Legge della miseria crescente (5)

Parte terza: il movimento storico della miseria

Dati e previsioni

Nella parte precedente abbiamo seguito la genesi storica dei modelli utilizzati dall'economia politica, cercando di non abbandonare mai il filo rosso che ci collega alle nostre origini. Nel corso di questa panoramica la legge marxiana della miseria crescente, o della popolazione, è risultata non solo verificata ma rafforzata. Per completare la panoramica stessa occorre ora collocare le informazioni fin qui accumulate, cioè le relazioni fra i modelli e la realtà, in una visuale storica che sia più ampia e completa rispetto agli sporadici riferimenti a dati recenti come quelli di un Krugman, o più antichi come quelli di un Pareto.

In particolare abbiamo visto che la dinamica dei redditi è influenzata, nei modelli, non tanto da espedienti riformistici, quanto dallo sviluppo economico. Da ciò deriverebbe che, se tale sviluppo sarà intenso, i redditi potranno crescere, ma meno del valore complessivo prodotto. Quindi il mondo andrebbe verso una saturazione economica catastrofica. Se dovesse invece mancare lo sviluppo, il mondo andrebbe verso una crisi ugualmente catastrofica per questo opposto motivo. In entrambi i casi la miseria relativa crescente sarebbe una realtà confermata, così come lo sarebbe la crescita della sovrappopolazione strutturale. Comunque, date le politiche di stimolo dell'economia da parte degli Stati, e dato l'oggettivo affacciarsi sulla scena di giganti come la Cina e l'India, di paesi dinamici come il Brasile o le nuove "tigri" asiatiche, per adesso lo sviluppo è ancora confermato.

La domanda, arrivati a questo punto è: visto che i modelli ci offrono prospettive catastrofiche per il capitalismo, è possibile stabilire un percorso storico abbastanza preciso, tale almeno da permetterci di fare previsioni non campate in aria sui risvolti sociali, cioè sul comportamento collettivo di miliardi di uomini? E in che tempi? Per rispondere occorre individuare, sulla base dei modelli fin qui analizzati a partire da quello di Marx, un andamento nel tempo, un'invarianza nella dinamica del sistema (cioè una misurabilità) che ci permetta di fare proiezioni nel futuro. Con un'avvertenza: il capitalismo, come ogni società, presenta fenomeni caotici e turbolenze simili a quelli dell'atmosfera, ma essi, a differenza di quelli meteorologici (che sono prevedibili solo a brevissima scadenza, due o tre giorni), sono prevedibili solo a grandi cicli storici (successione determinata e certa dei modi di produzione). A meno di non trovarsi con l'attrezzatura teoretica adatta nei momenti di transizione, come disse Lenin a proposito della "settimana che non bisogna lasciar passare".

Una prima considerazione da fare è sulla difficoltà di confrontare i dati di periodi storici diversi. Per quanto ci aiuti la capitolazione della borghesia di fronte al marxismo, dato che oggi la stessa borghesia li raccoglie in modo compatibile con la teoria del valore di Marx, rimane sempre il fatto che possiamo fidarci dei dati parziali che pubblica nelle singole epoche, ma non possiamo adoperarli per serie storiche che vadano a di là di un ciclo capitalistico breve (da cinque a dieci anni). Primo, perché i dati sono compatibili internazionalmente solo da quando, alla fine degli anni '60, si sono unificati i criteri di rilevazione e conteggio, assimilandoli al "valore aggiunto" che è, appunto, il suddetto criterio marxiano. In secondo luogo, abbiamo dettagliati rilevamenti per fasce di reddito, ma riferite agli individui, per cui vi sono, dal punto di vista nostro, alcune distorsioni. Ad esempio, sarebbe più corretto attribuire il reddito alle unità famigliari, così come si fa con i consumi, suddividendo poi il totale fra il numero dei componenti, dato che vi può essere molta differenza, da individuo a individuo, fra il reddito percepito e quello speso. È infatti del tutto evidente che casalinghe, bambini e anziani a carico non possono essere conteggiati come percettori diretti di reddito "zero" senza falsare le curve di distribuzione. Anche il disoccupato incide su quello che abbiamo chiamato "conto di classe", dato che abbassa la media del salario percepito dall'intera classe proletaria. Inoltre, per impostare il nostro ipotetico modello storico, occorrerebbe raggruppare i singoli redditi così ricavati in fasce compatibili fra periodi storici, tenendo conto delle differenze di consumo non solo fra fasce, come abbiamo visto citando il presidente dell'ISTAT, ma anche fra periodi. È infatti anche qui chiaro che non solo è ben diverso comprare pane o gioielli, ma anche computer o pallottolieri, aviogetti o animali da soma.

Come si vede, affermare che le fasce a reddito alto o basso hanno migliorato o peggiorato la loro posizione rispetto a una generazione precedente non ha molto senso se non si tiene conto di questi parametri, peraltro difficili da rilevare e maneggiare. Al tutto si aggiunge la già affrontata difficoltà di trattare la miseria crescente "relativa" del proletariato, cioè il rapporto fra salario percepito e plusvalore prodotto per altri, intascato, investito o distribuito nella società tramite le politiche fiscali e assistenziali dello Stato. Insomma, è praticamente impossibile confrontare le curve di Pareto ricavate dai dati di situazioni storiche diverse.

