembra senza sbocco, ma da due anni a questa parte il marines muore, come in Vietnam. Ritengo quindi, al di là di chi sia il "terrorista" di turno, che ci sia solo da compiacersi del fatto che gli americani incomincino a provare sulla propria carne le frustrazioni ed i dolori che hanno inflitto per generazioni al mondo intiero senza, dopo la guerra civile, averne a subire le conseguenze. Era ora che qualcuno provasse a colpirli in casa e stanarli, questi imperialisti arroganti e spacconi.

Chalmers Johnson aveva scritto che la politica imperialistica avrebbe scatenato dei contraccolpi inevitabili, e mi auguro di vederne sempre di più. Sale intanto l'insicurezza anche nella società americana, e con essa la violenza. Le profonde pulsioni di distruzione e di morte che genera il capitalismo arrivano dagli inferi degli oppressi e vanno a lambire le cittadelle del capitale. Secondo me occorre dare a queste incoscienti pulsioni la dimensione politica che l'opera di trasformazione sociale richiede. Perché a noi in fondo cosa importa da quale parte arriva il proiettile che colpisce il nostro nemico?

 

Per quanto sia comprensibile la reazione emotiva di fronte alle atrocità dell'imperialismo, non è che le atrocità di contraccolpo risolvano qualcosa. Noi ci compiacciamo quando vediamo marciare la rivoluzione verso il suo sbocco, quando si presentano condizioni favorevoli al proletariato. L'attacco dell'11 settembre ha invece rinforzato la borghesia americana, che ne ha cinicamente approfittato per avere mano libera in tutto il mondo e rivedere le proprie posizioni con amici e nemici. Se non ci fosse stata questa versione dell'incendio del Reichstag, prima o poi se la sarebbero inventata e forse è proprio successo così. E anche la guerra in Iraq si sta svolgendo su un piano assai ambiguo, con una trattativa permanente con la guerriglia, sullo sfondo di massacri insensati, in confronto ai quali le perdite americane per adesso sono abbastanza ininfluenti sulla politica e sulla guerra stessa.

Crediamo di poterci compiacere non tanto delle perdite fra i tracotanti imperialisti quanto del fatto che questa guerra generalizzata ha potenzialità notevoli per accelerare una crisi sistemica mondiale e quindi scatenare la forza più potente contro l'imperialismo americano: il collasso del fronte interno, come successe al tempo del Vietnam. La differenza è che oggi ciò avrebbe conseguenze di portata immensamente più vasta, con effetti su tutti gli amici, i nemici e i concorrenti degli Stati Uniti, quindi sul mondo.

Negli anni '70 il crollo del fronte interno americano non coinvolse il proletariato, che aveva ancora qualcosa da perdere; oggi la situazione è cambiata e il proletariato potrebbe essere coinvolto, e così quello europeo e quello delle altre metropoli. Le ragioni di compiacimento non dovrebbero essere di tipo psicologico-emotivo quando ci sono effetti potenziali, materiali, ben più grandiosi in ballo.

Rivista n. 18