Una civiltà ben strutturata ma senza Stato

Abbiamo ricevuto molta corrispondenza sui problemi sollevati dai nostri articoli sulla prima grande transizione. La maggior parte degli interrogativi verte sulla difficoltà di descrivere l'organizzazione centrale di società che per la loro struttura devono considerarsi senza stato. Alla luce della saggistica borghese, in effetti, è facile essere ingannati dalla trasposizione, a volte brutale, a volte più subdola, delle categorie economiche e sociali odierne a società che non potevano neppure immaginarsele. Queste categorie sono le stesse che Marx elenca nella Introduzione del 1857 a Per la critica dell'economia politica: lavoro, famiglia, denaro, ecc. Esse sono presenti nelle più svariate epoche, ma la loro natura cambia con il variare dei rapporti di classe, specialmente per quanto riguarda la proprietà. La discussione su questo tema è importante perché vogliamo dimostrare che non è esistito solo il comunismo "primitivo", quello dell'uomo immaginato come un essere allo stato quasi animalesco, ma vi sono molti esempi di comunismo che preferiamo chiamare "originario" e che ha caratterizzato società altamente organizzate ed evolute. Pubblichiamo una sola corrispondenza, che però ci sembra riassuntiva e quindi in grado di rispondere alle molte ricevute su argomenti analoghi o comunque collegati.

 

Sono rimasto sorpreso nel leggere sul numero scorso che secondo voi nell'antico Egitto non esisteva lo Stato. E sembra che l'affermazione sia dedotta dagli scritti di Marx. Sono d'accordo sul fatto che non esisteva la schiavitù, ma lo Stato? Come spiegare rivolte come quella del 2200 a.C.? Contro chi o cosa esse avvennero? A me sembra evidente che non si può parlare di religione in senso proprio se non quando si può parlare di Stato e viceversa. E in Egitto la religione era importante. L'interpretazione delle conoscenze antiche sul rapporto fra il mondo visibile e quello che non lo è ma lo può determinare è evidentemente stabilito dal loro intreccio religioso, statale, repressivo, ecc. D'altra parte c'è dell'ambiguità nei miti e il confine con la religione si fa indistinto. Ad esempio ciò che voi riportate a proposito del mito di Shu (l'Aria) che separa Nut (il Cielo) da Geb (la Terra) con la bella illustrazione, può essere rovesciato da separazione a unione e il significato sovrastrutturale sarebbe opposto. Quante cose ci sarebbero da approfondire! In generale devo dire che non sono d'accordo con la vostra indagine [sulla prima grande transizione, specificamente con il considerare rivoluzionario il passaggio neolitico, con la relativa domesticazione di animali e piante - n.d.r.] ma sono molto contento che abbiate fatto un lavoro del genere. Esso mi stimola ad apportare delle precisazioni a quello da me pubblicato su Internet. È di importanza fondamentale ricordare che lo Stato, le classi, la proprietà privata, ecc. non sono sempre esistiti, sono recenti e non possono essere considerati come dei punti d'arrivo nel "progresso" della specie. Credo che abbiate ragione quando dite che occorre fare uno sforzo linguistico per rifiutare la terminologia che questa società ci propone, e tentare la ricerca di parole più adatte per descrivere i rapporti del passato. Sono del tutto d'accordo anche sull'importanza da attribuire alle distruzioni rilevate dagli archeologi in tutta l'area mediterranea, interpretabili come rivolte delle popolazioni contro l'insediamento delle dinastie monarchiche in sostituzione degli antichi rapporti comunitari, e non come effetti di invasioni da parte dei Dori in Grecia o dei Popoli del Mare altrove.