Verifica su cicli storici cinquantennali

Avvertito il lettore di tutto ciò, utilizziamo i dati disponibili senza scrivere troppe sfilze di numeri (per i quali rimandiamo a Kuznets, vedi biblografia). Negli Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania c'è una sostanziale stabilità nella diseguaglianza sociale fra la fine dell'800 e il 1950 e anzi, il 40% della fascia inferiore di reddito migliora la sua posizione, mentre quella del 20% superiore perde qualche punto a causa della maggiore tassazione redistributiva da parte dello Stato nell'immediato secondo dopoguerra. Nello stesso mezzo secolo, salvo in tempo di guerra, i salari aumentano in termini reali almeno del doppio. Il fatto è che se guardiamo al rapporto con il plusvalore prodotto e con la produttività, i soli parametri per valutare la crescita della miseria relativa, vediamo che la produzione industriale, dovuta proprio alle due fasce inferiori, aumenta in valore almeno del 400% nello stesso periodo (cfr. Corso del capitalismo mondiale). I dati vanno poi integrati con quelli sul risparmio e quindi sull'accumulazione di ricchezza: negli Stati Uniti, agli inizi degli anni '60 il 10% dei possessori di reddito più basso risparmiava zero, mentre il 10% superiore quasi il 100% (e il 66% dal 5%).

L'accumulazione di ricchezza e la sua trasformazione in beni di proprietà tramite il risparmio produce un effetto cumulativo crescente presso chi ha già proprietà generatrice di reddito. È insomma un altro dei fattori della miseria relativa crescente, cioè della proletarizzazione e del moltiplicarsi della sovrappopolazione: mentre crescono le riserve dei capitalisti (o rentiers, ecc.), cresce la popolazione dei senza-riserve, che per noi, tramontato il pauperismo antico, è assimilabile al proletariato moderno, compresi i disoccupati, precari, immigrati, ecc.

Ovviamente tutto ciò ha a che fare con il divenire della struttura industriale di un paese, con la crescente urbanizzazione e con il movimento di masse contadine verso la città e l'industria. In un modello semplice possiamo supporre che la curva di distribuzione del reddito mostri diseguaglianze non troppo marcate in quanto abbiamo il risultato di una media fra zone urbane e zone agrarie, nelle quali la diseguaglianza è minore. In un modello che si approssimi alla realtà la situazione si presenta alquanto diversa. Nella storia del capitalismo, l'arrivo nelle aree urbane di masse contadine ha comportato − e sta comportando in molti paesi emergenti − una concorrenza fra proletari che abbassa drasticamente la media dei salari, cosa che fa aumentare la "coda" della curva dalla parte dei redditi bassi. Inoltre, masse urbane crescenti, specie nei paesi di nuovo sviluppo, non partecipano tanto alla produzione di valore quanto alla sua circolazione sterile, un'economia sommersa e miserabile che sfugge alla rilevazione statistica facendo aumentare a dismisura le "code" della curva verso l'alto e il basso reddito.

È la stessa situazione che nei paesi di vecchio sviluppo si verificava agli albori della rivoluzione industriale. Bisogna anche tener conto del fatto che comunque la massa della popolazione urbana è quella che ormai storicamente comanda sulle statistiche, dato che ogni economia moderna non può che essere analizzata attribuendo maggior peso specifico ai settori trainanti. In Cina, ad esempio, ci sono 800 milioni di abitanti ancora legati alle aree rurali, ma ormai contano solo come sovrappopolazione latente e spesso, per il governo, come problema di ordine pubblico, dato che il loro immiserimento provoca rivolte.

La "nostra" modellazione approssimativa basata sui trend storici porterebbe a concludere che, relativamente ai paesi sviluppati, passata una fase di relativa stabilità dell'ineguaglianza, la sferzata del boom economico del secondo dopoguerra avrebbe dovuto portare a una netta crescita della diseguaglianza stessa, anche grazie alla pletora americana di capitali che si è riversata sui paesi sconfitti, ovviamente incrementando le attività produttive e concentrando ulteriore ricchezza. Ciò è effettivamente successo, ma in maniera assai limitata, almeno fino alla soglia degli anni '80. Si è invece ingrossata molto la fascia intermedia, specialmente negli Stati Uniti, come abbiamo visto all'inizio. Si tratta di un trentennio di ascesa indubbia del capitalismo occidentale, durante la quale il proletariato ha effettivamente goduto delle "briciole che cadono dalla tavola imbandita", per dirla alla Lenin. Ma anche in questo caso il conto di classe torna non appena si tenga conto 1) dell'intera classe e non solo degli occupati; 2) dell'intero mondo e non solo dei paesi sviluppati; 3) di un ciclo storico completo e non solo di un'epoca di riassetto dovuta a ben due guerre mondiali.

Nel ciclo storico completo, cioè approssimativamente nel successivo mezzo secolo rispetto a quello prima considerato, il capitalismo mistifica ideologicamente l'intervento dello Stato per distribuire il reddito (mistifica, non: "abbandona", come dice qualcuno) e ritorna ad assurde teorie del liberismo, accompagnate però da un intervento statale più massiccio che mai a sostegno dell'economia e a scapito delle fasce medio-basse. L'era che ormai va sotto il nome di due poveri battilocchi insipienti, Tatcher e Reagan, rappresenta solo una piccola rettifica del criterio generale di redistribuzione: invece di puntare direttamente sul consumo, alla Keynes, si è tentato di puntare sulla diseguaglianza sociale come motore del risparmio e dell'investimento per arrivare comunque al consumo.

Il guaio per questo tipo di battilocchi è che, come diceva Marx, se quando piove si apre l'ombrello, non basta aprire l'ombrello per far piovere: quando finisce il periodo delle vacche grasse e non c'è più abbastanza plusvalore da distribuire (e si è anche saturato il mercato con ogni tipo di merce), viene a mancare proprio il motore primo di una mitigazione della diseguaglianza, cioè lo sviluppo, come appare nell'ultimo modello di simulazione. Ma se lo sviluppo provoca questo effetto, non può essere che provocando l'effetto con l'intervento dello Stato si provochi anche lo sviluppo, anzi, non si fa altro che allargare ancora di più la miseria. Infatti Bush, il rampollo degenerato del duo Tatcher-Reagan, si fa portavoce di un'altra bella trovata dell'economia politica senile: il "capitalismo compassionevole". Si agisce consapevolmente per ampliare la diseguaglianza, ma proprio per questo ci si propone di essere caritatevoli con coloro che saranno gettati sul lastrico, per non farli morire di fame. Ci sembra un paradigma perfetto.

