Lo starnuto di Washington è davvero polmonite d'Europa?

"Contrariamente alla percezione popolare, in anni recenti l'economia americana non ha realmente avuto risultati migliori di quella europea. E comunque, per ottenere questa specie di consolante parità, l'America ha dovuto 'farsi' di steroidi fin sopra i capelli".

Da The Economist, 2 dicembre 2006, "The falling dollar".

Il sistema uscito da Bretton Woods

Quando Washington starnuta, l'Europa si becca la polmonite − si diceva fino a qualche tempo fa. Ma non ci sono voluti troppi anni perché si ridimensionasse visibilmente la pretesa eterna salute degli Stati Uniti. Tuttavia il sarcastico commento dell'Economist sulla struttura drogata dell'economia americana si riferisce soltanto all'epifenomeno, non alle sue origini. Non dice da dove arriva il flusso di valore che permette a Washington di gonfiare ancora i muscoli. Se lo dicesse dovrebbe ammettere che quello appena incominciato non sarà affatto il "secolo americano", lo è stato già quello appena trascorso, ed è storia passata, irripetibile. Ma non sarà nemmeno un "secolo capitalistico" sotto altra bandiera. L'Europa non potrà prendere il posto dell'America, non essendo una nazione né una federazione unitaria, e proprio per questo è ancor più significativo il fatto che adesso uno starnuto dell'Europa cagioni una polmonite a Washington. Con grave rischio dell'intero sistema capitalistico mondiale. Se pensiamo che nel mondo attuale sono in molti a starnutire − Cina, India, Giappone, Russia, per non parlare che dei maggiori paesi con problemi− si capirà che tira un'aria poco favorevole per la salute americana.

Gli esiti della Seconda Guerra Mondiale avevano portato i poli imperialistici americano ed europeo a una non troppo strana posizione complementare. Pur essendo concorrenti si sostenevano l'un l'altro. Se gli Stati Uniti erano in ogni caso la locomotiva dell'economia mondiale, e quindi europea, una certa situazione ciclica s'era venuta a stabilire. In realtà le due economie si trainavano a vicenda. Gli Stati Uniti avevano vinto la guerra e certo "aiutavano" il vecchio continente a ricostruirsi con il Piano Marshall, perciò non era così evidente che fosse nello stesso tempo l'Europa ad "aiutare" gli Stati Uniti con una formidabile occasione di investimento per i loro capitali in esubero, gli stessi che avevano provocato la "grande depressione" iniziata nel 1929; e che, senza la guerra, l'avrebbero perpetuata.

Il sistema monetario internazionale uscito da Bretton Woods nel 1944 permetteva una parvenza di coordinamento fra le politiche degli Stati, ma era anche un freno, dato che ormai, di fronte all'internazionalizzazione del capitale, esso si basava su presupposti d'anteguerra, con i cambi fissi ancora parzialmente legati all'oro e quindi alle riserve nazionali, specie quella del paese più influente. Comunque sia, era importante il principio su cui si basava l'intero meccanismo: gli accordi erano esplicitamente orientati alla ristrutturazione del capitalismo mondiale attorno all'esuberanza americana di capitali. Tutti gli organismi internazionali che ne erano scaturiti, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, il GATT (oggi WTO) non erano che un'appendice di Washington e a tutti andava bene così. Di conseguenza il sistema reggeva solo grazie a questa pletora di capitali.

Il meccanismo non poteva durare in eterno: innanzitutto, un continente in ricostruzione prima o poi sarebbe diventato ricostruito; inoltre, una pletora di capitali vuol sempre dire pletora di merci, e gli Stati Uniti incominciavano ad avere troppi capitali senza produrre troppe merci. Da quel momento le politiche degli Stati, che a causa della contingenza di guerra si erano orientate verso un coordinamento per un interesse comune, si sarebbero indirizzate maggiormente alla difesa di interessi nazionali. E infatti, verso la metà degli anni '60, la prima crisi non congiunturale portò all'inizio di interminabili discussioni ai vari "vertici", le quali non fecero altro che provocare un continuo ricorso a rattoppi. L'instabilità dei rapporti politico-economici era provocata dal fatto che gli Stati Uniti avevano già allora una tendenza patologica al deficit (cioè, come si disse dopo, a "vivere al di sopra dei propri mezzi") e, con i cambi fissi, non potevano manovrare liberamente il Dollaro, unica vera moneta di riserva. Detto in termini terra-terra, la "creazione" di dollari dovuta alla produzione di merci e al loro scambio al di fuori degli Stati Uniti estendeva la responsabilità degli Stati Uniti stessi ad una massa monetaria virtuale che non proveniva dalla loro produzione di valore. Responsabilità monetaria che però non aveva una contropartita, nel senso che quella massa di denaro non era controllabile − cioè manovrabile − dalle autorità monetarie di Washington, che erano legate alla difesa della parità e al mantenimento di un seppur minimo riferimento all'oro.

