L'outsourcing globale
Ovvero la legge di Say in salsa keynesiana

"La produzione capitalistica è estremamente parsimoniosa di lavoro materializzato, oggettivato in merci, mentre è prodiga di uomini, di lavoro vivo, e dilapidatrice non solo di carne e sangue, ma di nervi e cervello, assai più di qualunque altro modo di produzione. In realtà, è solo tramite lo sciupio più mostruoso in sviluppo individuale, che si assicura e si realizza lo sviluppo del genere umano nell'epoca storica che precede immediatamente la consapevole ricostituzione dell'umana società. Poiché l'economia di cui qui parliamo nasce in tutto e per tutto dal carattere sociale del lavoro, in effetti è appunto a questo carattere immediatamente sociale del lavoro che si deve un tale spreco di vita e di salute dei lavoratori" (Marx, Il Capitale, Libro III).

"L'eccesso e lo sperpero di lavoro sociale della classe proletaria, rispetto alla massa dei prodotti utili al consumo, dà un rapporto passivo decine di volte peggiore del rapporto che per il singolo salariato corre tra lavoro non pagato e lavoro pagato, o saggio del plusvalore (PCInt., Proprietà e Capitale, 1948)".

Il paradosso dello sfruttamento intensivo

Jean-Baptiste Say, economista francese del primissimo '800, sosteneva che il solo fatto di produrre una merce "apre all'istante lo sbocco ad altre merci" in quanto il "produttore" capitalista o salariato non ha alcun interesse a trattenere il denaro ricavato e acquista necessariamente altre merci. Marx non fu tenero con Say: qualora il denaro impiegasse più tempo del solito a trovare il suo sbocco la crisi sarebbe sicura, dato che

"il volume della massa di merci fornita dalla produzione capitalistica è determinato dalla scala di questa e dal bisogno di costante espansione suo proprio, non da una cerchia predestinata di domanda ed offerta, di bisogni da soddisfare" (Il Capitale, Libro II, cap. II.1).

Trattare la materia economico-sociale complessa con la semplice equazione offerta = domanda = produzione = consumo fu anche l'errore di Proudhon e di economisti successivi. Questi ultimi si rifecero a Say ed escogitarono una "legge degli sbocchi" sopravvissuta fino ai giorni nostri. In matematica invertendo i fattori il prodotto non cambia, ma nella società, ironizzò Marx, se quando piove si apre l'ombrello, non basta aprire l'ombrello per far piovere. Keynes, pur non accettando la legge di Say, sostenne comunque che manipolando i fattori del Capitale si sarebbe potuto aprire l'ombrello per far piovere. Era decisamente in ritardo: la sua teoria fu pubblicata nel 1936, quando il fascismo, già nato sotto la pioggia dello scontro di classe, aveva aperto l'ombrello da un pezzo, intervenendo pesantemente nell'economia e nella vita sociale per mezzo dello Stato. Oggi tutto è già stato escogitato e i governi procedono a rattoppare le falle mentre il Capitale tenta di trovare da sé i famigerati "sbocchi".

Partiamo dal principio che se c'è sciupio di risorse e dissipazione di energie, come dice Marx nella citazione d'apertura, devono esserci abbondanti risorse ed energie. In questa società non mancano. La produzione di macchine, impianti e merci ha raggiunto il parossismo, e le energie umane e fisiche — sangue, carne, nervi, cervello, acciaio e petrolio — sono chiamate a partecipare così massicciamente al mostruoso ciclo produttivo che le cellule individuali di cui è composto l'organismo complessivo della nostra specie in molti casi si ribellano, si deprimono, si ammalano, si uccidono e spesso uccidono. E naturalmente il ciclo produttivo infernale ne approfitta generando un'industria della ribellione, della farmacologia da depressione, dell'assistenza sociale e dello sbirrame preposto al controllo della stabilità del sistema. Da una parte si tratta di nuova produzione materiale e immateriale fornita da aziende che hanno come obbiettivo il profitto, distribuiscono salari e contribuiscono al valore totale immesso ex novo nella società. Dall'altra si tratta di servizio improduttivo pagato con una ripartizione del valore esistente; in quest'ultimo caso quote di salario e profitto raccolte dallo Stato e distribuite secondo criteri più o meno razionali, oppure quote di valore altrui accaparrate da frange piratesche della società in grado di inserirsi con violenza nei cicli tradizionali o di realizzare circuiti alternativi di razzia del valore (speculazioni, sottogoverno, mafie, ecc.).

Oggi le statistiche a proposito di un paese a capitalismo maturo ci dicono che mediamente due terzi dei suoi abitanti sono in età di lavoro, che la metà rappresenta il potenziale di occupazione, che il 10 per cento di questa metà è disoccupata e che un terzo della metà è occupata in modo precario. L'Italia si scosta un po' dalla media per quanto riguarda la "liberazione" dal lavoro: su 60,4 milioni di abitanti ne risultano occupati solo 23, 10 milioni dei quali in modo precario o "atipico", e 2 o tre milioni cercano lavoro. Non se la cava troppo male di fronte a temibili concorrenti come Germania, Giappone, Francia e Regno Unito, ma è debole nell'industria, anche perché i suoi proletari industriali sono pagati a livelli asiatici (al cambio, circa la metà di quelli tedeschi), e il salario va a comporre il valore totale sui cui si basa il PIL. In generale però ha meno occupati rispetto alla popolazione e ognuno di essi produce una quota più alta di PIL. Se ne dovrebbe dedurre che il differenziale PIL/occupato che si riscontra nel confronto con la Germania sia dovuto tutto ai servizi, visto che l'agricoltura è quasi ininfluente, ma è difficile immaginare che i servizi italiani siano più produttivi di quelli tedeschi. L'unica spiegazione possibile è che l'Italia imbrogli le carte: buona parte dei milioni di precari che lavorano nell'industria figurano tra i dipendenti di società che offrono servizi, agenzie interinali, cooperative, ecc. Il divario è certo dovuto anche alla differenza d'età fra i capitalismo italiano, che ha mille anni, e quello tedesco che ne ha duecento, e infatti il ricorso al lavoro esterno (contrariamente a quanto comunemente si pensa) è fenomeno modernissimo, da capitalismo decadente. Diverso è il motivo del divario fra Stati Uniti e Germania; essi sono entrambi paesi capitalisticamente giovani, ma gli Stati Uniti sono giunti a una posizione imperialistica egemone che ne ha accelerato la senescenza e la finanziarizzazione. Oggi l'industria rappresenta appena un quinto del PIL americano. La differenza fra vecchio e giovane capitalismo si vede bene confrontando i vari paesi con la Cina: nonostante le persistenti enormi aree agricole la quota industriale del PIL cinese è quasi il 50% a fronte del 30% tedesco, del 25% italiano e del 20% americano.

  Italia Germania Cina
Abitanti *60.390.000 82.283.000 1.330.000.000
Occupati e disoccupati 24.950.000 43.510.000 812.700.000
Occupati industria 7.659.000 11.800.000 221.050.000
PIL (mld $) 1.760 2.811 8.789
PIL industria (mld $) 440 762 4.270
PIL pro capite ($) 29.143 34.100 6.600
PIL per occupato ($) 70.541 64.600 3.976
PIL per occup. ind. ($) 57.400 64.550 19.300
Fonte: CIA World Factbook 2010. Dollari ppp (purchase power parity). * ISTAT 2010

Questa premessa serve a richiamare l'attenzione non solo sull'inesorabile marcia di tutti i paesi verso la finanziarizzazione e la senilità, ma soprattutto sul passaggio irreversibile dalla produzione di plusvalore assoluto tramite bassi salari e lunga giornata lavorativa a quella di plusvalore relativo attraverso l'applicazione di scienza e tecnologia al processo lavorativo e alla sua automazione. Nella composizione del prezzo di mercato di un'automobile FIAT il salario dei dipendenti conta per l'8%, ma nello stesso tempo tutto il plusvalore della suddetta automobile è prodotto da chi percepisce salario; perciò la ripartizione sociale del valore diventa un obbligo imposto da un Capitale che non sa e non può valorizzarsi in altro modo. C'è sempre più bisogno di plusvalore relativo, cioè di produttività, di sfruttamento intensivo, ed è proprio per questo che s'ingigantisce l'antidoto rappresentato dai crescenti settori a plusvalore assoluto, produttività a livello parassitario, sfruttamento estensivo.

