Dall'equilibrio del terrore al terrore dell'equilibrio

"Bisognerà ritornare sul significato del fallito raid militare americano in Iran. O i comandanti di quell'operazione sono degli incapaci o non è vero che hanno semplicemente tentato di liberare degli ostaggi. A nostro avviso siamo di fronte all'applicazione di una nuova dottrina militare, alla preparazione di forze adatte ad occupare o distruggere obiettivi a grande distanza in azioni di guerra preventiva. Il paragone non va fatto quindi con blitz come quello di Entebbe, cui ci hanno abituato gli israeliani, ma con operazioni come l'invasione di Santo Domingo da parte degli Stati Uniti e dell'Afghanistan da parte dell'Unione Sovietica."

Da una nostra riunione sulla guerra preventiva, Torino 1980, trascritta e mai pubblicata (sottolineatura nell'originale, Archivio di n+1, vedi poscritto).

Il 27 giugno del 1976, un commando palestinese si era impadronito di un aereo della linea Tel-Aviv-Parigi con 108 passeggeri a bordo, approfittando dello scalo ad Atene. Dopo i divieti di vari paesi, l'aereo era infine atterrato sulla pista di Entebbe, in Uganda. In Israele, a 4.000 Km di distanza, un reparto speciale aveva immediatamente incominciato a preparare con incredibile minuzia tecnica un'incursione aviotrasportata per liberare gli ostaggi. L'operazione riuscì perfettamente: il 3 luglio essi erano già in volo per Tel-Aviv via Nairobi. Il mondo rimase sbalordito per l'eccezionale meccanismo militare dell'incursione, durata 53 minuti e con perdite vicine allo zero (tre ostaggi e un membro del commando).

Il 4 novembre del 1979 alcune centinaia di studenti islamici avevano occupato l'ambasciata americana come ritorsione contro il blocco degli effetti bancari dell'Iran negli USA e per richiedere l'estradizione del deposto Scià "ospitato" da Washington. Una novantina di diplomatici con alcuni famigliari erano stati presi in ostaggio. Pressioni e trattative non avevano portato ad alcun risultato, per cui il 24 aprile del 1980 il governo americano aveva deciso a favore di una soluzione militare. Sei giganteschi Hercules partiti da una base a terra trasportarono un numeroso contingente di soldati in un aeroporto abbandonato a 500 Km da Teheran. Qui avrebbe dovuto essere imbarcato su otto elicotteri da trasporto Chinook provenienti dalla portaerei Nimitz, in navigazione nel Golfo, per una missione di cui non si è mai saputo nulla se non che era abortita a causa di una catena di incidenti: una tempesta di sabbia aveva causato avarie nei filtri dei motori, inadatti per quell'ambiente; un elicottero si era scontrato con un aereo; il deserto non era disabitato come previsto, ecc. Morirono otto soldati.

Due attacchi militari apparentemente simili, uno riuscito perfettamente, l'altro fallito miseramente, quest'ultimo per cause che a prima vista sembrano pazzesche. In effetti sappiamo quasi tutto sulla missione israeliana, mentre della missione americana sappiamo unicamente ciò che hanno ricostruito gli iraniani utilizzandolo per la propria propaganda di "vittoria". All'epoca noi avevamo azzardato un'ipotesi: che la missione americana non fosse un semplice blitz per la "liberazione degli ostaggi" ma qualcos'altro di più vasto. In precedenza (1965) gli Stati Uniti avevano effettuato un'invasione preventiva contro Santo Domingo per impedire l'ascesa del governo liberale di Juan Bosch, che aveva appena vinto le elezioni. E invasero successivamente Grenada (1983) e Panama (1989) per gli stessi motivi, cioè per preparare il terreno a governi allineati alla politica e agli interessi americani. Nel caso di Panama, come succederà in Afghanistan, vi fu uno spettacolare voltafaccia, dato che il governo Noriega, al pari di quello talibano, era stato fino a poco prima sul libro paga di Washington (e c'è pure l'analogia della droga, fonte di entrate per entrambi).

Molti esperti militari, giornalisti e commentatori politici avrebbero poi notato chiare affinità fra diversi episodi. Noam Chomsky, ad esempio, è convinto che le invasioni di Santo Domingo, Grenada e Panama non siano state altro che preludi in scala minore a quella dell'Iraq. Non è dunque così strano pensare che il blitz americano in Iran fosse un qualcosa di diverso rispetto a quello israeliano a Entebbe. L'apparato logistico era esuberante rispetto alla semplice liberazione degli ostaggi; e le truppe combattenti erano formate dalla cosiddetta Delta Force (dal massimo livello di allarme militare, "D"), la cui esistenza non è ufficialmente dichiarata ma che fu utilizzata a Grenada, a Panama, nella prima Guerra del Golfo e in missioni atte a preparare il terreno per operazioni più vaste, come in Afghanistan. Del resto, fallito l'attacco, gli Stati Uniti foraggiarono la guerra dell'Iraq contro l'Iran, ottenendo per interposto paese l'effetto voluto, cioè la paralisi civile (oltre a un milione di morti solo dalla parte iraniana).

Vi sono dunque tutte le premesse storiche per l'avvento di quella che adesso si chiama guerra preventiva. Vi sono truppe addestrate apposta, armamenti e sistemi adatti, e anche politiche in grado di far combattere per conto terzi determinati paesi, gruppi umani o individui.

Disequilibrio congenito

La guerra è lo specchio della società in cui essa si sviluppa, esattamente come i governi, la scuola, le strutture urbane o Internet. Nel caso del capitalismo siamo di fronte a una società tesa senza sosta nello sforzo di raggiungere l'equilibrio per evitare le crisi di sovrapproduzione, ma nello stesso tempo tesa alla crescita e quindi a superare l'equilibrio. La dinamica del suo sviluppo si basa infatti sulla manifestazione concreta di uno squilibrio di carattere congenito: lo scambio delle merci avviene tra eguali valori, ma la merce più importante, la forza-lavoro, nell'esprimere il suo valore d'uso con l'attività lavorativa, produce più valore di quanto non riceva in pagamento. è questa la sola merce su cui si basa l'intera possibilità di accumulazione del capitale. La società che più di ogni altra coltiva l'ideologia dei conti che tornano, dell'armonia tra produzione e consumo, tra investimenti e risparmio, tra importazioni ed esportazioni, trae la sua spinta vitale dalla più alta delle contraddizioni: la crescita esponenziale della produzione e della produttività dovute a fattori tecnico-scientifici e la conseguente, veloce diminuzione del bisogno di forza-lavoro. Quindi la guerra all'ultimo sangue tra concorrenti non avviene più per conquistare aree di sbocco alle proprie merci e capitali ma per ripartire il plusvalore prodotto in un mondo ormai interamente conquistato dal Capitale. Tra l'altro, questa è anche la differenza che già Marx annotava tra l'epoca della concentrazione di capitale (aumento quantitativo della massa del plusvalore) e quella della centralizzazione (aumento qualitativo del rapporto tra plusvalore e capitale anticipato); epoca delle grandi aziende a ciclo verticale che crescono tutte assieme la prima, ed epoca delle holding che aumentano la propria potenza a scapito di altre aziende che chiudono, la seconda.

L'ipocrisia dell'equilibrio si estende a tutti gli elementi della vita sociale: si manifesta nell'aumento della ricchezza, che dipende dagli investimenti, permessi dal risparmio che è non-consumo. Quindi più ricchezza significa meno consumo relativo, più miseria relativa. L'ipocrisia si manifesta nel gioco delle borse e delle banche − un'integrazione fra mercato e bisca − dove si trattano quote di plusvalore drenato ai proletari, che dipende da quello strano equilibrio che è somma algebrica fra un feedback positivo e uno negativo (reinvestimento del plusvalore e crisi congenita dovuta proprio a questa retroazione), fondamento dello spirito rozzo di una società bottegaia funzionante a partita doppia. L'ipocrisia si manifesta nella concorrenza aziendale, in cui l'equilibrio si ottiene soltanto con la media dei profitti di quei capitalisti che riescono a sfruttare intensamente la forza-lavoro, tendendo al monopolio, e di quelli che la riescono a sfruttare meno, tendendo al fallimento. Si manifesta nella concorrenza internazionale, dove il principio aziendale è esteso alla scala planetaria, con la lotta a coltello fra nazioni per sottrarre mercati e ricchezze ad altre nazioni, dove l'equilibrio è soltanto un risultato provvisorio di periodiche cadute in cui tutto viene messo in discussione e il cui ripetersi alla fine porta alla necessità di distruzione sia di uomini che di "ricchezze". Si manifesta, infine, nella pretesa armonia sociale da raggiungere con la pacificazione violenta dei conflitti che nascono ineluttabilmente non solo tra sfruttatori e sfruttati, ma anche tra rappresentati dello statu quo e chiunque si ribelli al rullo compressore del Capitale, il quale tende a sottomettere tutto, sia che rappresenti un rigurgito del passato, sia che − soprattutto − rappresenti il futuro.

Insomma, con il capitalismo la guerra diventa un fenomeno alquanto diverso rispetto agli scontri avvenuti in tutte le società precedenti. In cui la pace era vita quotidiana e la guerra una parentesi, mentre nel mondo globalizzato d'oggi la guerra è vita quotidiana senza parentesi di pace. È il modo di essere della società capitalistica, un fenomeno che oltre tutto non si può analizzare separando i periodi in cui tuona il cannone e quelli in cui l'artiglieria silenziosa dei mercati provoca più cadaveri di qualsiasi macello esplicito. Vi sono organismi mondiali specifici, come la FAO, per tenere questa macabra contabilità di morte da pace.

Dall'equilibrio del terrore al terrore dell'equilibrio

Dal punto di vista degli apparati industrial-militari, che hanno contribuito direttamente alla costituzione dei giganteschi sistemi che come una rete coprono il mondo, lo sviluppo della guerra è stato ovviamente coinvolgente e anzi travolgente: la loro ossessione non è più stata l'equilibrio del terrore, ma hanno incominciato, non appena si è avvertita una crisi dal punto di vista dell'economia e dei rapporti fra nazioni, ad avere terrore dell'equilibrio, a cercare comunque una superiorità. Tuttavia l'equilibrio è sempre stato precario, essendo legato a troppe variabili che non corrispondevano alla comoda e lineare contrapposizione di due soli grandi paesi imperialistici, apparentemente separati da differenze economiche, politiche e ideologiche ma in realtà nazioni capitalistiche concorrenti con i loro rispettivi territori di caccia. Questi apparati industrial-militari, e le loro lobby nei parlamenti e negli esecutivi, hanno incominciato quindi a temere l'instabilità dei rapporti e delle alleanze tra le nazioni legate da patti interimperialistici, e soprattutto tra quelle che costituivano la loro rete di interessi sull'intero pianeta gestito in condominio. Si sono perciò preparati a contrastare "tradimenti" nel proprio campo e a fomentarli in quello avverso, fornendo ulteriori temi alle diplomazie e al loro lessico, il quale si è subito attrezzato con inediti vocaboli come "guerra di pacificazione", "destabilizzazione", "uni e multipolarità", "egemonismo", "compellenza", ecc.

Una volta raggiunto l'equilibrio atomico, cioè un livello "sufficiente" di potenziale distruzione reciproca (MAD, Mutual Assured Destruction, ma anche "matto"), ogni variazione nel numero di missili e testate non comportava più effetti pratici, né sulla produzione di profitti né sul terrore da incutere al nemico. Perciò USA e URSS avevano iniziato a paventare la concreta possibilità che l'avversario li superasse negli armamenti e nelle dottrine tipiche della guerra "classica", tendendo alla supremazia in campo tattico e nella politica delle alleanze. Rischiavano insomma di basare la propria economia di guerra su di un sistema che poteva rimanere inattivo come uno spauracchio, mentre forze insignificanti, con armi tecnologicamente primitive ma efficaci se usate in modo "atipico" erano in grado di colpire senza scatenare l'inferno atomico. Per cui avevano via via teorizzato la necessità di raggiungere la superiorità quantitativa e tecnologica a tutto spettro, con maggiore mobilità, capacità d'anticipo, proiezione della potenza a distanza, dispiegamento di intelligence sul territorio e sulle reti di comunicazione. La grande bomba passava in secondo piano, mentre emergeva a poco a poco l'arma convenzionale ultratecnologica come parte di un sistema di guerra sofisticato, centralizzato e nello stesso tempo flessibile. Anche i paesi imperialisti residuali dell'epoca, come Francia e Inghilterra, avevano "la" bomba, ma contavano solo come infime tessere di un grande mosaico.

Il punto focale della nuova situazione fu la consapevolezza del fatto che il terrore atomico non impediva la penetrazione del nemico attraverso mezzi poco spettacolari ma ad alto rendimento. Era quindi necessario "monitorizzarlo" con sofisticati mezzi di osservazione e tenerlo a bada sul campo con armi "intelligenti". Anzi, piuttosto che impegnare proprie truppe contro una guerriglia già abbondantemente monitorizzata dall'intelligence, era più realistico ed efficace comprare un governo con un piano di investimenti a basso interesse, fomentare una controguerriglia o truccare elezioni. Ed era davvero facile siglare accordi che prevedessero anche basi e forniture militari oltre agli investimenti. Non era sensato né conveniente gettare bombe atomiche, sebbene tattiche, contro bande di straccioni. Le guerre del futuro prossimo non sarebbero incominciate schiacciando bottoni di missili intercontinentali, e quindi il campo di battaglia andava "trattato" in modo adeguato, secondo nuove dottrine e nuovi mezzi. Sul terreno di scontro − che fosse una giungla di alberi o d'asfalto − quando la politica incominciava a confondersi nella guerra e viceversa, i combattenti dovevano potersi muovere molto più velocemente delle loro espressioni amministrative e perciò ci volevano anche centri di controllo sofisticati, e soprattutto autonomi rispetto alle chiacchiere dei parlamenti.

