Grecia

La rivolta scoppiata in Grecia nel dicembre 2008 ha prodotto commenti in genere incentrati sulla provenienza sociale e politica dei rivoltosi. In casi come questo sono i parametri che ci interessano di meno. A Roma pochi anni fa hanno manifestato tre milioni di proletari e non è cambiata una virgola. Non ha nessuna importanza che la scintilla sia partita dalle università e che l'estetica dei rivoltosi abbia ricalcato quella anarco-situazionista o che la loro pratica sia stata quella della guerriglia urbana delle periferie moderne. Non ha importanza che le manifestazioni non siano state "di massa" e che la battaglia si sia svolta senza il coinvolgimento della popolazione (e comunque ad Atene hanno marciato 20.000 dimostranti e la polizia ha calcolato che in tutta la Grecia 10.000 rivoltosi abbiano partecipato reiteratamente agli scontri diretti). È un fatto che non scoppia una rivolta così estesa, duratura e con propaggini in diverse città, senza che vi siano profonde ragioni sociali, come nel caso delle banlieues francesi. Nei documenti prodotti dalla rivolta è giustamente registrato che essa è frutto di rabbia proletaria, anche contro l'evidenza numerica riportata dai giornali. Ogni manifestazione sociale prende l'impronta della classe che in un determinato momento rappresenta il perno della situazione, e non è questione di numeri. Ad Atene, Salonicco, Corfù, Volos, Xanthi, ecc. con gli studenti c'erano giovani proletari, soprattutto disoccupati albanesi e asiatici. Non sono certo loro che hanno scritto la storia dello scontro finita su opuscoli e filmati. Ma c'erano. Non siamo di fronte a una ripetizione del '68. Il grado di spontaneità è più alto, quello di ideologizzazione è più basso. Il contenuto non è tanto rivendicativo quanto distruttivo; la lotta non è per una vita nell'al di là politico ma contro una vita insopportabile adesso. Come abbiamo detto per l'incendio francese, il "conto di classe" si fa sul proletariato complessivo, non solo su quello che lavora in fabbrica.

Rivista n. 25