Più sviluppo = più capitale per sfruttare meno forza lavoro

È in tale passaggio che si precisa che cosa voglia veramente dire "capitalismo di stato". Una definizione rigorosa è indispensabile per capire i meccanismi di formazione delle politiche statali moderne che giungono a "nazionalizzare" circa la metà dell'economia di un paese sviluppato. Abbiamo sempre sottolineato che il capitalismo in Italia nasce "statale" con i liberi Comuni e con le Repubbliche marinare. Il potere pubblico controlla i capitali anche durante le signorie del Rinascimento, e le leghe mercantili garantiscono e proteggono produzioni e commerci quanto gli Stati. Da questa fase, che ha radici nel Medioevo e dura fino alla Rivoluzione industriale esplosa in Europa nel XIX secolo, il Capitale è controllato dallo Stato. Con la fine dell'accumulazione originaria il Capitale si autonomizza (cfr. n+1 n. 17 del 2005) e avviene un rovesciamento di posizioni: ora è "il Capitale in quanto potenza autonoma e dirigente" che sottomette lo Stato come un suo strumento. Il capitalismo di stato vero e proprio è l'ultimo stadio, non il primo. In tale stadio la ricerca di valorizzazione diventa frenetica. Non ci sono leggi, frontiere o eserciti che possano fermare i capitali in cerca di valorizzazione nel mondo globalizzato. E i governi si inchinano ai mercati, ne hanno paura, li servono, adattano ad essi le loro politiche economiche affinché i capitali siano attratti o anche soltanto restino dove sono. Nella fase di crescita del capitalismo questa frenesia finanziaria si manifesta solo sporadicamente (un esempio, la famosa speculazione del '600 sui tulipani olandesi) e la nostra corrente mise in guardia contro il luogo comune antistalinista sul capitalismo di stato in URSS, preferendo "industrialismo di stato": uno Stato che controlla il Capitale invece di esserne controllato è ancora allo stadio di Colbert e delle sue manifatture pubbliche (XVII secolo).

Negli Stati Uniti sta diminuendo il numero degli occupati e aumentando la massa dei profitti. Ciò significa che sta aumentando la produttività, cioè il saggio di sfruttamento. Ma ciò non significa affatto che cresca anche il saggio di profitto, cioè il profitto rapportato al capitale anticipato; anzi, sappiamo che la tendenza storica, che è internazionale, è alla diminuzione. Perciò man mano che il capitalismo modernissimo conquista il mondo, si manifesta in modo sempre più virulento il fenomeno previsto da Marx nel Libro III del Capitale:

"Lo sviluppo della produttività sociale del lavoro si esprime in una tendenza alla caduta progressiva del saggio di profitto e, d'altro lato, in un aumento costante della massa assoluta del profitto accaparrato; cosicché, nell'insieme, alla diminuzione relativa del capitale variabile e del profitto corrisponde un aumento assoluto di entrambi. Questo duplice effetto può rappresentarsi solo in un aumento del capitale totale in progressione più rapida di quella in cui discende il saggio di profitto. Per impiegare un capitale variabile aumentato in assoluto, [fermi gli altri dati], il capitale totale deve crescere non solo proporzionalmente alla composizione elevatasi, ma ancora più in fretta. Ne segue che più si sviluppa il modo di produzione capitalistico, più è necessario aumentare il capitale per impiegare la stessa forza lavoro. Su base capitalistica, la produttività crescente del lavoro produce quindi di necessita una sovrappopolazione operaia permanente" (Cap. XIII).

Come abbiamo visto, un paese è tanto più moderno quanto più libera forza lavoro, non quanto più ne impiega. Osserviamo bene le cifre che abbiamo tirato in ballo: in Cina lavora il 61% della popolazione, in Germania il 53%, in Italia il 41%. Secondo l'ISTAT (30 agosto 2010) gli italiani in età di lavoro che non l'hanno e non lo cercano sono 15 milioni. Lasciamo perdere il facile luogo comune sugli italiani scansafatiche: chi non lavora comunque mangia, sia in senso alimentare che figurato. Vuol dire che c'è sufficiente produzione di valore da distribuire a tutti, anche se ovviamente con picchi e abissi. Non è un caso, quindi, che l'Italia sia il paese industriale con più forza lavoro liberata, cioè con il maggior numero di precari, "atipici", disoccupati e nullafacenti. Sono ben 12,5 milioni in totale i forzati del non lavoro o del tempo di lavoro parziale, malpagato, schiavistico. Essi sono tenuti sulla graticola da una situazione incerta, che rende la vita angosciosa e deprimente. Il rendimento sia locale che globale del sistema para-schiavistico in cui sono gettati è estremamente basso. Al posto del vecchio rapporto conflittuale ma di mercato, merce-lavoro contro salario al "giusto" valore di scambio, oggi con contratti a termine in tempi brevissimi si verifica un rapporto al limite del sabotaggio contro le aziende, come ben sa chi ha avuto a che fare con servizi prestati sulla base del precariato estremo. Ma i margini per il singolo capitalista sono tali, e gli utenti sono resi così passivi, che è come se ampie parti del territorio fungessero da piccola Cina domestica.

Una delle controtendenze alla caduta del saggio di profitto è l'abbassamento della composizione organica del capitale in modo da estrarre dalla forza lavoro più plusvalore assoluto. Si tratta di affiancare ai processi produttivi altamente automatizzati zone di manifattura dove la forza lavoro possa essere sfruttata selvaggiamente, intensamente e a lungo nella giornata lavorativa. Ciò avviene appunto sia con la delocalizzazione degli impianti in paesi a giovane capitalismo in cui ancora esistano condizioni adatte allo scopo, sia realizzando, all'interno dei paesi sviluppati, alcune condizioni in grado di simulare quelle altrimenti cercate altrove. La Cina ha stupito il mondo quando s'è saputo dello sciopero in uno stabilimento nel quale erano concentrati 400.000 operai, dipendenti di un'azienda, la Foxconn, che ne impiega 800.000 in tutto. Sono numeri che in Occidente non troviamo più, anche perché fanno socialmente paura: meglio disgregare la classe rivoluzionaria. In Cina è ancora lo Stato che controlla il Capitale, e il governo può pilotare la costituzione di giganti industriali "privati" per attirare la produzione dall'estero. Alle multinazionali conviene, ma in questo modo salta il processo di delocalizzazione delle fabbriche e si passa la produzione e una quota di profitto ai capitalisti cinesi. In Italia l'industria, i servizi e l'agricoltura hanno a disposizione 10 milioni di para-schiavi da utilizzare in una grande catena di montaggio diffusa, fatta di realtà produttive piccole e medie ma integrate in un flusso coerente, spesso controllate da una holding. Il Gruppo FIAT ad esempio è il vertice di una rete composta da 1.100 aziende e non potrebbe neppure immaginare una situazione alla cinese con 800.000 metalmeccanici incazzati concentrati in una fabbrica sola. Quindi i 10 milioni di para-schiavi divisi in piccole unità produttive collegate e senza tutela sindacale vanno benissimo, è come avere un pezzo di Terzo o Quarto mondo in casa. L'unico guaio è che l'italietta ha un basso rendimento sistemico a causa di una borghesia vecchia, smidollata e casinista, che a livello di governo non ha mai saputo cosa sia un sistema industriale, specie da quando l'esecutivo è in mano a un faccendiere.