La ricomparsa di dottrine militari molto simili a quella della "guerra lampo" di hitleriana memoria non fu dunque dovuta a una teorizzazione astratta ma a necessità dettate dalla concorrenza fra capitalisti. Il blitzkrieg assomiglia molto al takeover, la scalata borsistica ostile. Ricordiamo che la dottrina della guerra lampo fu introdotta per la prima volta durante la Rivoluzione russa da Tukhachevsky (controffensiva contro la Polonia e marcia su Varsavia), che fu copiata dai nazisti e che, contrariamente alle leggende, privilegia i risultati politici ricavabili da uno scontro breve, decisivo e poco distruttivo: l'opposto della guerra di distruzione a tappeto per una resa senza condizioni adottata dagli Alleati.

Quando nel 1979, durante la "rivoluzione" degli ayatollah in Iran, i cittadini americani furono presi in ostaggio, gli Stati Uniti si accorsero di avere sviluppato una dottrina di intervento rapido e decisivo, ma non quella capacità sul campo che paradossalmente i loro allievi israeliani avevano acquisito e perfezionato benissimo, anche se per operazioni limitate. Fino a quel momento avevano creduto che, come grande potenza, dovessero predisporsi a combattere la guerra globale che si stava preparando e, parallelamente, cioè con altre strategie e dottrine, risolvere sul momento le guerre parziali. Legati al modo di produzione esistente, ragionavano in termini di divisione sociale del lavoro e avevano difficoltà nell'abbandonare lo schema di collaborazione fra il gendarme del mondo e la schiera di satelliti che rinunciavano alla propria sovranità nazionale in cambio della partecipazione al sistema del dollaro e dell'ombrello militare che li proteggeva dalla "minaccia comunista". Credevano che la prossima "grande" guerra si sarebbe posta di fronte alla storia come le due precedenti, mentre la routine quotidiana prevedeva solo "piccole" guerre, al plurale, com'era successo in Corea, in Vietnam, in Medio Oriente. Già a partire dagli anni '70 si erano già manifestati i sintomi della guerra "diffusa", comunque si trattava sempre di guerra fra paesi o coalizioni di paesi, non ancora dei fenomeni transnazionali che analizzeremo fra poco.

La guerra si è adattata a ciò che esisteva

Sul campo di battaglia della globalizzazione, il contagio reciproco fra politica e guerra porta a un oggettivo concorso non solo fra paesi contro altri paesi ma anche fra classi diverse. Per la precisione, borghesia e classi intermedie si alleano contro la possibilità che il proletariato faccia per sé, inglobandolo nell'alleanza. Tale collaborazione è basata sulla divisione del lavoro ben accettata dalle cosiddette parti sociali, cioè dalle rappresentanze politiche di classe istituzionalizzate. Non è più semplicemente un problema di corruzione dovuta alle forze materiali in gioco, come diceva Lenin, ma una vera e propria partecipazione alla salvaguardia del capitalismo, a partire dalle sue basi nazionali. Molti si stupiscono dell'assoluta impotenza dimostrata da tutti i paesi imperialistici di fronte alla decisione americana di attaccare l'Afghanistan e soprattutto l'Iraq, ma non vi è nulla di strano. Il capitalismo come sempre sta spazzando via residui di un passato in velocissima metamorfosi. Questi residui perderanno molto presto le loro etichette attuali (Islam, terrorismo, paesi canaglia) e si mostreranno semplicemente come concorrenti cui bisogna impedire di coalizzarsi. Quindi non saranno più utilizzabili, come "civiltà inferiori", per il marketing della guerra. Quindi occorre toglierli di mezzo prima che riescano ad eguagliare e magari superare il modello occidentale (si veda qualche foto delle migliaia di cantieri da cui sta sorgendo il nuovo profilo della finanza metropolitana islamica: si tratta di investimenti di plusvalore prelevato dalle tasche dei paesi industrializzati assetati di petrolio).

Non è difficile osservare che, allo stesso modo in cui i vari paesi dimostrano la propria impotenza di fronte agli Stati Uniti, cioè di fronte a quella che per adesso è ancora la guida centralizzata del Capitale, così le classi al loro interno dimostrano il proprio interesse nell'assecondare il movimento del Capitale stesso. La situazione che ha generato le teorie di guerra infinita, totale e preventiva, è la stessa che ha generato il comportamento servile del proletariato occidentale di fronte al massacro di intere popolazioni. È ormai un luogo comune sentir dire ovunque che tutti i mali odierni della società derivano dall'ingigantirsi dell'immigrazione e dalla ribellione dei paesi di società antica velocemente affacciatisi al capitalismo moderno, alla finanza e ai giochi della diplomazia segreta internazionale. La nuova religione della "guerra al terrorismo" si è imposta non perché l'abbia inventata qualcuno, ma perché si può adoperare con efficacia solo ciò che è già generato spontaneamente dalla società. Più che creare i miti sociali, gli esperti di guerra psicologica li adoperano.

Non è passato troppo tempo da quando il Giappone faceva paura con le sue merci, la sua esuberanza di capitali e il suo conseguente shopping sui mercati occidentali. Esperti militari come il mastino Luttwak predicavano già allora una diversa strategia di guerra, che rafforzasse ovviamente l'apparato militare, ma che non dimenticasse l'importanza vitale della produzione e della circolazione di merci e capitali. Mancavano vent'anni all'attacco dell'11 settembre 2001, ma allora come adesso gli Stati Uniti pretendevano dai loro alleati un comportamento da blocco monolitico, anche se ogni paese andava già per conto suo, barcamenandosi fra i ricorrenti embargo (in primo piano quello all'Iran, nel quale già allora gli europei non volevano essere coinvolti, tanto per mostrare una continuità), campagne protezionistiche, dumping e attacchi frontali. Come quello sferrato dagli USA contro il Giappone per costringerlo a rivalutare lo Yen, quindi a moderare le esportazioni, e culminato nei summit di metà anni '80 all'hotel Plaza di New York e al palazzo del Louvre, a Parigi. Persino sulle Olimpiadi si era scatenata una guerra sotterranea più aspra del solito nel tentativo di accaparrarsi un business da una dozzina di miliardi di dollari dell'epoca.

La guerra di tutti contro tutti è diventato sistema

Il clamoroso fallimento di una conferenza tenuta a Lussemburgo nel 1980 aveva dimostrato che i paesi europei − ieri come oggi − non erano affatto uniti tra loro, e l'unica unità l'avevano trovata contro altri paesi: se nel 1976 la CEE aveva varato 13 provvedimenti protezionistici, nei primi otto mesi del 1978 ne varò 94. Era in corso con gli Stati Uniti un'annosa guerra commerciale sui prodotti agro-alimentari e, dopo le accuse di dumping da parte del colosso siderurgico US Steel, era subentrata anche una guerra dell'acciaio, proprio come oggi vi è una guerra del petrolio (e comunque tra europei le tensioni sull'acciaio si manifestavano già con minacce di ritorsione nel campo della petrolchimica). Il mercato mondiale dell'automobile e dell'elettronica di consumo era allora scosso dall'attivismo giapponese contro il quale USA e CEE erano ovviamente alleati; ma all'interno di questa alleanza tra nemici, sulla questione monetaria la Germania conduceva la propria guerra sotterranea contro le valute dei paesi "amici", in ultima analisi a favore dello Yen. Il risultato politico fu una diplomazia ipocrita (o meglio: più ipocrita del solito) che non a caso l'allora cancelliere Schmidt denunciava richiamando al dovere di una sana "divisione del lavoro", proposizione già da leggere in senso militare: approfittare dell'erosione che l'egemonia americana incominciava a subire per tradurla in vantaggi pratici. Non poteva stupire il fatto che si formasse all'occasione un nuovo "Asse" implicito fra Roma, Berlino e Tokyo.

Paradossalmente la Francia, all'epoca arroccata su posizioni più rigide di oggi in quanto ad autonomia politica economica e militare rispetto ai paesi della NATO, poteva sostenere, altrettanto ipocritamente ma con un fondo di verità, che una potenza minore aveva molta più libertà di movimento del gigante americano, già allora assai compromesso nei rapporti internazionali, e che quindi la propria azione mediatrice era utile per mantenere l'equilibrio globale, tanto quanto quella dei paesi legati dal Patto Atlantico. Anche in questo caso abbiamo una concezione tipicamente militare delle relazioni fra paesi: in una battaglia dall'esito incerto, una pur piccola forza che intervenga dall'esterno può essere decisiva.

La velocità con cui avanzava una tale politica di contrasti, ammantata allora come oggi di plateali assicurazioni sulla fedeltà atlantica, aveva reso particolarmente acuta l'insofferenza verso la politica militare americana da parte dei paesi che vedevano in un'Europa unita l'unica via per sfuggire alla tutela soffocante dei due massimi paesi imperialistici. Tutela che non era solo di tipo politico, ma ovviamente pratico, dato che aveva riflessi sulle quote di plusvalore che USA e URSS intascavano dai rispettivi protetti ogni qual volta essi si rivolgevano all'estero per esportare e importare impianti, armi, tecnologia e beni di consumo.

Naturalmente questo trasferimento di valore non era esplicito, ma anche due soli dati di fatto facevano sì che fosse particolarmente sentito dagli economisti e dai politici meno asserviti nei paesi vassalli: il controllo pressoché assoluto delle fonti energetiche da parte degli USA e dell'URSS e la loro egemonia monetaria sulle rispettive aree di influenza. È facile capire come il controllo delle fonti energetiche, non più basate sul carbone ma ormai orientate quasi totalmente sul petrolio (che non è solo un combustibile ma è anche la materia prima per la plastica, i tessuti artificiali, i fertilizzanti, ecc.), possa essere il veicolo per un drenaggio di valore: la rendita intascata dai proprietari dei pozzi, da chi li controlla militarmente e da chi monopolizza la distribuzione è sovrapprofitto che ogni capitalista deve devolvere alla rendita, è plusvalore che in tal modo viene ripartito nel mondo a seconda dei rapporti di forza.

Meno intuitiva è l'importanza delle monete nazionali, ma anche qui l'effetto è lo stesso: il denaro, in quanto tramite universale dello scambio di merci, è una merce esso stesso e quindi risponde alla legge del valore; in questo caso non il valore intrinseco, cioè quello della carta o del metallo di cui è fatto (oggi è fatto soprattutto di bit elettronici), ma quello delle ore di lavoro medio che sono necessarie per procurarselo. Se una valuta come il Dollaro si erge per motivi storici al di sopra delle altre e diventa l'unico rappresentante universale del valore per le transazioni universali, è facile capire che a una popolazione non americana occorre un certo numero di ore per procurarsi la moneta nazionale e un certo numero supplementare di ore per procurarsi la moneta internazionale. La quantità di dollari che circola al di fuori degli Stati Uniti senza mai ritornare in patria corrisponde al numero di ore-lavoro supplementari devolute dai non-americani solo per avere la possibilità di detenere proprie riserve in dollari e commerciare con la stessa valuta sui mercati esteri. Lo stesso discorso valeva per i paesi vincolati all'URSS, anche se per quanto riguarda il rapporto monetario il prelievo era più diretto, meno mediato. Come dicono gli economisti, la moneta si può "creare" al pari delle opere d'arte, e dell'Universo da parte di Dio; l'importante è che se ne crei quanta è necessaria a rispecchiare il "valore aggiunto" (p+v) in rapporto alla velocità di circolazione, altrimenti è inflazione o stagnazione. In quegli anni c'erano misteriosamente entrambe e gli economisti non seppero far altro che dar vita a un neologismo: stagflazione. Venivano creati internazionalmente moneta e valore aggiunto, ma negli Stati Uniti la moneta veniva creata senza produrre conseguentemente; almeno dai primi anni '70 essi vivevano, cioè, a carico del plusvalore altrui. Solo la Francia e De Gaulle furono assai meno propensi degli altri paesi e governi a mantenere gli Stati Uniti nella loro posizione di mangiatori a sbafo. Sappiamo come la potenza del Capitale abbia ridimensionato anche la grandeur francese.

Si capisce che questo tipo di rapporto fra paesi imperialistici, concorrenti e quindi nemici al di là delle facciate diplomatiche, poteva durare solo finché non fossero passati gli effetti della guerra mondiale. I quali sarebbero necessariamente durati a lungo, dato che molti paesi, specie Germania, Italia e Giappone, erano vincolati economicamente, politicamente e militarmente agli Stati Uniti. Ricordiamo che fino alla vigilia del collasso sovietico i tre paesi vinti erano occupati militarmente da centinaia di migliaia di soldati americani, disseminati in basi permanenti, e che tale situazione oggi è solo ridimensionata, sia a causa del "crollo del muro", sia − soprattutto − a causa della situazione internazionale che richiede più soldati e più basi in altre aree del mondo.

A che cosa sono serviti e servono gli "alleati"

Prima ancora che i paesi europei potessero agire sotto una parvenza di unità economica e monetaria, se non politica, erano dunque presenti tutti i caratteri dello scontro interimperialistico, il cui manifestarsi era solo questione di tempo. Messa infine in discussione la politica atlantica, ecco che la NATO aveva nei fatti la giustificazione per la propria metamorfosi: da patto militare dei tempi dell'equilibrio del terrore poteva diventare un organismo internazionale ibrido, una specie di doppione dell'ONU ma con poteri esecutivi sostenuti da una effettiva forza militare permanente. È interessante notare che si tratta di caratteristiche assenti nell'ONU. La NATO infatti è stata in grado di intervenire con forze armate, a dispetto dei propri statuti, in uno scacchiere euroasiatico che va dall'ex Iugoslavia all'Afghanistan, cioè in aree che non c'entrano per nulla con un trattato North Atlantic ma c'entrano moltissimo con il nuovo terrore dell'equilibrio. In perfetta coerenza con il disperato tentativo degli Stati Uniti di non perdere l'egemonia politico-militare, dato che quella economica e monetaria fa parte ormai della storia passata. Secondo le classiche concezioni geopolitiche non c'è niente di meglio, per la supremazia globale, che occupare lo Heartland, il cuore del mondo, piazzato fra la Russia, la Cina e l'India. Tanto più se si scoprono nell'area le più importanti nuove riserve di petrolio, le uniche in grado di scongiurare per qualche decennio l'inevitabile crisi mondiale da esaurimento di quelle vecchie.

