Mali, una piccolissima guerra?

"È ormai chiaro che se ci fosse la terza guerra – od anche in funzione di quella forma cronica di conflitto che potrebbe sostituirla – in ogni paese del mondo agiranno due gruppi opposti che reciprocamente si imputeranno il crimine di tradimento alla civiltà, alla democrazia e soprattutto alla pace" (Neutralità, 1949).

A un anno da quando con scontri locali è incominciata, nel marzo 2012, della guerra in Mali non parla più nessuno, come se i problemi che l'avevano scatenata fossero risolti. Parigi ha dichiarato che il corpo di spedizione francese ha compiuto la sua missione occupando il Nord ribelle e ha confermato che si ritirerà entro aprile a bonifica conclusa. La tensione internazionale provocata dall'esplosione di fondamentalismo islamico e dai proclami secessionisti dei Tuareg sembra scomparsa. Normalizzata la situazione dopo il colpo di stato e la spedizione militare, l'attuale governo è strettamente controllato dalla Francia e dagli Stati Uniti, coadiuvati, si fa per dire, da truppe africane sotto la bandiera dell'ONU.

L'incursione militare francese nel Mali, ha mostrato ancora una volta la natura della guerra imperialista moderna da noi analizzata più volte sulla rivista. Un "piccolo" focolaio di guerra in un'area desertica, che i più considerano marginale rispetto ai grandi punti storici di frizione, si è immediatamente collegato alla situazione dei paesi limitrofi, la Libia prima degli altri, toccando l'Algeria e ovviamente gli interessi dei grandi paesi imperialistici. Tutto ciò nel contesto sociale che ha visto l'intero Nordafrica e buona parte del Medio Oriente incendiato dalle proteste di piazza e dagli scioperi. Il filo conduttore che collega questi avvenimenti è la condizione di instabilità sociale e politica permanente del capitalismo. La borghesia si dimostra ormai incapace di far fronte a situazioni di caos tanto ripetute da diventare un fatto permanente. Quella francese, ad esempio, ricorre alle armi non più per consolidare la propria presenza e le proprie attività economiche in un'area sulla quale aveva un controllo incontrastato, ma per porre rimedio a una inesorabile corrosione di questo controllo.

L'anello Libico di una catena complessa

D'altra parte, con 2.700 soldati, compresi quelli della logistica, equipaggiati con armamento leggero e protetti da una limitata copertura aerea, non si poteva certo cambiare radicalmente una situazione che, come vedremo anche più avanti, è difficilmente gestibile. In seguito la forza di spedizione è stata portata a 4.000 effettivi, dotati di mezzi blindati, di migliore copertura aerea e di elicotteri. La secessione maliana nordista riguardava un territorio vasto quasi tre volte l'Italia, con un milione e mezzo di abitanti, ed era opera di "forze" armate che all'inizio assommavano a circa 10.000 uomini, di cui circa un terzo addestrati al combattimento. L'impaccio operativo dei francesi, che pure hanno incalzato i ribelli obbligandoli a sloggiare, non è legato solo ai fatti del Mali: è in gioco la loro presenza in tutta l'Africa, a cominciare naturalmente dalle zone d'influenza ereditate dall'epoca coloniale. Ciò è risultato evidente in Libia, che pure non è una ex colonia francese, dove l'intervento militare è avvenuto con gran rumore patriottico. Alla fine la liquidazione del regime gheddafiano è stata opera dei soliti americani, ed è legittimo sospettare che siano stati questi ultimi a usare i francesi e non viceversa. Ad ogni modo, come avevamo anticipato, quella guerra, dando vita ad uno smembramento della Libia fra le milizie vittoriose, ha creato un vuoto politico e militare in tutta la regione, vuoto che ha favorito il ritorno delle bande armate tuareg nel nord del Mali, rifornitesi di armi dopo aver saccheggiato, incontrastate, gli arsenali militari libici. In tale situazione, ci voleva poco a provocare il collasso dello "stato" maliano, con il risultato, voluto o meno, di favorire l'avanzata dei movimenti radicali islamici, che già di per sé erano ben organizzati e armati di tutto punto. C'è un nesso molto stretto, dunque, fra lo smembramento della Libia e il rattoppo dello smembrato Mali.