L'industria della disoccupazione

La Cina è dunque vicina, vicinissima, tanto da essere strettamente collegata all'Occidente come lo sono i vasi comunicanti: gli operai della Foxconn scioperano per ottenere miglioramenti salariali e normativi, mentre gli operai occidentali scioperano per non perdere ciò che hanno ottenuto in passato. O almeno dovrebbero, perché sono annichiliti dal terrorismo di padroni e sindacati, entrambi completamente sottomessi al comando del Capitale globale: o così o si chiude. E il diktat non fa una grinza, perché tutti sanno che la fabbrica non è un ente di beneficienza, vuole almeno un saggio medio di profitto. Così, mentre la Cina lentamente si occidentalizza, l'Occidente velocemente si cinesizza: processo che, letto in termini sociali, vuol dire accendere fiammiferi a caso nell'enorme polveriera costituita da un miliardo e mezzo di salariati nel mondo, di cui il 30% sottoccupati, ai quali bisogna aggiungere gli ex salariati disoccupati, che sono il 12% della popolazione mondiale in età di lavoro, e una quantità non precisabile di non-occupati che non cercano più lavoro e che quindi sfuggono ai rilevamenti statistici.

Non si tratta affatto di una marcia indietro del Capitale rispetto ai presupposti ideologici della borghesia che lo possiede, rispetto cioè alle idee di democrazia, progresso, libertà, benessere e compagnia bella. La produttività sociale continua a crescere e il Capitale non può fare a meno di estrarre sempre più plusvalore, accontentandosi dell'aumento della sua massa mentre il saggio diminuisce. Ma per assicurarsi questo tipo di "progresso" il Capitale deve accentuare la distanza fra le belle frasi e la dura realtà, deve cioè affiancare alla fabbrica "scientifica" la manifattura "asiatica", al mercato del lavoro regolamentato il mercato selvaggio, alle sfere di lavoro estremamente produttivo le sfere improduttive, parassitarie, dissipative. E tutto il sistema obbedisce docilmente, autoregolandosi su questa esigenza.

È in queste condizioni che proliferano rami di attività fasulle al servizio del sistema nel tentativo di mitigare la sua senescenza. Da una parte si adottano tecnologie di esagerata potenza rispetto ai fini, per poi lamentarsi dello scarso "utilizzo degli impianti"; dall'altra si riduce il personale fisso, sostituito ormai da una maggioranza di precari amministrati, anzi somministrati come recita la legge, da aziende apposite specializzate in outsourcing. Nuovi apparati privati assolutamente dissipativi sostituiscono gli uffici di collocamento, e in generale la compravendita di forza lavoro avviene come al supermercato, dove la merce sta esposta sugli scaffali in attesa del compratore. Aumentano a dismisura le attività parassitarie tipo quelle degli uffici che lavorano solo per gestire la mancanza di lavoro, dei consulenti d'ogni genere, degli avvocati per i conflitti generati dal lavoro selvaggio. S'intensifica persino il traffico motorizzato dato che numerosissimi lavoratori, invece di produrre all'interno di una fabbrica, sono costretti ad auto-sfruttarsi in un continuo movimento, cercando di quadrare il bilancio e rendere utile la partita IVA.

Tra sindacati, agenzie, cooperative e uffici vari spicca la piccola mafia dei corsi di formazione. Cresce la piaga della disoccupazione, si cercano i rimedi, nasce l'esigenza internazionale di coordinarli. Oltre alle realtà locali l'Unione Europea stanzia fondi, e infine c'è chi li intasca. Elementare. Secondo le ultime rilevazioni ISTAT, il numero degli italiani in cerca di lavoro è salito alla cifra record di 2,3 milioni, e secondo Confindustria altri 230.000 posti si bruceranno entro il 2010. A godere dei fondi stanziati non sono i disoccupati ma chi questi fondi maneggia, e negli ultimi anni i casi di truffa sono quintuplicati. Migliaia e migliaia di ore di formazione senza reali sbocchi lavorativi hanno alimentato un sistema che attira ogni anno finanziamenti pubblici per 20 miliardi di euro, 10.000 euro per ogni disoccupato (8.000 con i dati nuovi). Qualche economista borghese vede nero e lancia severi moniti paventando gli effetti futuri di un'economia improduttiva che si auto-alimenta, cresce su sé stessa. Ma non può far altro che osservarla come si fa in laboratorio con l'evoluzione di una colonia batterica o in ospedale con il progredire delle metastasi di un cancro. Citeremo qui di seguito un esempio di meccanismo sociale darwiniano, di "prassi degli sbocchi" con cui il Capitale cerca di minimizzare la caduta del saggio di profitto. Si tratta di un episodio di cui abbiamo cognizione diretta, ma che è assolutamente generalizzabile. In fondo questo articolo è anche scritto per descrivere un ambiente storico (cioè che ha una dinamica nel tempo), quello attuale, in cui si manifesta uno sfruttamento sempre più feroce e che rappresenta la premessa per un'altrettanto feroce ripartizione del valore sia tra le classi che all'interno delle classi. È solo dal rapporto storico fra di esse e dalla modalità dello sfruttamento che si può dedurre il significato di lotta immediata o "sindacale". Ciò diventerà sempre più chiaro. Ovviamente abbiamo sempre partecipato e partecipiamo ad ogni lotta sindacale così com'è, ma ciò non ci impedisce di ribadire che riteniamo necessario ricavare dalla teoria rivoluzionaria i caratteri di ciò che lo scontro immediato dovrebbe essere. Non si tratta di un pio desiderio bensì dello sviluppo naturale delle grandi questioni tattiche discusse in seno al movimento proletario a partire dai suoi inizi, specialmente dopo la fondazione della III Internazionale entro cui la nostra corrente diede battaglia fin dal 1920.

Il mostro sociale corporativo

Venezia 2009-2010: alcune decine di giovani precari assunti saltuariamente alla Biennale partecipano a corsi di formazione di due settimane organizzati da Adecco e dalla stessa Biennale, finanziati dall'Ente Bilaterale Formatemp (tra i docenti, anche dei sindacalisti). Questi giovani — precari, disoccupati ma non stupidi — colgono subito il significato dell'operazione: gli allievi non sono retribuiti, ma il resto del baraccone si autoalimenta con la sua ragione di essere, cioè l'esistenza dei disoccupati stessi, ai quali viene promesso a voce un contratto di assunzione. Terminato il corso, solo a pochi di loro viene offerto un contratto di tre giorni (!), alla maggior parte niente. Il malcontento trova sfogo in uno sciopero dal quale scaturisce una piccola rete di contatti via posta elettronica. Circola tra i lavoratori precari un commento di questo tenore:

"La vertenza in Biennale mostra come sia possibile impostare, nonostante l'estrema difficoltà di unione e comunicazione tra lavoratori 'atipici', un'azione rivendicativa apparentemente senza sbocco: quando germi di polarizzazione sociale cominciano a generarsi e a dar luogo a un'embrionale rete di comunicazione spontanea, diventa fattibile sia organizzare uno sciopero prima impensabile, sia arrivare, grazie al collegamento con altre realtà lavorative, all'idea di un Coordinamento fra lavoratori nelle stesse condizioni. Il dato più terribile, e comunque normale al giorno d'oggi, è l'intreccio inestricabile degli interessi dei soggetti con cui i lavoratori hanno a che fare: cooperative e agenzie che forniscono lavoratori più o meno precari, enti committenti volutamente distratti rispetto ai lavoratori 'somministrati' o 'appaltati', politici che piombano sulla lotta per ritagliarsi brandelli di visibilità, amministratori pubblici invischiati nel doppio ruolo di controparte padronale e di finti fiancheggiatori delle ragioni dei lavoratori."