Uno degli accumuli continui di eventi che hanno il loro sbocco in rotture discontinue (l'asse che si spezza improvvisamente all'aumentare graduale del carico) si era manifestato all'epoca dei fatti dell'Iran, quando una sollevazione popolare, all'inizio profondamente influenzata dal proletariato urbano (erano persino nati dei soviet), aveva rovesciato il regime smaccatamente filo-americano e instaurato un debole potere piccolo-borghese di esuli democratici "resistenti", subito spazzati via da un più deciso e armato movimento islamico. La guerra sotterranea fra Europa e Stati Uniti si era allora manifestata attraverso la posizione da mantenere nei confronti dell'Iran, passato dal campo filo-americano a quello dei nemici degli Stati Uniti. Nello stesso tempo, parallelamente, era esplosa un'inedita, violentissima quanto strana polemica sulla scelta della sede delle successive Olimpiadi. Evidentemente si trattava di una delle piccole prove di forza che nell'insieme rivelavano la febbre del sistema.

Mentre sulle questioni di facciata i maggiori paesi europei si erano mostrati allineati a Washington, sulle questioni sostanziali avevano digrignato i denti. Le Olimpiadi potevano svolgersi dove volevano gli americani ("non vi è altra scelta" aveva detto il cancelliere tedesco, e si tennero a Los Angeles nel 1984), la violenza dei pasdaran islamici poteva essere condannata congiuntamente, ma l'Europa, senza ancora un'unità, neppure formale, si era trovata compatta nel rifiuto di un intervento militare contro l'Iran che minacciava ritorsioni bloccando il traffico delle petroliere nel Golfo Persico. Si era trovata soprattutto compatta nel rifiuto di attuare "spedizioni punitive economiche" ventilate da Washington nei confronti di Mosca, di bloccare la vendita di tecnologie "strategiche" ai paesi del Patto di Varsavia e di interferire con sanzioni sul commercio nei confronti di quella che allora era l'attivissima cerniera economica europea fra Est e Ovest, cioè la Repubblica Democratica Tedesca, fulcro della Ostpolitik di Bonn.

Sul piano militare, l'insofferenza europea non poteva influire significativamente sulla "grande strategia" e sugli schieramenti dell'epoca. Però i paesi europei potevano influire sulle componenti "esterne" degli schieramenti principali, per esempio agendo sui rapporti con e tra paesi come l'Algeria, l'Iraq e soprattutto l'Iran, dato che sarebbe stato troppo doloroso rinunciare ad investimenti e petrolio solo per consolidare la forza degli Stati Uniti, i quali oltretutto erano antagonisti sul piano della concorrenza. Fatto questo che rendeva di per sé automatica l'esigenza europea di sganciarsi da un piano militare americano che includesse troppo strettamente i vari paesi. D'altra parte va ricordato che i maggiori paesi europei avevano ben presente come l'intervento militare americano in Medio Oriente negli anni '50 li avesse spazzati via dalla scena storica in quanto potenze ex coloniali. Il terrore dell'equilibrio aveva quindi una sua giustificazione materiale in uno scenario che vedeva ormai gli europei recitare l'eterno ritornello "vorrei ma non posso". Scenario che presentava una certa stabilità nel contesto della politica americana tesa a balcanizzare il mondo, pur essendo piuttosto instabile dal punto di vista dei balcanizzati, i quali tendevano a non far calpestare troppo pesantemente la loro sovranità nazionale. Da ciò nasceva un paradosso: l'equilibrio era patrimonio della diplomazia, ma nella realtà il militarista, il politico, l'economista, sia americani che europei, si trovavano tutti perfettamente d'accordo nel sostenere programmi volti a garantire una superiorità che non fosse intaccata da impreviste perdite di posizione.

Certo, la concorrenza tra paesi imperialisti aveva complicato di molto questa tendenza generale: gli Stati Uniti avevano ricercato la superiorità globale nella politica della dissuasione offrendo agli europei la protezione dell'ombrello atomico americano, ma, nella ricerca della superiorità locale in centro-Europa, avevano smaccatamente utilizzato l'assai ipotetico pericolo di invasione "comunista" nel tentativo di scaricare quasi tutto il peso di una eventuale guerra sugli alleati-avversari. Man mano quindi che si sviluppavano i rapporti tra nazioni, che da post-bellici diventavano "normali", cioè coerenti con una situazione di equilibrio controllato del terrore, prendevano anche piede teorie di risposta a una eventuale, anzi, probabile guerra convenzionale in risposta all'avanzata dei 50.000 carri armati russi con la copertura aerea, missilistica ecc. ecc. Corollario di queste teorie, era la sub-teoria che la guerra convenzionale fosse controllabile nei suoi sviluppi, mentre la guerra atomica no. Si era cioè fatta sempre più palese, al di là delle chiacchiere sulla superbomba, la natura del piano di difesa americano all'interno della strategia NATO: la superiorità locale doveva essere ottenuta non tanto mediante l'invio diretto di uomini e armi attraverso l'Atlantico, quanto con la dislocazione preventiva di truppe e soprattutto di un deterrente "tattico-strategico" rappresentato dagli eserciti locali e da una rete missilistica americana a medio raggio (vettori Pershing e Cruise, all'occorrenza dotati di piccole cariche nucleari). Questa dottrina avrebbe portato a concentrare lo scontro in Europa mantenendolo a livello tattico e, una volta bloccata l'invasione della "valanga d'acciaio" sovietica, dalle macerie del continente sarebbe rinata l'importanza del negoziato, ovviamente sempre rafforzato dal terrore nucleare strategico.

Il militarismo europeo ancora oggi mugugna di fronte a questo tipo di impostazione, assai classica, da parte di un'America che manda sì i suoi soldati a combattere direttamente guerre a suo profitto, ma che poi ha assolutamente bisogno di manodopera altrui, di carne da macello, dato che non può inviarne milioni di proprii in ogni scacchiere del mondo. Nel caso specifico è evidente che risolvere una guerra in Europa secondo la descritta dottrina significherebbe portare distruzione nell'intero continente ad un livello infinitamente più grave rispetto a quello raggiunto nella Seconda Guerra Mondiale. È ancora più evidente la spudorata convenienza americana nell'evitare la guerra sul proprio territorio e utilizzare quella sul territorio altrui per un nuovo eventuale ghiotto dopoguerra di ricostruzione, una nuova stagione di "atlantismo" e di "piani Marshall". Diventa facile a questo punto capire a che cosa servono i vari "partigiani" nelle guerre dell'epoca imperialistica: li si utilizza come poveri burattini e li si butta quando non servono più. Non ha alcun senso strillare dopo contro i burattinai "cattivi": non manca né il tempo né il modo per conoscerli prima.

Le radici storiche e materiali della guerra infinita

La critiche del nazionalismo europeo furono furibonde (come del resto anche adesso): si parlò apertamente di Europa in ostaggio, ma, una volta accolto il concetto di possibile invasione dall'Est (l'Europa aveva adottato di buon grado lo spauracchio del "pericolo comunista"), nessuno poteva più affermare che le cose potessero essere affrontate in altro modo. La strapotenza americana aveva ancora la possibilità di imporsi con l'evidenza dei fatti (vale a dire con le armi e con i dollari), nonostante il mugugno di un'Europa che in politica interna ed estera finiva per rivelare la sua impotenza di fronte agli eterni liberatori.

II terrore dell'equilibrio derivava anche dalla corsa agli armamenti, specialmente per quanto concerneva la loro qualità. Il ragionamento che nasceva dall'incertezza degli schieramenti veniva quindi applicato dagli esecutivi e dagli apparati militari anche per prevenire sorprese dovute all'introduzione di nuove armi (o di nuove quantità di armi tradizionali ma usate con "nuove" dottrine). Dove andava dunque a finire la pretesa controllabilità della guerra? Già la guerra non è controllabile per definizione. Se qualcuno o qualcosa la potesse controllare, sarebbe semplicemente evitata, nessuno è maniaco del massacro e della distruzione, e i pochi beneficiari fabbricanti di armi e ricostruttori di città sarebbero zittiti. Ma nella sua preparazione, come nel suo decorso (che per noi è un tutt'uno), essa deve inevitabilmente giungere alle massime conseguenze, cioè alla distruzione dell'avversario. Allora, anche quando navi aerei e tank sono in rimessa, sia la politica che la guerra commerciale devono giungere alle loro massime conseguenze, cioè devono piegare l'avversario con la dimostrazione di forza tramite il proprio apparato produttivo, la propria potenza economica e il proprio apparato militare come deterrente.

La guerra non scaturisce mai all'improvviso, necessita sempre di una preparazione. Anche se in apparenza "esplode", come si dice, essa rappresenta il culmine di un processo, anzi, è un processo permanente punteggiato da vertici di violenza e distruzione. Se non manifesta nell'immediato tutta la sua selvaggia devastazione è perché la sovrastruttura giuridica che ne dovrebbe impedire lo scoppio ne incanala e tempera la virulenza nascondendo la sua reale preparazione, col solo risultato di scatenare, all'apice, forze ancora più tremende perché ritardate nella loro azione. Gli Stati Uniti hanno condizionato il decorso della guerra dalla fase politica alla fase militare, ma questo condizionamento (gli accordi, i trattati, le minacce, gli embargo, ecc.) non agisce contro la guerra, essendo piuttosto un modo di assecondarla per farla meglio aderire ai rapporti esistenti e alle necessità che ne scaturiscono. Scrive von Clausewitz:

"La guerra nasce da queste condizioni e da questi rapporti sociali, che la determinano, la limitano, la moderano; ma tali modificazioni non sono mai inerenti alla guerra, costituiscono soltanto elementi contingenti: mai si potrà introdurre un principio moderatore nell'essenza stessa della guerra, senza commettere una vera e propria assurdità" (Della Guerra, p. 20-21).

Nonostante l'impossibilità di introdurre questo principio moderatore von Clausewitz afferma che c'è comunque differenza fra la guerra dei popoli civili e quella dei "selvaggi": nel primo caso si ha un grande massacro tra soldati sul campo di battaglia ma una relativa incolumità fra i civili e poca devastazione fra le strutture urbane, mentre nel secondo caso vi è un'esplosione generalizzata di crudeltà e devastazione. Se questo poteva essere scritto dopo i tremendi massacri delle campagne napoleoniche, è perché i rapporti sociali dell'epoca non avevano ancora maturato quella che abbiamo chiamato "politiguerra". La guerra era ancora un fatto a sé, e, per quanto frequente, si svolgeva sul campo di battaglia tra forze appositamente preparate e non coinvolgendo l'intera società.

I rapporti sociali di oggi sono quelli di un capitalismo stramaturo che permea di sé ogni cellula del sistema, la quale si sente in guerra di competizione fin dall'asilo nido. Con il capitalismo l'uomo perde in assoluto qualsiasi residuo di rapporto umano con l'altro uomo e ciò si rispecchia nel modo di condurre la guerra odierna, col massacro delle popolazioni inermi, l'avvelenamento, la deportazione, la pulizia etnica, lo studio scientifico per produrre sistematicamente sofferenza, distruzione e morte. Una non-guerra come quella attuale in una regione sperduta del Sudan ha già prodotto duecentomila morti e un milione di profughi; e in quasi tutta l'Africa, terra di rapina capitalistica da sempre, vi sono situazioni analoghe.

All'epoca di von Clausewitz c'era ancora spazio per parole e concetti che oggi non verrebbero più in mente a nessuno:

"Se i popoli civili non uccidono i prigionieri, non distruggono città e villaggi, ciò deriva dal fatto che l'intelligenza ha in essi parte maggiore nella condotta della guerra ed ha loro rivelato l'esistenza di mezzi di impiego della forza più efficaci di quelli derivanti dalle manifestazioni brutali dell'istinto" (ibid.).

La realistica osservazione del comportamento della borghesia nella sua ascesa non vale più per questa classe nel periodo della sua reazionaria sopravvivenza alla storia: i popoli civili si scannano con operazioni di bassa macelleria, in deliri distruttivi che non trovano riscontro in nessuna altra epoca; la differenza sta nel fatto che non si tratta di manifestazioni brutali dell'istinto, ma di risultati coerenti con la necessità di distruzione scientifica di forze produttive (il processo evolutivo instabile che Schumpeter mutuò da Marx chiamandolo "distruzione creatrice"). Dato che la politica genera la guerra, che è generata a sua volta dall'esuberante produzione rispetto alle capacità di assorbimento del mercato, causa ed effetto si trovano indissolubilmente legati. La pretesa controllabilità della guerra fa quindi il paio con l'opportunistica pretesa controllabilità del ciclo produttivo capitalistico. Il terrore dell'equilibrio militare deriva dall'insicurezza della situazione economica nelle crisi che si susseguono, ed è lo stesso terrore dell'equilibrio commerciale, del capitalista che spia il concorrente per salvaguardare la propria competitività e strappargli quote di mercato.

Quello che per noi è risultato scientifico, per von Clausewitz è prodotto della sua osservazione della realtà vissuta; la guerra non è, in ultima analisi, un fatto militare ma politico; la guerra è la vera politica dell'epoca imperialistica e il rovesciamento dialettico è ben individuato:

"La politica ha generato la guerra: essa è l'intelligenza, mentre la guerra non è che lo strumento"; ma poi: "L'arte della guerra, considerata dal suo punto di vista più elevato, si cambia in politica; ma questa politica si manifesta con battaglie invece che con note diplomatiche" (Della guerra, p. 815).

Von Clausewitz sembra osservare una realtà capovolta dal punto di vista della logica: perché la guerra comanda la politica, se ne deriva? Nella guerra è l'intelligenza che deve guidare lo strumento e non viceversa, è quindi compito della politica stabilire quali siano gli "avvenimenti che meglio rispondono all'obiettivo della guerra". Ora, abbiamo visto che la pace capitalistica oggi non è altro che guerra con tanto di morte e distruzione; qual è dunque l'oggettivo carburante che alimenta la guerra imperialistica? Qual è il suo obiettivo in quanto movimento reale? Sicuramente non quello sventolato dai governi e dalle diplomazie, ma quello di salvaguardare i meccanismi di accumulazione dei vari paesi. In generale, è in ballo la salvezza del Capitale che domina il mondo facendo ballare i governi alla propria musica. Per questo la loro politica non è più l'intelligenza della guerra.

