Luglio 1960, rivolta proletaria

Mezzo secolo fa, nel 1960, il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi conferì l'incarico di formare il nuovo governo a Fernando Tambroni, un personaggio secondario della sinistra democristiana. È un momento di stallo della politica italiana rigorosamente filo-atlantica: ci sono trattative con il Partito Socialista, ma esso ha al proprio interno correnti di sinistra non disponibili al compromesso governativo (si scinderanno nel 1964 fondando il PSIUP). Sostenitori della svolta sono Pietro Nenni e Aldo Moro, il primo notissimo, il secondo quasi sconosciuto. Il governo Tambroni nasce quindi con spinte di centro-sinistra, ma non riesce ad avere una maggioranza: passerà con il "sostegno esterno" dei fascisti e dei monarchici. Tre ministri (Sullo, Bo e Pastore) si dimettono aprendo la crisi. Gronchi minaccia un "governo del presidente", Fanfani spinge per una soluzione di tipo presidenziale alla francese per limitare l'influenza dei socialisti. Alla fine si costituisce un governo di soli democristiani filo-atlantici (si scoprirà che alcuni facevano parte del partito trasversale "Gladio", clandestino e golpista). L'appoggio "tecnico" monarco-fascista provoca scontate reazioni fra gli antifascisti, potrebbe risolversi in una delle solite diatribe parlamentari. Ma la rabbia operaia che cova da anni non aspetta che un pretesto per esplodere. L'orario di lavoro di un operaio metalmeccanico è mediamente di 9-10 ore compresa mezza giornata del sabato (le "200 ore" minime contrattuali mensili). Il salario medio è 40-50.000 lire al mese.

Il pretesto poteva essere uno qualsiasi ma arriva cavalcando l'ondata antifascista: il partito neofascista (MSI) vuol tenere il proprio congresso a Genova, roccaforte della "Resistenza"; a presiederlo sarà un ex prefetto repubblichino responsabile di deportazioni ecc. È una evidente provocazione. Il 30 giugno si prepara un corteo antifascista. I portuali "salgono" in città e si mettono alla sua testa. Arrivano operai da ogni parte della Liguria e il corteo s'ingrossa fino a contare decine di migliaia di persone. Operai giovanissimi danno un'impronta radicale allo scontro. Compaiono qui per la prima volta i manifestanti che la stampa chiamerà con disprezzo "i ragazzi dalle magliette a strisce", protagonisti anche della rivolta prettamente operaia del 1962 a Torino. La polizia tenta di disperdere la manifestazione caricando violentemente con le camionette, ma non può entrare nei "carrugi" e non fa altro che attizzare la rivolta. Gli operai sono ben organizzati e s'impadroniscono praticamente della città. La polizia, sopraffatta, è costretta a barricarsi nelle caserme abbandonando camionette incendiate e persino armi (queste verranno gettate in un falò in piazza De Ferrari).

Le rivolte si moltiplicano toccando altre città. Il prefetto di Genova annulla i congresso fascista, ma Tambroni ordina la linea dura contro le manifestazioni. Il ministro degli interni dichiara che "è in corso una destabilizzazione del paese organizzata dalle sinistre con appoggi internazionali". In realtà le sinistre fanno di tutto per gettare acqua sul fuoco della rivolta senza riuscire a controllarla, a farla rientrare nell'alveo istituzionale antifascista. La borghesia si spaventa e alza il tiro.

A Licata la polizia spara uccidendo un ragazzo e ferendo 24 manifestanti. A Roma una grande manifestazione è dispersa con una inaudita carica di cavalleria (al comando del famigerato d'Inzeo, campione olimpionico) che provoca decine di feriti. La CGIL, a quell'epoca contraria agli scioperi politici, tentenna, ma la Camera del Lavoro di Reggio Emilia proclama lo stesso uno sciopero per il 7 luglio. Ogni manifestazione è vietata e lo stesso sindacato fa circolare automobili con altoparlanti per disperdere la folla che però si ammassa ugualmente. La polizia e i carabinieri attaccano in modo coordinato, sparando, quando ormai più di 20.000 persone sono nelle strade. Incredibilmente i manifestanti non si disperdono e dopo scontri violentissimi lasciano sul terreno cinque morti e centinaia di feriti. Solo allora si ritirano. Anche da Modena e Parma giungono notizie di scontri. Napoli è in rivolta. A Palermo la polizia uccide un manifestante che ne stava soccorrendo un altro colpito a morte; i caduti saranno quattro in tutto e i feriti curati in ospedale 40. A Catania un ragazzo viene manganellato a sangue e sviene; un poliziotto gli spara a bruciapelo tre colpi; gli agenti portano il ferito al centro della piazza e impediscono a chiunque di intervenire, armi alla mano; il giovane muore, altri 7 rimangono feriti. Il 9 luglio a Reggio Emilia convergono 100.000 manifestanti. Anche a Catania e Palermo si solleva nuovamente la popolazione. Tambroni denuncia "un piano prestabilito nei palazzi del Cremlino". Ma non c'è nessun piano politico. Anche se la rabbia operaia viene dirottata in difesa della democrazia, dell'antifascismo e del gioco parlamentare, il proletariato è alla testa di un movimento spontaneo contro l'insopportabile peso della ricostruzione e del patto del lavoro. Patto che salterà due anni dopo con la discesa in campo di un esercito proletario, metalmeccanici in testa, composto di nuovo in gran parte da "giovani dalle magliette a strisce", contro i quali si scaglieranno non solo lo Stato ma anche tutti i partiti e gruppi di sinistra, compresi gli operaisti che saranno più tardi i campioni del Sessantotto.

Rivista n. 28