Fasi alterne della distribuzione storica del reddito

Abbiamo visto che, in generale, la dinamica dello sviluppo è l'unico fattore efficace per neutralizzare l'effetto dell'accumulazione personale attraverso il reperimento di valore nella società (risparmio), ma solo se lo Stato interviene nel redistribuire il reddito. In questa fase, ci dicono le statistiche, c'è un balzo nel tasso di natalità dovuto alla maggiore disponibilità di risorse da devolvere ai consumi, rafforzato dal tasso decrescente di mortalità per le migliorate condizioni di vita. Ad un certo punto, però, la tendenza si inceppa: pur in presenza di una situazione non catastrofica (nessuno muore di fame nei paesi sviluppati), il tasso di natalità regredisce, la popolazione invecchia e una miseria strisciante colpisce fasce sempre più ampie di popolazione. Gli economisti, presi alla sprovvista, non sanno rispondere al semplice quesito: da che cosa dipende questo fenomeno? Se cent'anni fa abbiamo avuto miseria e diseguaglianza crescenti, se cinquant'anni fa abbiamo goduto di un livellamento da sviluppo capitalistico, se adesso stiamo regredendo a fasi antiche, come sarà il futuro prossimo? Mentre i modelli parlano chiaro, l'economia politica s'impappina e balbetta intorno a propositi di buona volontà, a governi migliori, a vertici mondiali.

Eppure la risposta è a portata di mano: se la media tra popolazione urbana e contadiname faceva aumentare il divario dei redditi (abbiamo visto che l'indice di Gini mondiale è 86, mentre nei paesi del Terzo Mondo è intorno a 60 e nei paesi sviluppati intorno a 40), l'inurbamento e la progressiva scomparsa dei contadini avrebbe dovuto abbassare tale divario. Se ciò non è successo è perché il sistema industriale urbano non ha affatto assorbito la sovrappopolazione relativa latente, ma l'ha consolidata in sovrappopolazione strutturale assoluta. Può capovolgersi nuovamente questo andamento o siamo di fronte a un fenomeno irreversibile che ci porta verso la catastrofe? I modelli sono per la seconda ipotesi, i dati reali anche.

Citiamo un altro po' di questi dati (cfr. Kuznets): la prima fase, di rivoluzione industriale in cui il divario fra i redditi si amplifica, va per l'Inghilterra dal 1780 al 1850 circa e dal 1840 al 1890 circa per Stati Uniti e Germania; la seconda fase, in cui il divario si stabilizza, va dal 1890 alla Prima Guerra Mondiale per Inghilterra e Germania (per gli Stati Uniti a partire dal 1918); la terza fase, in cui il divario diminuisce, va dall'interguerra al 1970-80. La quarta fase, in cui il divario si amplifica di nuovo a livelli mai visti nella storia, va da quella data fino a oggi. Questi tre paesi hanno anticipato l'andamento, ma tutti gli altri paesi industriali hanno avuto lo stesso ciclo (il Giappone ha avuto un ciclo simile a quello della Germania). I paesi emergenti stanno entrando in un ciclo di accumulazione accelerata, ma completamente diverso rispetto a quello dell'accumulazione in Occidente: essi hanno trovato il terreno già spianato e si affacciano all'industrializzazione in un mondo già abbondantemente sviluppato, globalizzato e finanziarizzato, quindi si sviluppano con i caratteri di alto divario fra redditi, che nel loro caso è già analogo a quello della suddetta quarta fase.

Il Capitale − ed è questo il fondamento della questione − ha bisogno di accrescersi per non soccombere a sé stesso. Ma è proprio così facendo che decreta la propria fine. Lo dimostra Marx, lo confermano i modelli di ogni tipo, purché basati su una dinamica interna che simuli in qualche modo la crescita e la distribuzione del valore all'interno della società (o le reti di relazioni fra individui e gruppi). Di fronte a questa realtà dovrebbe essere chiaro che è una sciocchezza predicare alle popolazioni la virtù malthusiana del controllo delle nascite e ai governi di investire sempre di più al fine di maggiore sviluppo per limitare la miseria. Ma sono sciocchezze anche l'illusione che il capitalismo possa crescere per sempre e il vagheggiare una sua impossibile conversione strutturale.

La storia non si ripete affatto e cicli di ritorno non sono previsti: la tendenza è quella e la prova ci è data sia dai modelli di simulazione che dall'analisi storica dei dati. Un vero sviluppo oggi è prerogativa di paesi emergenti come la Cina e non prenderà secoli di sicuro. In paesi di vecchio capitalismo manca ormai questa molla e non c'è più sufficiente valore da distribuire. Tuttavia Occidente e Oriente sommati danno ancora crescita e sviluppo capitalistico anche se ormai persino gli economisti più reazionari hanno paura delle conseguenze. Perciò si aggravano tutti i meccanismi di scambio interpersonale e soprattutto di accumulazione, secondo la legge della miseria largamente verificata. Il pianeta, con i suoi abitanti e tutte le sue risorse, non è che una sfera dalle dimensioni e dalle possibilità finite. La dinamica storica porta quindi, inesorabilmente, all'esasperazione di tutti i parametri esistenti oggi. Se è difficile stabilire il tempo esatto che manca alla soglia di sopportabilità sociale, quindi all'esplosione dell'intera società, è invece facile stabilire che questa ci sarà, e gigantesca.