È solo l'inizio: "l'intreccio inestricabile" si dimostrerà un vero mostro sociale assolutamente improduttivo in cui sono implicati tutti i livelli della concertazione, dagli enti che impiegano la forza lavoro a quelli che la gestiscono per "somministrarla", dal Comune alla Regione, dallo Stato alle frange pseudoalternative dell'attivismo corrente. Nasce un coordinamento che coinvolge lavoratori di diverse aree di servizi; al suo interno sono presenti alcuni sindacalisti di base che all'inizio sembrano convinti di controllare la situazione ma ben presto entrano in conflitto con i lavoratori e lo abbandonano. I contatti si allargano ad altre realtà, come l'università di Ca' Foscari, dove 53 lavoratori vengono lasciati a casa da una cooperativa appaltatrice. A maggio del 2010, in un incontro di cui i lavoratori sono avvisati a cose fatte, i sindacati firmano un accordo-capestro con la Biennale accettando una drastica riduzione del personale e la diminuzione del monte ore. Il Coordinamento denuncia immediatamente il fatto chiedendo che venga ritirata la firma. I lavoratori notano intanto che i sindacalisti firmatari subito dopo l'accordo passano alla controparte, cioè all'Ente Bilaterale Turismo dell'area veneziana, un istituto, previsto dal nuovo modello contrattuale, che vede seduti allo stesso tavolo il padronato e la burocrazia sindacale per gestire in modo corporativo una serie di norme e finanziamenti (arbitrato, assunzioni, corsi di formazione, ecc.).

La firma dell'accordo all'insaputa dei lavoratori stagionali (metodo), i suoi contenuti (merito), la rete di interessi che lega enti, cooperative, sindacati e aziende fanno da detonatore ad un secondo ciclo di mobilitazioni. La Cgil annuncia il ritiro della firma e protesta contro il taglio del personale stagionale per le mostre della Biennale. La decisione è presa dopo un'infuocata assemblea dei lavoratori che mette in evidenza come l'accordo tradisca intese precedenti, già sottoscritte con la Biennale per tutelare il personale precario. Ma quell'intreccio che abbiamo appena definito "mostro sociale" si prende la rivincita. Dopo due mesi di assemblee e iniziative coordinate, i lavoratori si trovano di fronte a un secondo accordo capestro: la stagione di eventi pubblici sta per cominciare, la direzione della Biennale sa benissimo che ha a che fare con il suddetto intreccio di interessi e non transige, la Cgil spinge infine i lavoratori ad accettare un accordo che è la fotocopia di quello disdetto. Attraverso il Coordinamento gli stessi lavoratori denunciano l'intreccio rendendolo pubblico su Internet e ricordando che della fregatura è corresponsabile il sindaco, vicepresidente della Biennale e mediatore fra le varie componenti sociali. Si capisce bene perché l'organico dei precari risulti praticamente dimezzato: ad essi saranno affiancati i mediatori culturali, una nuova figura professionale sperimentata per la prima volta a Torino e subito adottata a Venezia, una città-museo, la più appropriata a recepire l'affare: la pletora di studenti universitari avrà sbocco nel lavoro sottopagato o più spesso gratuito delle istituzioni "culturali". Essendo gli studenti figure extra-contratto in "prestito", sono facilmente raggirabili con il subdolo riferimento alla loro "cultura", e quindi facilmente adattabili al moderno schiavismo ottimizzato (almeno lo schiavo antico doveva essere alimentato anche quando non lavorava).

Il cerchio si chiude: gli interessi dei responsabili degli enti o delle aziende che utilizzano manodopera sono facilmente integrabili con quelli degli enti o delle aziende che gestiscono il mercato del lavoro; i sindacati, gli intermediari e le strutture pubbliche siedono agli stessi tavoli di concertazione. Il Capitale è soddisfattissimo: molti servizi pubblici improduttivi, un tempo alimentati da una quota del monte valore nazionale prodotto altrove (profitti e salari), adesso fanno parte di un sottobosco parassitario che s'è "messo in proprio", s'è aziendalizzato e quindi produce in prima persona salario e profitto.

Il bilancio totale non cambierebbe se non fosse per il fatto che mai come in questo caso la quantità si trasforma in qualità: un serbatoio di 12 milioni di disoccupati, precari e variamente schiavizzati su nemmeno 25 milioni di occupati hanno un impatto devastante sul mercato del lavoro; un impatto che esalta l'intero quadro delle "cause contrastanti" rispetto alla legge della caduta del saggio di profitto. E c'è un bel cercare i "responsabili" di tutto ciò: se anche il sogghignante anarchico mascherato di "V per Vendetta" facesse saltare con le sue pirotecniche mine l'intera banda dei "criminali sfruttatori parassiti", non cambierebbe nulla. Il sistema può essere minato solo se i salariati sono in grado di ricomporre la loro forza ora sbrindellata, di ricomporre cioè la loro rete di classe, che ora come non mai non può (e non deve) essere per mestiere o per luoghi di lavoro ma territoriale, per semplice appartenenza, appunto, ad una classe. Il sindacato ha cercato di affrontare la questione, fallendo tuttavia completamente. Strutturato rigidamente come burocrazia parastatale per categorie di mestiere, non è attrezzato per gestire la polverizzazione del precariato. La CGIL ha realizzato il NIdiL (Nuove Identità di Lavoro), che è però una scatola vuota; così il lavoratore non ha altra scelta che aprire vertenze individuali, per le quali però non esistono quasi mai presupposti legali certi. Come abbiamo scritto sul numero scorso a proposito delle condizioni di vita del proletariato,

"Le variazioni sono continue e le soluzioni discontinue. Se oggi il tempo di lavoro eliminato è disperazione e incertezza che costringono l'operaio al macabro rituale della supplica per una cosa che non c'è più, domani l'operaio stesso parteciperà all'eliminazione di una cosa che c'è ancora, vale a dire del tempo di lavoro che non è ancora trasformato in tempo di vita. Nella forma capitalistica per l'operaio vendere forza-lavoro non è solo un modo per vivere, ma il modo; se gradualmente risulta impossibile perpetuarlo, se finisce l'era delle rivendicazioni, è inevitabile l'esplosione dello scontro di classe al livello più alto".

Il "servizio" come paradigma del Capitale odierno

Per Marx "il lavoro produttivo è quello che genera immediatamente plusvalore, cioè che valorizza il Capitale" attraverso il processo di consumo produttivo di forza lavoro. Il concetto lo si trova ovunque egli tratti l'argomento, ma questa definizione è tratta dal VI capitolo inedito del Libro I. Ad essa seguono alcune considerazioni di importanza basilare su che cosa succede quando l'ambiente sia quello dell'estrazione del plusvalore relativo, cioè quando ormai si sia passati dalla sussunzione formale del lavoro al Capitale alla sussunzione reale. Per Marx il capitalismo giunto a questo stadio non è più una società ibrida; esso, pur portandosi appresso frammenti di vecchie forme sociali, rende dominante l'estrazione di plusvalore relativo: "Alla sottomissione reale del lavoro al Capitale si accompagna una rivoluzione completa nel modo stesso di produzione, nella produttività del lavoro, e nel rapporto fra capitalisti e operai". È con questa rivoluzione che siamo entrati nel modo di produzione specificamente capitalistico.

Ora il vero funzionamento del processo lavorativo totale non è più basato sul singolo lavoratore, pur moltiplicato per migliaia di volte, ma su di una forza lavoro sempre più socialmente combinata (è Marx stesso che sottolinea). L'attività coordinata dei vari operai parziali, o meglio, dei salariati che partecipano al processo produttivo, costituisce la macchina totale, dove ognuno partecipa con funzioni diverse, dall'operaio al direttore, dall'ingegnere al sorvegliante, dal manovale al tecnico. Insomma, un numero crescente di funzioni della forza lavoro si raggruppa fornendo come insieme lavoro produttivo. La fabbrica è allora un lavoratore collettivo, la cui attività combinata produce una massa totale di merci, di fronte alla quale "è del tutto indifferente la funzione del singolo operaio parziale". Ma ciò che succede all'operaio totale succede anche al Capitale e alla sua macchina produttiva: l'insieme delle industrie e delle aziende di servizi non è più solo il serbatoio del lavoratore collettivo di cui sopra ma la macchina totale. E infatti Marx, con mirabile anticipazione, la ipotizza come sistema completo: fabbrica totale, lavoratore collettivo od operaio globale e, come prodotto, una massa informe di merci trattabile come un'unica merce, non più discreta ma continua, come al suo tempo la ferrovia, il telegrafo, l'acqua e il gas e oggi la radio, la televisione, l'energia, Internet, le bollette, gli affitti, le assicurazioni, le trattenute per il servizio sanitario, tutte transazioni che non sono altro che pagamenti discretizzati per un servizio continuo, la cui realizzazione e vendita non hanno quasi più bisogno dell'operaio parziale legato al posto di lavoro ma dell'operaio globale, fluido, indifferenziato.