La guerra in Libia ha mostrato chiaramente le concatenazioni economiche, sociali e politiche fra gli stati. Esse sono così profonde e inestricabili sul piano dei rapporti internazionali, che gli andamenti dei conflitti diventano caotici e imprevedibili. La Francia, spingendo il proprio volontarismo fino ad anticipare unilateralmente le operazioni militari in Libia, si ritrova ad aver attratto gli Stati Uniti sia in Libia che in Mali, e probabilmente in altri paesi del Sahel, cioè proprio dove non avrebbe voluto ingerenze. Questa situazione mostra palesemente come ogni contrasto locale rimandi ad uno successivo regionale, il quale, a sua volta, rimanda ad una dimensione internazionale. Qualcosa non funziona più nell'esercizio della violenza militare, se produce conflitti che aumentano il caos invece di ridurlo. Qualcosa si è inceppato nella catena del controllo imperialistico se singoli anelli, come quello libico, vengono semplicemente distrutti dai bombardamenti e lasciati poi a sé stessi, cioè in preda a signori della guerra locali, in un caos totale in cui possono riaccendersi conflitti in ogni momento.

La morte di Gheddafi e il crollo del suo regime hanno dunque aperto nuovi scenari. L'influenza cinese viene almeno temporaneamente ridimensionata, mentre l'Occidente fa di tutto per riconquistare posizioni; per quanto riguarda la Francia, almeno nell'Africa occidentale. La fragile struttura degli stati africani, ereditata dai paesi colonialisti, viene letteralmente macinata dal grande capitale internazionale, sempre più insofferente verso confini e balzelli nazionali. Questo sfaldamento comporta da un lato lo scatenarsi di tutte le contrapposizione etniche presenti all'interno di ogni singolo stato, dall'altro un forte sviluppo dell'integralismo islamico, che è sempre più un fatto sociale legato alla crisi mondiale piuttosto che un semplice revival religioso. Il Mali è un esempio di territorio in cui convivono varie etnie con lingue e culture differenti, situazione complicata e aggravata dal fatto che alcune di queste non solo denunciano i confini arbitrari tracciati dai paesi colonialisti, ma non riconoscono alcun confine. I tuareg sono un esempio di etnia transnazionale. Di origine berbera, sono presenti in Mali, Niger, Algeria, Libia, Ciad e Burkina Faso. Mai sedentarizzati completamente, nonostante le varie campagne apposite, sono quasi perennemente in rivolta, a diversi gradi di intensità, da quando s'è espanso il colonialismo. In Mali vi sono state rivolte tuareg recenti, nel 1990 e nel 2005.

La liquidazione del Mali in quanto stato

Per il momento la "piccola guerra" ha prodotto la liquidazione dello stato del Mali, che di fatto non esiste più. Il suo esercito, nonostante gli Stati Uniti avessero versato negli anni scorsi 500 milioni di dollari per addestrarlo, si è annichilito alle prime fucilate. Il colpo di stato, architettato per salvare il salvabile, si è mostrato del tutto inconcludente. Per queste ragioni la Francia è stata costretta ad intervenire direttamente per via terra, con corpi speciali abbondantemente "mediatizzati", applauditi al loro ingresso nei villaggi con entusiasmo sospetto. Sembra che l'intervento, con soli cinque caduti, abbia ottenuto l'appoggio anche della maggioranza dei francesi. Che però è stata raggirata: l'azione militare non potrà concludersi per il fatto che è stato ripristinato l'ordine (e anche questo sembra dubbio), ma dovrà continuare contro le truppe, islamiche o no, ritiratesi in buon ordine e con tutte le armi nei paesi vicini o in luoghi protetti dalla vastità del deserto, pronte a ritornare. Si tratta di situazioni classiche, determinate, che producono sempre gli stessi schemi: combattenti in campo per problemi locali, potenti tutori che li usano in guerre per procura (proxi war), allargamento del conflitto (escalation) e ritirata dei guerriglieri oltre confine (santuari) da dove lanciare attacchi in coordinamento con i partigiani delle città.