Un passaggio che ritengo essenziale è quello in cui descrivete la transizione dal mondo miceneo a quello greco, quando l'antica forma comunitaria lascia il posto alla monarchia del leggendario Teseo. Essa viene soppiantata, per reazione, da un ritorno alla forma comunitaria, che questa volta, però, è la forma mistificata della democrazia, da voi definita "ormai classista e mercantile". Ecco, è là l'origine della mistificazione stessa. È ciò che ebbi ad affermare nei miei lavori e devo aggiungere che questa mistificazione si riattualizza costantemente, soprattutto in periodi di crisi sociale. Trovo che gli aggettivi "classista e mercantile" siano ridondanti: affinché vi sia democrazia occorre che vi siano degli individui che in seguito alla dinamica economico-sociale si raggruppano in classi, le quali non sono altro che surrogati di comunità entro la comunità (mistificata) globale, la polis. D'altra parte la polis è direttamente legata al movimento del valore nella sua dinamica orizzontale e realizza la seconda forma di Stato, quello mediatizzato tramite il movimento del valore.

 

Abbiamo letto la tua imponente ricerca sull'emergere dell'uomo-comunità nel corso della storia. Approfittiamo della corrispondenza per qualche precisazione sul tema dello Stato nelle più antiche forme sociali. Non è facile affrontare la questione quando si tratta di società di transizione, e questo per motivi sia ideologici che linguistici. I borghesi traspongono le loro categorie di classe anche nelle società più antiche, e d'altra parte neppure noi abbiamo nel vocabolario dei termini utili a descrivere i rapporti sociali delle origini. Dobbiamo usare delle parafrasi o — sicuramente meglio — i termini tradotti dall'originale, anche se il Carr sosteneva che l'espediente ha scarsa utilità, dato che possiamo guardare al passato solo con gli occhi del presente. Non siamo d'accordo, almeno non del tutto, e comunque nel caso degli Egizi neppure questo espediente ci soccorrerebbe perché nella loro lingua non esisteva un termine per designare quello che per noi è uno "Stato".

Il riferimento a Marx è dovuto al fatto che egli considerava comunistica la società degli Incas, la quale non conosceva la proprietà privata e il cui prodotto non era distribuito in quanto merce, nemmeno col baratto. Nessuna società comunistica può avere lo Stato, e siccome ci sono forti analogie sociali fra gli Incas e gli Egizi, questa è una dimostrazione in più della mancanza di Stato in società molto evolute. La difficoltà linguistica ha ragioni logiche profonde: dal punto di vista semantico è impossibile definire con lo stesso termine insiemi diversi come l'antico organismo di produzione e distribuzione, l'apparato centrale di un impero antico-schiavistico, il libero comune, la signoria rinascimentale, la monarchia tardo feudale o la rete moderna di supporto alla valorizzazione del Capitale. Dobbiamo segnare un confine almeno tra le forme classiste e quelle precedenti.

Le tracce lasciate in Alto Egitto dalle società dell'epoca pre-dinastica, specie le sepolture, mostrano caratteri comunistici, anche se non più "primitivi". Perciò, se nel passaggio dal neolitico all'età del rame la struttura sociale non doveva essere troppo diversa da quella delle prime dinastie, non è strano che i caratteri comunistici si conservino nella successiva fase, cioè in una società molto strutturata e centralizzata, con una evoluta divisione tecnica del lavoro. Specie se pensiamo che si trattava di società che si svilupparono in un relativo isolamento. L'Alto Egitto, sede della civiltà originaria, era meno soggetto al cambiamento in quanto povero di risorse agrarie, mentre il Basso Egitto fu poi terra di espansione verso il Delta, ricco di pianure fertili e irrigabili, sede delle nuove dinastie (le prime dinastie unificatrici avevano una sede sia in Alto che in Basso Egitto e i loro faraoni si costruivano una doppia tomba). Il fatto che l'unificazione parta dall'Alto Egitto aiuta dunque a spiegare il persistere di elementi comunistici.