L'affinamento ultracapitalistico della figura dell'operaio legato al Capitale totale si intravede nell'istituzione del buono-lavoro, al momento gestito dall'INPS e limitato ai lavori saltuari, ma ben configurabile come processo speculare che di fronte all'azienda-servizio fa sorgere la figura dell'operaio-servizio. Non c'è nulla di strano o di "nuovo" in tutto ciò: il processo ha una sua invarianza rispetto a Marx, e del resto le sue stesse anticipazioni lo confermano. Solo che il Capitale completamente autonomo e l'operaio completamente liberato di fronte alla compravendita della propria forza lavoro rappresentano l'ultimo stadio oltre al quale non ci può essere altro che la società nuova. Se il passaggio politico è pronto almeno dal 1871, dal punto di vista pratico oggi siamo già a forme di transizione, seppure schiacciate dalla persistenza del capitalismo. Il buono-lavoro istituito dalla legge Biagi rientra solo in minima parte nella formazione del valore totale, ma è significativo che per la prima volta sia stato escogitato e introdotto all'interno del processo generale di decapitalizzazione della società capitalistica.

Teoricamente, se non consideriamo la finitezza del pianeta, che nega di per sé la possibilità di una crescita infinita, il meccanismo di accumulazione capitalistica si può rappresentare con un'equazione di equilibrio, purché non cambi la composizione organica del capitale. Con il saggio di profitto garantito, una parte del profitto va ad aggiungersi al capitale originario che risulta potenziato, e il ciclo procede in modo incrementale permettendo anche al salario di avere soddisfazione in quanto a crescita. Ed è ciò che effettivamente è successo. Per i capitalisti è una disgrazia perché crescita vuol dire incremento della quantità di merci, e perciò tra capitalisti s'innesca una corsa ad aumentare la produzione senza aumentare nel contempo i parametri esistenti per quanto riguarda impianti, macchine, materie prime ed energia. Il salario può anche aumentare, dato che per definizione si trasforma totalmente in merci utili alla riproduzione della forza lavoro. Questa è la trappola mortale: un incremento della produzione con i costi fissi significa una diminuzione del valore unitario delle merci; se a un capitalista il colpo riesce egli venderà al prezzo solito e intascherà un profitto differenziale. Normalmente il gioco dura poco per via della concorrenza: non appena altri capitalisti dovranno comportarsi allo stesso modo, l'intero sistema si troverà più merci a minor valore unitario ma anche a prezzo inferiore per via del livellamento di mercato. Di conseguenza il singolo capitalista è spinto ad "innovare", il che significa andare a modificare la condizione che avevamo posto per avere un'equazione di equilibrio, a modificare cioè la composizione organica. E siccome tutti saranno costretti ad agire così, ecc. ecc.

Questo processo infernale è ben conosciuto, ma era utile ricordarlo per arrivare a una conclusione sul capitalismo in fase di avanzata decomposizione. La storia dell'accumulazione capitalistica si svolge appunto in varie fasi, due soprattutto, cui abbiamo già accennato: quella della sussunzione formale del lavoro al Capitale e quella della sussunzione reale. Oggi ovviamente ci interessa quest'ultima. Essa si caratterizza per l'esplodere della produttività, la quale aumenta in funzione dell'incremento della composizione organica. Ma si caratterizza soprattutto per l'incessante produzione, cioè per l'incessante immissione di un numero crescente di merci sul mercato. Numero di merci, quindi quantità discrete, ognuna della quali soggetta a naturale decrescita di valore e prima o poi, ma sempre velocemente, di prezzo. La merce ideale è quindi quella continua di cui parla già Marx, possibilmente prodotta in regime di monopolio (o di cartello fra monopoli), che è poi quello peculiare dell'epoca imperialistica. Il servizio è la forma fenomenica della merce continua. Acquistando un'automobile si dispone di una merce discreta che erogherà il suo valore d'uso per i tempi previsti dal progettista in base a ricerche di mercato. Dopo di che bisogna sostituirla con un'altra, magari imprecando contro chi comunque era già riuscito a far pagare il servizio di manutenzione in "tagliandi". Se l'automobile la si prende in leasing si usufruisce di un servizio continuo e si ha anche il "beneficio" di non arrivare fino alla rottamazione. La fabbrica vende, l'azienda mediatrice prende la sua tangente e l'utilizzatore paga profumatamente il servizio, se può. Non c'è convenienza specifica, ma l'argomento di vendita è allettante: tra i valori d'uso che vengono propinati ci sarebbero la comodità, l'assicurazione totale, la guida sans soucis.

Il servizio pubblico e il suo "indotto" produttivo

Il leasing sociale è più complesso per via di meccanismi intrinseci assai efficaci che rendono la propagazione del sistema molto più veloce e massiccia. A parte la pubblicità, nessuno può spingere qualcun altro a optare per il leasing dell'automobile invece che per l'acquisto tradizionale; ma se per caso qualcuno è assessore in una regione per conto di un partito che controlla un sindacato un cui funzionario è direttore di una cooperativa o presidente di un ente bilaterale di gestione sociale, allora è molto probabile che costui spinga il comune ad usufruire dei servizi outsourcing di quella cooperativa (o di una ditta che somministra lavoro o che fornisce il servizio diretto, ecc.), la quale si ingrandirà diventando più influente su altri assessori, e così via fino a configurare una rete inestricabile di interessi. Colpa della corruzione? Beh, non è il massimo analizzare un fenomeno partendo dagli effetti invece che dalle cause. L'assessore è parte di un sistema alimentato dall'esigenza del Capitale di valorizzarsi, il piccolo battilocchio è proprio l'ultima ruota del carro.

È nota la battuta di Keynes, che avrebbe detto: se un tizio sposa la sua governante il Prodotto Interno Lordo ne viene a soffrire. Il lavoro domestico gratuito per sé stessi e per la famiglia non viene ovviamente rilevato ai fini del PIL, mentre il lavoro domestico retribuito sì. Il PIL conteggia solo il valore aggiunto che, a parte le modalità di calcolo, dovrebbe corrispondere al nostro v+p, salario + plusvalore; teoricamente non dovrebbe conteggiare il lavoro improduttivo, e infatti i "servizi non destinabili alla vendita" risultano come una ripartizione, attraverso il meccanismo fiscale, del valore aggiunto prodotto altrove. Scuola pubblica, polizia, esercito, magistratura, ecc. sono servizi che consumano senza produrre; se venissero tutti privatizzati, non succederebbe assolutamente niente dal punto di vista macroeconomico o della produzione del valore totale, anche se l'eventuale governo che decidesse di privatizzare potrebbe vantarsi di aver diminuito le imposte. Sarebbe una gran presa per i fondelli, perché il cittadino pagherebbe al privato quel che prima pagava allo Stato, ma così funziona la politica. Privatizzare il servizio pubblico è come togliere all'automobilista l'assicurazione e fargli pagare i danni quando ha l'incidente. Distribuire il rischio, la spesa o il beneficio su una media sociale è il risultato di ogni civiltà, antica e recente, che abbia avuto bisogno di strade, acquedotti o anfiteatri. Il capitalismo giunto all'ultimo stadio, cioè alla forma demo-fascista, aveva perfezionato il sistema pubblico integrando molte funzioni, dalle assicurazioni alle ferrovie, dall'energia alle fabbriche, dall'informazione allo spettacolo. La cosiddetta privatizzazione in nazioni dove comunque lo Stato più liberale controlla il 50% dell'economia sembra un nonsenso, ma alla luce dei meccanismi di accumulazione il senso c'è, eccome. Si tratta appunto dell'immenso sciupio "produttivo", la dissipazione disumana che questa società ricerca come chi affoga cerca il salvagente.