In mancanza di un controllo su di un governo che a sua volta non è in grado di controllare il "proprio" territorio, il disfacimento del Mali è congeniale agli interessi dei maggiori paesi imperialistici. A parte gli intrecci fra la politica locale e gli interessi geopolitici contrastanti fra i suddetti paesi, nel deserto ci sono risorse minerarie consistenti. In tutta la fascia desertica dal Sudan al Mali sono concentrati ampi giacimenti di petrolio, gas, uranio, fosfati e minerali rari necessari per le produzioni di alto livello tecnologico. In particolare nel Mali si concentrano uranio e gas, ma le prospezioni in corso dall'Atlantico al Mar Rosso, quindi in un'area immensa che comprende tutto il Nordafrica, tutto il Sahara e tutto il Sahel, rivelano che ci si aspetta di trovare nuovi giacimenti. Da almeno un decennio la Cina si è imposta nei territori africani, e quindi anche nell'area in questione, per lo sfruttamento delle materie prime strategiche, al pari di altre "tigri asiatiche" (Malesia in testa). Per questo motivo, di fronte all'alleanza tra le compagnie minerarie e petrolifere cinesi e qualche borghesia nazionale dell'area con aspirazioni di crescita, si è innescata una reazione da parte delle potenze occidentali.

Mentre era in corso la dissoluzione dello stato maliano, parte della guerriglia si era organizzata come Movimento Nazionale di Liberazione dell'Azawad (MNLA), organizzazione laica che raccoglieva Tuareg, ex mercenari dell'esercito libico, disertori dell'esercito maliano, frazioni di altre etnie ribelli (Songara, Poel). Il precipitare della crisi politica in Mali (tentativo di colpo di stato, fuga di un presidente, ritorno di un altro, disgregazione dell'esercito), aveva permesso al MNLA, nell'aprile del 2012, di dichiarare la secessione dal Mali e la costituzione di un nuovo stato. Anche se a livello internazionale nessuno l'aveva riconosciuto, il territorio "liberato" era stato rapidamente messo sotto controllo, mentre si erano rafforzate le milizie islamiche, indifferenti rispetto alle forme politiche dello stato nazionale, orientate all'applicazione della sharia e relativamente unite solo nella guerra santa contro l'Occidente. L'affermazione dei gruppi armati islamici non è stato assolutamente un fulmine a ciel sereno come s'è voluto far credere: in tutta l'Africa l'integralismo islamico è radicato e piuttosto esteso.

Implicazioni geopolitiche su vasta scala

Tutta la parte meridionale del Sahara, la fascia geografica che attraversa l'Africa da Est a Ovest e che collega l'Africa nera all'Africa bianca da Sud a Nord, è dunque un'autentica polveriera sociale, sempre sul punto di infiammarsi. E l'intervento francese amplifica le spinte nazionaliste e fondamentaliste. In quella vastissima area, la guerra è già una realtà endemica e incontrollabile, ma, fino ad ora, aveva solo indirettamente coinvolto i paesi occidentali. Se essa una volta aveva un inizio e una fine, e seguiva un percorso ciclico di cui si potevano ricostruire precisamente le tappe salienti, oggi ha assunto caratteri caotici e si è imposta anche nelle dottrine militari come "infinita". L'Afghanistan è un esempio, e non a caso in ambiente francese è nato il neologismo Africanistan. Qualche vaga analogia c'è: dal collasso dello stato che l'URSS appoggiava al dominio talebano, e infine alla guerra condotta dalle potenze, la "guerra senza limiti" elimina i fronzoli ideologici e mostra la vera dinamica militare moderna. L'Afghanistan è in guerra dal 1979 e la potentissima macchina bellica americana e alleata non riesce a vincerla o farla terminare. Ma l'analogia si ferma qui. L'area di cui stiamo parlando, e in cui il Mali è al momento protagonista, è vasta due volte l'Europa, e il caos potenziale è conseguente.