La dannazione del proletariato e la sua riscossa

Da quando si è rovesciato il rapporto storico che lega l'uomo al suo mezzo di produzione, e ormai non è più l'operaio che impiega i mezzi di produzione ma sono questi che impiegano l'operaio, la legge della miseria crescente si esprime in una semplice formula: come la singola fabbrica ammoderna il suo ciclo di produzione e "mette in esubero" gli operai superflui, così il Capitale, aumentando la forza produttiva sociale, "mette in esubero" una parte dell'umanità.

L'operaio, in una situazione in cui impera il mondo della produttività, cioè della produzione di plusvalore relativo, non diventa solo un essere che conduce un'esistenza precaria, diventa un essere mutilato della propria umanità, un "frammento d'uomo", l'appendice di una macchina, spogliato della potenza intellettiva che metteva nel processo lavorativo. Il quale processo ora è invece il luogo dove si cristallizza la scienza come potenza autonoma in grado di trasformare tutto il tempo di vita in tempo di lavoro, compreso quello che sembrerebbe destinato esclusivamente ad un impiego "privato" e che invece è nient'altro che tempo di consumo e tempo di riproduzione della forza lavorativa per il Capitale. Perfino sotto le coperte non si generano uomini, ma portatori di forza-lavoro.

"Nella misura in cui il capitale accumula, la situazione dell'operaio, qualunque sia la sua mercede, alta o bassa, deve peggiorare. La legge infine che tiene la sovrappopolazione relativa o esercito industriale di riserva in costante equilibrio col volume e l'energia dell'accumulazione inchioda l'operaio al capitale più saldamente di quanto i cunei di Efesto inchiodassero Prometeo alla sua roccia. Essa determina un'accumulazione di miseria corrispondente all'accumulazione di capitale. L'accumulazione di ricchezza ad un polo è quindi nello stesso tempo accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, abbrutimento e degradazione morale al polo opposto" (Marx, Il Capitale, Libro I, cap XXIII, sottolineature nell'originale).

Forse i distratti critici di Marx non hanno notato ciò che qui è ribadito a chiare lettere: che la situazione dell'operaio, anche quando egli fosse saldamente ancorato al suo posto di lavoro, deve peggiorare qualunque sia il suo salario, alto o basso; che l'accumulazione di miseria è relativa all'accumulazione del Capitale; che l'abbrutimento non dipende dal valore della forza-lavoro ma dal semplice fatto che esiste il rapporto capitale-operaio.

È ovvio che con l'odierno, mostruoso estendersi del Capitale su ogni aspetto della vita umana, con la conquista di ogni angolo del pianeta alla sua sfera d'influenza, specie nella forma imperialistica finanziaria, si estende alla scala planetaria anche l'attrazione e la repulsione di forza-lavoro. Così la sovrappopolazione relativa è sempre più attratta o respinta a seconda della concentrazione di capitale nelle varie aree del mondo. Masse enormi di uomini si spostano rompendo ogni legame con la loro terra, disegnata da frontiere politiche ormai diventate anacronistiche. Più la popolazione si getta nella produzione come lavoro vivo, più contribuisce ad alleviare i guai provocati dall'aumento della composizione organica e tecnica del Capitale (automazione, produttività); più è miserabile, più acconsente allo sfruttamento. Producendo plusvalore assoluto invece che relativo, migliora l'andamento del saggio di profitto, mitigandone la legge della caduta tendenziale, storica. Ma così facendo entra nel ciclo perverso dell'accumulazione che genera sovrappopolazione relativa proprio per poterla utilizzare e gettare finché non diventa semplicemente sovrappopolazione superflua. In poche parole la sovrappopolazione relativa genera da sé, e in maniera crescente, le condizioni per rendere sé stessa sempre più eccedente.

La legge assoluta di sovrappopolazione coinvolge tutto, e l'eccedenza di umanità senza riserve dilaga senza che nessuno possa porvi rimedio. Non vi sono poteri legislativi ed esecutivi che possano fermare la marea montante della cosiddetta immigrazione: l'ondata umana è prodotta dallo stesso capitalismo che la borghesia immagina assediato dall'esterno, come se vi fossero ancora i barbari a premere contro i limites dell'impero. Ma non c'è più un "esterno" delimitato da "confini", ed è negato anche quello spazio siderale che la borghesia impotente sognava di "conquistare", fallendo per spregevoli questioni di costi/ricavi. L'espansione è finita: la miseria crescente è una delle irreversibili condizioni di esistenza del Capitale globale, come ormai ammettono molti economisti, consapevoli del fatto che solo un immane serbatoio di schiavi potrà rappresentare un tentativo di salvezza. Ma persino qualcuno di loro incomincia già a dire che non sarà che un po' d'inutile ossigeno per una società ormai cadavere.

Appendice

Note metodologiche su reddito e ricchezza

Effetti politici delle concezioni sulla ripartizione del valore

Nel testo che precede si fa spesso riferimento al reddito e al fatto che possa essere accumulato diventando ricchezza. Fra reddito e ricchezza c'è quindi una differenza sostanziale dovuta alla dinamica di questo divenire: la ricchezza può essere già esistente o, appunto, derivare da un reddito che in essa si trasforma. Una nota metodologica ci sembra necessaria anche se è già abbondantemente spiegato nei nostri testi classici che la suddivisione in classi non dipende dalla quantità di reddito e neppure di ricchezza ma dalla produzione che è un fatto sociale, mentre l'appropriazione del prodotto e del plusvalore che ne deriva è privata.