È ovvio che governi e governanti non agiscono in base a "piani" di guerra varati appositamente. Essi non "vogliono" dar vita a rinnovati cicli di accumulazione basati su nuove ricostruzioni che azioni militari atte a distruggere la maggior quantità possibile di strutture e di uomini rendano necessarie. Ma l'interesse privato si sposa magnificamente e in modo oggettivo al movimento generale del sistema capitalistico. La odierna guerra in Iraq mostra chiaramente un automatismo che va al di là di ogni spiegazione razionale che non sia legata alla salvaguardia del capitalismo. I profitti delle varie Halliburton o Blackwater vengono di conseguenza, non sono la causa della guerra. Quello che conta è l'orientamento degli avvenimenti che meglio risponde alla suddetta salvaguardia. Le determinazioni della guerra e il suo obiettivo sono un tutt'uno e non sono alcuni gruppi o individui saliti sul palcoscenico a poter disegnare lo scenario del mondo. L'accresciuta preparazione militare era già nell'aria ben prima dell'11 settembre 2001. La guerra diventa infinita per sua stessa determinazione materiale prima che gli uomini inventino teorie e dottrine per giustificarla.

Come si diventa carabinieri del mondo

L'impossibilità di impedire l'avvicendarsi di cicli economici sempre più asfittici si traduce nell'impossibilità da parte degli Stati di controllare la guerra commerciale sui mercati, la quale si traduce inevitabilmente in guerra guerreggiata (e quindi in preparazione militare permanente), con relativa inquietudine degli Stati Maggiori: un vero e proprio terrore dell'equilibrio, una tendenza a eliminarlo per la paura assolutamente razionale di essere sorpassati dall'avversario o di essere messi in condizioni di inferiorità da avvenimenti improvvisi nel campo degli schieramenti. L'aristocratico-borghese von Clausewitz non poteva ancora maneggiare le determinazioni economiche del sistema capitalistico globale, poteva solo registrare una tendenza primordiale all'assolutizzazione della guerra agli albori del sistema stesso. E in ciò è stato davvero insuperato.

Il ciclo di ricostruzione che dopo la Seconda Guerra Mondiale riguardava solo alcuni paesi dell'Europa e il Giappone, in una prossima guerra generalizzata riguarderebbe l'intero pianeta. Gli interessi vitali degli Stati Uniti si sono allargati al mondo intero e si sposano con la necessità di uno "spazio vitale" altrettanto vasto. Non è un problema di conquista diretta − impossibile per qualsiasi potenza, anche "ultra" − ma di controllo. Gli effetti provocati dall'intervento americano non solo "coinvolgono" il mondo, ma in tendenza lo portano ad essere una specie di area di servizio permanente da cui attingere materie prime, energia e plusvalore. E, agli effetti dell'accumulazione, la necessaria guerra permanente è un affare ben più appetibile di una guerra mondiale ogni qualche decennio.

Il fatto è che il mondo non è più così d'accordo. Gli effetti provocati dall'intervento − industriale, finanziario, militare, politico − di un paese imperialista possono ritorcersi, com'è noto, contro lo stesso paese imperialista. Può verificarsi ad esempio la nascita di un concorrente indesiderato. Venticinque anni fa il Giappone, da paese assistito e finanziato per la ricostruzione era diventato un paese temibile sul piano della concorrenza, tant'è che fu obbligato con la forza di trattati internazionali a mitigare la propria concorrenzialità. Piegato il Giappone, balzavano alla ribalta la Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong, meno temibili, ma con l'aggressività tipica dei paesi "emergenti" (nel 1980 la sola Corea registrava ostacoli protezionistici all'esportazione delle sue merci in ben 24 paesi). In una situazione di oggettivo indebolimento del controllo globale si erano verificate già allora rivolte contro lo status quo, come in Iran, dove le contraddizioni generate dall'industrializzazione forzata e dai vincoli di stretta dipendenza politico-militare dagli USA erano esplose, travolgendo quel misto di modernità e satrapismo asiatico rappresentato dallo Scià Pahlevi con la sua corte e i suoi reparti imperiali d'élite. Del resto la sconfitta militare in Vietnam, anche se parziale (nel senso che ad essere veramente sconfitto è stato il preteso comunismo di marca staliniana), aveva già decretato la fine del vecchio controllo basato sulla conquista del territorio.

Era morto un vecchio tipo di controllo ma non ne era nato uno nuovo, per cui risultava automaticamente esaltato il procedere del Capitale come "artiglieria in grado di abbattere qualsiasi muraglia cinese". Il processo aveva portato infine alla caduta del Muro e, con esso, della mistificazione sull'inesistente frontiera tra capitalismo e socialismo. Con il senno di poi s'era visto che quel tipo di artiglieria era efficace almeno quanto gli eserciti, se non di più. Dunque la dottrina militare se ne impadroniva immettendo l'armamento squisitamente imperialistico (armi e finanza) nella panoplia generale. Tuttavia i processi storici non sono lineari come vorrebbero i rappresentanti dell'imperialismo: l'efficacissima dottrina veniva alla luce ed era formalizzata proprio nel momento in cui ad essa incominciava a non corrispondere più la forza reale, cioè la potenza dissuasiva delle armi e quella penetratrice della finanza. Gli Stati Uniti stavano materialmente cedendo spazio ad altri paesi nella quota di prodotto lordo detenuta nei confronti del mondo. Erano passati da più del 50% degli anni '50, a meno del 30% nei primi anni '70 (oggi sono al 20%). Alla quota di prodotto seguivano anche altri indicatori, come la produzione industriale, che crollava al 25% del PIL (oggi 20%), o come l'esportazione di merci, oggi al 9% dell'export mondiale, più o meno al livello della Cina.

Aumentava quindi l'insicurezza dell'ex gendarme globale e aumentava con essa la fluidità dei rapporti interimperialistici. I rapporti tra il maggior paese imperialista e i paesi soggetti non erano mai stati così problematici, e il terrore provocato da un equilibrio sempre più precario provocava a sua volta non solo l'esigenza della solita e classica preparazione militare, ma anche quella del suo sviluppo verso il potenziamento di veri e propri reparti d'intervento preventivo. Non è una novità post-11 settembre, dunque. Di fronte al riproporsi delle cosiddette cause di destabilizzazione, che ogni paese imperialista attribuiva naturalmente all'altro, gli Stati Uniti preparavano truppe e mezzi adatti ad impedire che da parte di altri paesi venissero variate le forze in campo e la loro dislocazione strategica. Ma col crescere della diffidenza e della paura l'intervento stabilizzatore si trasformava facilmente in intervento per prevenire la destabilizzazione, cioè per garantire o rafforzare la superiorità o comunque le posizioni acquisite. L'invasione dell'Afghanistan da parte dell'Unione Sovietica era certamente una mossa aggressiva, ma vista nell'ottica dei paesi che erano contrari agli obiettivi americani in Asia diventava una mossa difensiva nell'ambito di una dottrina militare anticipatrice di mosse altrui. L'invasione di Santo Domingo e il tentativo di gettare una testa di ponte in Iran rispondevano alla stessa dottrina. Oggi è del tutto evidente che l'invasione dell'Afghanistan (questa volta da parte americana) e dell'Iraq sarebbe pura follia strategica se non ci fosse un retroscena di guerra preventiva contro l'Europa e, nel lungo periodo, contro le potenze emergenti dell'Asia. Non è un mistero che la rete delle 800 basi americane nel mondo stia velocemente perdendo le caratteristiche disegnate dall'epoca dell'equilibrio del terrore e si stia disegnando, nell'epoca del terrore dell'equilibrio, sulla geologia del petrolio, sulle vie mondiali del traffico di merci e capitali, sui punti strategici del mondo adatti alla "proiezione lontana di potenza".

La caratteristica degli Stati Uniti, cioè la loro preminenza assoluta nel panorama dell'imperialismo degli anni '60, aveva già condotto a prendere in considerazione la realizzazione di una forza permanente di rapido intervento; l'allora ministro della difesa Mc Namara e il generale Maxwell Taylor erano i portavoce di questa esigenza e avevano proposto la costituzione di una speciale forza armata (Fast Deployment Logistics), ubicata in pochi luoghi strategici e pronta ad intervenire "in non importa quale parte minacciata nel mondo": soluzione più razionale ed economica che non il mantenere troppi uomini e mezzi dislocati stabilmente nei tre paesi sconfitti nella Seconda Guerra Mondiale e in una quantità di altri luoghi che facevano parte della "cintura di contenimento" nei confronti dell'URSS.

Questa dottrina militare poneva un ulteriore accento sulla natura poliziesca globale degli Stati Uniti, ma del resto non era una novità: nelle loro strutture militari essi avevano già evidenziato questa natura; e i mostruosi apparati spionistici, fra cui la DIA e la CIA, agivano di concerto con l'apparato dei 200.000 marines, operativo in varie parti del mondo, veri carabinieri universali fin dalla loro prima prova sullo scacchiere del mondo nel 1898 (Guerra USA-Spagna). Da notare che l'URSS, potenza in sott'ordine, aveva costituito un corpo di marines solo nel 1963 (prima del collasso ne armava circa 20.000). Nel 1977 anche il presidente USA Carter aveva annunciato l'iniziativa per una strategia di rapido intervento, e il tema non si era esaurito, tanto che varie dottrine furono periodicamente concepite e pubblicate. Ma i mezzi effettivi (risorse di bilancio e quindi armi e uomini) per il lancio concreto della nuova dottrina vincente, quella della guerra preventiva, furono resi disponibili solo verso la fine degli anni '70, quando i rapporti interimperialistici stavano oramai marciando verso la fine del duopolio fra le potenze egemoni ed emergevano nuovi pericoli per la stabilità del sistema che si andava facendo sempre più globalizzato. È in quel periodo che nacque la già ricordata Delta Force, spesso presente nei film di Hollywood e nelle reali operazioni segrete, ma ufficialmente mai esistita.

Guerra preventiva, guerra infinita

Già nel 1981 il segretario della difesa statunitense di allora, Brown, aveva accantonato la solita insistenza sulla minaccia generica dell'espansionismo russo ed era entrato direttamente nel merito spiegando molto chiaramente (nella "dichiarazione d'intenti" militare di quell'anno) quale fosse la natura della "difesa" per un paese come gli Stati Uniti:

"Il modo particolare in cui la nostra economia si è sviluppata significa che oggi noi ci troviamo a dipendere − e non in piccola misura − dalle importazioni, dalle esportazioni e dalle rendite degli investimenti all'estero per assicurare il nostro benessere materiale" (citato in Une stratégie ecc.).

Le conseguenze che l'amministrazione americana aveva tratto da questa tardiva scoperta sono tanto importanti alla luce di ciò che sta succedendo oggi che vale la pena riportare alcune citazioni significative di quel rapporto, che si basa sulla seguente considerazione generale:

"In un mondo di conflitti e di violenze non possiamo permetterci di andare senza armi all'estero. [...] L'Unione Sovietica non è che una parte del problema. […] Un disordine economico internazionale potrebbe essere grave quasi come una minaccia militare diretta da parte dell'Unione Sovietica. [Quindi si tratta di apprestare gli strumenti adatti per inviare] rapidamente e a grande distanza forze di dimensioni e potenza appropriate per dissuadere le minacce che pesano sui nostri interessi vitali o, se necessario, domarle" (Une stratégie ecc.).

Vi erano dunque cause strutturali che concorrevano alla formazione di "minacce autonome contro la sicurezza", interpretata significativamente come inscindibile dal benessere degli americani. Negli anni precedenti gli analoghi rapporti ufficiali si concentravano sul confronto militare tra USA e URSS in Europa, mentre a partire dai primi anni '80 si incominciava ad affermare che le aree "calde" potevano essere ovunque fossero messi in questione gli interessi globali degli Stati Uniti. Ed erano non a caso quelle aree di frizione fra grandi stati imperialisti e fra questi e gli stati minori, già saturate di armi e di partigianerie in grado di usarle per conto di terzi nelle cosiddette proxi wars, guerre per procura, già allora così definite.

La nuova dottrina militare si scontrava però con il fatto che la situazione non era cambiata di colpo ma era la conseguenza di tutte le politiche e delle guerre precedenti, perciò ogni reale intervento di truppe aviotrasportate rischiava di trovare già sul posto una reazione armata. Ciò obbligava a prevedere per quante volte sarebbe stato necessario moltiplicare quantità e qualità di mezzi esistenti e in progetto per rendere efficace la dissuasione o la repressione, con relativo beneficio per l'apparato militare e conseguente aumento del bisogno di trovare risorse presso il resto del mondo, in un evidente circolo vizioso per nulla risolvibile ancora oggi. Anche l'eventuale reazione di altre potenze era naturalmente tenuta in conto e quindi bisognava prevenirla. Il citato generale Maxwell Taylor riteneva infatti necessario

"sopprimere tali conflitti prima che degenerino in qualcosa di più importante" (Une stratégie ecc.)

e l'allora consigliere di Stato Brzezinski gli faceva eco:

"La forza d'intervento rapido ci darà la capacità di rispondere rapidamente, effettivamente e anche in modo preventivo nelle regioni del mondo dove i nostri interessi vitali potranno essere in gioco e dove non ci sono forze americane di stanza permanente" (Une stratégie ecc.).

È nella logica delle cose: solo un'azione preventiva può fare della forza d'intervento una forza speciale. Ecco perché nel 1980 la Delta Force in Iran non poteva avere solo la missione di liberare gli ostaggi ed era o una prova generale o addirittura un tentativo di bloccare sul nascere il potere nero degli ayatollah (e qualche "sinistro" italico si sarebbe tremendamente indignato contro la violazione della sovranità nazionale iraniana!). Altrimenti si rimane sul terreno della normale preparazione bellica, comune a tutte le nazioni. La preparazione a uno scontro classico richiede la conseguente preparazione di eserciti di leva permanenti, numerosi e armati secondo le tecnologie più moderne, ma nella guerra d'oggi lo scontro frontale tra eserciti equivalenti sarebbe di tale intensità che porterebbe in breve al "consumo" di quantità indicibili di materiali, forze umane e manufatti che saturano gli ambienti industrializzati. Così la guerra diventa obbligatoriamente una faccenda speciale, che può condurre solo chi può preparare poche forze ultra-tecnologiche e addestrate, distribuirle nel mondo come deterrente o concentrarle nella guerra preventiva; mentre chi non può e si deve adattare a far da spettatore rispetto al paese più forte (gli Stati Uniti) non può che accontentarsi di equipaggiare inutili eserciti classici, utilizzabili solo a far da retroguardia e supporto logistico alla politica dominante.