 Proprio l'Afghanistan, sul cui territorio si combatte con soldati provenienti da mezzo mondo, dimostra che è sempre più difficile limitare la guerra. Gli scenari si moltiplicano e si incominciano a sentire definizioni come "La piccola guerra mondiale", presente in un documento dei cristiani del Mali. O "Guerra mondiale in Siria" su una copertina di Limes. In Mali l'Algeria è stata coinvolta e ha subito risposto militarmente. Una decina di paesi europei, fra cui l'Italia, ha solidarizzato con i francesi offrendo collaborazione militare. È chiaro che i tuareg dell'area sono mobilitati, sia come combattenti che come mediatori: essendo nomadi o comunque avendo ancora la tradizione dei collegamenti a grandissime distanze, possono alimentare l'incendio coinvolgendo i paesi nei quali sono presenti: Mali, Algeria, Libia, Mauritania, Chad e probabilmente anche Sahara Occidentale.

Per il momento il Niger non ha avuto l'onore delle cronache, ma in questo paese sono organizzati e armati da tempo guerriglieri tuareg che rivendicano l'autodeterminazione nazionale (paradossalmente, come abbiamo visto, senza riconoscere confini, dato che sono nomadi). Se l'ambiguo movimento attuale si salda con quello storico, la situazione per i "controllori" europei potrebbe diventare ipercritica. E quando truppe d'invasione iniziano ad avere perdite pesanti su un territorio troppo vasto, di solito procedono ad una escalation di tipo vietnamita oppure se ne vanno. Se diventa evidente che il rapporto costi/risultati è negativo e minaccia di peggiorare, la guerra può proseguire ancora per inerzia, ma deve poi necessariamente produrre una exit strategy. E la parola "costi", con i tempi che corrono, va presa alla lettera, nel senso di "ammontare in denaro".

E allora chi ferma i nomadi? Popolazioni mobili berbere e arabe s'intrecciano da millenni dall'Atlantico al Sinai, estremamente disperse ma in grado di aggregarsi velocemente come ha dimostrato la tradizione tribale messa a frutto da Lawrence d'Arabia. Una tale dispersione degli obiettivi è un problema dal punto di vista militare, dato che scombussola il rapporto immediato costo/beneficio. Non ha senso spedire un missile cruise per eliminare un piccolo accampamento, sempre che lo si possa individuare, nascosto in un anfratto.

Non sappiamo quale sia il tasso di copertura Internet o della rete cellulare nel Sahara, ma se si unisce la tradizione nomade-tribale con le tecnologie di rete, per gli ex colonialisti sarà un incubo, come dimostra l'assalto assolutamente imprevisto alla base algerina di In Amenas. Tutte le basi petrolifere nel deserto sono estremamente vulnerabili: le più grandi sono nuclei pseudo-urbani di casette prefabbricate circondate da impianti giganteschi del tutto indifesi. Intorno ci sono migliaia di chilometri quadrati di deserto che i tuareg conoscono metro per metro e che chiunque altro non sa affrontare senza una logistica pesantissima. La quale richiede basi militari protette, dato che il deserto non è affatto deserto, è pieno di vita adattata. Durante il periodo coloniale i tuareg, armati di fucili a pietra focaia, avevano già dato filo da torcere ai francesi obbligandoli a chiudersi nei loro fortini, figuriamoci oggi. Si è aperto un altro buco nella pretesa stabilità del sistema, che precipita sempre più nel niente affatto teorico "stato di guerra permanente".

In Mali, anche dopo l'intervento francese, non c'è stato alcun tentativo di riorganizzazione nazionale. Continuano gli effetti della carestia dovuta ad anni di siccità. La crisi internazionale non influisce sulle attività delle multinazionali minerarie, ma blocca quei pochi capitali da investimento che potrebbero essere utilizzati in loco. Le bande militari formate dagli ex mercenari dell'esercito libico e rifluite nei paesi di origine sono di per sé un elemento destabilizzante anche quando non etichettate come "terrorismo islamico". La fame e la disperazione rendono i cittadini inermi di fronte agli armati e si formano sacche di reclutamento per canali di traffico illegale.