Le classi non vanno intese come rappresentanza pura di produzione e appropriazione, in questa forma nella realtà non esistono. Né possono essere interpretate come insiemi di individui presi uno per uno e sommati. Vanno intese come insiemi astratti, che stanno alla caotica e variegata realtà così come la mappa sta al territorio, rappresentandolo più chiaramente della realtà stessa. Ora, l'inquinamento dovuto a ideologia, a pratiche approssimative, a qualunquismo o a semplice dilettantismo, in seguito alla degenerazione della quasi totalità dei "comunismi", è tale, che occorre tornare alla mappa (e alla bussola) per cogliere l'insieme e lasciar perdere ogni filo d'erba che ci svia da esso. Diversamente, come vedremo, si incorre in svarioni politici con pesanti conseguenze sul piano dell'azione quotidiana, anche nel campo delle lotte immediate.

Proprio intorno al reddito e soprattutto alla ricchezza personale scivola chi pretende la sua distribuzione nella società, cadendo così nel campo avversario. La falsificazione "marxista" più evidente, già da quando esisteva ancora lo stalinismo nella sua forma storica (mai morto nella sostanza), è quella compendiata nella tesi secondo la quale il proletario avrebbe qualcosa da conquistare in questa società, sia dal punto di vista politico-istituzionale che sindacale. Fin dalla pubblicazione del Manifesto Marx ed Engels scrissero in chiare lettere ciò che nell'800 i proletari sapevano a memoria: cioè che il capitalismo è da abbattere e che non ci sono da conquistare "guarentigie", cioè garanzie durevoli, all'interno di esso. Oggi anche i più "sinistri" tentennano su questi che dovrebbero essere caposaldi, vagheggiando maggior reddito e più democrazia, immaginando conquiste proletarie stabili attraverso rivendicazioni che nella fabbrica darebbero più "potere a chi lavora" o sciocchezze del genere.

Naturalmente il corollario di questo tipo di tesi è che il proletariato sarebbe nelle condizioni in cui si trova a causa di un mai ben specificato "attacco alla classe operaia", corollario che attribuisce un potere spropositato alla volontà borghese trascurando completamente la base materiale di questo potere, che è nella struttura dello specifico modo di produzione capitalistico. Di conseguenza, il suo superamento verso la società nuova è accantonato, e la "lotta" si risolve in un moralistico e piagnucolante rivendicazionismo contro qualcuno, insomma contro il "cattivo" di turno. Ciò ha un effetto materiale sulla concezione dello scontro di classe, ne distrugge le radici rivoluzionarie, come vedremo fra poco.

Se fosse solo un problema di personaggi poco razionali ed emotivi in circolazione, il danno sarebbe limitato, ma il fatto è che questo tipo di patologia sociale deriva direttamente dall'assetto generale dell'ideologia dominante, che ha ancor sempre bisogno di personalizzare le vicende del mondo, dare il "merito" ai grandi uomini e la "colpa" ai mascalzoni: nella fattispecie i "ricchi" o "padroni", colpevoli di accaparramento di ricchezza. Il principio del resto è estensibile (come ben capì Mussolini dichiarando la guerra delle "nazioni proletarie" contro le ricche plutocrazie anglosassoni) e sfocia in una pratica antimaterialista molto utile a ottimizzare campagne di reclutamento per ogni partigianeria. Gli antifascisti di oggi, che si proclamano pacifisti e anti-imperialisti, vanno in crisi isterica quando si fa notar loro che l'antifascismo partigiano cui si rifanno ha combattuto a fianco di due mostri statali imperialisti in una sanguinosissima guerra alla scala mondiale.

L'atteggiamento di fronte al cattivo di turno non varia con il variare della scala degli eventi. Quando ad esempio si tratta di risolvere problemi contingenti, nel nostro caso specifico la distribuzione del reddito, c'è sempre un male minore da salvare. Se un tempo c'era da salvare la democrazia contro il fascismo (alleandosi a una parte della borghesia contro l'altra), oggi c'è da salvare il keynesismo contro il liberismo, che poi vuol dire salvare il vero fascismo riformatore moderno contro le obsolete teorie sulle virtù terapeutiche del libero mercato. Perciò, mentre per un rivoluzionario il sistema capitalistico è da far saltare con tutti i suoi meccanismi, per la caricatura di rivoluzionario lo sviluppo produttivo è aumento di ricchezza per tutti, che va solo ripartita equamente. Di qui all'appoggio partigianesco alla parte borghese che sostiene le riforme il passo è breve, perché ci sarebbe sempre un falco dedito all'offensiva contro il proletariato e una colomba che invece vorrebbe alleviarne la condizione redistribuendo il reddito. Scriveva la Sinistra Comunista italiana mezzo secolo fa dopo aver chiarito che occorre fare non della sociologia, ma un conto di classe:

"Sorge da questa chiarificazione, da una parte, lo studio economico teorico della modernissima accumulazione, dall'altra una conclusione sulla strategia della lotta di classe. Abbiamo pertanto, con i dati della storia di essa, impreso a mostrare questo: al centro del falso marxismo e al vertice del tradimento sta la teoria della offensiva padronale borghese capitalistica, sia essa dipinta nel campo dello Stato o della azienda, e la sua sporca figlia, la pratica del blocco e del fronte unico" (cfr. Offensive padronali).

Se qualcuno avesse dei dubbi, osservi attentamente i più recenti fenomeni di fronte interclassista, come quello che va sotto il nome di no-global, oppure quello che raccolse masse effimere intorno all'articolo 18 oppure ancora quello antiamericanista attuale, in alcuni casi sbocciato come per miracolo in partigianeria simpatizzante del fondamentalismo islamico o del populismo alla Chavez… in difesa della proprietà nazionale del petrolio arabo o venezuelano. C'è dunque una concatenazione logica a tutti i livelli. Ricordiamo le elucubrazioni sessantottesche su chi era lavoratore produttivo o improduttivo, sul quesito se l'impiegato fosse un proletario o quelle di un decennio dopo sulla natura del capo officina tirannello che gli operai avrebbero malmenato volentieri anche senza troppi distinguo. Sempre con la fissazione tipica del borghese seguace di Carlyle, che vede l'individuo come motore di storia, dall'eroe al mascalzone, con in mezzo il popolo degli attori minori, compresi gli attivisti della politica corrente.