Il miracolo della moneta "creata"

Ma la situazione sarebbe mutata con il definitivo abbandono del sistema a partire dal 1970: il Dollaro continuava a rimanere moneta di riserva per gli scambi internazionali, ma poteva essere "creato" al di fuori degli Stati Uniti senza che questi fossero obbligati a ritenersi responsabili nei confronti di questo cosiddetto Eurodollaro. In pratica gli Stati Uniti riconoscevano come moneta loro solo quella fisica, uscita dagli Stati Uniti, registrata, che era possibile cambiare con oro o altre monete; mentre la moneta virtuale, creata dalla produzione e dagli scambi internazionali circolava come "denaro di nessuno", anche se naturalmente aveva di volta in volta un proprietario che la versava in banca o la prelevava.

Il nuovo contesto – è ovvio – favoriva Washington, dato che il circuito del dollaro si auto-rinforzava proprio a causa della continua "creazione" di moneta. Normalmente sono gli Stati a emettere moneta in relazione al potenziale produttivo e al bisogno che ce n'è sul mercato (valore aggiunto alla produzione e velocità di circolazione del denaro); ma nel caso del Dollaro lo stesso mercato internazionale si incaricava di emettere moneta per conto dei vari paesi che producevano valore aggiunto e scambiavano merci in import-export. Il meccanismo di "creazione spontanea" di moneta era ed è abbastanza semplice: se due capitalisti di paesi diversi si scambiano le loro merci e la moneta internazionale di scambio è il Dollaro, il compratore andrà in banca a prendere i dollari da dare al venditore, pagandoli con la moneta del proprio paese; e il venditore li depositerà chiedendo moneta del proprio paese. Le transazioni si susseguono a ritmo incalzante, e i dollari in entrata e in uscita nelle banche di diversi paesi (dollari che in questo caso non sono in oro o in carta, ma sono scritture contabili) vengono registrati senza che sia possibile controllare gli effettivi passaggi. Ecco allora che, non essendovi un movimento fisico dalle frontiere del paese emittente (quindi dalle cosiddette "case di compensazione", in questo caso degli USA), si ha creazione di credito. E siccome i crediti e i debiti sono commerciabili (in campo monetario il profitto è dato dall'arbitraggio, cioè dall'acquisto là dove il prezzo è basso e la vendita là dov'è alto) ciò significa creazione di moneta virtuale, che va in parte ad ingrossare le giacenze presso le banche centrali come moneta di riserva, come se fosse oro.

Tutto va benissimo finché tale moneta è riconosciuta da chi l'adopera, vale a dire finché circola come controvalore di merci veramente prodotte e quindi come rappresentante di valore autentico. Ma il deficit perenne della bilancia dei pagamenti americana è garantito solo dalla fiducia che gli Stati Uniti possono riscuotere nel mondo. Non per niente la moneta come la conosciamo noi, da quando ha incominciato ad essere emessa senza più riscontro fisico, si chiama "fiduciaria". Per il Dollaro le cose si sono complicate quando è venuta meno la fiducia e si è incominciato a ricorrere ad altre monete. Soprattutto il fenomeno si è aggravato quando si è ingigantita la compravendita delle valute per speculazione, per cui il denaro virtuale è stato commerciato in quanto tale senza il passaggio (D ® D') attraverso le merci e i valori effettivamente prodotti.