In realtà dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, si è statalizzato molto e non si è privatizzato un bel niente: si è statalizzata semplicemente la distribuzione parassitaria di servizi improduttivi facendoli diventare come per incanto produttivi, come se la moglie di Keynes fosse diventata improvvisamente governante stipendiata (sorvolando sulla raccapricciante concezione della funzione femminile nella società). Il visibile profitto del capitale privato dà l'illusione che aumenti il profitto generale, ma quando si tirano le somme a livello macroeconomico si rileva che il PIL va invece in stallo, mentre tutta la società vede ingigantirsi il caos dovuto all'anarchia della darwiniana riproduzione allargata. Il PIL è un parametro macroeconomico perverso: se aumenta il caos economico e sociale, gli uomini si agitano, dissipano di più, incrementano il traffico inutile, si scaldano di più d'inverno e si raffreddano di più d'estate, si ammalano, muoiono, delinquono, sconvolgono il territorio finendo alluvionati, ricostruiscono; insomma, si dedicano ad attività supplementari che fanno salire sia il famigerato Prodotto Interno Lordo che l'angoscia individuale.

La nostra non è una presa di posizione a favore del servizio "pubblico" e contro quello "privato". Il capitalismo non cambia di una virgola, anche se la vecchia gestione pubblica di telefoni, elettricità, gas e ferrovie produceva meno confusione, chiacchiera pubblicitaria e disservizio. Occorre però demistificare: la deregulation che va di moda dal tempo del duo Tatcher-Reagan non è affatto una de-statalizzazione del capitalismo. Il Capitale impone allo Stato la privatizzazione o la nazionalizzazione quando serve, indifferentemente. In entrambi i casi è lo Stato che decide le regole, manovra i flussi di capitali o emette moneta per stimolare o salvare l'azienda privata. Viviamo nell'epoca del capitalismo di stato, punto.

In quest'ottica, di servizi "privatizzabili" ce ne sono tanti e bisogna per forza che ci limitiamo a esempi significativi. Uno dei meccanismi di auto-alimentazione di servizi che permettono uno sbocco ai capitali in cerca di valorizzazione è il sistema carcerario, in via di privatizzazione in molti paesi. Nove milioni di carcerati nel mondo rappresentano un tasso d'imprigionamento di 1,3 persone ogni 1.000 che abitano il pianeta, compresi donne, vecchi e bambini. L'esempio fra gli esempi è certo rappresentato dagli Stati Uniti, i cui penitenziari ospitano 2,4 milioni di detenuti, circa 0,8 ogni 100 abitanti, 1 ogni 100 adulti, 1 ogni 31 adulti se calcoliamo tutti coloro che hanno un conto aperto con il sistema correctional (per il 60% neri o immigrati). Gli americani, resi schizoidi da una società insopportabile, commettono reati comparabili in numero sicuramente superiore alla media degli altri paesi, ma non sono certo degli alieni fuori dal mondo che meritino di essere incarcerati 5 volte più degli inglesi, 9 volte più dei tedeschi, 10 volte più degli italiani, 12 volte più dei giapponesi e così via. Nel 1970, tanto per fare un confronto, era incarcerato un cittadino adulto su 400, ma i delitti non erano stati proporzionalmente di meno. Dev'essere evidentemente successo qualcosa che ha inflazionato il sistema.

Un'associazione di giuristi americani ha cercato di sintetizzare in tre punti la perversione del sistema giudiziario negli USA: 1) esso rinchiude per troppo tempo troppe persone; 2) con il pretesto della sicurezza criminalizza arbitrariamente comportamenti che la legge in quanto tale non ritiene criminali; 3) la sovrapposizione di leggi statali e leggi federali rende il sistema imprevedibile, tanto che un normale cittadino non sa se in certi casi infrange la legge oppure no.

Non sembra che questi giuristi siano arrivati a un gran risultato. La banalità dei tre punti suggerisce che il sistema carcerario si sia evoluto in completa autonomia. Con tutto quello che sta a monte (potere giudiziario) e a valle (industrializzazione privata del sistema penitenziario), al capitalismo americano va bene così. Se prescindiamo (arbitrariamente) dalla funzione terroristica di controllo sociale, vediamo che la funzione economica non è indifferente e che la gestione aziendalistica del carcere dà molta soddisfazione al capitale privato. Basta moltiplicare il minimo costo/detenuto (stato del Mississippi: 18.000 dollari all'anno) per il numero dei detenuti e otteniamo la rendita assoluta del settore che il capitalista privato potrebbe trasformare in fatturato da cui ricavare un profitto minimo. Moltiplicando invece il massimo costo/detenuto delle carceri supertecnologiche californiane (50.000 dollari all'anno) per il numero di detenuti abbiamo il bacino ipotetico di quella che è oggi la rendita differenziale trasformabile in fatturato e profitto massimo.

Dunque entro la società americana nel solo campo carcerario esiste la possibilità di ripartire plusvalore per 125 miliardi di dollari, una rendita differenziale in potenza distribuita a pioggia fra aziende che la vedono come fatturato da cui trarre profitto. Non sembri strano questo approccio: nella società capitalistica chiunque intaschi plusvalore altrui si appropria di una rendita che può far fruttare come vuole, anche aprendo un'azienda. Una volta firmato il contratto di appalto, il capitalista carcerario riceve dallo Stato, in esclusiva, quindi in regime monopolistico, una quota del plusvalore rastrellato nella società per vie fiscali. Anche un'azienda tradizionale può avvantaggiarsi di una posizione di rendita: oggi la FIAT riceve sovvenzioni dallo Stato al pari dei suoi concorrenti (dice), ma quando negli anni '50 produceva in regime di monopolio la nostra corrente affermò che incamerava rendita in quanto i suoi sovrapprofitti erano una quota della massa del plusvalore totale (Vulcano della produzione).

Se poi invece di "custodire" e "rieducare" semplicemente i detenuti li si fa lavorare, allora il business si amplifica. Magari globalizzandosi. La Lochart Technologies Inc. di Austin, Texas, ha chiuso i propri impianti americani, ha licenziato i propri dipendenti e ha aperto una fabbrica in Australia utilizzando manodopera carceraria in concessione. Lo stato dell'Arizona ha in progetto una prigione privata in Messico per 2.000 detenuti chicanos che saranno la forza lavoro di maquiladoras locali. Questi sono casi limite con delocalizzazione globalizzata, in ogni modo il lavoro carcerario è molto ambito anche localmente, richiesto soprattutto da aziende che producono equipaggiamento per le forze armate, ma anche da quelle che producono altre merci o forniscono servizi, specialmente di call center. Si capisce allora il motivo dell'attivismo dimostrato dalle lobby carcerarie private nel far pressione sugli uffici statali e federali per il mantenimento della "tolleranza zero", cioè del massimo incremento della popolazione carceraria e delle strutture ad essa necessarie. Tra l'altro i prigionieri americani effettivamente rinchiusi sono il 60% in più rispetto alla capacità massima prevista nei progetti degli edifici penitenziari, quindi oltre a tutto il resto c'è margine sufficiente anche per un'attività edilizia specializzata, finanziata dagli stati e quindi assai lucrativa. E questo nonostante che negli ultimi vent'anni siano già state costruite 1.100 nuove strutture carcerarie, siano sorte 160 aziende private in 30 stati e il fatturato dell'intero sistema cresca al ritmo vertiginoso del 35% all'anno.

La California possiede 32 penitenziari, 21 dei quali costruiti appunto dal 1990 in poi con criteri di controllo tecnologico del detenuto. Tra questi, all'inizio degli anni '90, il più grande del mondo, la Pelican Bay State Prison, per 170.000 carcerati controllati e gestiti da 1.400 dipendenti, in parte statali in parte di ditte appaltatrici private. Non ha recinti, solo sensori elettronici, e anche l'intera vita del recluso è scandita da apparecchiature più o meno invasive, capaci di monitorargli il battito cardiaco, la pressione arteriosa e persino l'emissione di adrenalina se per caso gli venisse in mente di scappare o disturbare, emozionandosi. Tutto ciò produce un indotto carcerario con capitalisti e salariati, nel quale circolano dollari, viene consumato capitale costante ed erogata forza lavoro. Si capisce come il Capitale Totale possa prendere una boccata d'ossigeno.