Sulla base di evidenze archeologiche e di descrizioni che la stessa borghesia ci fornisce, seppur mistificate, possiamo tranquillamente sostenere che la società egizia, almeno per tutta la durata dell'Antico Regno (circa 3200-2200 a.C.) conserva profondi caratteri comunistici. Con la prima dinastia semi-leggendaria inizia un processo di centralizzazione. Le comunità di villaggio, che erano già diventate "federazioni" di comunità, vengono coinvolte nel processo di unificazione del territorio e centralizzazione della società, processo che si completa con la terza dinastia raggiungendo il massimo risultato con la quarta (2600 a.C.), quella delle grandi piramidi che ancora oggi ci lasciano a bocca aperta. Le comunità di villaggio rimangono sé stesse ma il loro sviluppo comprende ora grandi opere di utilità comune, fra le quali alcune, come le piramidi, difficili per noi da comprendere. Non nasce un vero e proprio urbanesimo, ma si sviluppano dei centri attorno ai quali gravita la vita comunitaria. Il contadino, l'artigiano e il capo villaggio non sono più parte di una cellula sociale autonoma ma vanno a far parte di un grande complesso unitario centralizzato. E questo senza che la società intera perda i sui caratteri comunistici, dato che non si sviluppano categorie tipiche delle società successive, come la proprietà, la schiavitù, la divisione sociale del lavoro o il valore di scambio. È un'esplosione rivoluzionaria della potenza sociale, ma senza i caratteri classisti.

Difficile stabilire quanto duri l'assetto comunistico, ma è certo che la società egizia varia poco per 3.200 anni. Comunque sia, essa non ha mai saputo come adoperare l'enorme surplus sociale e l'ha sempre "dissipato" in doni od opere che la nostra stupida civiltà ritiene "inutili". Ciò è in contraddizione con l'esistenza dello Stato, il quale, prima di essere sottomesso dal Capitale, è il "comitato d'affari della classe dominante", definizione che non si addice a una società senza classi e senza "affari". Anche quando comparve quella che noi siamo costretti a chiamare "proprietà privata", questa era un "dono" dell'organismo centrale, e in una società senza denaro non poteva rappresentare accumulazione. La terra era data in usufrutto e non poteva essere merce scambiabile, ma non esisteva neppure lo scambio di prodotti per la vita quotidiana, la maggior parte dei quali veniva ammassata, contabilizzata in quantità fisiche e distribuita centralmente. Il concetto di "valore" era molto relativo: non circolando moneta, in casi non usuali di baratto due prodotti diversi potevano essere stimati in base a pesi d'argento (shat) o di rame (deben) che però non intervenivano direttamente come mezzi di pagamento.

Il parallelo che tu operi tra religione e Stato è oltremodo interessante: nel numero 27 abbiamo cercato di spiegare con poche parole come quella che chiamiamo religione egizia fosse in realtà una prassi naturalistica, un collegarsi all'ambiente. Il tempio ("casa della vita") era soprattutto il depositario delle conoscenze utili alla produzione e riproduzione sociale, quindi, senza alcuna contraddizione, centro amministrativo, magazzino, sede dell'ammasso di derrate, conservate a seconda dei raccolti e distribuite a seconda dei bisogni. L'organo centrale egizio di cui era responsabile il faraone non era l'apparato classista che abbiamo in mente noi oggi e nemmeno quello che potevano intendere i Romani o i Greci, bensì lo strumento organico per l'autoregolazione della macchina sociale. La gerarchia di governo (capo villaggio, nomarca, visir, faraone) in realtà non "comandava", ma trasmetteva al centro ciò che i sensori periferici captavano, e dal centro (doppia direzione!) partivano le conseguenti disposizioni per la "manutenzione" del sistema.