Ma l'esistenza stessa di una forza d'intervento speciale provoca di per sé una reazione e preparazione presso i probabili obiettivi cui è diretta. E siccome nessuno oggi può uguagliare la potenza degli Stati Uniti, ecco che diventa necessità oggettiva, per i non-americani, il cosiddetto scontro asimmetrico. Termine ambiguo quanto mai, perché nella logica della guerra, se c'è scontro è perché si è sempre raggiunta una simmetria di qualche tipo. Ad esempio una guerriglia "povera" può non essere povera di appoggi e può far impantanare "ricchi" eserciti regolari, come il Vietnam, l'Afghanistan e l'Iraq hanno insegnato. E non è questa una rivincita della logica di equilibrio? Infatti, ben prima che fossero mature le citate teorizzazioni americane, l'URSS non era stata con le mani in mano: aveva appoggiato guerriglie e politiche antiamericane, varando anche una dottrina nazionale detta delle operazioni Desant. Le forze necessarie per metterla in pratica erano operative da anni. Il termine veniva usato per indicare contingenti di truppe particolarmente addestrate per operazioni di sbarco aero-navale in territorio nemico. Anche l'azione di questo sbarco prendeva lo stesso nome. La dottrina aveva avuto origine intorno al 1930 ma era stata sviluppata solo durante la Seconda Guerra Mondiale. Era poi stata perfezionata dal punto di vista operativo con l'invasione della Cecoslovacchia. È evidente che in Etiopia e in Afghanistan si erano svolte grandi operazioni Desant a scopo anche di esercitazione, e quindi a livello delle grandi potenze di allora il terrore dell'equilibrio non aveva prodotto che un ulteriore equilibrio. Le forze d'intervento rapido americane e russe avevano tra l'altro suscitato l'emulazione da parte di Francia e Inghilterra (che aveva già forze speciali con i suoi corpi di commando fin dal 1940, ma li aveva mantenuti in sottordine rispetto alle forze regolari). Non può evidentemente esistere paese imperialista senza che si manifesti la sua vocazione di sbirro, ma un conto è avere forze speciali, un altro conto è avere una posizione speciale che permetta di usarle.

Rimane il fatto che la concorrenza fra Stati non è eliminabile. La "vocazione" da sbirro imperialistico non ha quindi niente di metafisico o di soggettivo. Ogni dottrina borghese, in campo militare o altro, è per forza dottrina nazionale, e per questo stesso fatto è in concorrenza con le altre dottrine nazionali. Per la borghesia di uno Stato imperialista è impossibile sfuggire alla logica di adattare una data dottrina militare alla "difesa" dei propri interessi vitali per la semplice ragione che sono interessi vitali sul serio per la sopravvivenza del suo apparato economico-produttivo e quindi per la sua stabilità sociale. Giustamente il ministro della guerra americano parlava di difesa del benessere del proprio popolo; e se il benessere si basa sulla relazione tra i consumi degli americani e la rete dei loro interessi, che fa il giro del pianeta, allora la dominazione globale è inevitabile, come lo è la polizia mondiale per sostenerla e l'ovvia dottrina di pronto intervento.

Ma le dottrine, come le bugie, hanno le gambe corte, cambiano con una celerità direttamente proporzionale alla celerità con cui viene intaccato lo status quo. Quando in Europa regnava un certo ordine sotto la tutela della supremazia navale inglese, e un piccolo esercito di volontari era sufficiente per coprire le esigenze di difesa terrestre del Regno Unito, Trotsky, che non era l'ultimo arrivato come stratega e capo dell'Armata Rossa, così descriveva la situazione a proposito di dottrine militari mutevoli:

"L'Inghilterra era una grande potenza marittima; la sua dottrina richiamava alla necessità del riconoscimento dell'egemonia sul mare, quindi un atteggiamento negativo verso l'esercito permanente di terra e verso il servizio militare". [Ma con la prima guerra Mondiale] sul continente europeo l'equilibrio è stato spezzato. Nessuno ha fiducia nella stabilità del nuovo rapporto di forze. La potenza degli Stati Uniti esclude la possibilità del mantenimento automatico di un ulteriore dominio della flotta britannica" (Come si arma la rivoluzione, p. 53).

La guerra aveva obbligato l'Inghilterra alla costituzione di un esercito basato sulla coscrizione obbligatoria, si era aperta un'epoca in cui erano possibili "capovolgimenti militari e rivoluzionari", la situazione internazionale dimostrava l'assunto materialista secondo cui "una dottrina militare presuppone una relativa stabilità di circostanze interne ed esterne". Se tali presupposti mancano abbiamo espressioni di esigenze che possono essere anche chiamate dottrine, ma che si risolvono in una corsa disordinata ad accaparrarsi posizioni vantaggiose in una "strategia" quanto mai mutevole. Rimane la necessità di mantenersi speciali, ma ciò si può ottenere soltanto impedendo in anticipo la proliferazione della "specialità", che diventerebbe "normalità". Insomma, la guerra preventiva, da qualunque punto di vista la si voglia osservare, più che una dottrina di pazzi aggressori è il risultato inevitabile di un processo reale.

Abbiamo detto, con Trotsky, che l'affermarsi di una dottrina presuppone "stabilità di circostanze interne ed esterne". Da un paio di decenni questa stabilità è sempre più incrinata, e ormai le popolazioni convivono con situazioni di guerra anche se apparentemente non sono coinvolte nei combattimenti. Apparentemente, perché sempre più soldati sono inviati in angoli lontani del mondo in missioni speciali, e la struttura della propaganda borghese esalta con esagerata frequenza e intensità la paura derivante dalla "guerra al terrorismo", frase che non significa nulla ma che è adatta a inculcare paure irrazionali. E intanto il mondo intero si adegua a un'economia di guerra permanente, iscrivendo in bilancio le spese per truppe inviate da un capo all'altro del mondo e, sempre più spesso, per missioni collettive pagate in larga parte da chi non invia direttamente propri soldati (gli USA pagarono solo il 20% della prima guerra del Golfo). La guerra si fa vita quotidiana e anche chi non combatte partecipa. Diventando Low Intensity Conflict, conflitto a bassa intensità, la si nota soltanto quando qualcuno vuole che sia notata, ma intanto permea tutto e fa più vittime dei grandi massacri a tappeto. Persino l'industria si fa guerra, o viceversa, tramite potenti società di contractors, mercenari a contratto, un tanto a missione, buoni per il lavoro sporco, dove i governi preferiscono non comparire. Questo è il mondo veramente speciale che serve al mantenimento dell'egemonia americana.

Lotta contro la guerra, lotta contro il capitalismo

Da almeno un paio di decenni siamo criticati per aver affermato che la prossima guerra generalizzata non avrà le caratteristiche delle precedenti e che quindi non viviamo in un periodo di "interguerra" che preluda allo scoppio di una classica "Terza Guerra Mondiale". La prima parte del discorso, quella sui caratteri diversi delle guerre a seconda delle epoche, è ovviamente accettata da tutti; tutti possono constatare facilmente che la Seconda Guerra Mondiale non è stata combattuta in trincea e, più della prima, è stata una guerra di macchine e sistemi, specie aero-navali, quindi estremamente mobile e dinamica. La seconda parte sembra invece più dura da digerire. Eppure è un tutt'uno con la prima. Intendiamoci: lo scontro futuro vedrà impegnati, come lo sono già oggi, grandi paesi come Stati Uniti, Russia, Cina, India, Giappone ed Europa (se riuscirà a darsi un assetto unitario), quindi sarà certamente guerra "mondiale", terza quarta o quinta che sia. Ma lo è già oggi, e comunque non sarà combattuta con i mezzi, i criteri e le conseguenze di sessant'anni fa. È infatti lo sviluppo tecnologico e sociale che ha modificato profondamente non solo il rapporto fra il soldato e il sistema che lo impiega, ma anche quello fra il soldato e l'altro soldato, fra entrambi e la popolazione civile, fra la guerra e la produzione di massa. Ricordiamo l'argomento principe dei generali americani che criticano la pianificazione di guerra in Iraq: oggi le forze militari sul campo non vanno più "parametrate" alla forza combattente avversaria ma all'intera popolazione e alla sua struttura sociale. Assunto più che verificato in Iraq dagli americani e più recentemente in Libano dagli israeliani.

Insomma, la contrapposizione fra grandi eserciti regolari composti da milioni e milioni di soldati, al massimo appoggiati da qualche partigianeria dietro ai fronti, è caduta. Di conseguenza è caduta la proposizione leniniana sulla trasformazione della guerra mondiale in guerra civile rivoluzionaria (la Sinistra Comunista "italiana" la considerò storicamente caduta già al 1914, cfr. Dialogato coi morti, pag. 94). Non che sia caduto il principio generale, sempre valido, della sequenza rivoluzionaria (crisi del sistema, formazione e sviluppo del partito, svolta politica insurrezionale), ma è esaltato come non mai (l'avevano già notato del resto sia Lenin che Trotsky) l'aspetto internazionale, assolutamente a-locale, dei fenomeni legati alla rivoluzione. Le dottrine di guerra infinita e preventiva non nascono in qualche tink-tank politico-militare isolato dalla società, ma sono espressione di anonime forze materiali che dalla società scaturiscono.

Non si tratta solo di studiare ciò che Lenin disse nel 1917, quando i soldati potevano "fraternizzare" da una trincea all'altra, ma di capire cosa direbbe Lenin di fronte a una guerra come quella dell'Afghanistan, dove si scontrano da lontano USA, Russia, Cina, India ed Europa, ma le operazioni sono coordinate solo dagli americani tramite un centro operativo remoto, situato in Florida, negli Stati Uniti. Una guerra che solo in percentuale infima è combattimento nel significato usuale del termine, e che per il resto è coinvolgimento di Stati e di intere popolazioni lontane dall'Afghanistan, è imbottimento di crani, lavaggio del cervello, ricerca spasmodica di partigiani da parte dell'una o dell'altra schiera.

Già nell'immediato secondo dopoguerra la nostra corrente annotava i caratteri della guerra moderna, che sono anche quelli della conservazione di classe, quindi guerra preventiva indiretta contro il potenziale rivoluzionario del proletariato. Non più trincee, non più eserciti contrapposti, non più masse di uomini che si muovono assieme, non più esenzione dei popoli; al posto dei vecchi criteri, quelli nuovi: coinvolgimento totale di ogni forza sociale, avvento del soldato politico, come aveva anticipato il nazismo con le Waffen SS e come hanno abbondantemente spiegato e messo in pratica i neoconservatori americani, non a caso catapultati al governo del paese cardine dell'imperialismo.

Se la guerra − diceva la nostra corrente − non è più una parentesi fra epoche di relativa pace, ma diventa uno strumento politico-militare della conservazione sociale, uno stato permanente della società, sia dal punto di vista della repressione armata di ogni movimento controcorrente che da quello del coinvolgimento massiccio delle popolazioni (compresi il lavaggio in massa dei cervelli e la fomentazione di partigianerie ideologiche, politiche, combattenti – sottolineiamo ancora), allora l'alternativa sociale si fa più netta, non ci sono più sovrapposizioni di epoche, transizioni di fase che sono lunghe preparazioni agli eventi decisivi, come successe per la Rivoluzione d'Ottobre (peraltro già all'epoca definita da Lenin come "molto speciale"). Le transizioni assumono carattere decisamente catastrofico, dato che sarebbe impensabile, in epoca di guerra preventiva e infinita, un'esplosione rivoluzionaria locale senza la reazione delle forze coalizzate dell'imperialismo, che dispongono di un potenziale d'intervento infinitamente superiore a quello della coalizione che soffocò nel sangue la Comune di Parigi. Non cambia la prospettiva né cambia il percorso, ma diventano essenziali proprio i paradigmi che furono già bandiera della Sinistra Comunista "italiana" negli anni '20: internazionalismo, partito mondiale, catastrofismo; lotta senza quartiere al capitalismo in quanto tale e non solo ad alcune sue manifestazioni contingenti (guerra, ecologia, ecc.), contro le quali possono sollevarsi anche strati della borghesia e delle mezze classi.

Milioni, miliardi di uomini premono alle frontiere dei paesi industrializzati. E le ondate di oppressi, che sfidano il mare taglieggiati dagli scafisti o rischiano il soffocamento nei container, non sono niente in confronto a ciò che riserva il futuro. La sola guerra irachena attuale ha provocato 4 milioni di profughi, il più grande esodo della storia, del quale nessuno parla. Basta salire su un autobus o andare al bar per sentire cosa non riesce a fare un misto di condizioni materiali e di propaganda a proposito degli "immigrati". Le guerre moderne sono uscite dal campo di battaglia da un pezzo, anzi, non vi si sono mai limitate. Le guerre d'Afghanistan, d'Iraq e quella recente del Libano hanno come obiettivo la popolazione più che non i combattenti. Specie nel caso del Libano, l'obiettivo era esclusivamente la popolazione civile, dato che i combattenti di Hezbollah non sono neppure stati sfiorati. Sono guerre che uccidono e terrorizzano anche nelle metropoli dei paesi industriali che le pianificano. E se non lo fanno abbastanza, le cosiddette stragi di stato aiutano, come hanno sempre aiutato. Il terrorismo è qualsiasi cosa incuta o sia fatta per incutere terrore, diceva Lenin con sarcastica tautologia. Oggi il terrorismo ammazza infinitamente meno − poniamo − degli incidenti sul lavoro, ma ogni proletario troverà sempre più difficile non schierarsi di fronte al fatto reale che i "terroristi" sono miliardi e premono alle porte. E vai a "spiegare" che il terrorismo degli oppressi è figlio di quello degli oppressori e viceversa, come nella storiella dell'uovo e della gallina. Noi comunisti siamo con gli oppressi. Certamente. Ma quali oppressi? I miliardari col mitra finanziati da altri miliardari con la Rolls Royce? Gli oppressi, nella guerra infinita, sono quelli manovrati da una parte e dall'altra, quelli che un tempo si chiamavano carne da cannone.

