I "Partigiani della decrescita"

Serge Latouche, La scommessa della decrescita, pagg. 224, Feltrinelli, 2007, euro 16.

Negli anni '50 del secolo scorso eravamo gli unici, anche tra chi si rifaceva al marxismo, a sostenere che occorreva disinvestire, abbassare il tasso di crescita, demineralizzare la vita degli umani che abitano la biosfera. Il mito del progresso e della crescita impregnava anche quelle correnti che non avevano ancora rinnegato la rivoluzione, anche se la tradivano nei fatti. Oggi non pochi economisti borghesi denunciano la follia della crescita infinita in un mondo finito, ma il mito del Prodotto Interno Lordo crescente persiste come parametro fondamentale.

Da qualche tempo si registra una certa curiosità verso questo argomento (cfr. www.decrescita.it). Persino alcuni di coloro che fino a ieri hanno predicato una ecologica "crescita sostenibile" si sono convertiti. C'è da stupirsi che non siano più numerosi: nessuna crescita può essere sostenibile. Il nostro pianeta è una sfera delicata che ruota nello spazio ed è grande abbastanza per far dimenticare a uomini occupati nel tran tran quotidiano che ha dimensioni finite, risorse finite, capacità di reagire finite. Basta rimpicciolire il sistema e tutto diventa più chiaro: in una ipotetica stazione spaziale, poniamo con il diametro di 1 chilometro invece dei 12.000 della Terra, gli astronauti non potrebbero discutere sensatamente sulla crescita del loro PIL perché vedrebbero consumarsi velocemente il mezzo che li ospita.

Dunque sarebbe da salutare con soddisfazione il riconoscimento di una situazione fisica ben prevista da una teoria che per convenzione ideologica è stata classificata come "politica" relegandola alla voce "marxismo". Del resto non è per nulla difficile mostrare che tale teoria non è altro che una ecologia della produzione e riproduzione umana nell'ambiente. Un metabolismo della biosfera alla comparsa dell'uomo-industria verso metà '800. Se adesso ci arrivano addirittura i borghesi vuol dire che il comunismo sta dimostrando all'uomo borghese della nostra epoca la propria potenza. Altro che morto.

Sarebbe da salutare con soddisfazione, se non fosse che bisogna subito fare i conti con l'ideologia capitalistica; la quale è una specie di re Mida in negativo, capace di trasformare l'oro in sterco. Occuparsi di decrescita sta addirittura diventando di moda. Nel "movimento" in cerca di guru spirituali sta montando una certa curiosità intorno alle le tesi che il filosofo Serge Latouche ha sviluppato sull'argomento. Le sue proposte, come si evince dal tam tam sul Web, già raccolgono un variegato popolo attivista che chiama alla lotta contro il mito della crescita. Il manifesto del movimento è una "teoria delle otto R", pubblicata nell'ultimo saggio del professore: Rivalutare, Ridefinire, Ristrutturare, Rilocalizzare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare. Un programma in elaborazione continua, di cui l’autore auspica una evoluzione, purché i seguaci rimangano fedeli agli obiettivi primari.

Notiamo di sfuggita che gli otto verbi sono riconducibili a uno solo: Riformare. I termini Abbattere e Distruggere non è che manchino solo perché non incominciano con R. D'altra parte Rivoluzionare non è compatibile con le premesse.

Sono davvero "partigiani della decrescita" (o anche "obiettori della crescita"), come si auto-definiscono, perché non combattono per una società nuova ma si schierano con una parte di quella vecchia. In fondo rappresentano un movimento perfettamente integrato a quello più vasto che va dall'ecologismo duro e puro, primitivista e passatista, a quelli del bio-alimentare e dello sviluppo sostenibile, questi ultimi eticamente assai compromessi dal loro tuffo nel mercato e nel grande business. Il programma partigiano operativo consiste in progetti locali nei quali si dovrebbero applicare le teorie della decrescita. Naturalmente vi sono legami anche politici: appoggiano e sono appoggiati da frange parlamentari ed extraparlamentari. Nei loro scritti si citano ecletticamente personaggi come Murray Bookchin, teorico americano del municipalismo libertario, Cornelius Castoriadis filosofo fondatore del movimento Socialisme ou Barbarie, José Bové, leader ecologista di Attac.

A quanto affermano il conflitto tra le classi sarebbe terminato con la morte del comunismo, e avrebbe lasciato il posto alla dominazione di una specie di "imperialismo dell'economia". Di qui l'esigenza "di abbandonare la fede e la religione della crescita, del progresso e dello sviluppo" e di "suscitare un numero sufficiente di comportamenti virtuosi in favore di una soluzione ragionevole: la democrazia ecologica". Il rovesciamento dell'intera struttura economica non è contemplato, anche se il capitalismo si fonda proprio su quella religione. I progetti più o meno utopistici richiamano alle mente quelli localisti e federalisti del vecchio Proudhon, quindi la critica si ridurrebbe a una ripetizione di ciò che hanno già detto Marx ed Engels. Tuttavia le ragioni materiali che suscitano l'esigenza anche solo emotiva di porre fine alla follia produttivistica del turbo-capitalismo d'oggi è degna di nota. Anche perché ci collegano alla nostra storia, cui accennavamo all'inizio.

Tra i vari punti di uno schema di lavoro del 1952 intitolato Il programma rivoluzionario immediato nell'Occidente capitalistico ve n'è uno specifico sul dis-investimento e sulla de-industrializzazione rivoluzionaria che abbiamo sviluppato sul n. zero questa rivista. I nostalgici di una natura che non esiste più non tengono conto di un fatto elementare: la situazione attuale dell'uomo è frutto della sua evoluzione naturale. Perciò il problema non è quello di tornare ad uno stadio precedente, ma quello di interrompere, con un piano di specie, la serie delle forme sociali "naturali", cioè quelle che procedono senza coscienza. Solo così il potenziale raggiunto può essere convogliato per armonizzare con coscienza uomo e natura.

I "partigiani della decrescita" sono come quel tale che quando gli si indicava la luna guardava il dito. Non hanno compreso che non c'è più nulla da progettare all'interno di questa forma sociale, che siamo tutti immersi in una rete di costruzioni, comunicazioni, manufatti che fa il giro del globo ed è con essa che bisogna fare i conti. Non ci sono più lande vergini in cui rifugiarsi per dar vita a "comunità locali". Se criticano il concetto di "sviluppo sostenibile", restano di fatto prigionieri delle categorie del valore come dimostra la bandiera delle "otto R".

La futura forma sociale non dovrà costruire ma distruggere il sovrappiù di schifezze accumulato, liberare energia sociale in modo che le potenzialità della nuova forma (già presenti embrionalmente in questa) possano esprimere tutta la loro vitalità, in armonia con l'ambiente. L'espansione ulteriore del lavoro associato e l'eliminazione delle catene poste dal modo di produzione capitalistico contribuiranno a sviluppare la struttura sociale di domani. D'altronde, è lo stesso capitalismo a darci i mezzi tecnici per affrontare la transizione rivoluzionaria, nello stesso modo in cui genera gli strumenti umani della propria negazione… su scala globale. Gli inoffensivi partigiani delle "resistenze locali al paradigma della globalizzazione" rappresentano perciò un epifenomeno interessante, ma la soluzione è di ben altra portata storica, teorica, programmatica, pratica.

Rivista n. 23