La società egizia antica non era "egualitaria" e tantomeno democratica, quindi non era passata ancora attraverso alcun tipo di mistificazione. Fin dalle sue origini era profondamente consapevole di essere differenziata ma, fatto importantissimo, sapeva che le sue differenze interne erano di tipo tecnico, non sociale. Vigeva una totale mobilità entro le sue figure sociali e non era neppure concepibile la posizione ereditaria per censo. Solo il faraone, per motivi cosmogonici, aveva una "discendenza" che però, data la tradizione dell'harem e del matrimonio divino tra fratellastri, non era diretta e regolamentata come in una monarchia. In ogni caso la società non era più a base tribale anche se manteneva un antico residuo di matriarcato: l'arte egizia (figurativa e letteraria) testimonia di un culto della donna, sempre rappresentata come "sovrana", non solo nell'iconografia di famiglia ma spesso anche nella statuaria ufficiale. In una celebre scultura della IV dinastia la sovrana-sposa di Micerino procede abbracciata al faraone con passo solenne. La "faraonessa" Hatchepsut è sempre mostrata secondo i canoni faraonici. Nefertiti, sposa del faraone Akenaton, è sempre raffigurata in posizione preminente sia nelle scene ufficiali che in quelle di realistica intimità famigliare.

La controversia sullo Stato in Egitto ha fondo ideologico al pari di quella sulla "schiavitù" e comunque sulla gerarchia sociale. Essa dipende molto dal pregiudizio classista borghese. Prigionieri di guerra e soggetti vari potevano perdere e ritrovare la libertà, ma non fecero mai parte di una classe a sé, tanto che nella lingua egizia non esiste un termine specifico. Come abbiamo scritto, in nessun caso i grandi lavori "faraonici" (templi, piramidi, tombe sotterranee e canali) venivano svolti da schiavi, né nel Nord, né nel Sud. Esiste un'assoluta evidenza archeologica che dimostra come le grandi opere dell'antico Egitto fossero costruite da squadre fisse di uomini liberi, lavoratori pagati in natura dall'intera società tramite il tempio e gli organi centrali. Dato che il loro lavoro era assai faticoso, avevano una dieta più ricca di quella media della popolazione, specie per quanto riguarda la quota proteica. Abitavano in case migliori, di tre o più vani, in pietra, quindi conservate per millenni, mentre le case anche "ricche" delle città non ci sono pervenute, essendo fatte di fango pressato e intonacato. Avevano persino il massimo privilegio di una necropoli vicina a quella dei faraoni.

Detto questo, ci troviamo di fronte a un curioso fenomeno: l'archeologia ha mezzi potentissimi ed efficaci per analizzare ciò che si trova sotto terra come memoria del nostro passato, ma gli archeologi hanno problemi a utilizzare l'enorme massa di informazioni di cui vengono in possesso. C'è poi il suddetto fatto linguistico: nessun archeologo resiste alla tentazione di usare il vocabolario attuale per descrivere le più antiche società del passato. Perciò ci troviamo tra i piedi parole come tempio, re, imperatore, schiavo, palazzo, denaro, tomba, commercio, magia, religione, divinità, sacerdote, gioiello, amuleto, stato, tasse, visir, classe, e persino termini apparentemente più universali come esercito, soldato, città, contadino, funzionario, ecc. ecc. che per la storia più antica non corrispondono affatto a quello che abbiamo in testa oggi. Qualsiasi unità di esplorazione, lavoro o battaglia era ad esempio chiamata "esercito". Del resto, passando a società meglio conosciute, chiamare "soldato" un oplita spartano non è solo riduttivo ma è mistificante rispetto alla natura dell'aristocrazia militare di quella specifica forma sociale. In questo caso, però, si utilizzano più facilmente i termini originari come oplita perché la Grecia o Roma sono alla base della "nostra" civilizzazione classista. Non appena però si passa dalla Grecia classica alla civiltà che nella stessa area l'ha preceduta di una decina di secoli, ecco che si perde di nuovo il senso dei termini: nessuno usa comunemente "wanax" (colui che comanda) come appellativo di Agamennone di Micene, ma "re", la qual cosa produce un po' di confusione con il "re" di Itaca, Ulisse, che invece era uno fra i diversi "basileus" dell'isola, termine che inizialmente indica una delle figure tribali espresse dalla forma agro-pastorale greca.