Fa parte delle moderne dottrine militari il concetto di idea-driven war, guerra ideologicamente guidata. Se ci si fa coinvolgere in questo tipo di guerra, recita la dottrina, è impossibile evitare che l'ideologia del nostro nemico abbia effetti di ritorno sulla nostra propria ideologia, e viceversa. Se inventiamo la guerra al terrorismo inevitabilmente diventeremo più terroristi del nemico (sempre tenendo presente l'uovo e la gallina). Come si vede, non è solo questione di propaganda, la guerra globale che permea la società è sinonimo di controrivoluzione oggettiva, una situazione dalla quale non si esce schierandosi con gli attori in campo ma con la rivoluzione. Per questo diciamo da vent'anni che il sistema capitalistico intero non è più plurale (multipolare), ma non può neppure diventare singolare (monopolare, globale): esso si fa duale (polarizzato fra opposti). Solo così si spiega una assunto della nostra corrente: o passa la guerra o passa la rivoluzione. Proprio nell'epoca in cui tutto sembra indistinto, e i confini di un fenomeno si sovrappongono a quelli di un altro nella mistificazione generale, diventa invece chiaro, evidente, cristallino il fenomeno fondamentale della soluzione rivoluzionaria. È in tale contesto che si mostra in tutta la sua stupidità ogni manifestazione favorevole alla continuità della confusione e della mistificazione, singolare o plurale che sia.

Prendiamo il cosiddetto antimilitarismo e la lotta contro le varie manifestazioni guerresche di questa società, dalla spesa militare alla partecipazione di contingenti militari in missioni all'estero. È evidente che come parola d'ordine generica è ancora valida la proposizione dei socialisti rivoluzionari contro la spedizione in Libia all'inizio del secolo scorso: non un uomo né un soldo per la guerra. Ma nell'epoca della mistificazione totale l'utilizzo di quelle supersemplificazioni non è più possibile: le guerre sono mascherate da azioni di pace, le basi militari sono il prodotto di una situazione generale complessa scaturita da due guerre mondiali "calde" e un'altra guerra non meno mondiale che era "fredda" solo di nome, i vari paesi imperialisti non aspettano altro che la possibilità di reclutare partigianerie l'uno contro l'altro. Manifestare contro gli epifenomeni militari del capitalismo può essere utile ai fini di organizzazione rivoluzionaria, così com'è utile l'azione di tipo sindacale, ma è azione non assurda solo se chi vi partecipa è consapevole che ciò significa sempre trovarsi tra i piedi forze sociali spurie, nemiche, che vanno dai preti al partigianesimo democratoide ex filo-alleato, dagli interessati servizi segreti delle varie potenze ai proletari sinceramente anticapitalisti. Il rivoluzionario non scambierà mai per anti-imperialismo quel fenomeno terribile che è il pacifismo, cui si dedicano quegli stessi che da un po' di tempo accorrono in ogni guerra per fornire servizio logistico tramite le cosiddette Organizzazioni Non Governative, senza chiedersi come mai proprio nei documenti ufficiali di Washington sulla guerra infinita e preventiva, questa collaborazione sia così ambita e gradita.

La guerra non si "avvicina", dunque, ma è in corso senza fronti o, se vogliamo, su un fronte globale, come si addice al capitalismo nella sua fase "suprema", cioè appunto globale. La sua preparazione è perenne come è perenne la sua esecuzione materiale. Non "attende" di coinvolgere i grandi vecchi paesi imperialisti e nemmeno quelli nuovi: tutti sono già coinvolti, dato che, anche se non si fanno guerra direttamente, lo fanno da decenni per interposta persona. È chiaro che una situazione del genere rovescia le vecchie basi materiali della guerra: essa non scaturisce più da una situazione interna, che in qualche paese vede aumentare la pressione, per trovare sbocchi esplosivi in soluzioni esterne; al contrario, è la situazione ormai determinata da fattori irreversibili esterni (la cosiddetta globalizzazione, per noi sinonimo di imperialismo) che preme sui vari paesi e li obbliga a modificare circostanze interne. Lo squilibrio e le contraddizioni nei rapporti internazionali hanno avuto origine in fattori nazionali concorrenti, ma una volta che la situazione mondiale è rovesciata diventa ridicolo manifestare contro una base perché "americana". Il nemico capitalistico è ovunque, e in primo piano c'è quello rappresentato dalla borghesia nostrana, con la quale invece tanti pacifisti vanno felicemente a braccetto. È il capitalismo che fa della forza militare (americana o di chiunque) un esercito controrivoluzionario internazionale permanente, alla stregua delle forze interne di polizia. E anche se le borghesie saranno costrette dall'ampliarsi delle situazioni di guerra a ritornare all'esercito di leva, la struttura portante fatta di killer professionali prefabbricati è già pronta per reprimere qualsiasi moto interno, a meno di un rivolgimento catastrofico generale.

Pensare che determinazioni internazionali così forti non abbiano ripercussioni non solo sui governi, ma anche sui rapporti tra le classi, sulla vita di milioni e milioni di persone che vivono oppresse da questi rapporti sociali fatalmente destinati a peggiorarne le condizioni relative e assolute, è assurdo. La fame, la miseria e la precarietà dell'esistenza sono un prodotto tipico dello sviluppo capitalistico (cfr. il n. 20) al pari della guerra e non c'è governo che tenga di fronte a questa determinazione. I vari "fronti" interclassisti che nascono e si dissolvono rincorrendo svariate contingenze sono obbligati a una vera e propria schizofrenia: nel febbraio scorso a Vicenza, i convenuti manifestavano per impedire la costruzione di una base americana, contro un governo che loro stessi avevano voluto (governo peraltro formato da partiti che sono guerrafondai o pacifisti a seconda che vincano o perdano le elezioni). Naturalmente i più fessi di tutti sono coloro che vanno a votare credendo che, specie in politica estera, uno schieramento politico possa fare qualcosa di diverso da un altro. Berlusconi ha detto che una buona metà degli elettori, quelli che hanno votato per i partiti suoi avversari sono dei coglioni. Non è vero. Lo sarebbero semmai tutti, anche i suoi elettori. La coglioneria non può essere un fatto patologico di massa, in massa si può solo essere coglionati.

Effetto palude e potenzialità esplosive

È interessante notare come la ricerca spasmodica della superiorità, quindi del non-equilibrio, si rifletta in tutti i campi. Ad esempio, in campo politico parlamentare, dove comunque più si ricerca il disequilibrio più le forze finiscono per equilibrarsi: in molti paesi, compresi gli Stati Uniti e l'Italia, le coalizioni in campo si sfidano alle urne con differenze di poche migliaia di voti. Anche dal punto di vista sociale le borghesie nazionali hanno giustamente terrore degli sviluppi dalla situazione: da una parte sono soddisfatte per essere riuscite a trasformare le classi in una indistinta poltiglia interclassista; dall'altra sono ossessionate dalla perdita di vitalità dell'intero sistema occidentale, la cui dinamica è minata dalla concorrenza dei paesi emergenti come la Cina, l'India e le cosiddette tigri asiatiche.

Da una parte sembra dunque che le forze dell'imperialismo siano imbattibili, in grado di bloccare qualsiasi determinazione rivoluzionaria, ma dall'altra appaiono chiare le contraddizioni che squassano il sistema, il quale produce, nonostante tutto, ribellione, e perciò guerra aperta o nascosta. La rivoluzione non si ferma mai, ma è evidente che le masse miserabili e precarizzate del mondo stanno pagando un incalcolabile tributo di sangue e di insicurezza per la lunga assenza degli unici fattori storicamente in grado di accelerare il movimento sociale, cioè un fermento di classe che porti a un movimento orientato di milioni di uomini e allo sviluppo dell'organo politico di guida. D'altro canto una pressione crescente obbliga le forze d'intervento dell'imperialismo a una dispersione che si rivela tutt'altro che razionale. Il fatto che il paese-gendarme sia costretto, per ragioni di sicurezza e di sopravvivenza, a sventagliare la totalità delle proprie forze militari in 800 luoghi di guerra e avamposti militari sparsi per il mondo la dice lunga sul bisogno vitale di coinvolgere altri paesi per alleggerire la pressione finora sopportata. Tuttavia troppo "aiuto" finisce per essere controproducente, dato che ogni borghesia nazionale finisce per farsi gli affari suoi. E infatti sta succedendo, con un misto di servilismo e di ribellione smorzata. Gli "alleati" stanno inviando truppe col contagocce, spesso senza alcuna utilità pratica, come pura presenza rituale, utile più a prendere contatti unilaterali con le borghesie del posto che a combattere i nemici dichiarati.

Ovviamente non bisogna mai sottovalutare la potenza dell'avversario e la sua capacità di manovra nelle incertezze dell'epoca attuale. Ma possiamo essere sicuri che il processo in corso, per quanto lento, è irreversibile e avrà effetti certi sulla mobilitazione del proletariato mondiale. Infatti, l'impossibilità di controllare le determinazioni che conducono alla guerra infinita e preventiva, alla conseguente ricerca di una superiorità che comunque produce come contraccolpo un paludoso equilibrio, produrrà una situazione catastrofica. Sarà allora possibile per il proletariato tornare allo scontro non occasionale e ritrovare il suo partito, tramite il quale riscoprirà materialmente il suo vantaggio storico, cioè la superiorità potenziale dovuta al fatto di essere l'unica fonte di valore, di essere esteso e omogeneo come classe a livello mondiale, di essere più numeroso e organizzato (dal lavoro stesso) di qualsiasi altra classe o non-classe oggi sulla cresta dell'onda.

In una prospettiva catastrofica come quella in cui si trova adesso il modo di produzione capitalistico non ha alcun senso "lottare" per un equilibrio che non c'è, rivendicare un capitalismo ecologico e sostenibile, parteggiare per alcune borghesie e avversarne altre, manifestare contro una base americana e dimenticare che il nemico non è tanto americano quanto capitalista, dimenticare cioè che uno dei fondamenti del comunismo è il rifiuto delle patrie e che il nemico è una classe, non una bandiera. Americano è anche il proletariato degli Stati Uniti, uno dei più sfruttati del mondo. Se poteva far ridere la vecchia parola d'ordine per una "coesistenza pacifica", che poi nascondeva in realtà una guerra guerreggiata di mezzo secolo con centinaia di milioni di morti, oggi non fa affatto ridere il veder sorgere fra i "sinistri" una nuova versione del social-imperialismo che comporta già congetture su quale parte della borghesia (o delle borghesie) il proletariato potrebbe appoggiare a proprio (immaginario) vantaggio, come se la storia sanguinosa dei fronti unici e delle partigianerie non avesse insegnato niente.

Nella passata fase rivoluzionaria, prima che emergessero la sconfitta e la controrivoluzione stalinista, i comunisti non erano per equilibri di nessun tipo, non erano alleati con nessuna borghesia o parte di borghesia, non era pensabile una coesistenza di classe, il concetto di patria era deriso e non esisteva ancora il primitivismo ecologista, per cui la modernità dell'industria era considerata un fatto rivoluzionario malgrado l'attuale modo di produzione. Nessun operaio era pacifista, e nei momenti di insurrezione i reparti proletari erano orgogliosi del loro armamento e della loro disciplina. Essi aborrivano il dialogo frontista con le classi avverse e tendevano ad evitarlo anche quando ormai era imposto dalle direzioni dei partiti degenerati. Non cercavano il compromesso ma la superiorità schiacciante da raggiungere almeno localmente in modo da annientare le forze dell'avversario. Sapevano che quest'ultimo contava sulla divisione fra proletari, la fomentava e utilizzava, quindi cercavano l'unità dal basso per non farsi intrappolare in una tattica interclassista che non era la loro. Non si capisce perché dovrebbe esservi un metodo diverso oggi, quando la borghesia è infinitamente più esperta e attrezzata di quella di allora.

Se il sistema borghese è forte e stabile nessuna rivoluzione è possibile. La guerra è prodotto e fattore di instabilità, e quindi può produrre situazioni vantaggiose per un proletariato ben organizzato e guidato. Lenin e Trotsky lo dissero a proposito della Prima Guerra Mondiale e niente è cambiato dal punto di vista del principio. Abbiamo visto che l'unica differenza è oggi un incomparabilmente maggiore coinvolgimento del proletariato nella politica della classe avversaria e quindi negli schieramenti di guerra. Perciò è questo coinvolgimento la chiave oggettiva per capire la differenza tra le due epoche. E che cosa significa coinvolgimento se non partigianeria? La Seconda Guerra Mondiale non è stata differente dalla Prima solo per le dottrine applicate, la tecnologia e i metodi: è stata differente perché ha coinvolto il proletariato nell'ideologia della guerra stessa e l'ha fatto combattere per quella, da una parte e dall'altra. Con il tradimento dei partiti ex comunisti, il proletariato aveva fornito soldati politici alle borghesie in guerra. Per questa ragione non fu materialmente possibile che la guerra stessa trascendesse in guerra rivoluzionaria.

Immaginiamo oggi. Se passa la guerra nella sua forma attuale, senza limiti, preventiva, mediatica e ideologica, il proletariato è necessariamente ancor più coinvolto e ancor più va a ingrossare le file dell'esercito politico di goebbelsiana memoria. Va cioè a schierarsi con le parti in lotta, come sta già di nuovo succedendo. Invece di rimanere assolutamente autonomo nelle proprie valutazioni e nei propri movimenti, è tentato da giudizi di tipo ideologico ed estetico sulle parti in campo. È in fondo fregato da stupidaggini inessenziali come le elucubrazioni sulla legalità della guerra sancita o meno dall'ONU, su chi possa essere l'aggressore e chi l'aggredito, sul furto di petrolio da parte di un paese ai danni dell'altro, su chi sia il "vero" terrorista e persino su chi sia ebreo e chi arabo. Se ci si dovesse basare su ciò che afferma oggi la maggior parte dei "rivoluzionari", ci sarebbe da sprofondare sotto terra dalla vergogna.

