Tessile cinese e legge del valore

"Migliaia di navi inglesi e americane hanno fatto rotta per la Cina e ben presto il paese è stato invaso dagli economici prodotti dei macchinari americani e britannici. L'industria cinese, basata sul lavoro artigianale, ha dovuto soccombere alla concorrenza della macchina. L'inamovibile regno di mezzo ha vissuto una crisi sociale".

Marx, America e Cina, marzo 1850.

Determinazioni irreversibili

Oggi migliaia di navi cinesi stanno percorrendo la rotta inversa. E sono più cariche di merci di quanto non lo fossero quelle ricordate da Marx. Merci prodotte da macchine di fabbricazione occidentale che, acquistate in quantità, già incominciano ad essere copiate e riprodotte in serie. In questo articolo prenderemo in esame il settore tessile perché lì è scoppiata violenta la recente guerra commerciale, ma non è il solo ad essere interessato. Siamo di fronte a cifre che non rispecchiano semplicemente un incremento della classica concorrenza, bensì un cambiamento strutturale nella divisione del lavoro mondiale. Tutto sembrerebbe piuttosto facile da spiegare con alcuni luoghi comuni, per esempio con il trend del deficit commerciale di alcuni paesi (nella figura quello Cina-USA in mld. di dollari). Ma il fenomeno non si può comprendere solo facendo ricorso all'economia borghese: le merci in arrivo dalla Cina non stanno "rovinando" gli artigiani occidentali, ma le più moderne e agguerrite industrie della storia del capitalismo.

Gli Stati Uniti e l'Unione Europea reagiscono con terrore, consapevoli e nello stesso tempo impotenti. Hanno chiesto alla Cina, con pressioni dirette e con interventi presso la WTO (l'organizzazione mondiale per il commercio), un autocontrollo di tipo fiscale sulle merci del comparto tessile dirette in Occidente. L'alternativa, secondo il governo americano, sarebbe stata una guerra commerciale a colpi di misure protezionistiche. Ma tutti sapevano benissimo che quella strada sarebbe stata suicida. La Cina, nel giugno del 2005, ha raggiunto un numero di lavoratori salariati pari alla metà della forza-lavoro mondiale; nel 2003 è diventato il primo paese industriale del mondo ed entro pochi anni avrà una capacità produttiva in grado di soddisfare da sola la richiesta mondiale di beni di consumo; da diversi anni è il massimo importatore mondiale di materie prime, macchine e semilavorati (terzo mondiale per tutte le merci). Come si vede, se avesse risposto per le rime con la guerra commerciale, si sarebbe innescata una catena in grado di far saltare l'economia dell'intero pianeta.

L'autocontrollo chiesto dagli Stati Uniti alla Cina sotto la spinta delle lobby del comparto tessile, sarebbe stato da realizzare attraverso un monitoraggio interno sulle esportazioni, una tassazione all'origine e una rivalutazione dello Yuan sul Dollaro, in modo da alleviare la "sofferenza" dovuta allo sbilancio commerciale americano. Dal canto suo l'Unione Europea aveva già messo sotto inchiesta nove tipologie di prodotto fra i tessili provenienti dalla Cina e sospetti veicoli di dumping (vendita sottocosto allo scopo di conquistare mercati). Il risultato era stato poco rassicurante: in un solo anno, dalla primavera del 2004 a quella del 2005, l'export dalla Cina all'Unione Europea si era incrementato del 958% per la maglieria in lana e sintetico, dell'800% per i pantaloni, del 522% per la camiceria da donna, del 410% per le calze, del 380% per le magliette di cotone, del 106% per i tessuti di cotone, del 100% per l'intimo, ecc. Le percentuali, che abbiamo riportato in scala decrescente, rispecchiano grosso modo la maturità dei comparti cinesi: da una relativa giovinezza per la maglieria pesante a un export consolidato per l'intimo. Nello stesso periodo la Cina passava da un export di 900.000 capi di camiceria a 18 milioni di capi solo verso gli Stati Uniti. Mentre stiamo scrivendo sono bloccati nei porti europei (per superamento delle quote stabilite) migliaia di container con centinaia di milioni di capi (almeno 50 solo di maglioni). Si può immaginare cosa succederà alla fine del 2008, quando, secondo gli accordi con la WTO, dovranno essere eliminate le quote e liberalizzati completamente gli scambi.