Il Capitale vuole essere libero da ogni legge

Le merci più remunerative diventano le armi e la droga, seguite dappresso dal commercio di umani, vale a dire di emigranti clandestini e di sequestrati. Per quanto riguarda la droga, da un terzo alla metà della cocaina che arriva in Europa proviene dal Sudamerica con un vero e proprio ponte aereo passando dal Sahel. Ce n'è abbastanza per fare del Mali un centro appetibile non tanto alla "criminalità organizzata" quanto ai capitali in cerca di valorizzazione. Come succede in alcune zone franche euroasiatiche e in Afghanistan con l'oppio. Così i soldati dell'ennesima guerra "umanitaria" si ritrovano fra due fuochi, cioè a fare i conti con tonnellate di eroina provenienti dall'Asia e più tonnellate ancora di cocaina provenienti dalle Americhe. L'effetto è devastante, millenni di consuetudini sono spazzati via. Un tempo l'accordo fra esponenti di famiglie o tribù nomadi per il passaggio di carovane o armenti sul proprio territorio avveniva tra maggiorenti accovacciati nella sabbia davanti a un tè forte. Oggi l'accordo per il transito di cocaina e armi avviene tra bande armate che si guardano in cagnesco puntando i fucili mitragliatori. Il compenso era un tempo il passaggio di qualche capra o cammello sotto forma di dono, oggi è un bonifico internazionale su un conto corrente alle Cayman eseguito con smartphone satellitare dopo un accordo con gli addetti al riciclaggio. Pecunia non olet: il capitale, uscito dalla lavanderia, va tranquillamente a formare i cosiddetti mercati, per i quali si eleggono e abbattono governi o si muovono eserciti.

Mentre sorgeranno sempre più barriere diverse dai confini nazionali, in spregio totale a stati sempre più virtuali, con tutta naturalezza gli alti comandi continueranno a diffondere bollettini sull'esportazione di pace, democrazia e (futuro) benessere, mentre i servizi segreti faranno il lavoro sporco, infiltrandosi nei vari movimenti per orientarli, come hanno sempre fatto, ad agire a favore degli interessi di stato, non importa quali. Da questo punto di vista è emblematica l'attività dei servizi algerini (DIS) in combutta con quelli francesi e americani per sabotare le rivolte dei tuareg.

Non si sa nulla sull'attività spionistico-militare della Cina nel Sahel, ma l'attività speculare degli Stati Uniti indica che la silenziosa aggressività cinese preoccupa molto. La guerra in Libia ha portato alla luce una quantità spropositata di "operatori", 36.000 persone che Pechino ha fatto evacuare affittando in fretta e furia navi ed aerei. La Francia non poteva rimanere passiva di fronte allo sfascio della propria rete e progettava un intervento militare in Mali prima che la situazione precipitasse con il colpo di stato e con la secessione del Nord. Sarebbe stata certo una "guerra preventiva". Dal punto di vista militare la decisione era ineccepibile, come del resto aveva dichiarato il ministro della Difesa francese. In effetti, di fronte a una spedizione militare di potenza sufficiente, decisa e disciplinata, nessun paese del Sahel avrebbe potuto rispondere adeguatamente; mentre le organizzazioni armate islamiche si sarebbero sicuramente ritirate, come in effetti hanno fatto anche quando, avuto il tempo sufficiente, si sono rafforzate e meglio organizzate, grazie all'apporto di denaro e combattenti stranieri.