Il comunista non fa mai ragionamenti del genere, che significano già "entrare nel merito" delle dispute fra borghesie con gli argomenti delle stesse, preambolo a scegliere l'una piuttosto che l'altra. E non ha bisogno di fingere alleanze con il nemico, sottintendendo furbescamente che le si fa solo per "fregarlo" (mentre la storia ha dimostrato che ad essere "fregata" è stata solo e sempre la classe proletaria). La Sinistra Comunista italiana coniò una definizione tremenda per l'atteggiamento del movimentista che, mormorando tra sé ha da venì Baffone, accetta tutte le regole del gioco borghese: "lebbra dell'illegalismo bastardo". Una malattia oggi particolarmente devastante. La strategia del comunista, come la sua tattica, è nel suo programma che sbandiera ai quattro venti senza ipocrisie e secondi fini. Questa chiave, diceva Trotsky,

"é il nostro grande vantaggio nei confronti dei nostri nemici; noi non abbiamo paura di dirlo forte, perché essi non possono né impossessarsene, né farne un duplicato" (Come si arma la rivoluzione, p. 47).

Ecco il "segreto": i comunisti hanno un programma che non può essere copiato da nessuno, non somiglia a quello di nessuno, non mutuano da nessuno, non condividono con nessuno. Per il comunista è dunque assurda una "lotta contro la guerra" che non sia allo stesso tempo "lotta contro il capitalismo" anche quando in un determinata area la guerra guerreggiata non c'è. Se il capitalismo ha trasformato il combattente in soldato politico non c'è altro da fare che prenderne atto e contrapporgli un altro tipo di soldato politico, rivoluzionario, come si verificò durante la Rivoluzione d'Ottobre. Ma ci vuole ben altra organizzazione e preparazione di quella che molti immaginano adesso, senza parlare del programma politico. Le manifestazioni, i comitati, le iniziative di propaganda antimilitarista e tutto l'armamentario classico della storia del movimento proletario può essere ereditato senza problemi solo se si tiene conto della natura odierna della guerra, benissimo descritta dagli esponenti del militarismo attuale. Nell'epoca della guerra senza limiti di tempo, di spazio e di intensità, condotta con intenti preventivi, non ha senso abbandonarsi a pratiche codiste, che si attivano a intermittenza, cioè che scattano solo tutte le volte che una determinata borghesia o parte di essa entra in conflitto con qualche altra. Un rivoluzionario non può rimanere disoccupato tra un evento scodellato dalla borghesia e un altro. Se la guerra capitalistica è infinita e permanente, come del resto recitano finalmente le moderne dottrine militari, infiniti e permanenti dovrebbero essere anche i compiti del rivoluzionario, che dovrà darsi una struttura organizzata (partito) conseguente, in grado di contrapporsi a questa società in tutte le sue manifestazioni, sempre.

Guerra para-insurrezionale?

Secondo alcune teorie saremmo di fronte, oggi, a una Fourth Generation Warfare, una modalità di guerra giunta alla quarta generazione. Questa espressione comparve per la prima volta in un articolo della Marine Corps Gazette (ottobre 1989) in cui si prediceva che un nuovo tipo di guerra avrebbe sostituito quelle classiche. Come abbiamo già visto in altri articoli, le periodizzazioni e gli schemi formali non ci disturbano, anche se arbitrari, purché introdotti in un quadro generale in cui essi siano esplicativi. Abbiamo per esempio affermato che uno studio sulla tipologia delle guerre può portare a identificare fino ad oggi, volendo, quattro "guerre mondiali": la Prima e la Seconda (e fin qui tutto normale), la Terza (Guerra Fredda) e la Quarta (Guerra preventiva o infinita). Per uscire da uno schema mentale precostituito avevamo preferito inserire queste guerre in quattro fasi dell'ascesa degli Stati Uniti come unica potenza globale (cfr. n+1 n. 11, marzo 2003). Ma la teoria delle guerre di quarta generazione, così com'è formulata dagli esperti militari non regge ad almeno due criteri di analisi: quello storico materialistico e quello della teoria degli insiemi.

La teoria afferma, in breve, che vi sarebbero quattro forme della guerra moderna: 1) quella basata sulla potenza di uomini inquadrati e ben addestrati (guerra napoleonica); 2) quella basata sulla potenza di fuoco dovuta a macchine prodotte all'apice della rivoluzione industriale (I Guerra Mondiale, artiglieria pesante e primi carri armati); 3) quella basata sulla rapidità di fuoco e soprattutto sulla mobilità dei sistemi d'arma (II Guerra Mondiale, blitzkrieg, guerra aeronavale); 4) quella basata sull'asimmetria e che vede schierato da una parte uno Stato e dall'altra forze non direttamente riconducibili a uno Stato (proxi war, insurrezioni, terrorismo). Questo quarto stadio sarebbe caratterizzato dalla contrapposizione fra guerra tecnolgica e guerra ideologica (Technology-driven Warfare e Idea-driven Warfare), in un ambiente informatizzato controllato dai fautori della prima (Network Centric Warfare). Le guerre di quarta generazione avrebbero superato la classica triade clausewitziana Stato-popolo-esercito, per cui si sarebbero fatte sempre più rare le guerre preparate da uno Stato, appoggiate da un popolo e combattute da un esercito vero e proprio. Sempre più frequenti invece le guerre non trinitarie, che immaginiamo potrebbero essere quelle preparate da uno Stato, combattute dal suo esercito ma non appoggiate dal popolo; oppure combattute da un popolo senza esercito e senza Stato; oppure combattute da un esercito informale senza base territoriale, non appoggiate né da un popolo né da uno Stato specifici (vedi al Qaida).

Si tratta di una riduzione a fasi di tipo tecnico che può essere utile o confondere le idee a seconda di come la si adopera. Dal punto di vista della teoria degli insiemi vi sono delle sovrapposizioni tali da inficiare gli insiemi stessi. Ad esempio, l'uso di enormi masse di uomini reclutati con coscrizione obbligatoria è comune all'epoca napoleonica e alla Prima Guerra Mondiale, ma rispetto alla prima quest'ultima reclutò soldati in rapporto di almeno 10 a 1; la potenza di fuoco risultò infinitamente moltiplicata dalla mobilità degli eserciti e dalla logistica nella Seconda GM; forme di guerra fra uno Stato e unità irregolari vi sono sempre state fin dai tempi di Spartaco; la battaglia ideologica è sempre stata complementare a ogni guerra, come già insegnava Sun Zu nel IV secolo avanti Cristo. Dal punto di vista storico materialistico la riduzione in fasi dovrebbe tener conto non solo dei caratteri tecnici ma dell'evoluzione sociale che è inscindibile da quella tecnologico-scientifica. Alla fine ne ricaviamo che nell'ultima fase della guerra moderna il massimo di tecnologia si abbina al massimo di ideologia e al massimo di coinvolgimento di masse di uomini, non più solo in divisa.

L'aspetto che ci sembra più interessante, nella discussione sulla natura della guerra odierna, è che la borghesia si è accorta della generalizzazione di una caratteristica sempre più accentuata: il mondo attuale sta vivendo, si dice, una situazione di insurrezione diffusa. Ecco perché sempre di più vi è lo Stato da solo, da una parte, e una varietà di forze non statali dall'altra. Ciò porterebbe a una situazione paradossale: nell'epoca della massima tecnologia, mobilità e potenza di fuoco, gli eserciti che meglio rappresentano detta situazione si trovano di fronte a forze che combattono con bassa tecnologia e altissimo potenziale ideologico. Nell'epoca della massima potenza dello Stato, proprio questa potenza avrebbe dato luogo all'ambiente di insurrezione diffusa, di fronte alla quale lo Stato stesso si impantana (Cfr. Martin von Creveld, The transformation of War).

Lo Stato non sarebbe più in grado di detenere il monopolio della violenza pubblica e internazionale, e la guerra frontale tra Stati si allontanerebbe sempre più dalle reali condizioni di scontro. Di fronte ai moloch statali si sarebbe sviluppata la figura del "caporale strategico", un ossimoro che indica come un piccolo gruppo indipendente, comandato da un elemento che in un esercito classico sarebbe un semplice "caporale", facente capo ad una rete organizzata, avrebbe la capacità di portare a compimento azioni tattiche in grado di avere ripercussioni strategiche sul nemico. Hollywood ha sfornato centinaia di film sul caporale strategico, l'eroe qualunque che salva il mondo da solo; e l'attacco alle Twin Towers, vero o artefatto che sia, si adegua perfettamente al copione. Del resto non fu Winston Churchill, a dire, parlando della Seconda Guerra Mondiale, nonostante le decine di milioni di soldati gettati sul campo: mai nella storia così tanti uomini hanno dovuto la loro salvezza a così pochi? Tutto ciò sembrerebbe poco materialistico, ma è però anche vero che più un sistema è caotico e complesso, più è sensibile all'ormai classico "effetto farfalla" (un battito d'ali in un luogo può scatenare un ciclone all'altro capo del mondo).

Come si vede, non è più solo un problema di definizioni, c'è di mezzo una vera e propria capitolazione di fronte alla concezione materialista dell'evoluzione sociale della guerra. Le teorie non nascono dal nulla. La guerra permanente trova già chi, in seno alla stessa borghesia, annota come essa sia inscindibile da una specie di insurrezione permanente. Il sociologo Mike Davis, nel suo libro Il pianeta degli slum, ha scritto che il prossimo futuro vedrà protagonista la metropoli tentacolare ghettizzata, la bidonville universale da cui scaturirà la violenza planetaria. Contro di essa le forze armate, non solo americane, stanno studiando preventivamente dottrine militari di contenimento, per cui la tanto strombazzata "guerra alla povertà" sarà in effetti "guerra contro i poveri".

È ovvio che teorie del genere sono infarcite di moralismo e ideologia, ma ci interessano comunque le ragioni materiali che le fanno scaturire dal sottofondo economico e sociale. Infatti, se chiamare "insurrezione" un movimento popolare, o borghese, che fa concorrenza ai grandi Stati dell'epoca imperialistica è errato, è pur vero che è verificata al di sopra di ogni dubbio l'impossibilità, per i grandi Stati, di vincere con armi tradizionali, cioè con gli eserciti, le forme insurrezionali spurie che li combattono a livello internazionale con armi a bassa tecnologia, alto potenziale ideologico e relativamente bassa percentuale di insuccesso.

Secondo una statistica pubblicata da Arreguìn e Toft su International Security, il 55% delle "guerre asimmetriche" avvenute fra il 1950 e il 1998, avrebbe portato alla vittoria la parte non-statale. Vi sono militari che, di fronte a questa situazione, hanno già scritto pagine illuminanti rispetto ai problemi posti dalla guerra di tipo insurrezionale contro eserciti regolari. I generali Angioni, Loi e Mini, comandanti rispettivamente di missioni in Libano, Libia e Bosnia, hanno rivendicato un nuovo tipo di assetto operativo e soprattutto di soldato, non più il robocop all'americana teleguidato da centri operativi asettici e lontani in tutti i sensi, ma il combattente responsabilizzato verso la popolazione civile ecc. ecc. Anche in questo caso siamo di fronte, nello stesso tempo, a esempi operativi sul campo (il soldato politico) e a fole ideologiche (il soldato umano!), ma resta il fatto che gli esperti, pur registrando lucidamente il problema, non possono proporre alcuna soluzione razionale. Come dice il generale Mini, si invadono e distruggono grandi paesi come l'Iraq, ma nelle scuole militari non esiste più la materia "Amministrazione di guerra": le popolazioni civili sono bombardate, affamate, disperse e abbandonate senza beni e servizi essenziali come il cibo, l'acqua, l'elettricità, il carburante, e all'invasore non potrebbe importare di meno. La guerra preventiva e infinita fabbrica continuamente sé stessa.

Partigiani cercasi disperatamente

I tre generali citati avevano bisogno, per la riuscita delle loro missioni, di adottare la strategia nemica, cioè controllare il territorio, avere dalla propria la popolazione e quindi risolvere i problemi immediati di quest'ultima. È la strategia di al Qaida, di Hamas, di Hezbollah, come lo fu del Viet-cong e di ogni forza guerrigliera. C'è dunque concorrenza per attirare verso di sé le popolazioni. Vale a dire per avere partigiani al loro interno. La questione delle partigianerie è stata da noi affrontata più volte per la semplice ragione che, con la nostra corrente storica, la riteniamo essenziale. Oggi c'è spazio abbondante per il pacifismo generico e fiancheggiatore di un inesistente capitalismo "migliore". Non c'è organizzazione sedicente rivoluzionaria che non corra dietro alle guerre che il Capitale è costretto a generare per tentare di salvare sé stesso. Il bombardamento delle Twin Towers e del Pentagono sembra aver generato l'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq, ma sappiamo che i piani per quelle guerre c'erano già ben prima che crollassero gli edifici-simbolo. Gli americani hanno comunicato che rinforzeranno la loro presenza in Italia e subito è scattata la "manifestazione anti-imperialista", ma nessuno si era mosso quando gli stessi americani fondavano o ampliavano le loro 800 basi, ognuna parte di una catena planetaria, a volte gigantesche come quelle in Kuwait, negli Emirati, in Arabia Saudita, in Asia, nell'Oceano Indiano. Nessuno sta muovendo un dito per il massacro di milioni di africani che vengono sacrificati agli interessi di rapina delle materie prime, compresi quelli collegati alle velleità neo-egemoniche della Cina, governata da un partito "comunista". Si dirà: non c'è la forza per l'azione a tutto campo. D'accordo, ma la forza la si trova per marciare con i preti, con i parlamentari arruffoni, con i pacifisti, con i sindacalisti, con i bottegai che non vogliono sentire il rumore degli aerei sulle loro villette e con i gruppettari che fanno sbirresco servizio d'ordine al pari della CGIL. C'è qualche contraddizione evidente. Una volta, quando il movimento operaio era "analfabeta", gli operai capivano benissimo l'antifona e non si mescolavano a gente del genere ma la sputacchiavano dal margine dei cortei. La chiamavano senza tante storie "teppaglia in guanti gialli", come avevano sempre chiamato la piccola borghesia isterica e riformista.