Chiedendo una procedura d'urgenza per la trattativa già prevista da tempo con il governo di Pechino, l'Unione Europea aveva aggiunto il proprio peso a quello degli Stati Uniti, ed entrambi avevano ottenuto un'accelerazione di alcuni mesi rispetto al calendario previsto: il 15 maggio veniva pubblicata la notizia dei dazi protettivi USA e delle minacciate ritorsioni cinesi; il 18 quella della procedura d'urgenza chiesta dall'UE per le trattative; il 21 la Cina ottemperava a tutte le richieste, individuando i settori sensibili e studiando un sistema di limitazione all'origine per 74 prodotti (la cui tassa doganale veniva quintuplicata dal 1° giugno); il 21 luglio veniva ufficialmente rivalutato lo Yuan.

Dati i precedenti, nessuno si aspettava che la Cina esaudisse formalmente le richieste con quella che appariva come una capitolazione. Nell'ambito del commercio mondiale una trattativa a tavolino non era mai giunta a risultati così eclatanti in così poco tempo. Solo il Giappone, nel 1985, era stato costretto a controllare in modo altrettanto pesante le proprie esportazioni, ma attraverso la sola rivalutazione dello Yen, anche se più sostanziosa di quella dello Yuan.

La Cina d'oggi, però, non è il Giappone di ieri. La rivalutazione giapponese di allora, fortemente voluta dagli americani, non comportò cambiamenti sostanziali nella situazione del mercato mondiale: la maggior parte delle merci vendute negli Stati Uniti, specialmente le automobili, erano prodotte in territorio americano, mentre uno Yen fortemente rivalutato aveva permesso al Giappone uno "sconto" sul prezzo di materie prime ed energia. Non solo, ma gli aveva permesso di potenziare la campagna acquisti alla borsa americana, sul mercato immobiliare di metropoli come New York e direttamente presso il Tesoro di Washington con la sottoscrizione di quantità enormi di titoli di stato. Questo sviluppo degli eventi era marxisticamente prevedibile, l'ennesima dimostrazione dell'irreversibile marcia del capitale industriale verso la condizione del rentier, tipica dell'epoca imperialistica analizzata dai nostri classici.

I fenomeni generali che riguardano l'interscambio fra diversi paesi sono sempre gli stessi da quando Marx scrisse la serie di articoli sul commercio britannico, ma la situazione odierna dell'interscambio fra la Cina e il resto del mondo non è paragonabile a quella fra Stati Uniti e Giappone dell'85 perché la Cina produce ed esporta molto con fabbriche impiantate dagli stranieri sul suo territorio. Esporta e produce molto sul proprio territorio soprattutto per un immenso mercato interno, assorbendo da quello mondiale più materie prime di qualsiasi altro aggregato economico di pari dimensioni. Anche la Cina, come il Giappone, acquista buoni del tesoro americani: non ancora in quanto rentier, ma per gestire temporaneamente capitale finanziario nell'originaria accezione del termine, alla Hilferding, Hobson e Lenin, cioè capitale da investimento futuro.

Una rivalutazione dello Yuan, che è stata minima (2% rispetto al dollaro), modifica di poco la capacità di esportazione che, come vedremo, ha caratteristiche peculiari contro le quali non esistono contromisure. In compenso una moneta nazionale più forte permette alla Cina di acquistare a miglior prezzo merci che sul mercato mondiale sono trattate in dollari, come le materie prime, acciaio e petrolio in testa, di cui il paese è letteralmente affamato per via dell'alto sviluppo. C'è anche un risvolto paradossale: dato che le esportazioni cinesi verso il resto del mondo provengono per il 60% da stabilimenti di multinazionali occidentali stabilitesi in joint ventures nelle grandi aree di sviluppo promosse dal governo di Pechino, l'aumento della tassa all'esportazione pesa in maggior parte proprio sulle merci occidentali prodotte in Cina, con gran vantaggio del Tesoro cinese che adopererà il capitale così ricavato per potenziare ulteriormente lo sviluppo dei poli industriali e delle loro esportazioni. Da buon paese imperialista in erba la Cina non può limitarsi all'acquisto di buoni del tesoro, specie americani, e ha già iniziato a fare qualche scorreria sul mercato finanziario mondiale, passando dall'acquisto di azioni a quello di intere aziende estere e di immobili (d'altronde, leggiamo sul Capitale, non vi è mai una pletora di merci senza che vi sia anche pletora di capitali: se si esportano le une, si finirà per esportare gli altri).