L'indice di ineguaglianza della ricchezza

Fatto il necessario accenno alle concatenazioni che ci permettono di far riferimento a una teoria unitaria della lotta per la società futura, concentriamoci sul tema del reddito/ricchezza. Come in ogni analisi scientifica, dobbiamo sorvolare sui caratteri spurii della società e concepire le classi come grandi aggregati nei quali eroi e mascalzoni, individui e raggruppamenti ideologici, passano in secondo piano rispetto ai fenomeni quantificabili e quindi descrivibili razionalmente attraverso modelli realisticamente attendibili.

Per definizione il reddito del proletario non può diventare ricchezza perché, quand'anche egli risparmiasse, la parte non spesa diventerebbe o tesoro inutilizzato (il classico denaro sotto il materasso) o capitale (deposito in banca). In ogni caso il risparmio del salariato, se non è semplice accantonamento per una spesa successiva, è pura e semplice decurtazione del salario in cambio di un interesse. Per il proletario, anche il possesso di un immobile, situazione assai diffusa nei paesi industriali e assecondata dallo Stato, si risolve solo parzialmente in possesso di ricchezza (un mutuo agevolato può durare 30 o più anni) e comunque ben difficilmente in ricchezza accumulabile. Per il capitalista è diverso: ragioni storiche e individuali, come l'accumulazione originaria e la battaglia darwiniana di alcuni sul terreno della concorrenza, fanno del suo reddito un elemento di accumulazione permanente, rotto soltanto da eventi catastrofici come crisi generali, fallimenti, attacchi della concorrenza, ecc.

Dal punto di vista dell'economia politica la ricchezza è semplicemente quel che uno possiede, anche se è poco. Quindi tutto viene contabilizzato in un indistinto calderone: casa, terreni, buoni del tesoro, azioni e fondi, negozi, fabbriche e mezzi di produzione, licenze di attività professionali vendibili, contante, assicurazioni sulla vita, ecc. ecc. Da tutto questo vanno sottratti i debiti di ogni specie per ottenere la ricchezza propriamente detta. Qui interviene il metodo sul quale ci siamo già soffermati: il conto di classe si fa integrando in un insieme unico tutti coloro che nella società "non hanno nulla da perdere fuorché le proprie catene". Uno degli aspetti di ciò che Lenin chiamava "corruzione" del proletariato è proprio la sua partecipazione alla "ricchezza" generale, cioè l'avere "qualcosa da perdere". Il riformismo quindi aiuta oggettivamente la corruzione del proletariato, e lo fa sia in veste parlamentare che in veste di sparafucile, come la storia ha dimostrato possibile con grande confusione su prospettive e metodi.

Vi possono dunque essere individui con lo stesso reddito ma con ricchezza diversa, e quest'ultima può essere cumulabile o no. Naturalmente chi ha ricchezza ha una copertura in caso di necessità, mentre chi ha solo reddito, se lo perde è sul lastrico. Nel capitalismo moderno la ricchezza in beni è più che mai anche fonte di solvibilità, cioè di credito per ulteriore accumulazione, come ben sa chiunque sia dovuto andare in una banca a chiedere soldi, non fosse che per un mutuo agevolato per la prima abitazione. In base a questi parametri l'immiserimento crescente è ancor più profondo di quanto non appaia dalle semplici statistiche sul reddito che abbiamo utilizzato nel nostro saggio. Ad esempio negli Stati Uniti l'1% più ricco "guadagna" circa il 16% dell'intero reddito nazionale ma possiede il 38% della ricchezza, mentre l'indice d'ineguaglianza di Gini misurato sulla proprietà invece che sul reddito passa da 0,45 a 0,82 (quasi il livello mondiale di ineguaglianza del reddito, che confronta quello degli affamati africani con quello dei più ricchi ultramiliardari del mondo). Il paragone con il tenore di vita dell'operaio è oltremodo significativo: il minimo legale del salario è sceso del 35% in termini reali da quando raggiunse il massimo storico nel 1968, mentre la ricchezza personale dell'1% degli americani è quadruplicata negli ultimi 20. Anche la spesa per la protezione sociale (disoccupazione, malattia, minimo di sussistenza, ecc.) è scesa in termini reali del 50% dal 1975 al 1996.

Corso storico confermato

Nel corso di un secolo, l'indice d'ineguaglianza della ricchezza ha seguito l'andamento di quello del reddito, anche se il divario fra le varie fasce è sempre stato maggiore. Non abbiamo i dati del primo periodo preso in considerazione nello studio che precede (fine '800-inizio '900), ma è desumibile dai fatti che proprio durante l'accumulazione tipica della "rivoluzione industriale" si siano formate le grandi fortune capitalistiche dell'epoca, con relativo grande divario fra le fasce base e quelle alte. I dati disponibili (in questa appendice la fonte è sempre il Federal Reserve Board’s Survey of Consumer Finances americano) del secondo periodo mostrano un ulteriore incremento fino al 1929, una rapida discesa durante la Grande depressione, una relativa risalita dopo la guerra e un periodo di stabilità con tendenza alla lenta discesa negli anni fino al 1975, quando l'indice di ineguaglianza della ricchezza era sceso di nuovo quasi ai livelli del 1929 (prima del crack). Oggi il livello di ineguaglianza della ricchezza americano (0,82) è circa il doppio rispetto al 1975. Il 5% dei possessori di beni, mobili e immobili, possiede il 59% di tutta la ricchezza presente negli Stati Uniti o, per dirla in altro modo, essi posseggono da soli il 50% in più di ciò che possiede in tutto il rimanente 95% della popolazione. Ma questa si deve accontentare di ben poco, perché se guardiamo al 20% dei possessori di ricchezza, si arriva all'80% della fetta totale, esattamente la distribuzione di Pareto.