In Egitto, dunque, non c'era lo Stato e neppure il proto-stato conosciuto in Mesopotamia nelle stesse epoche. Nella sequenza di Engels, abbiamo la famiglia, la proprietà privata e lo Stato. Si dovrebbe intendere che lo Stato sorge dopo le classi proprietarie, ma la divisione tecnica del lavoro nasce già nella preistoria, diventando poi differenza sociale, la quale è più vecchia della proprietà e addirittura della famiglia monogamica nucleare. Come vedi, abbiamo la necessità di mettere un po' di ordine nel nostro vocabolario e adoperare i termini originari, quando ci sono. Per l'Egitto bisogna assolutamente abbandonare la parola Stato e adoperare altro, per esempio "Organo difensore della Maat", termine quest'ultimo che rappresenta la Giustizia, non in senso giuridico bensì come armonia dell'ordine cosmico, di cui il faraone fa parte (e quindi non è un sovrano, re, imperatore, teocrate o altro, ma un "dipendente" del cosmo, colui che tiene le cose in ordine).

L'ordine interno del sistema autoregolato egizio è allora riconducibile a un'ideologia (se così si può dire) di conservazione dell'energia. Quando siffatto sistema, ottimamente funzionante, rivela di produrre un'eccedenza (struttura razionale, clima favorevole e irrigazione fertilizzante del Nilo che permette tre raccolti all'anno, ecc.) ecco che sorge il problema di come utilizzarla. Di qui l'immenso dispiegamento del "dono" primigenio, la costruzione di edifici e "tombe" di apparente assurdità se visti con l'occhio della nostra civiltà utilitaristica. A partire dalla III dinastia, la pietra scolpita o scavata diventa l'elemento portante dell'intera civiltà. Imhotep, l'ideatore dell'utilizzo del surplus per scolpire quantità mai viste di pietra, viene divinizzato per 3000 anni e passa nei miti greci con il nome di Esculapio.

Come inserire in tale contesto la "rivoluzione", esplosa alla fine dell'Antico Regno (2200 a.C.), da te ricordata? Secondo gli archeologi e gli storici non c'è mai stata alcuna rivoluzione sociale in tutta la storia dell'Egitto (a parte la riforma dall'alto di Akenaton, poi affossata da tumulti, che è altra cosa), ma solo alcuni scioperi di operai. Tuttavia alcuni egittologi continuano a chiamare "rivoluzione" il susseguirsi di disordini verificatisi nel passaggio fra la X e l'XI dinastia. La fonte privilegiata per questo periodo è il papiro di Ipu-Ur della XI o XII dinastia. Nel complesso gli studiosi sono concordi nel dire che tale letteratura "catastrofista" non ha carattere storico ma serve unicamente a glorificare il Medio Regno con il ritorno agli splendori del millennio precedente dopo un breve periodo di decadenza. Il termine "rivoluzione" è comunque rimasto. Il testo non è infatti un racconto bensì l'elenco delle cose che non funzionavano e delle conseguenze. A nostro avviso si tratta di un "insegnamento": se viene a mancare il principio cosmico ordinatore (Maat) il mondo decade in una situazione di non-ordine, cioè di entropia. Da autoregolato si fa disordinato e inconcludente. Insomma, viene meno il rovesciamento della prassi. Infatti, se ben notiamo, la società egizia è un esempio magnifico di comunità completamente progettata. Tutto era minuziosamente realizzato secondo un disegno. Quindi il Papiro di Ipu-Ur non è la storia di una rivoluzione ma un testo sapienziale che indica al lettore gli effetti della mancanza di progetto.