Naturalmente né gli americani né gli europei sono stupidi. Sanno benissimo che si tratta di negoziati il cui esito non riguarda qualche milione di magliette, reggipetti e asciugamani, ma la possibilità di partecipare alla spartizione della gran massa di plusvalore prodotto in un paese di giovane capitalismo con altissimi tassi di crescita. Oltre tutto le trattative hanno riguardato misure che non potranno avere grande influenza sulla quantità di produzione che riesce a sfornare un paese siffatto con i suoi 1,3 miliardi di abitanti e un'industria ormai matura. E la quasi unilateralità con cui la Cina ha addirittura anticipato i risultati di un trattato senza neppure attendere che diventasse ufficiale, dimostra non solo che in questo momento gli interessi sono reciproci, ma che la musica per ora la dirige Pechino.

Leggenda e realtà sul basso prezzo della forza-lavoro

La mistificazione secondo cui il presunto dumping sarebbe dovuto al bassissimo "costo del lavoro" cinese è smentita dai fatti, anche se su questa leggenda s'è costituito una specie di fronte fra i capitalisti rovinati e quei sinistri che si ostinano a scambiare lo sfruttamento con la pena e la fatica, senza capire che il massimo plusvalore è ancora prodotto nei paesi a capitalismo putrefatto, con la massima composizione organica di capitale.

Il salario cinese è sottomesso alla stessa legge che vige ovunque, secondo la quale il valore della forza-lavoro corrisponde a quello dei mezzi di sussistenza (immediati e differiti) necessari a riprodurre l'operaio e la sua famiglia; ne consegue che la forza-lavoro è venduta ovunque mediamente al suo valore e che all'operaio non viene fatta nessuna "ingiustizia". Se il salario medio dell'industria cinese è di 600 yuan, non bisogna ricorrere al cambio ufficiale col dollaro per sapere quanto "vale", ma fare riferimento a quanta merce necessaria alla riproduzione dell'operaio con esso si acquista. Dato che un alloggio popolare nelle grandi città cinesi costa mediamente 100 yuan al mese di affitto, bisogna per esempio vedere se un operaio italiano paga un sesto del suo salario per la casa, e così via.

Il salario cinese è certamente basso, ma non è confrontabile con quello occidentale, così come il salario dell'operaio anni '50 non è confrontabile con quello di oggi (ma con 25.000 lire al mese manteneva una famiglia numerosa, mandava a lavorare i figli fin da ragazzi e si comprava la casa Fanfani a riscatto pagando semplicemente l'affitto). La merce cinese non costa poco perché il salario "è basso", ma perché la cosiddetta globalizzazione non è ancora arrivata al punto di livellare i valori al di là delle frontiere nazionali, e quindi chi beneficia del differenziale intasca un sovrapprofitto molto simile a una rendita. Anche i capitalisti cinesi, naturalmente, intascano un differenziale quando vendono le loro merci sui mercati occidentali. In questo caso sono loro che "sfruttano" l'Occidente.

Accanto a grandi isole di produzione modernissima e automatizzata c'è in Cina un oceano di attività con alto utilizzo di manodopera. Ovunque il salario è quello tipico dei paesi di giovane accumulazione. L'orario di lavoro è da Inghilterra primi '800. Si sfrutta lavoro minorile. Le condizioni di lavoro sono disumane, l'inquinamento interno e ambientale è selvaggio. Ma quando una camicia, un paio di scarpe o un giocattolo vengono prodotti a pochi centesimi in Cina e venduti a molti dollari in Occidente, non abbiamo un indice dei "diritti calpestati", e tantomeno lo spunto per campagne moralisteggianti sul "commercio equo e solidale": abbiamo invece uno degli innumerevoli esempi di sciupìo bestiale offerti da questa società. La legge del valore ci dice che non vi è scambio ineguale. Altrimenti non si potrebbe capire come mai le merci americane e inglesi a basso prezzo rovinassero i produttori artigiani cinesi (e indiani) al tempo di Marx, mentre oggi il processo si è completamente invertito: il valore di una merce scende storicamente con l'aumentare dell'industrializzazione e della scala della produzione, non con l'andamento del salario reale, che nel tempo anzi va crescendo in relazione a quanto acquista (la teoria marxiana della miseria crescente è relativa: il salario reale cresce in rapporto alla quantità di merci che può acquistare, ma diminuisce enormemente in rapporto al capitale che mette in moto e al plusvalore che produce).