Particolarmente delicata, aveva detto il ministro, era la situazione di Mauritania, Nigeria e Niger, già afflitti da scontri armati interni. A questi paesi il ministro avrebbe potuto aggiungere il Sudan, nel quale è in corso una guerra civile. A parte l'affossata grandeur, un paese come la Francia non poteva aspettare che si generalizzasse la crisi maliana ad altri paesi, soprattutto guardando alla terrificante mappa della zona operativa di AQIM (Al-Qaeda in the Islamic Maghreb) e affiliati: mappa in espansione, che comprende già l'intero territorio di Mauritania e Niger, due terzi del Mali, metà Algeria e Nigeria (qui AQIM è collegato con il movimento jihadista Boko Haram, che ha applicato la Sahria nelle zone controllate), un quinto del Ciad e la fascia libica al confine con l'Algeria.

Dinamiche fondamentaliste

La "piccola guerra del Mali" incomincia dunque ad essere un fenomeno di portata continentale. Ai paesi sopra elencati si può aggiungere l'Egitto, sia perché ha un movimento islamico al governo, sia perché il deserto del Sinai è diventato anch'esso un crocevia incontrollato di armi, droga, merci di contrabbando di qualunque tipo. Fra il Sudan e la Somalia, il cui territorio è da tempo ormai sottratto al controllo del governo e ridotto a non-stato in mano alle scuole islamiche, interrompe la catena "islamica" dall'Atlantico all'Oceano Indiano, solo l'Etiopia. E intanto i vari servizi di intelligence segnalano il consueto fenomeno jihadista: nel Sahel confluiscono volontari islamici da molti paesi, anche non africani, per contribuire, oltre che alla guerra, allo sviluppo di reti sociali. Scuole, centri di assistenza, catene di solidarietà per profughi, malati e poveri, sono infatti un veicolo potente del fondamentalismo. Lo alimenta un fiume di dollari proveniente dalle monarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa, dai Fratelli Musulmani e da privati musulmani facoltosi sparsi per il mondo.

Sulla base di questa dinamica di espansione si affermano, come ulteriore passaggio, le organizzazioni armate che l'approssimazione giornalistica raduna sotto l'etichetta di Al-Qaeda, sotto suggerimento degli apparati propagandistici degli stati. Estensione e facilità di reclutamento si spiegano in rapporto alle condizioni di estrema miseria in cui vive la gran parte delle popolazioni dei paesi in questione. Tra questi, il Mali è in una situazione paradigmatica che occorre sottolineare. Sulla base del disfacimento dello stato nazionale e dell'aumento della concorrenza internazionale (che in quei paesi si traduce in violenza militare dispiegata), si producono dei veri e propri "vuoti di potere" in cui si incuneano forme di governo del territorio che nulla hanno a che fare con lo stato nazionale ma che si riallacciano al concetto di Umma, cioè all'unità di tutti i musulmani più che a un paese specifico. La popolazione del Mali e quella degli altri paesi del Sahel, di tarda islamizzazione, e i tuareg, originari delle regioni berbere, che sono stati gli ultimi ad abbracciare il Corano, hanno conservato un minimo di tradizioni locali, pre-islamiche. In una situazione del genere si rafforza la spinta del fondamentalismo a riportare la società alla purezza originaria (non è così, ma l'importante è che si creda così). Di qui i fenomeni di "fanatismo" denunciati dalla stampa nostrana, distruzione di tombe, roghi di testi coranici trascritti in linguaggio diverso dall'arabo, ecc.

Nella primavera del 2012 il Dipartimento di Stato americano aveva richiesto a una commissione dell'antiterrorismo una relazione sulla situazione dell'Africa Occidentale, in particolare su quanto stava succedendo in Mali. Il relatore aveva giustamente allargato l'orizzonte:

"Una serie di fattori hanno contribuito negli ultimi anni alla formazione di nuove e preoccupanti opportunità per le organizzazioni terroristiche, in particolare nel Sahel, in Africa occidentale e nel Corno d'Africa. Tra queste, la sollevazione associata al crollo dell'ex regime libico, che si è riflessa attraverso le frontiere e ha profondamente influenzato le aree ad occidente e a oriente della Libia. L'allentato controllo delle armi libiche e il ritorno dei profughi tra cui molti ex mercenari ai loro paesi d'origine in tutto il Sahel, ha notevolmente aumentato le pressioni interne affrontate da questi paesi. La ribellione attuale dei tuareg e il successivo colpo di stato in Mali sono stati un effetto di questi eventi, e hanno provocato un vuoto nel nord del paese. Ciò ha fornito ad AQIM una maggiore libertà di movimento. Il gruppo ha anche beneficiato di una aumentata capacità di raccogliere fondi".