Quindi, fra Europa e Stati Uniti si svolgeva una battaglia continua per compensare in qualche modo le storture del sistema, poiché già allora con un minimo di manovra i padroni del Dollaro potevano trarre vantaggio; o quanto meno permettersi un deficit perenne senza che questo comportasse gravi problemi interni. La Francia contestava addirittura la legittimità del sistema monetario internazionale gravitante sul dollaro, e alcuni economisti francesi (ad esempio Jacques Rueff) proponevano nientemeno che di tornare alla parità con l'oro, a costo di triplicarne il prezzo:

"Si tratta di ottenere che il paese debitore perda ciò che guadagna il paese creditore… Possiamo credere che i popoli accetteranno per sempre una situazione in cui gli Stati Uniti, soli al mondo, sono liberi per sempre da qualsiasi problema inerente alla loro bilancia dei pagamenti? Possiamo credere che degli Stati sovrani accettino per sempre di vedere l'evoluzione della loro economia soggetta ad una politica sulla quale non hanno alcun potere e dalla quale non traggono alcun vantaggio? Un giorno, quando capiranno, finiranno per ribellarsi ed esigeranno che venga posto termine alle accumulazioni dei saldi in dollari" (Rueff, 1971).

Non ci fu nessuna ribellione (e i rapporti fra Stati sovrani rimasero più o meno gli stessi). In Europa, come al solito, a sopportare il peso delle contraddizioni monetarie internazionali fu la Germania. Dato che era (ed è) un paese esportatore netto, e dato che il commercio internazionale si svolgeva in dollari, era anche un fatale attrattore di valuta americana. Mentre l'Inghilterra manteneva una nicchia post-imperiale con la Sterlina, anch'essa moneta di riserva fiancheggiatrice del Dollaro, e mentre la Francia e l'Italia compravano oro lasciando almeno parte dei dollari in circolazione sul mercato, la Germania fu costretta ad aumentare le sue riserve in moneta fiduciaria. In primo luogo, del tutto interessatamente, per non lasciare svalutare il Dollaro (che sarebbe stato come rivalutare il marco) e salvaguardare le proprie esportazioni; in secondo luogo per dimostrare a Washington che vi era un effettivo fronte unico atlantico in difesa del capitalismo mondiale (e comunque le stesse riserve in dollari incominciavano a finanziare l'Ostpolitik, sulla quale si baserà nei successivi vent'anni l'unificazione tedesca e il cosiddetto crollo del Muro).

La rivincita dell'Asse

Indicativo il fatto che a quell'epoca il Giappone fosse costretto a una politica analoga; per cui, un po' spontaneamente, un po' pressato dalla politica bilaterale con gli Stati Uniti (ancora oggi un rapporto da vinto a vincitore), manteneva il suo surplus commerciale in dollari senza convertirne parte in oro, addirittura sostenendo il deficit americano con l'acquisto di titoli di stato denominati in dollari. Anche in questo caso l'intreccio monetario fra i due paesi aveva un sottofondo interessato: la maggior parte delle esportazioni giapponesi finivano negli Stati Uniti.

La svalutazione del dollaro era nell'aria per ragioni materiali, e i paesi europei ne erano consapevoli. Alleati con gli Stati Uniti per reciproche convenienze, cercavano di esorcizzare la crisi senza mandare a gambe all'aria l'intero sistema. Era già allora evidente che stava iniziando un ciclo storico di declino americano e che di riflesso altri paesi, a cominciare dai maggiori fra quelli europei e dal Giappone, sarebbero stati presi nella morsa della contraddizione fra il proprio sviluppo e la salvaguardia del rapporto con il potente quanto vendicativo alleato. Il capolavoro della politica estera americana fu di riuscire, sotto una cortina fumogena di ricatti, concessioni, guerre e strumentalizzazioni varie, a mantenere per mezzo secolo il mondo nella convinzione − assolutamente corretta − che se fossero caduti gli Stati Uniti sarebbe saltato l'intero sistema capitalistico. Gli Stati Uniti riuscirono a fare in modo di continuare semplicemente a starnutire anche se gli altri paesi, come conseguenza diretta, si sarebbero regolarmente beccati una micidiale polmonite.

Il solito terzetto, Germania, Giappone e Italia, cresceva significativamente, nel decennio a cavallo del 1970, fino alla crisi petrolifera del 1974-75, a ritmi "cinesi". Nonostante il tributo pagato alla salvaguardia del sistema, la produzione di plusvalore (sfruttamento) era così alta che i governi erano costretti ad escogitare politiche di contenimento dell'economia, cioè a frenare sia l'esuberanza di spesa dei capitalisti sia, ovviamente, la rivendicazione di una quota del valore prodotto da parte del proletariato. I tassi d'inflazione, dovuti in parte all'economia ancora "calda" e in parte alla pletora monetaria in dollari, erano molto alti, e questo comportava l'obbligo di automatismi come la "scala mobile", necessari ma odiati da ogni singolo capitalista. Continuava quindi, in Europa e in Giappone, una crescita autentica, anche se la curva si andava appiattendo, e ciò aveva un riflesso sulla situazione sociale, specie per quanto riguardava le nuove generazioni, come aveva dimostrato il biennio "caldo" 1968-69.