Nello specifico settore tessile la forza-lavoro (v) tende quasi a scomparire per quanto riguarda la composizione del prezzo della merce (P = c+v+p, materie prime e ammortamento impianti + salario + profitto). Questa è un'affermazione che potrebbe sorprendere, ma in ogni paese sono ben pochi gli operai che toccano le fibre tessili, i tessuti e il prodotto finale, dalla "filanda" all'abito di serie, essendo il tessile già nell'800 uno dei settori più automatizzati. Nel caso specifico della Cina, giunta recentemente alla grande produzione industriale, gli impianti sono moderni quanto quelli europei e americani, se non di più. Inoltre le fabbriche tessili cinesi, come quelle europee o americane, acquistano gran parte delle fibre, delle macchine e dell'energia sul mercato mondiale, al prezzo medio internazionale; perciò i salari, proprio perché bassi, non incidono molto sul prezzo di costo finale del prodotto, anche calcolando i laboratori dei settori "indotti", tradizionalmente ad alto utilizzo di forza-lavoro, che pullulano intorno ai nuovi distretti industriali.

Il gran piagnisteo dei capitalisti tessili sul confronto fra il costo del lavoro in Europa e Cina non ha senso, come del resto per tutti gli altri settori colpiti dalla concorrenza orientale. Innanzitutto perché le multinazionali occidentali sono le prime a beneficiare del differenziale facendo concorrenza ad altre aziende occidentali. E poi perché la grande scala della produzione e della distribuzione cinese è un prodotto del consumo occidentale prima che di quello relativo all'immenso mercato interno. Il quale si sta sviluppando solo ora e proprio sulla base dei benefici ricavati dallo sbilancio commerciale con l'Occidente. Inoltre c'è la convenienza pura e semplice dei distributori occidentali, dato che, a pari qualità, la differenza di prezzo all'ingrosso fra un prodotto tessile cinese e uno europeo può essere persino di uno a dieci. Ma la ragione di tale differenza, anche in questo caso non è tanto dovuta ai bassi salari quanto alla scala della produzione permessa dai grandi acquirenti e alle condizioni di distribuzione che essi possono permettersi. In Cina vi sono fabbriche enormi in grado di produrre decine di milioni di "pezzi", che vengono gettati sul mercato mondiale con il sistema dell'asta, che privilegia i giganti della distribuzione. La catena americana di supermercati Walmart, ad esempio, acquista dalla Cina merci di valore pari al PIL di una piccola nazione. E infatti si è opposta vivacemente alla regolamentazione dell'import calcolando che, senza le misure di protezione, avrebbe risparmiato dal 12 al 15% sui tessili asiatici. Questi colossi del mercato al dettaglio trattano da pari a pari direttamente con tutti i governi esteri e sono in grado di chiedere, con le loro lobby, contropartite ai governi nazionali in caso di leggi sfavorevoli. Il "negozio" di strada privato sta scomparendo, è ormai parte di catene commerciali in franchising. O sopravvive come isola snobistica per pochi consumatori (tra i quali, peraltro, non vi sono neppure più i "ricchi" veri), quando non è semplice attività di copertura per il riciclaggio di capitali.