Il carcere può essere anche un business interstatale: l'Olanda ha un'edilizia penitenziaria esuberante, mentre quella del Belgio è carente, quindi L'Aia affitta a Bruxelles, per 30 milioni di euro all'anno, 500 celle per i suoi prigionieri, custoditi da personale olandese con direttore belga. D'altra parte anche i lager per immigrati sparsi nel mondo, ma soprattutto in Europa e in Africa, sono già gestiti con accordi internazionali che prevedono anche compensazioni pecuniarie.

Spioni e mercenari, keynesiani autoreplicanti

Inflazione dello Stato. Questo il titolo di due articoli della nostra corrente pubblicati nel 1949. Inflazione, nel senso di cosa che gonfia, che viene pompata come un pallone. Uno Stato che si espande occupa spazio per definizione, togliendone ad altri soggetti, sia dal punto di vista territoriale, sia dal punto di vista economico; campo quest'ultimo in cui questa enfiagione, lungi dal rappresentare un semplice "costo", fa bene al PIL, permette di distribuire valore e quindi di stimolare i consumi. In Italia i dipendenti pubblici sono 3,5 milioni (6% rispetto alla popolazione), in linea con la media di Francia, Germania, Gran Bretagna. Negli Stati Uniti sono proporzionalmente un po' di più: 19 milioni su 300 milioni di abitanti (6,3%). La differenza degli USA rispetto agli altri paesi sta nell'apparato poliziesco-militare, che occupa da solo cinque milioni di persone: 2,5 nelle forze armate, 1,7 nelle polizie, 0,8 nell'intelligence. Il generale Eisenhower, nel suo discorso di commiato da presidente degli Stati Uniti (1961), riconobbe che s'era formato un "complesso militare industriale", resosi autonomo rispetto alla società civile. È evidente che egli si riferiva alla potenza delle lobby del Pentagono e delle industrie intrecciate con i poteri politici e quindi in grado di influenzare i governi, ma da parte nostra questa caratteristica dell'autonomizzazione l'abbiamo già affrontata da un altro punto di vista: l'abbiamo cioè attribuita non tanto alla cattiva politica quanto al Capitale che piega la politica alle sue imprescindibili esigenze.

Quando ci fu l'attentato di Oklahoma City, nel 1995, con 168 morti e 800 feriti, c'era già un'America liberal che denunciava la crescente pressione delle lobby sulla "questione sicurezza". Con l'attentato alle Twin Towers dell'11 Settembre 2001, il processo inflazionistico degli apparati dello Stato in materia di sicurezza s'è autonomizzato del tutto. Riportiamo alcune cifre da un'inchiesta del Washington Post reperibile sul sito del giornale insieme a un imponente data base con informazioni sull'intero sistema spionistico americano (annotiamo di passaggio questa conferma dei tempi: le "campagne di denunce" che Lenin auspicava per l'Iskra, la "controinformazione" degli alternativi d'oggi, ormai è pratica corrente dei giornali borghesi nella guerra tra fazioni all'interno della classe dominante).

Le organizzazioni governative che si occupano di "sicurezza" sono 1.271, cui si affiancano 1.931 società private. I governativi sono 854.000 e fanno capo a 10.000 basi operative, cioè uffici più o meno visibili o interi edifici, solo sul territorio americano. La produttività non è gran che: 50.000 rapporti di intelligence all'anno, quindi un rapporto ogni 20 funzionari. Siccome il budget annuale è di 75 miliardollari, ogni rapporto costa un milione e mezzo di dollari. Persino il capo della CIA ha riconosciuto ufficialmente che è un po' troppo. L'apparato da controllare ha finito per nominare da sé stesso i propri controllori. Ha al vertice un ufficio di coordinamento e un direttore generale che risponde all'esecutivo, cioè alla Casa Bianca, ma questo direttore, che è il capo del capo della CIA, ha dichiarato, anch'egli ufficialmente, che in tutto l'Universo c'è una sola entità che può sapere quel che succede in un apparato del genere: Dio. Ora siccome gli operativi, cioè gli spioni sul campo, si lamentano dell'overdose di informazione (la NSA, che si occupa di intelligence telematica, spulcia ogni giorno 1,7 miliardi di e-mail, telefonate, fax, ecc.), è stato aperto un altro ufficio per selezionare da 20 agenzie e 63 siti internet l'informazione da passare agli interessati. Non è impossibile che domani nasca un ulteriore ufficio per controllare il nuovo ufficio di selezionatori.

Il "Nemico" oppone a questo apparato il semplice rifiuto delle tecnologie intercettabili. Ad esempio Al Qaida ha meno di 300 militanti fissi che consumano poco, comunicano a voce e stanno alla larga da aggeggi elettronici e reti tracciabili. Per la sorveglianza dei movimenti bancari del Nemico vi sono 51 dipartimenti con uffici in 15 metropoli. Avendo lo specifico compito di ricostruire i flussi di capitali sospetti, si dedicheranno di certo al controllo del flusso di capitali tout court per stabilire quali di essi lo siano. Così gli spioni prendono due piccioni con una fava controllando non solo i terroristi ma anche i capitalisti degli Stati concorrenti; e qualche volta, lavorando in proprio, rivolgono l'attenzione verso l'interno degli States. L'instillazione dei bisogni di sicurezza è un business non da poco. Dall'11 Settembre sono state istituiti 263 apparati nuovi e non c'è differenza fra l'attivismo sbirresco dell'amministrazione Bush e quello dell'amministrazione Obama. Significativamente, la prima puntata dell'inchiesta del Washington Post è stata intitolata: "Un mondo segreto cresciuto al di fuori di ogni controllo". Vada per il segreto, ma perché fuori controllo? Per noi è ovvio: è fuori controllo ciò che si è autonomizzato rispetto alla capacità di governo da parte degli uomini. E infatti l'overdose di informazione produce disinformazione, per cui il segreto vero, quello dei documenti con stampigliato Top Secret come nei film di 007, è diventato un elemento aleatorio, da quando intere branche dei servizi spionistici sono… in appalto al miglior offerente.

L'impresa appaltatrice è il non plus ultra delle realizzazioni dovute al Capitale autonomizzato. Nella sua forma più pura essa è un po' come il problem solver di Pulp Fiction, non ha stabilimento, uffici, officine, macchine in proprietà. Utilizza strutture e strumenti del committente o li affitta o acquista per poi rivenderli dopo averli ammortizzati, addebitandoli allo stesso committente. Dovrebbe possedere almeno del capitale liquido per anticipare materie prime, energia, salari, ma da molto tempo ormai "sconta" in banca il solo fatto di avere una commessa, fornendosi di denaro a prestito che comunque addebita al committente come il resto. Oggi che il denaro lo si ottiene a costo quasi zero per via degli ormai cronici incentivi statali, l'impresa appaltatrice gode di un vantaggio rispetto alla concorrenza; per di più è in grado di manipolare a piacimento i prezzi finali tramite le proprie lobby, e soprattutto di stendere una nebbia contabile di fronte al fisco tramite subappalti a cascata. Questo vale sia per il campo delle grandi opere pubbliche, centrali, autostrade, ferrovie, sia per la piccola cooperativa che offre il servizio delle pulizie. Ma è quando

"tutti questi rapporti sono a cura di enti pubblici e dello Stato, [che] il capitalismo respira il migliore ossigeno, i tassi di remunerazione toccano i massimi e la sopraspesa ricade per via indiretta su altre classi: in parte minima su quella dei possessori immobiliari e dei piccoli proprietari, in parte massima su quella non abbiente e proletaria" (Proprietà e Capitale).