Lo schema è chiaro: instabilità e disordine sociale producono situazioni fuori controllo, per cui il vuoto politico e istituzionale viene riempito da chi in quel momento è pronto per farlo. Ma in Mali non è tutto successo dall'oggi al domani: la pressione islamica si manifesta da decenni e non solo nel Sahel. Con una presenza apparentemente limitata alla pratica religiosa, l'Arabia Saudita e le monarchie del Golfo hanno sviluppato una rete che potenzialmente si estende dall'Asia centrale fino alle coste atlantiche dell'Africa, installandosi in territori di estrema importanza strategica per la ricchezza del loro sottosuolo. Il rapporto degli Stati Uniti con questa realtà è dualistico, per non dire schizofrenico: da un lato essi appoggiano o tollerano, a seconda dei casi, l'integralismo sunnita come strumento per contenere la conflittualità sociale e assicurare comunque forme di controllo (Egitto, Siria, Iraq, Pakistan, ecc.); dall'altra sono in guerra per riprendere il controllo perduto (Afghanistan, Mali, Somalia, Algeria, ecc.).

La relazione tra il collasso dello stato nazionale, le forme in cui si manifesta lo scontro militare tra potenze imperialiste e l'ingigantirsi dell'influenza di sovrastrutture ideologiche o religiose che rappresentano un rifiuto della situazione in cui si è costretti a vivere, è la materiale e concreta manifestazione di un modo di produzione ultramaturo, decadente, incapace di procedere se non a tentoni nel buio totale.

In tale contesto, la guerra sembra non essere affatto terminata e ampie parti del territorio maliano sfuggono ancora al controllo. Nello scorso mese di marzo i ribelli, che sembravano sconfitti e dispersi nelle loro basi nascoste, hanno attaccato Gao, la seconda città per importanza dopo la capitale Bamako, un tempo importante crocevia carovaniero. I ribelli sono stati respinti in sole due ore dall'esercito regolare, ma la BBC riporta che i combattimenti sono stati ferocissimi. L'attacco non è stato frontale ma preparato con una lenta infiltrazione attraverso i normali posti di blocco. Data la dislocazione delle truppe francesi che hanno (dicono) occupato il nord secessionista, si è trattato chiaramente di un attacco alle spalle. Ciò significa che l'insediamento delle rappresentanze statali nelle zone bonificate è in parte propaganda, e ciò sarebbe provato da sporadiche azioni armate in altre località e dai primi attentati realizzati da militanti suicidi. Nella città di Kidal, a nord di Gao, verso la frontiera algerina, le truppe regolari del governo e quelle francesi sono asserragliate in luoghi protetti per evitare attentati ed escono solo per le operazioni programmate, mentre le strade sono pattugliate dalle milizie del MNLA in una simbiosi armata che è stata immediatamente identificata come nemica da tutte le componenti jihadiste.

Intanto, a riprova dell'internazionalizzazione del conflitto, medici al seguito del corpo di spedizione francese prelevano campioni biologici dai caduti e dai prigionieri nemici per comporre la mappa del DNA e stabilire la provenienza dei combattenti.

Letture consigliate

  • Limes 5/2012, Fronte del Sahara.
  • Limes 2/2013, Guerra mondiale in Siria.
  • Benjamin Daniel, LRA, BOKO Haram, Al-Shabaab, AQIM and Other Sources of Instability in Africa. The House Foreign Affairs Committee, 25 aprile 2012.
  • Zoubir H. Yahia, The United States and Maghreb-Sahel Security, International Affairs, 85: 5/2009.

Rivista n. 33