Il protezionismo impossibile

Gli espropriatori saranno espropriati: non è una profezia ma la semplice lettura dei meccanismi capitalistici. Adesso che l'esproprio è generalizzato alla grande, si alza al cielo il lamento dei borghesi coinvolti. Eppure Marx, secondo costoro, avrebbe sbagliato tutto. Ora, di fronte alla situazione appena descritta (che non è valida solo per la Cina ma anche per l'India e altri paesi per un ulteriore miliardo e mezzo di abitanti), mettiamoci nei panni di un piccolo produttore di qualità con fabbrica nel biellese o nel trevigiano, ben attrezzata con macchine automatiche modernissime. Ha meno operai addetti al ciclo produttivo in proporzione a quelli delle fabbriche cinesi, quindi una produttività più alta, ma ha pure una produzione mille volte inferiore. Costretto a fronteggiare una serie di intermediari a valle del ciclo produttivo, intralciato da un governo di vecchio capitalismo decotto, è praticamente impossibilitato a far coincidere il suo prezzo di costo con il prezzo di riferimento (prezzo di produzione medio mondiale) influenzato da cinesi e indiani. Tra il capitalista biellese (o europeo, o americano) e quello cinese c'è un'ulteriore differenza, perché quest'ultimo può permettersi il lusso di essere incurante di fronte al saggio di profitto, accontentandosi di una massa enorme, date le quantità che vende, mentre il primo è condannato a fare i conti con il profitto in percentuale rispetto al capitale anticipato, dato che lui da almeno un secolo è costretto a far ricorso al sistema del credito.

E non può più neppure far conto sul polmone della produzione a mano, che nel settore tessile aveva un gran peso quando vi era simbiosi fra alta automazione (alta composizione organica di capitale) e vaste lavorazioni artigianali, eseguite a domicilio o all'estero (bassa composizione organica, una delle cause contrastanti la caduta del saggio di profitto). Alla Benetton, per esempio, hanno dimostrato già da anni che si può computerizzare il ciclo completo taglio-cucito-finitura, per cui la quasi totalità delle lavorazioni è rientrata dall'estero ed è eseguita di nuovo nel Veneto. Il fatto è che Benetton è una realtà produttiva "piccola" in confronto a quelle cinesi, le quali sono già competitive anche sul piano della finitura e della qualità generale. Effettivamente la concorrenza è ardua perché a chi venderà Benetton se dovesse aumentare in proporzione la sua scala produttiva? Ai cinesi?

A proposito della qualità, un'altra leggenda va a rotoli, dato che non ha più senso consolarsi con le frasi fatte: "il prezzo dei cinesi è basso, ma la qualità è anche scarsa", "si deve puntare sui prodotti di qualità", ecc. Nel settore tessile, come in tutti gli altri settori, la standardizzazione dei processi è ormai di livello internazionale. Questi sono certificati da organismi appositi e ad essi si conformano i capitolati di acquisto delle grandi centrali sia per quanto riguarda la tecnica (finissaggio, additivi, stampaggio, ecc.) che per quanto riguarda le procedure ormai universalmente applicate. Infine, organismi internazionali di certificazione e controllo garantiscono che la produzione si attenga alle norme. Le procedure operative industriali sono le stesse per tutti, solo che l'industria cinese opera su vasta scala e può distribuirne il costo su milioni e milioni di "pezzi", mentre il capitalista occidentale non lo può fare.

C'è anche da aggiungere, sempre a proposito della qualità, che parte dell'industria cinese si è addestrata meticolosamente per anni a falsificare i prodotti di qualità occidentali, tanto da passare oggi alla produzione degli originali, proprio su commissione delle grandi case un tempo copiate. Quello della contraffazione è un settore che dunque è stato trainante e tra l'altro ha spodestato i falsificatori nostrani, i quali hanno ceduto completamente le armi alla schiacciante superiorità orientale. Napoli, che era uno dei maggiori centri della produzione e distribuzione di falsi, con un guizzo di estro imprenditoriale "alternativo" è diventata un centro di mediazione mondiale per l'import-export di falsi cinesi, superando Hong Kong.

Alta composizione organica del capitale

L'industria tessile è storicamente un settore ampio e differenziato. Accanto a lavorazioni ad alta intensità di capitale sono sempre esistite altre lavorazioni ad alta intensità di forza-lavoro. Le operazioni a monte della filiera sono comunque ad alta automazione e a forte intensità di capitale. Filatura, tessitura, finissaggio dei tessuti comportano un'automazione tale da eliminare quasi del tutto la presenza umana. Ciò ha un riflesso sugli investimenti, che richiedono enormi anticipi di Capitale in confronto alla forza-lavoro impiegata. Ad esempio, i telai che fino agli anni '70 producevano pizzi elastici, uno dei semilavorati fondamentali per l'intimo (settore tra i più sensibili alla concorrenza), potevano costare 75.000 euro e obbligavano ad interrompere il ciclo per giorni ogni volta che occorreva cambiare la serie delle camme per una lavorazione diversa. Oggi un telaio a controllo computerizzato può costare 1.000.000 di euro, cioè in termini reali circa il doppio di allora, ma ha una produttività incomparabilmente superiore ed espelle quasi totalmente la forza-lavoro dal ciclo produttivo; per cui l'investimento per addetto diventa astronomico anche in rapporto al fatto che il valore unitario della merce, prodotta in quantità crescente, diminuisce.