Il ciclo americano era completamente diverso. Non era più la gigantesca macchina produttiva di un tempo a trainare l'economia con la produzione fisica, ma una posizione di rendita, ben studiata da Marx a proposito dell'Inghilterra, ingigantita ora dall'incomparabile potenza proiettata dagli Stati Uniti sul mondo. Lo sviluppo americano andava basandosi in proporzione crescente su un deficit monetario e commerciale, aggravato dagli investimenti all'estero, che procuravano classicamente un ritorno da rentier, e dalle enormi spese militari sostenute in keynesianissimo deficit spending, alla faccia del liberismo.

È chiaro che un paese come gli Stati Uniti ha tanto da guadagnare se convince il mondo ad essere liberista, cioè a non controllare i propri capitali, riservando a sé stesso, unico al mondo, la facoltà di dirigere in modo "sovietico" i flussi di capitali che riguardano la propria economia. Di qui l'accusa rivolta agli USA, da parte di qualche economista europeo che riusciva a far arrivare la sua voce fino agli inutili summit internazionali, di lasciare volutamente libera la "creazione" e la circolazione di dollari "europei", ben oltre alle reali necessità del normale scambio di merci. Naturalmente Washington rispondeva che erano gli europei, al contrario, ad avere ancora una concezione "renana" (era come dire "nazista") di economia controllata, a governare ancora i paesi del vecchio continente frenando le reali possibilità dell'economia e la vera apertura internazionale ai capitali. Il mondo aveva bisogno di liquidità, e infatti se la creava spontaneamente, come dimostrava proprio l'eurodollaro. Ergo, l'offerta di dollari da parte degli Stati Uniti era non solo un buon affare bancario ma un servizio reso all'umanità.

L'era dell'irresponsabilità totale

Questa galoppata attraverso gli ultimi trenta o quarant'anni era indispensabile per fare un confronto dinamico fra epoche. Oggi, passato l'effetto della sferzata imposta all'economia americana dopo l'attacco dell'11 Settembre (comunque, di nuovo: deficit, creazione di moneta, rendita da capitali all'estero e spesa militare), non è più la sola Europa a crescere con ritmi maggiori degli Stati Uniti, ma vi sono la Cina, l'India, buona parte degli altri paesi asiatici, alcuni paesi dell'America Latina come il Brasile e persino la Russia, che ha già mostrato al mondo come intende sfruttare le proprie risorse naturali, specie energetiche, almeno per sopravvivere dopo la catastrofe. Non esiste più il contesto internazionale in cui gli Stati Uniti possano manovrare effetti monetari con il sostegno della potenza economica e militare. Anzi, il Dollaro sta perdendo quota proprio come moneta di riserva e soprattutto come moneta fiduciaria.

Nel 1971 il presidente americano Nixon sancì in una volta sola la totale inconvertibilità del dollaro e la sua pesante svalutazione (11%). Come dire che da quel momento chi aveva dollari avrebbe potuto convertirli soltanto in altre monete e non in oro, e che le esportazioni di tutti i paesi concorrenti sarebbero state penalizzate da una perdita secca dell'11%. La convertibilità in oro era già di fatto impossibile: a Fort Knox non esisteva neppure la decimillesima parte dell'oro necessario a convertire i dollari circolanti al di fuori degli Stati Uniti; ma la cosa più grave era la sanzione formale del principio secondo il quale i dollari circolanti al di fuori degli Stati Uniti erano da considerare moneta internazionale che non ricadeva più sotto la responsabilità del governo americano e delle sue autorità monetarie. Quello stesso governo poteva però svalutarli, penalizzando il commercio internazionale di tutti i paesi esportatori. Ogni moneta sarebbe stata d'ora in poi "libera" di oscillare sui mercati. Naturalmente questa libertà dipendeva da molti fattori. Per esempio, non è difficile immaginare l'esito di uno scontro monetario-finanziario fra Argentina (poniamo, non a caso) e Stati Uniti, essendo il Fondo Monetario Internazionale e la sua appendice, la Banca Mondiale, direttamente, se non formalmente, controllati da Washington. Incominciava l'era della responsabilizzazione forzata del mondo in sostegno del capitalismo − quindi del suo maggiore centro − e, allo stesso tempo, l'era della irresponsabilità totale di questo centro nei confronti degli altri paesi.