In pratica abbiamo che la società più "ricca" del mondo ha il 20% della popolazione definibile, al di là dei confini di classe, come "senza riserve", che non ha nulla da perdere se non la propria condizione. E comunque le statistiche registrano un altro dato interessante: negli Stati Uniti il possesso di una casa ordinaria, cioè in genere prefabbricata e spesso mobil, cioè fatta di moduli su ruote, non è una "riserva" vera e propria in quanto difficilmente vendibile dopo qualche anno e addirittura bisognosa di costosa manutenzione (gli standard costruttivi americani in edilizia sono molto più bassi di quelli europei). Perciò, rifatti i calcoli dell'1% di possidenti, vediamo che, se togliamo la casa, esso si accaparra il 50% della ricchezza invece del già visto 38% che la prendeva invece in considerazione. La casa è il maggior bene di risparmio della cosiddetta middle class americana e l'indice di ineguaglianza cresce quando cresce il differenziale fra il valore di questo possesso diffuso e il possesso privilegiato di proprietà industriali e finanziarie. Il 10% della popolazione possiede l'85% dello stock azionario-finanziario, e la massa di quest'ultimo, che rappresenta lavoro passato (lavoro morto), cresce storicamente di valore perché è messa in moto dalla forza-lavoro (lavoro vivo); mentre la casa, una volta costruita e acquistata, segue le oscillazioni del mercato diminuendo di valore reale man mano invecchia.

Se allarghiamo la fascia considerata e passiamo dall'1% dei possessori di beni al 10% e togliamo la casa, vediamo che essi possiedono l'84% della ricchezza totale e il 90% di quella in beni come azioni, fondi, ecc. Se poi suddividiamo i possessori di beni per gruppo etnico, le cose cambiano sensibilmente, com'è facile intuire: se il reddito medio di una famiglia nera è il 60% rispetto a quello di una famiglia bianca, la sua ricchezza non è che il 18%. E questo nella media generale, non nelle fasce più ristrette.

Dai dati che abbiamo visto risulta dunque che, per quanto riguarda il rapporto ricchezza/miseria, l'indice di ineguaglianza non solo è crescente come nel caso del reddito, ma mostra un'accumulazione di ricchezza personale più sbilanciata ancora, fino a quello spaventoso 0,82 per l'indice di Gini. Ricordiamo che tale indice va da zero (tutti hanno la stessa ricchezza) a uno (tutta la ricchezza è posseduta da un solo individuo). Il paese che più si avvicina agli USA come ineguaglianza nella proprietà è l'Inghilterra, ma mentre l'1% degli americani possiede il 38% della ricchezza nazionale, la stessa percentuale di inglesi ne possiede il 22%. Anche in questo confronto è ribadito l'andamento storico della miseria crescente: all'inizio degli anni '70 il rapporto era invertito e gli americani erano meno "ineguali" degli abitanti dell'ultra-riformista Svezia.

Di cifre ne abbiamo riportate a sufficienza per capire che l'andamento storico della proprietà è ancora peggiore, in termini di miseria relativa crescente, rispetto a quello del reddito. Tutto ciò, è ovvio, può muovere a giustificata rabbia strati di proletari che sentono sulla propria pelle aumentare la precarietà, mentre si abbassa, sia relativamente che sempre più spesso in assoluto, il loro livello di vita. Ma per i comunisti è un assioma il carattere effimero delle conquiste di tipo immediato, mentre quello che conta è la lotta per il loro raggiungimento e soprattutto la capacità di organizzazione che ne può derivare, il sentirsi, da parte del proletario, parte di una comunità alternativa, di una classe che non ha nulla da spartire con il resto della società che vive alle sue spalle.

L'immane "tradimento" fu il passare da queste concezioni proiettate verso una società nuova, sostitutiva di quella capitalistica, a concezioni di continuità con lo stesso capitalismo, di impossibile miglioramento graduale per mezzo di collusione fra classi imbastardite. Come abbiamo visto, il reddito personale può andare e venire, ma di fronte alla ricchezza, che rimane come immane accumulo di manufatti e capitali che ormai copre buona parte del pianeta, vanno e vengono le persone. È questa immane quantità di valore accumulato che conta, ma solo perché è vivificato dall'applicazione su di esso di forza-lavoro vivente. Di per sé il lavoro morto non vale nulla, sarebbe destinato al disfacimento, come qualunque opera umana che rimanesse senza manutenzione.

L'apparentemente invincibile potere della classe dominante attuale non deriva da un titolo di proprietà giuridica sul cumulo di lavoro passato, morto; deriva dalla possibilità di utilizzare a pagamento il lavoro vivo e di appropriarsi del suo prodotto futuro e del valore che se ne ricava.

L'immane tradimento storico di riformisti e finti rivoluzionari si basa oggettivamente proprio sull'incomprensione di queste caratteristiche del capitalismo. Non si preoccupano della legge della miseria crescente e delle sue implicazioni reali, si preoccupano per una diseguaglianza nel reddito e nella ricchezza che dovrebbe essere corretta con giustizia. Il rivoluzionario non lavora per intaccare il "diritto" alla proprietà sull'inutile massa di lavoro morto; non lavora per distribuire la ricchezza − alla Turati o alla gruppettara fa lo stesso − lavora per intaccare la possibilità storica da parte della borghesia di esercitare il suo potere con lo sfruttamento del lavoro vivo. Il rivoluzionario estende poi questo principio a tutto l'arco della propria azione e presenza, dalla fabbrica alle lotte più estese, dalla politica interna a quella internazionale, compresa la cognizione profonda di ciò che significa imperialismo con annesse partigianerie pro o contro le sue fazioni.