Questo processo storico ha provocato la scomparsa in Europa e in America delle lavorazioni tradizionali di massa ma ancora ad alta intensità media di forza-lavoro. Esse si sono spostate in Asia, lasciando qui i due estremi: la produzione di massa pressoché completamente automatizzata e la produzione di élite, con lavorazioni quasi tutte manuali e utilizzo di macchine tradizionali. Tuttavia, negli ultimissimi anni, il forte sviluppo cinese ha comportato l'adozione della tecnologia più moderna per le produzioni di massa, le quali ormai eguagliano quelle occidentali per standard di qualità. Il risultato inevitabile è stato uno spostamento ulteriore delle lavorazioni tessili dall'Occidente all'Asia, specialmente in Cina.

Il vantaggio, per i capitalisti occidentali che hanno trasferito le fabbriche, è stato determinato da una combinazione fra differenziale nel costo della forza-lavoro, maggiore scala della produzione e flessibilità nell'uso dei costosi impianti che in Asia sono utilizzati a livelli vicini al 100%, senza interruzione del ciclo operativo. Di conseguenza molti produttori europei e americani, che prima potevano contare su una struttura industriale a ciclo quasi completo sul proprio territorio, dalla materia prima (fibra, tessuti, pizzi, balze, ricami, ecc., mancava solo il cotone) al prodotto finito, adesso si devono approvvigionare in Asia, diventando uno degli ingranaggi del ciclo globale di cui non sono più al centro da decenni. Perciò, nella parte del settore a monte della confezione del prodotto finito, le sorti del tessile euro-americano sono già segnate e l'industria che sopravvive è di tipo residuale, praticamente in estinzione.

Rimane l'ampio settore della trasformazione e della confezione, che in parte è ancora ad alta intensità di forza-lavoro, anche se ne utilizza sempre meno. Fu la base su cui crebbero fin dagli anni '50 il boom tessile italiano e i distretti produttivi, e al quale s'accompagnò negli anni successivi il fenomeno della "terziarizzazione", cioè la delocalizzazione nazionale invece che internazionale. Il prodotto veniva cioè concepito e semilavorato nella fabbrica e quindi avviato a laboratori esterni per la confezione e la finitura.

Ancora negli anni '70, specie in Italia, i "terzisti" erano unità operative minime, sul modello dell'ottocentesca cottage industry inglese se non addirittura dei tessitori slesiani: investendo 3.000 euro attuali una compagine di 3 o 4 persone (spesso una famiglia) poteva attrezzarsi e organizzarsi per la produzione di 20.000 capi di vestiario al mese. Su questa base poteva crescere un laboratorio locale in grado di sfruttare fino a qualche decina di salariati, in un contesto di "basso sfruttamento", bassa composizione organica, scarsissima produzione di plusvalore relativo, assoluta assenza di potere contrattuale da parte dei lavoratori. In Italia il fenomeno fu importante in Emilia-Romagna e si diffuse più tardi in Puglia e in Veneto. In Francia si estese nel triangolo tessile tradizionale Lione-Mulhouse-Lille, mentre i fabbricanti degli Stati Uniti si avvalsero dei distretti di piccoli laboratori (maquiladoras) in una fascia appena al di là del confine con il Messico.

In Italia questa situazione durò fino al 1985-90, quando lo spontaneo sviluppo del settore portò alla crescita di alcune realtà facendone estinguere altre, disorganizzate o poco produttive. Alcuni piccoli gruppi si slegarono dal fornitore originario e diedero vita ad alcune industrie che a loro volta ebbero un "indotto" specifico. Approfittando delle sacche di miseria e disoccupazione, fu ancora conveniente il ricorso alla lavorazione semi-manuale, ma solo perché avveniva ― e avviene ― al di fuori di ogni regola e controllo (qualche anno fa, ad esempio, il titolare di una camiceria illegale nel Sud è stato denunciato per "traduzione in schiavitù").