Che razza di Stato è un organismo di dominio che appalta ad aziende private la propria rete di sicurezza? Non è esso un vero e proprio schiavo del Capitale se per giunta appalta anche la massima espressione della sua potenza, cioè la sua forza armata? Non c'è evidentemente un limite all'autonomizzazione del Capitale totale. Un tempo gli Stati avevano i loro arsenali nazionali, uno Stato Maggiore militare cui partecipavano direttamente gli esponenti della classe dominante formati al militarismo nazionalista in accademie patriottiche, una struttura piramidale rigida al cui comando veniva consegnato un esercito di popolo. Oggi l'outsourcing globale, figlio del Capitale autonomizzato, si espande dalle fabbriche e dal settore dei servizi più o meno produttivi ai settori caratteristici del dominio di classe. È inutile cercare una spiegazione razionale del fenomeno, che non solo sottrae delicate attività al controllo centrale, ma è assolutamente dissipativo. L'unica spiegazione risiede nell'irrazionalità del funzionamento spontaneo del capitalismo che deve tradurre tutto in merci, comprese la sicurezza e la guerra. Non solo nel senso che gli apparati di questi settori sovrintendono alla fabbricazione di carceri, strumentazione elettronica per uffici e strutture, armi di ogni genere, ecc., ma nel senso che il servizio reso diventa esso stesso merce, riflettendo, appunto come ogni altra merce, la modernissima ambiguità del valore d'uso. Non ha infatti più importanza che la merce soddisfi un bisogno umano, perché il bisogno odierno (che venga dalla pancia o dalla fantasia, per dirla con Marx) è strettamente connesso al consumo compulsivo, se dell'individuo o della società non ha importanza. La fine del boom postbellico e della Guerra fredda ha comportato il disfacimento del vecchio apparato militare basato sul soldato di leva. Si calcola che ciò abbia comportato l'immissione sul mercato del lavoro di sei milioni di disoccupati. Fra di essi gli ufficiali e gli specialisti a vario titolo sono stati buoni strumenti per veicolare capitali verso nuove direzioni. I mercenari sono sempre esistiti, ma ora hanno incominciato ad essere quotati a Wall Street con le loro aziende (Private Military Companies, PMC) specializzate in operazioni di guerra, spesso per conto degli eserciti ufficiali che delegano il "lavoro sporco" ai privati per non sollevare problemi politici.

In Iraq il rapporto tra militari e contractors era giunto al massimo nel 2007: 130.000 contro 160.000, più mercenari che soldati. In totale si sono avvicendati un milione e mezzo di soldati, non sappiamo quanti mercenari. Quando all'inizio di quest'anno il governo americano ordinò di accentuare l'impegno in Afghanistan in vista del "ritiro" dall'Iraq (sono rimaste comunque le basi con 50.000 uomini) c'erano 68.000 soldati regolari e 104.000 mercenari al soldo di aziende paramilitari private. L'arrivo di 33.000 soldati aggiuntivi ha comportato un più che proporzionale aumento di mercenari, 56.000 dagli Stati Uniti e il resto reclutato in parte all'estero e in parte sul posto, tanto che il presidente fantoccio afghano ha più volte protestato per la vampiresca presenza di questa massa di parassiti (comprese le ONG, le quali, pur denunciando in qualche raro caso la situazione, in massima parte non fanno che autoriprodurre sé stesse partecipando oggettivamente al bottino) e per il massacro continuo di civili.

Le cifre riportate sono comprensive dei mercenari armati, in genere utilizzati per presidi, addestramento, scorte, gestione dei campi di prigionia, interrogatorio dei prigionieri, ecc., e dei dipendenti civili reclutati dalle organizzazioni paramilitari per essere adibiti ai loro stessi servizi, o dal governo americano per i servizi generali di cui ha bisogno l'esercito d'occupazione. Sono esclusi dal conteggio migliaia di mercenari assunti direttamente dalle aziende private (non PMC) per compiti di sicurezza. Sommando gli appalti pubblici e il reclutamento privato si ottiene una committenza di massa che crea un "indotto" locale di dimensioni notevoli rispetto all'economia dei paesi occupati, per cui l'insediamento di un corpo militare diventa analogo a quello di una qualsiasi industria. Non è certamente esatto dire che gli Stati Uniti hanno "privatizzato la guerra" o l'hanno "data in appalto": la guerra rimane un affare di Stato. Ma di uno Stato che deve assecondare le esigenze del Capitale senza poter mettere becco, anche solo per imporre un po' di ordine, per smussare l'esagerato sciupio.

La guerra d'Iraq, si legge in uno studio dell'economista Joseph Stiglitz, è "costata" finora più di 3.000 miliardi di dollari. Sono compresi certo i costi per soldati di un esercito non più di leva, soprattutto per quelli morti e quelli feriti (risarcimento alle famiglie e pensioni per i veterani); pesano moltissimo i suddetti mercenari e soprattutto le aziende da cui dipendono; non è indifferente la spesa per la costruzione e il mantenimento delle immense basi militari. Ma in fin dei conti, al di là dei singoli movimenti, il costo della guerra (il 22% del PIL americano) corrisponde a una eguale quantità di capitali che altrimenti non si sarebbero incanalati in settori produttivi; e che invece in questo modo hanno trovato da sé il proprio sbocco in settori fortemente intrecciati con la committenza pubblica, in grado di garantire una valorizzazione. Un enorme trasferimento di valore all'interno della società, ma un altissimo profitto netto per le singole aziende paramilitari e per quelle degli altri servizi di guerra. Senza contare che, entro l'autonomizzazione di primo livello del Capitale (diventato anonimo e globale), si verifica un'autonomizzazione di secondo livello, quella che coinvolge gruppi mercenari dediti ad attività "in proprio" come il traffico internazionale di armi, di droga e, com'è risultato in Iraq e Afghanistan, di donne da prostituire. L'intreccio si universalizza e anche la rete militare finisce per connettersi con tutte le altre, comprese le mafie, potenti come Stati, vere rappresentanti della modernissima globalizzazione.

Scorrendo pochi esempi empirici, siamo arrivati ad alzare alcuni dei veli che coprono i generali rapporti di distribuzione. Veli che contribuiscono a mistificare il vero rapporto, che è quello della produzione di plusvalore, il quale, con il salario, è la fonte di ogni "reddito" possibile. Perciò per il Capitale non esistono scappatoie di lungo periodo: può sviluppare fin che vuole la giungla della ripartizione del valore, ingannando sé stesso sulla fonte del profitto locale, ma è la produzione di valore globale quella che conta:

"Raggiunto un certo grado di maturità, la forma storica [capitalistica] viene lasciata cadere e cede il posto ad una forma superiore. Che sia giunto il momento di una simile crisi, lo si vede non appena il contrasto fra i rapporti di distribuzione, quindi anche tra la forma storica determinata dei rapporti di produzione ad essi corrispondenti, e le forze produttive dall'altra, guadagna in ampiezza e profondità. Subentra allora un conflitto tra lo sviluppo materiale della produzione e la sua forma sociale" Marx, Il Capitale, Libro III, cap. LI).

Letture consigliate

  • Coordinamento Lavoratori Servizi "della Cultura" in Lotta Venezia (Biennale, Università, musei, ecc.), www.culturainlotta.altervista.org.
  • Gallino Luciano, Il lavoro non è una merce, Laterza 2007.
  • Marx Karl, Il Capitale, Libro III, capitoli V.2, XIV e LI. UTET 1987.
  • Marx Karl, Il Capitale, Libro I, Capitolo VI inedito, La Nuova Italia 1969.
  • PCInt., Vulcano della produzione o palude del mercato? Quaderni di n+1, 1995.
  • PCInt., Proprietà e Capitale, Quaderni di n+1, 1995.
  • Priest Dana e William Arkins, Top Secret America. A Washington Post Investigation, http://projects.washingtonpost.com/top-secret-america/ imponente dossier sui servizi segreti americani, Non serve la registrazione al sito del giornale.
  • Per articoli, dossier, ricerche su carceri e contractors il materiale su Internet è sterminato, basta digitare qualche appropriata parola-chiave.

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