Passiamo ora alla tua osservazione sulla dialettica della separazione/unione presente nel mito egizio della creazione, diciamo due parole su Nut il Cielo, Shu l'Aria e Geb la Terra. La cosmogonia eliopolitana, una sintesi di varianti locali, fa iniziare il mondo da Nun, il Caos primordiale contenente tutti i germi in attesa del futuro, un mare padre/madre di tutto ciò che sarebbe stato. Da questo principio sorge l'Uno, o Atum, o Sole, non concepito ma in grado di concepire, quindi maschio/femmina. Egli/ella genera con sperma/saliva Shu e Tefnut, che generano Geb e Nut, compagni e fratelli, maschio e femmina ma indissolubili fin dalla creazione. Come in molte cosmogonie, sorto l'Atum diventa necessaria la separazione delle cose del mondo. Il primo passo avviene ad opera di Shu che, sollevato il principio femminile Nut con tutto il creato (le stelle impresse sul suo corpo) gli permette di ingoiare il Sole ogni sera e partorirlo ogni mattina per fecondare il principio maschile Geb, come nella rappresentazione canonica da noi pubblicata. Per quello che riusciamo a capire, il mondo avrebbe origine da una partenogenesi maschile, ma la sua esistenza sarebbe garantita da un principio femminile.

Passiamo alla Grecia. Sulla nascita ed evoluzione della mistificazione democratica abbiamo dedotto da Engels, e soprattutto da recenti sistemazioni storico-archeologiche, un processo che ci sembra verosimile anche se tutto da verificare e approfondire. La dissoluzione del mondo miceneo, il quale si era sviluppato sulla dissoluzione di quello minoico, lascia spazio a un periodo oscuro caratterizzato da scontri, distruzioni e ricostruzioni le cui cause sono variamente descritte. Fra le varie teorie noi per ovvii motivi abbiamo ritenuto più realistica quella di moti sociali in reazione alla fine delle antiche società caratterizzate dai noti centri di produzione e distribuzione ben testimoniati dalle tavolette micenee in "lineare b".

Abbiamo dunque la seguente scala: a) periodo minoico, che si sviluppa dalla sua preistoria prettamente comunista al periodo cosiddetto palaziale: una società che, in piccolo, ha delle analogie con quella egizia, quindi con robusti retaggi comunistici; b) periodo miceneo, caratterizzato da rapporti tardo-comunistici, con un sovrano (wanax), di cui non sappiamo quasi nulla salvo che era un riferimento per la comunità e che era affiancato da non ben definiti compagni (hequetai) quasi fosse un primus inter pares, situazione non unica, accertata ad esempio a Ebla, in Siria; c) periodo oscuro in cui si sviluppa la forma sociale successiva; d) periodo greco arcaico in cui si fondono vari dialetti, nasce la lingua greca e si tende alla polis; e) periodo greco classico in cui si sviluppa la democrazia.

Atene è il paradigma dello sviluppo greco: nel periodo miceneo era una piccola città di cui abbiamo pochi resti archeologici. Abbiamo fatto l'ipotesi che sia stata coinvolta nell'ondata di rivolte, attestate in molte civiltà dell'epoca, contro l'affossamento della società antica e l'avvento di poteri centrali non più comunistici. Dopo aver subìto distruzioni, Atene rinasce e viene amministrata da una monarchia. Intorno al XIII secolo a.C. il mitico Teseo (in tutto si contano una quindicina di re) raggruppa le comunità sparse dell'Attica le quali formeranno la base della futura polis. Verso la fine del VII secolo a.C. la monarchia scompare e sorge una forma di repubblica aristocratica retta da nove arconti, un'assemblea di oligarchi (aeropago) e un'assemblea di popolo dalle funzioni e poteri limitati. La conflittualità sociale rimane però alta, per cui la società si evolve cercando di smussarla, sia attraverso i celebri legislatori, sia attraverso forme di tirannia, più o meno benevola. Il risultato finale è un ricorso alle antiche tradizioni comunistiche di amministrazione centrale ma trasportate in ambiente ormai di classe, per il quale la proprietà è diventata essenziale. La mistificazione sarà portata al massimo grado e da allora la fusione di legge, votazioni e, quando serve, tirannia, rappresenta la miglior soluzione per le classi dominanti. Come dice Engels, manca ormai soltanto lo Stato.

Rivista n. 29