Letture consigliate

  • AA.VV, Economia tra teoria e politica, a cura di Gino Niccodemi e Giuliano Pizzanelli, Franco Angeli, 1984 (per i saggi di Carlo Casarosa ed Eleonora Bennati).
  • Peter W. Atkins, Il secondo principio, Zanichelli, 1988.
  • Albert Laszlo Barabàsi, Link, Einaudi, 2004.
  • Robert Barrass, Biologia, cibo, popolazione, EST Mondadori 1976.
  • Eleonora Bennati, La simulazione statistica nell'analisi della distribuzione del reddito, ETS Editrice, 1988.
  • Amadeo Bordiga e altri, "La dottrina dei modi di produzione", Il programma comunista nn. 3-6 del 1958; ora nel volume dei Quaderni di n+1 con lo stesso titolo, 1999.
  • Amadeo Bordiga, "Marxismo e miseria" e "Precisazioni su Marxismo e miseria", Battaglia comunista nn. 37 e 40 del 1949; disponibili nell'archivio storico del sito di n + 1 (sez. "Sul Filo del Tempo").
  • Lester Brown, I limiti della popolazione mondiale, EST Mondadori, 1974.
  • Mark Buchanan, Nexus, Mondadori, 2003.
  • Mark Buchanan," The Mathematics of Inequality", The Australian Financial Review, settembre 2002.
  • Carlo Castelfranchi, "Razionalità e razionalità economica", in Sistemi intelligenti n. 1 del 1996 (pp. 123-125).
  • Joël de Rosnay, Il Macroscopio. Verso una visione globale, Dedalo 1978.
  • A. Dragulescu e Victor Yakovenko, "Evidence for the exponential distribution of income in the USA", Physical Journal B, 2001.
  • Enrico M. Forni, Teoria dei sistemi e razionalità sociale, Cappelli, 1986.
  • Jay W. Forrester, Verso un equilibrio globale, EST Mondadori, 1973.
  • John Kennet Galbraith, La natura della povertà di massa, Mondadori, 1980.
  • Orio Giarini, Dialogo sulla ricchezza e il benessere, EST Mondadori, 1981.
  • Michael Harrington, La povertà negli Stati Uniti, Il Saggiatore, 1971.
  • Giorgio Israel, La visione matematica della realtà, Laterza, 1996.
  • Stuart Kauffman, A casa nell'Universo, Editori Riuniti, 2001.
  • Lawrence Klein, Econometria, Etas Libri, 1975.
  • Paul Krugman, "For Richer", New York Times del 20 ottobre 2002.
  • Paul Krugman, L'incanto del benessere, Garzanti, 1995.
  • Simon Kuznets, Sviluppo economico e struttura, Il Saggiatore, Alberto Mondadori, 1969.
  • Wassily Leontief, Il futuro dell'economia mondiale, EST Mondadori, 1977.
  • Karl Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XXIII, "La legge generale dell'accumulazione capitalistica", UTET, 1974.
  • Donella e Dennis Meadows, Jørgen Randers, William Behrens, I limiti dello Sviluppo, Primo rapporto al Club di Roma, EST Mondadori, 1972.
  • Donella e Dennis Meadows, Randers Jørgen e altri, Oltre i limiti dello sviluppo, Il Saggiatore, 1993.
  • Mihajlo Mesarovic ed Eduard Pestel, Strategie per sopravvivere, Secondo rapporto al Club di Roma, EST Mondadori, 1974.
  • Partito Comunista Internazionale, "La borghesia interpella il suo oroscopo", Il programma comunista n. 11 del 1973.
  • Partito Comunista Internazionale, "Invano il capitalismo si interroga sul futuro della propria economia", Il programma comunista nn. 14-15 del 1978.
  • Partito Comunista Internazionale, Scienza economica marxista come programma rivoluzionario, raccolta di articoli senza titolo la cui pubblicazione iniziò sui numeri 22 e 23 de Il programma comunista nel 1959, proseguì sui numeri 1, 2, 12, 13, 20, 21 del 1960, sui numeri 1, 2, 19 e 20 del 1962 e terminò sui numeri 8 e 9 del 1963. Ora in Quaderni di n+1, 2000 (con il titolo sopra riportato).
  • Partito Comunista Internazionale, "Considerazioni sull'organica attività del partito quando la situazione è storicamente sfavorevole", Il programma comunista n. 2 del 1965.
  • Partito comunista internazionale, Il corso del capitalismo mondiale, ediz. Il partito comunista, 1991.
  • Aurelio Peccei, La qualità umana, EST Mondadori, 1976.
  • Aurelio Peccei, Quale futuro?, EST Mondadori, 1974.
  • Quaderni di n+1, La crisi storica del capitalismo senile, 1985; Dinamica dei processi storici – Teoria dell'accumulazione, 1992.
  • Federico Rampini, Il secolo cinese, Mondadori, 2005.
  • Federico Rampini, L'impero di Cindia, Mondadori, 2006.
  • Christian Silva e Victor Yakovenko, "Temporal evolution of the thermal and superthermal income classes in the USA during 1983–2001", Europhysics Letters n. 69, 15 genn. 2005.
  • Joseph Stiglitz, La Globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, 2002.
  • Paolo Sylos Labini, "Caro Vattimo, non di solo Marx", L'Unità, 28 dicembre 2002.
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  • The Economist, "The rising Sun leaves some Japanese in the shade", June 17th 2006.
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  • Franco Volpi, "Sistema economico e modo di produzione", nel volume Teoria dei sistemi economici, a cura di B. Jossa, UTET, 1989.
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Rivista n. 20