La Cina oggi, come l'Europa e il Giappone quarant'anni fa, paga il deficit americano comprando buoni del tesoro americani, sostiene il prezzo dello Yuan rispetto al Dollaro ed esporta massicciamente negli Stati Uniti. Ma è costretta a mantenere sopravvalutata la propria moneta a scapito delle esportazioni, dato che il prezzo in Yuan delle merci è più alto di quanto potrebbe essere se la moneta cinese fluttuasse come le altre. Il cocktail di masochismo commerciale e interesse a mantenere buoni rapporti con il grande importatore di merci cinesi è dunque molto simile a quello che si manifestava tra Europa e Stati Uniti qualche decennio fa. Perciò, scontate le debite differenze, per sapere ciò che succederà fra Cina e Stati Uniti è praticamente indispensabile ricordare come si siano rotti i rapporti di complementarità fra Europa e questi ultimi.

L'economia tedesca fa da locomotiva all'economia italiana e degli altri paesi europei, come quella americana ha fatto tradizionalmente da locomotiva all'intera Europa, Germania in testa. E in questi mesi sembra vi sia una ripresa europea mentre vi è un rinculo americano. Com'è possibile che ciò accada se la Germania esporta tradizionalmente soprattutto negli Stati Uniti? È forse definitivamente tramontato il ciclo storico che aveva reso complementari i due continenti? Se fosse così, non si tratterebbe soltanto di un'oscillazione, e la faccenda si farebbe piuttosto interessante, gravida di conseguenze future. Un'analisi della ripresa tedesca, cui si aggancia quella europea, mostra che la prima è sostenuta dalle solite esportazioni di mezzi di produzione e in genere di merci con "alto valore aggiunto", alle quali si sono accompagnati un aumento degli investimenti produttivi interni ed esteri e, dopo anni di stallo, un aumento dei consumi. L'aspetto più singolare è che, appunto, gli Stati Uniti non hanno comperato, né vi sono stati investimenti tedeschi in quel paese: la ripresa è dovuta soprattutto all'espansione della rendita petrolifera che ha fatto aumentare considerevolmente la capacità di spesa dei paesi produttori (in primo luogo della Russia) nei confronti della Germania (e del Giappone). Parallelamente gli stessi paesi hanno dirottato verso l'Inghilterra parte della rendita che prima andava ad investirsi in attività finanziarie negli Stati Uniti, cosa che spiegherebbe la valorizzazione della Sterlina sul Dollaro.

Contraddizione insanabile fra produzione e consumo

Se i flussi di capitali e di merci avessero incominciato a spostarsi stabilmente rispetto all'alveo tradizionale che li indirizzava, è certo che gli argini rappresentati dalle vecchie relazioni internazionali salterebbero con gran fracasso. Gli osservatori occidentali, a partire dalla redazione di The Economist, da mesi insistono sulla debolezza intrinseca dell'economia americana e sulla necessità di "fare qualcosa" per mettere fine alla situazione di deficit spending in cui si trovano gli Stati Uniti. Tutti sono consapevoli da tempo che una crisi di carattere sistemico è in corso e che si tratta di evitare il collasso prendendo provvedimenti molto prima che i rapporti degenerino fino al punto di non ritorno. Ma una contraddizione stridente inchioda la situazione all'immobilità: nessuno ha il coraggio di avviare apertamente una politica che metta fine al privilegio americano di avere i consumi più alti del mondo pur senza avere una struttura produttiva conseguente. Tutti sono stufi di mantenere gli americani, ma nessuno ha il coraggio di agire con coerenza e decisione.