In tale contesto si presentarono tre eventi in rapida successione: 1) l'automazione – storica nelle fasi di lavorazione della materia prima e dei semilavorati e già consolidata anche nei sistemi di taglio – fece il suo ingresso finale nel settore della confezione; 2) il crollo del sistema legato all'URSS aprì i paesi dell'Europa orientale alla delocalizzazione; 3) la Cina si affacciò prepotentemente sul mercato mondiale inserendo tra le priorità proprio il settore tessile.

Tre passi verso l'estinzione

Automazione. Mentre negli anni '70 tutte le operazioni a partire dal taglio erano poco automatizzate, la situazione cambiò con l'ingresso dell'elettronica e del CAM (Computer Aided Manufacturing). Oggi i sistemi di taglio, piazzamento, cucitura e identificazione delle partite di produzione sono quasi ovunque computerizzati. Il taglio con apparecchi laser è già molto diffuso, e sono in funzione impianti pilota di assemblaggio senza cucitura per tessuti appositamente studiati.

Tutto ciò permette produttività e flessibilità altissime, ma richiede investimenti che il piccolo produttore non può più affrontare. Se nel 1975 si potevano produrre 20.000 capi al mese con un investimento globale di 3.000 euro attuali per impianti e macchinario, oggi ciò non è più possibile perché una sola macchina per cucire industriale con controllo elettronico costa sui 7.500 euro, senza contare l'assistenza, la manutenzione, ecc. (in Italia l'industria per le macchine da cucito e da taglio è già estinta).

Se la macchina e il computer sono in grado di produrre in modo uniforme e con alta qualità costante, chiunque possa accedere a macchine e computer potrà produrre in quantità e con qualità, indipendentemente dalla tradizione e capacità della forza-lavoro locale. Se poi interviene uno Stato come quello cinese (o indiano, ecc.) nella formazione dall'alto di distretti tessili, meccanici o informatici, si capisce che l'espropriazione si fa generalizzata e diventa pura utopia vagheggiare una "fascia alta" di produzione che nessuno ci potrebbe portar via.

Apertura dei paesi dell'Est. Alle prime avvisaglie di concorrenza asiatica molti capitalisti tessili spostarono le unità terziste in Romania, Ucraina, Moldova, Albania, Serbia e Bosnia. Molti di quelli italiani non fecero che trasferire all'estero lo stesso metodo che avevano adottato nei distretti interni: concezione del prodotto e taglio in Italia, assemblaggio in Est Europa. Al di sotto di una certa dimensione produttiva alcuni mantennero solo gli uffici in Italia e dislocarono tutta la produzione all'estero. Fu naturalmente come regalare la loro capacità produttiva ai futuri produttori locali, in una dinamica suicida che è sempre la stessa.

Esplosione della Cina sul mercato mondiale. Si fa un gran parlare della Cina, ma non è il solo paese asiatico che fa concorrenza all'Occidente: vi sono anche l'India, il Viet Nam, la Corea, la Thailandia, Taiwan, ecc., tutti in grado di offrire non tanto il solito differenziale sul costo della forza-lavoro, quanto buona capacità industriale, formazione moderna e attrezzatura tecnologica talvolta superiore a quella di molti fabbricanti occidentali.

Fino a pochi anni fa la concorrenza orientale era costituita soprattutto da Taiwan e da Hong Kong, che per primi avevano impiantato laboratori in Cina. La presenza cinese sul mercato tessile mondiale non era ancora molto diffusa e la fissazione di quote all'importazione offriva una certa protezione. La moltiplicazione delle joint ventures occidentali in territorio cinese e la cessione di Hong Kong alla Cina furono la premessa per l'esplosione produttiva di quest'ultima e il suo conseguente ingresso sulla scena mondiale. Il tessile cinese in pochi anni si è dotato di una miscela non neutralizzabile: 1) unità produttive di grandi dimensioni; 2) utilizzazione dei macchinari e metodi di produzione tecnologicamente fra i più avanzati; 3) flessibilità totale nell'uso della forza-lavoro; 4) produzioni di massa con volumi che gli industriali occidentali manco si permettono di sognare; 5) immensa disponibilità di terzismo, in laboratori capitalistici, a domicilio nelle immense metropoli o nelle campagne per le operazioni manuali a costi infimi; 6) intervento dello Stato a sostegno della produzione ed esportazione; 7) indebitamento presso le banche, tollerato dallo Stato anche senza che queste badino troppo alla copertura del credito.