I comunisti dovrebbero avere un approccio scientifico ai fenomeni sociali. Almeno questo ci insegnò Engels quando scrisse sul socialismo che marcia dall'utopia alla scienza. Non si tratta perciò di negare l'evidenza, di ignorare il fatto che si può far parte solo del movimento reale che c'è e non di quello che si vorrebbe. Si sa benissimo che i movimenti sociali sono caotici e contraddittori e che in una manifestazione "anti-imperialista" come quella contro la base di Vicenza vanno sempre anche i personaggi prima ricordati. Non è questo il problema; e non sarebbe un problema nemmeno fare degli errori, dato che li si può correggere, come disse la Sinistra Comunista di fronte alla confusione tattica della Terza Internazionale. La tragedia di sempre è non avere conoscenza dei veri processi che si svolgono sotto i nostri occhi, e quindi non avere alcuna possibilità di agire al meglio entro il movimento che c'è, cosa che, soprattutto, impedisce ogni prospettiva futura. Se si perde l'autonomia rivoluzionaria, si finisce sempre per fiancheggiare una delle forze reali che si trovano in campo:

"Il partigiano è colui che combatte per un altro, se lo faccia per fede per dovere o per soldo poco importa. Il militante del partito rivoluzionario è colui che combatte per sé stesso e per la classe cui appartiene. Le sorti della rivoluzione dipendono dal poter elevare una insormontabile barriera tra il metodo dell'azione classista di partito e quello demoborghese della lotta partigiana" (Marxismo o partigianesimo).

Come abbiamo visto, non c'è niente di meglio che la guerra per far nascere partigianerie per l'una o l'altra frazione borghese. In Italia la guerra '15-'18 aveva esasperato la lotta di classe, il movimento proletario era forte e organizzato e per contrastarlo la borghesia aveva armato una sua frazione antiproletaria. Il proletariato non era stato da meno e aveva tentato di armare una sua frazione antiborghese, nella fattispecie il Partito Comunista d'Italia. Ma al manifestarsi soverchiante della forza controrivoluzionaria le sue organizzazioni tradizionali e una parte stessa del partito avevano ceduto: s'era incominciato con gli Aventini e si era finiti con l'aiutare gli Stati Uniti a vincere la guerra, salvo accusarli lamentosamente, subito dopo, di essere dei rapaci imperialisti.

Sempre i furbastri hanno la domanda di riserva: si doveva forse lasciar vincere il fascismo? E questa domanda la fa chi si sciacqua la bocca in continuazione con frasi fatte sulla gloriosa Rivoluzione d'Ottobre. Ebbene, quella rivoluzione fu "gloriosa" proprio perché poté e seppe, in tempo di guerra mondiale, lottare nello stesso tempo su tutti i fronti, cioè rovesciare il potere dell'autocrazia russa, neutralizzare la borghesia nazionale e combattere contro cinque armate controrivoluzionarie e contro i contingenti americano, inglese, francese e giapponese sbarcati a Murmansk, Arkangelsk, Odessa e Vladivostok. Siamo consapevoli del fatto che il proletariato europeo non poteva, dopo la micidiale controrivoluzione staliniana, avere un programma rivoluzionario e la forza conseguente per rovesciare allo stesso tempo le borghesie fasciste e quelle democratiche, ma ciò non significa che bisognava combattere e morire a favore dell'una o dell'altra, né in campo aperto né con la guerriglia partigiana.

Sappiamo benissimo che c'è uno stridente contrasto fra l'uso di un linguaggio sorto in un periodo rivoluzionario e la realtà di oggi, che non conosce altro "movimento sociale" oltre a quello del Capitale in valorizzazione e delle forme economiche e politiche al suo servizio. Ma proprio per questo sarebbe utile non cadere nel tranello delle partigianerie che si stanno formando a ritmo preoccupante. Il "partito americano" è esplicito e comprende tutti gli schieramenti parlamentari oltre che fanatiche minoranze dedite a teorie ultra-liberiste e anarco-capitaliste. Per converso c'è già chi teorizza una vantaggiosa alleanza del proletariato con una per ora inesistente borghesia unificata europea contro gli Stati Uniti. C'è già chi per lo stesso motivo appoggia, almeno verbalmente, il variegato movimento islamico. Ha un successo mediatico perlomeno sospetto quell'orrendo sottoprodotto della controrivoluzione stalinista che è il nazionalcomunismo esoterico importato dalla Russia. Non tarderà a ritornare anche una qualche influenza cinese, senza che il virus trovi troppi anticorpi per combatterlo. Quando la guerra è infinita, permanente e preventiva, i servizi segreti di tutti i paesi del mondo non dormono mai.

Non è possibile che gli Stati Uniti facciano la guerra da soli a tutto il resto del mondo, hanno bisogno di aiuto e lo debbono trovare in popolazioni alleate. D'altra parte il resto del mondo non può fare guerra aperta agli Stati Uniti, ha bisogno di popolazioni che siano profondamente antiamericane. Il resto viene da sé. L'opportunismo traditore, quando lo si poteva ancora chiamare così (ormai nessuno può "tradire" una causa che non ha mai fatto sua), si alimentava con la presunzione piccolo-borghese del miglioramento di una società incontrollabile, di un capitalismo senza le contraddizioni insite nel capitalismo; il pacifismo odierno, che da esso emana, è invece fratello speculare dell'interventismo xenofobo, pretende di mettere sotto controllo solo il fenomeno della guerra, che è parte integrante di una società incontrollabile, fatta di borghesie nazionali concorrenti, quindi nemiche per definizione, i cui rapporti si fondano su di un equilibrio instabile basato su nient'altro che l'opposizione di forze contrastanti bisognose di manodopera possibilmente a basso costo, cioè volontaria.

Piccole variazioni nelle forze in questione, o anche solo della direzione verso cui agiscono, scatenano periodicamente l'energia potenziale in energia cinetica dimostrando di quale natura sia questo equilibrio. Mentre il pacifismo si alimenta di chimere nell'utopia di un'armonia impossibile, il militarismo si alimenta di teorie più prosaiche sia per impedire la rottura dell'equilibrio, sia per ottenerla in vista di un conflitto. Von Clausewitz aveva capito benissimo la dialettica della guerra. Teoricamente non si può decidere se le nazioni in campo entrano in guerra in virtù di una simmetria o di un'asimmetria di potenza. Una potenza superiore può rappresentare il deterrente per evitare conflitti, ma anche un'eguale potenza li può evitare, dato che lo scontro giungerebbe allo stallo. Solo la politica può stabilire se ci sarà pace o guerra, indipendentemente da simmetrie o asimmetrie; non si può sapere a priori se attaccherà il più forte proprio in virtù della sua superiore potenza, o se attaccherà il più debole per prevenire quest'ultima o perché esasperato da essa. La decisione è perciò scritta nell'intera storia precedente allo scoppio delle ostilità. È nel gioco di queste determinanti che è nata l'attuale dottrina americana della guerra preventiva, e infatti non è un caso che alcuni politologi americani scrivano libri sul contraccolpo (blow-back) che sessant'anni di politica imperialistica senza scrupoli avrebbero provocato. La catena causale non può essere interrotta, anche la guerra preventiva è in fondo un contraccolpo a ciò che essa stessa scatena. Il processo si fa non lineare ed è qui che si innesta il paradosso logico delle partigianerie: possono sempre essere giustificate da qualsiasi punto di vista, meno che da quello rivoluzionario.

L'anima delle mosche cocchiere

Il ricordato equilibrio del terrore derivava il suo nome dal linguaggio esplicito ed empirico del mondo militare. Il quale, avendo preso atto della situazione creatasi dopo la Seconda Guerra Mondiale e deridendo il pacifismo, aveva espresso chiaramente il suo punto di vista: la guerra poteva essere evitata non perché ci si era preparati alla pace ma proprio perché ci si era preparati fin troppo bene alla guerra. Ciascuno degli avversari non avrebbe potuto avere la certezza, effettiva o presunta, di essere superiore all'altro nello scatenare l'inferno atomico. D'altra parte, l'equilibrio sarebbe stato anche mantenuto dal deterrente, cioè dalla certezza di essere distrutti alla seconda ondata di missili anche se si era artefici della prima. E questa certezza poteva essere perpetuata − visto che il progresso tecnologico non si può fermare − soltanto con l'adeguamento costante dei mezzi di distruzione dei contendenti. Anche paesi imperialisti "minori", come la Francia e l'Inghilterra, pur con armamenti atomici limitati, avrebbero avuto il loro "deterrente" in grado di rappresentare una forza di "dissuasione" preventiva a un attacco. Comunque tutti i paesi del consorzio atomico avevano accumulato armi di qualità e quantità tali da sfuggire a qualsiasi ragionamento logico; ma la guerra sarebbe stata evitata, secondo i militaristi, proprio per l'illogicità della "corsa".

Eravamo di fronte a un'evidente follia generata dal distacco tra realtà e ideologia (spinta dagli interessi dell'industria militare naturalmente), ma questo punto di vista non era più folle di quello del pacifista di ieri e di oggi che fa e disfa comitati, o dell'opportunista politico che siede in parlamento e sponsorizza guerre… pardon, missioni di pace. La radice del ragionamento è la stessa: dimenticato il fine del rovesciamento sociale, l'azione che rimane è limitata al campo rivendicativo: è qui che s'inserisce la parola d'ordine riformista sulla necessità di controllare la società capitalistica e le sue manifestazioni. Naturalmente essa è controllabile solo assecondandone gli sviluppi, certo in modo consapevole, ragionato e guidato. Ma, come sempre succede in questi casi, le guide sono state e saranno guidate. La pratica quotidiana dell'aderenza ai meccanismi della società capitalistica ha portato e porterà il pacifista e l'opportunista a sposare definitivamente la causa del capitalismo: come dicemmo in passato, dal sostenere che la società non si può ancora cambiare, egli arriverà a sostenere che non si deve anche potendo. Non avevamo bisogno di prove, trenta o quarant'anni fa, per misurarci contro chi oggi è andato a far parte, con esemplare coerenza, del gran movimento interclassista per un "capitalismo sostenibile", compreso chi è andato al governo − di destra o di sinistra − per sfornare una legge militarista dopo l'altra, partecipando direttamente con l'esercito nazionale a una decina di guerre in corso.

Le prove dunque ci sono state, particolarmente abbondanti: è nella natura del pacifista e dell'opportunista adeguare il proprio pensiero e la propria azione finché una "sinistra" non arriva all'agognato "governo". Dopo di che si scopre che le determinanti della guerra non stanno nella volontà dei singoli politicanti o militaristi ma altrove, cioè nei meccanismi impersonali della società, a livello nazionale e internazionale. E chi non giunge fin nella "stanza dei bottoni" (come diceva il vecchio ultra-opportunista Nenni), partecipando in prima persona alla politica di guerra e alla repressione contro chi dissente, si getta in quello che è il sostegno elettorale dell'opportunismo parlamentare, il suo grande e indifferenziato "bacino d'utenza", sempre pronto ad accorrere come supporter, specie al minimo apparire di un pagliaccio "fascista". Salvo poi accorgersi con disappunto, per la millesima volta, di essere stato bellamente, come s'è detto, coglionato.

Poscritto

Questo lavoro, rielaborato e aggiornato, ha una storia che ci sembra utile condividere con il lettore. Faceva parte di una serie di quattro articoli ricavati da altrettante riunioni che tenemmo a Torino nel 1980, quando alcuni di noi facevano ancora parte del Partito Comunista Internazionale. Le prime tre: Auto-alimentazione del militarismo, Teoria e prassi della super-bomba e Valore d'uso degli armamenti furono pubblicate sul periodico Il programma comunista, organo del partito, rispettivamente sui nn. 6, 7 e 9 del 1980. La quarta, più lunga e articolata, non fu pubblicata perché la redazione di allora non accettò le critiche ai gruppetti politici dell'epoca. Ricordiamo che quel partito si sfasciò due anni dopo soprattutto a causa di un rilassamento politico di tipo attivistico simile a quello dei gruppetti che noi criticavamo da diversi anni. Ritrovata la bozza nei nostri archivi, essa ci è sembrata registrare abbastanza bene una situazione che, quasi trent'anni fa, per molti versi anticipava quella odierna con le "nuove" dottrine militari sfornate in questi anni da Washington. La bozza non si prestava ovviamente ad essere pubblicata così com'era, tuttavia il contenuto generale e la critica ai "movimenti" di fine anni '70 è valida ancora oggi. La trascrizione del dattiloscritto occupava 22 pagine in questo formato; fra tagli di parti d'attualità dell'epoca, aggiunte, precisazioni e riferimenti alla situazione odierna, ne risultano una dozzina in più. Pubblichiamo il tutto come un segno della continuità del nostro lavoro da trent'anni a questa parte. Il titolo è quello originale, mentre quelli dei capitoli sono stati aggiunti adesso.

Letture consigliate

  • Karl von Clausewitz, Della Guerra, Mondadori, 1970.
  • Partito Comunista Internazionale, Dialogato coi morti, Edizioni Programma, 1956.
  • Partito Comunista Internazionale, "Marxismo o partigianesimo", Battaglia Comunista n. 14 del 1949. Ora in O rivoluzione o guerra, Quaderni di n+1, 1992.
  • Lev Trotsky, Come si arma la Rivoluzione, Newton Compton, 1977.
  • "Teoria e prassi della nuova politiguerra americana", n+1 n. 11, marzo-giugno 2003.
  • IISS, "New Conventional weapons and East-West Security I e II", Adelphi Papers nn. 144-145, 1979, Londra.
  • IISS, "New Technology And Super-Power Actions In Remote Contingencies", Survival marzo-aprile 1979, Londra.
  • "Une stratégie d'intervention sur mesure pour le Tiers Monde", Le Monde diplomatique, aprile 1980.
  • "La dottrina sovietica delle operazioni Desant", Eserciti e Armi n. 30, 1979.
  • K.T. Klare, Guerra senza Fine, Feltrinelli, 1979.
  • André Fontaine, Storia della guerra fredda, 2 voll. Il Saggiatore, 1971.
  • Martin von Creveld, The transformation of War, Free Press, 1991.
  • Fabio Mini, La guerra dopo la guerra, Einaudi, 2003.
  • Giulietto Chiesa, La guerra infinita, Feltrinelli, 2003.

Rivista n. 21