D'altra parte si incominciano a registrare movimenti significativi tra i consumatori. In Germania è sicuro che parte dei consumi è indotta dall'annuncio che entro quest'anno sarà aumentata l'IVA. Vale a dire che chi compra lo farà prima che aumentino i prezzi. Possibile che i consumatori siano stimolati in massa da un calcolo così banale? Il fenomeno dell'attenzione ai prezzi e alla qualità dei prodotti sta diventando argomento di libri e di tesi di laurea: il consumatore starebbe subendo una metamorfosi, diventando, da cieco esecutore rispetto agli stimoli del mercato, un oculato e consapevole compratore che sa fare i propri interessi. Si diffondono la spesa collettiva, la ricerca delle offerte nei supermercati, la spesa nei centri discount, la selezione dei viaggi last minute e persino lo studio delle caratteristiche tecniche di un prodotto per non farsi fregare. Il cittadino medio si sarebbe trasformato in definitiva in un pozzo di coscienza mercantile, un vero prosumer (professional consumer). Tutte balle, ovviamente: il cittadino medio ha semplicemente meno denaro in saccoccia rispetto a qualche anno fa e quindi è meno disposto a far la parte del pollo da spennare. Detto in maniera meno terra-terra, vigono le leggi marxiane della miseria crescente e della contraddizione fra produzione e consumo: la prima non ha limiti teorici, il secondo ne ha di tutti i tipi, da quello della fisica possibilità dell'individuo, a quello della possibilità in rapporto al reddito, che il Capitale vorrebbe alto ma tiene basso per la stragrande maggioranza della popolazione.

I primi a capire questo cambiamento epocale sono stati naturalmente gli americani, che hanno inventato non solo McDonald ma soprattutto i discount, le catene a prezzi popolari come Wal Mart e le offerte last minute per i viaggi a prezzi stracciati. Ma l'Europa si sta allineando. Per evitare l'impatto dell'aumento dell'IVA, la propaganda governativa tedesca sta già martellando sul fatto che i prezzi non aumenteranno perché la differenza sarà assorbita grazie alla grande distribuzione che calcola al millesimo la capacità di spesa della massaia. In Italia, in Inghilterra e in Francia, a parte l'IVA, sta succedendo la stessa cosa. L'Inghilterra è in posizione un po' privilegiata, in parte per la sua storica posizione di paese rentier cui affluiscono capitali da tutto il mondo, in parte perché ha petrolio suo, infine perché una sopravvalutazione della Sterlina le permette, in quanto importatore netto (con un deficit di 110 miliardi di dollari), di avere un buon potere d'acquisto sul mercato.

In una situazione internazionale come questa le merci a basso costo provenienti dall'Asia sono una maledizione per i capitalisti, che soffrono la concorrenza; ma sono una manna per gli Stati e per i consumatori. I paesi industriali asiatici rappresentano un freno all'inflazione occidentale e, nello stesso tempo, permettono che la concorrenza tra salari non getti nella miseria il proletariato più di quanto già non lo sia. Negli Stati Uniti la sola catena di distribuzione Wal Mart incide sul tasso di inflazione ufficiale, per cui la direzione dell'azienda può trattare direttamente da una parte con il governo degli Stati Uniti per limitare il protezionismo sulle importazioni, e dall'altra con il governo della Cina per acquistare imponenti partite di merce direttamente dalle fabbriche a prezzi agevolati.

Paesi costretti a ingolfarsi di dollari

Tutto a posto secondo i crismi del capitalismo globalizzato, sennonché in un sistema del genere − in cui piccole percentuali di punto sull'inflazione, sul saggio di profitto o sul costo della forza-lavoro fanno la differenza fra crisi e rilancio − dà molto fastidio devolvere una parte del valore prodotto nel mondo a un capitalista supremo solo perché ha finora fatto il gendarme mondiale per castigare i cattivi e il vigile per dirigere il traffico internazionale di capitali. Non è dunque strano che l'Euro si rivaluti nei confronti del Dollaro per via del bisogno che suscita sui mercati e per le riserve; che il Giappone lasci svalutare lo Yen per sostenere le proprie esportazioni; che la Cina diventi complemento sistemico degli Stati Uniti; e che la Russia cerchi di recuperare la posizione perduta.

La catena di determinazioni internazionali piccole e grandi è tale che si possono avanzare solo ipotesi su quali potrebbero essere le conseguenze di − poniamo − una controversia sul gas tra Russia e Ucraina o Bielorussia, dato che da quei paesi passano le nervature energetiche della Germania e di buona parte dell'Europa. E così via, dall'Iraq all'Afghanistan, dagli Stati Uniti alla Cina, dal Brasile all'India. Soprattutto nessuno può sapere, di fronte all'impossibilità di fermare il processo in corso, che cosa possono fare gli Stati Uniti di fronte all'evidente perdita di egemonia nei confronti del mondo. L'economia americana sta rallentando, a detta degli stessi istituti del governo. Può darsi che, come ci dicono, si tratti di alti e bassi, malesseri ciclici di poca importanza. Ma ciò è sempre meno plausibile nel contesto che abbiamo appena cercato di descrivere. L'America sta molto, molto male non appena sente uno starnuto cinese o europeo. Per adesso la Cina è ancora in pieno boom economico e l'Europa – l'abbiamo visto – si arrangia perlomeno a non andare in recessione, con qualche performance positiva della Germania. Ciò che gli Stati Uniti temono sono una recessione mondiale e una perdita di controllo dei flussi di capitali. Peggio che mai l'eventuale verificarsi di entrambe le ipotesi. La potenza americana sarebbe squassata da cima a fondo e la reazione non potrebbe essere che tremenda.