Il circolo si chiude, il paradosso si fa completo: le esportazioni di merci e capitali distruggono l'antica economia artigiana, creano un mercato locale moderno, dal quale nasce un'industria che a sua volta incrementa il mercato e importa non più solo merci ma macchine e impianti, incominciando a esportare. Mentre il tessile come elemento trainante dell'economia chiude i battenti in Occidente, lasciando zone di nicchia che sopravvivono nel terrore della concorrenza, è ancora abbastanza florido il settore meccanotessile, cioè quello della produzione di macchine specializzate per determinate lavorazioni (tessuti, pizzi, calze, ecc.). Pochi produttori occidentali ne hanno praticamente il monopolio mondiale: ad esempio, a Bergamo ha sede la più grande fabbrica del mondo di telai meccanici per l'industri tessile: su dieci telai meccanici che questa industria esporta nel mondo, sette vanno in Cina, uno nel resto dell'Asia, uno in Turchia, uno in Europa. I macchinari made in Italy per l'industria tessile sono la prima voce delle esportazioni italiane in Cina. Sappiamo benissimo come andrà a finire: se delle macchine possono costruire altre macchine, le costruiranno, con buona pace dei capitalisti che esultano ancora per i lauti profitti attuali.

Infatti le macchine in Cina si stanno moltiplicando a tale velocità da procurare già enormi problemi sociali. A causa della loro introduzione su scala sempre più vasta, da 100 a 200 milioni di contadini sono in esubero nelle campagne e decine di milioni di impiegati stanno per essere espulsi dall'amministrazione pubblica e privata a causa dell'informatizzazione dei sistemi. E nell'industria è in corso lo stesso processo, anche se, dato il boom economico, non produce per ora effetti gravi. Mentre alcune città-satellite crescono a vista d'occhio intorno ai distretti industriali, altre si svuotano o non fanno neppure in tempo a riempirsi a causa della velocissima riconversione delle industrie alle nuove tecnologie per l'automazione. Il caso più clamoroso è quello delle fabbriche di sigarette, progettate con i loro villaggi operai qualche anno fa per produrre miliardi di pezzi al giorno, e ora velocemente automatizzate con le macchine a ciclo continuo di un'azienda tedesca. I villaggi operai sono ancora in cantiere e già non vi sono più gli operai che dovrebbero abitarli.

Comunque sia, il vantaggio conseguito dal capitalismo cinese nel settore tessile è irrecuperabile dalle unità produttive europee o americane anche per un altro motivo: oggi non siamo più nell'epoca della concentrazione capitalistica, quando i colossi industriali si formavano e si sviluppavano contemporaneamente, sull'onda della produzione crescente. Siamo in quella della centralizzazione, iniziata già ai tempi di Marx: oggi la quantità della produzione non cresce più ai ritmi del passato, quindi le grandi strutture capitalistiche possono svilupparsi solo a spese di altre, con una concorrenza per la vita o per la morte. Per questo lo sviluppo asiatico non può essere che sinonimo di declino produttivo in altri continenti. La cosiddetta deindustrializzazione, tanto paventata dai sindacati, non è una questione di scelte, è una questione di leggi inerenti alla natura del sistema.

Letture consigliate

I dati riportati sono stati tratti da articoli di Il Sole 24 Ore, La Repubblica (che ha pubblicato una serie di corrispondenza dalla Cina di Federico Rampini) e soprattutto di The Economist, che da anni ha un'attenzione particolare per i fatti cinesi. Digitando le opportune parole chiave, si possono trovare in Internet, sui siti istituzionali e delle pubblicazioni economiche, montagne di dati interessanti non solo sulla produzione tessile ma sulla "questione cinese" in generale, della quale ci occuperemo su questa rivista nei prossimi numeri.

Le notizie sulla struttura internazionale dell'industria tessile e sui suoi problemi provengono invece da fonti dirette.

Rivista n. 18