Due potentissimi rappresentanti dell'egemonia monetaria americana, Greenspan e Bernanke, si sono scontrati di recente sul futuro dell'economia. Il primo, ex direttore della Federal Reserve, ormai santificato per la sua lunga permanenza al governo del sistema economico più potente del mondo, ne ha prospettato una grave crisi; il secondo, suo successore attualmente in carica, ha fatto pronostici ottimisti sulla salute dello stesso sistema. Lo scenario possibile non è difficile da immaginare: la crisi non c'è bisogno di prevederla, c'è già. L'ottimismo di Bernanke deriva dall'esperienza passata, quando l'America starnutiva e il resto del mondo si metteva a letto con la polmonite; oppure quando accadeva che, passando all'America il raffreddore, la sua "guarigione" serviva da antibiotico al resto del mondo. Per superare la crisi la Federal Reserve ridurrà drasticamente il tasso di sconto (come dopo l'11 settembre) e, a catena, tutti i tassi d'interesse. Li ridurrà magari assecondando qualche ondata speculativa sui cambi, tanto per accentuare l'effetto del provvedimento. Con i tassi di interesse bassi il cambio del dollaro con le altre monete scenderà, e salirà l'inflazione. Perciò, come al solito, bisognerà rialzarli per evitare il surriscaldamento dell'economia e la speculazione. Solo che adesso la situazione è cambiata rispetto all'era Greenspan. Il dollaro è già in sofferenza e come riserva sta per essere abbandonato, almeno in parte, da molti paesi. Più questi saranno numerosi più si accentuerà il fenomeno stesso, aggravando l'effetto della svalutazione sulle esportazioni delle imprese europee, giapponesi e cinesi, che dovranno vedersela con la relativa rivalutazione di Euro, Yen e Yuan.

Ritorna quindi lo spettro di Bretton Woods, quando le monete fluttuavano ma le variazioni erano infine bloccate grazie agli interventi delle banche centrali che garantivano grosso modo la parità fissa; quando in Europa e in altri paesi le fluttuazioni di alcune monete erano sincronizzate con il Dollaro e quelle di altre contro. Tuttavia qualcosa è cambiato. L'Europa ha dato vita a una sua moneta unica, che pur non avendo cambiato niente all'interno dei singoli paesi ha evitato le oscillazioni disordinate delle monete europee sul mercato mondiale. Per questo, con la crescente sfiducia nei confronti del dollaro, l'Euro è diventato moneta alternativa di riserva. Ma anche l'Asia ha nel frattempo sviluppato una capacità "collettiva" di risposta, sebbene l'enorme differenza fra i suoi vari paesi non abbia ovviamente permesso di realizzare una moneta unica. Tra i paesi asiatici − tutti esportatori netti − non ve n'è uno che possa e voglia accettare supinamente una svalutazione del Dollaro, cioè una rivalutazione della propria moneta, cioè una penalizzazione delle proprie esportazioni. Dalla Cina alla Corea al Giappone, tutte le tigri asiatiche impediscono la caduta del Dollaro ingolfandosi di riserve e di titoli di stato americani.

Si tratta di un patto con il diavolo. I maggiori concorrenti degli Stati Uniti sono costretti a tenere in vita il nemico che li sfrutta. La contraddizione è evidente e il precario equilibrio di oggi non potrà durare.

Letture consigliate

  • La crisi storica del capitalismo senile, Quaderno di n+1, 1985.
  • Super-imperialismo?, n+1 n. 6, dicembre 2001.
  • The Economist, "The falling dollar", 2 dicembre 2006.
  • The Economist, "America drops, Asia shops", 21 ottobre 2006.
  • Jacques Rueff, L'errore monetario dell'Occidente, Etas Kompass, 1971.
  • Robert Triffin, Il sistema monetario internazionale, Einaudi, 1973.

Rivista n. 21