Il movimento universale per l'unità della conoscenza

"La storia [dell'uomo] è una parte reale della storia naturale, della natura che diventa uomo. La scienza naturale sussumerà sotto di sé la scienza dell'uomo, allo stesso modo che la scienza dell'uomo sussumerà la scienza della natura: allora ci sarà una sola scienza" (Marx, 1844).

"Dicono che gli eventi futuri gettano la loro ombra sui tempi che li precedono. Non potrebbe essere che qualche volta gettino la loro luce sui tempi che li precedono?" (Ada Augusta Byron, 1851).

"È un fatto, o me lo sono sognato, che per mez­zo dell'elettricità il mondo della materia è di­venuto un gran fascio di nervi che vibra per centinaia e centinaia di miglia in un battiba­leno? O meglio, tutto il globo è un'immensa testa, un cervello, istinto e intelligenza insie­me! Oppure potremmo dire che è esso stesso pensiero, e non la materia che noi crediamo?" (Nathaniel Hawthorne, 1851).

Questa è una delle nostre riunioni redazionali, registrata e trascritta. Sono stati inseriti in vari punti alcuni temi trattati nelle domande e risposte scaturite al termine dell'esposizione. La parte sul sincretismo rinascimentale in origine era assai più concisa: sviluppata in una successiva riunione sull'arte come linguaggio delle varie forme sociali, è qui riportata.

Prima parte

In un mondo che tende all'esasperata specializzazione, effetto collaterale della divisione sociale del lavoro, era inevitabile che ne nascesse la negazione. Cinquant'anni fa partiva dall'Inghilterra una denuncia del dualismo fra cultura umanistica e cultura scientifica; oggi parte dagli Stati Uniti la proposta di unificare le due culture in una sola.

Tale proposta è diventata quasi un movimento sociale. Razionalista, sincretico, ateo militante, non ha nulla a che fare con l'approccio "interdisciplinare" che si verifica quando branche separate della conoscenza "si parlano" in particolari occasioni. Non si prefigge di affiancare le conoscenze attuali ma di sostituirle con una "terza" cultura. D'altra parte, essendo stato "fondato", non è un movimento spontaneo, anche se, ovviamente, è il frutto di una spinta reale verso la convergenza di conoscenze separate in un tutto unico. Paradossalmente, finché la separatezza delle "culture" non sarà definitivamente sconfitta, la Terza cultura rimarrà a sua volta, separata ed esclusa dalle altre due. È normale: nel corso dell'evoluzione compare sempre un mutante che, prima di estinguersi o di espandersi, è un diverso, in minoranza per definizione. E in effetti, per il momento, il mutante di cui ci occupiamo, non è che un hopeful monster, un mostriciattolo promettente. Nato dalle esigenze materiali che sorgono durante i procedimenti scientifici, s'è alimentato, come vedremo, con il volgarissimo bisogno di far soldi entro una delle varie nicchie del capitalismo. È la versione moderna di spinte che sono state sempre presenti nella storia e non è l'unica manifestazione di questo tipo.

Quelle che seguono sono, al solito, riflessioni "sul filo del tempo" (Ieri-Oggi-Domani) derivate dalla teoria marxiana della conoscenza così come fu affrontata dalla nostra corrente storica. Procedendo con il solito metodo degli "argomenti concatenati", vedremo che tali riflessioni si collegano all'influsso della rivoluzione in corso sul "pensiero" degli uomini, i quali sono costretti a scendere in campo sul terreno rivoluzionario anche se professano idee conservatrici. Si tratta spesso di quei processi che la nostra corrente ha chiamato "capitolazioni ideologiche della borghesia di fronte al comunismo". Qui, come s'è detto, ne analizzeremo un aspetto clamoroso.

L'unificazione delle conoscenze è nel programma rivoluzionario definito da Marx. La natura manifesta delle discontinuità solo come risultato di processi, dinamiche, trasformazioni di carattere continuo che portano ad eventi discontinui, come lo scoccare di un fulmine, l'esplodere di un vulcano, il rovinare di una valanga. La natura ci presenta dunque alcune transizioni di fase locali entro un modello globale. L'universo è un insieme continuo. La discontinuità che noi vediamo tra oggetto e oggetto è frutto della nostra capacità di osservazione e discriminazione, ma il nostro linguaggio deve tener conto dell'unità generale: l'insieme dei fili d'erba, contigui ma non continui, lo chiamiamo "prato", quello degli alberi "foresta", quello dei piccoli granelli di pietra "sabbia" e così via. Da quando l'uomo ha iniziato a conoscere la natura, sviluppando un linguaggio per descriverla, si è prodotto, all'interno della natura stessa, qualcosa che prima non c'era: la catalogazione delle cose per analogie e differenze, la separazione, a livello linguistico e concettuale, tra gli oggetti dell'osservazione umana. Un individuo, per trasmettere ad altri l'informazione che ricava dal mondo elaborandola, non potrà fare a meno di mettere in sequenza soggetti ben definiti e predicati che ne precisano le qualità.

Verso la Grande Unificazione

La prima dicotomia è dunque nella struttura del linguaggio, anche se l'uomo ha iniziato molto tardi, rispetto alla sua storia di milioni di anni, a fissarla in "filosofie", cioè in particolari concezioni del mondo. Di fatto, nella storia della conoscenza umana, c'è sempre stata una lotta fra separazione e unità, anche se è solo negli ultimi secoli che il fenomeno si è accentuato, diventando ideologia.

Marx annota che in fondo l'attività dell'uomo non è altro che movimento interno alla natura, e la produzione non è altro che trasformazione di materia tramite lavoro. Nel noto passo dei Manoscritti in cui prevede l'unificazione di tutte le conoscenze, traccia il modello che sarà alla base di tutta la sua costruzione scientifica: l'uomo è la sua industria; l'alienazione da essa, tipica nel capitalismo, è non-umana; la nuova umanità sarà ricomposizione dell'uomo-industria, la vera antropologia. Nell'Ideologia tedesca individuerà, con Engels, la funzione del linguaggio: trasmettendo informazione finalizzata fra gli uomini, esso è la loro coscienza (quindi un mezzo di produzione, come il disegno di un progetto, un ordine, una procedura). Eccoci di nuovo di fronte a una unificazione in lotta contro la separazione.

Al 1844-45, il ragionamento di Marx è complesso e il suo modo di esprimersi è quello a volte un po' oscuro di appunti scritti al fine di chiarire a sé stesso la struttura-base del sistema che stava per essere definito. Ma è assolutamente inequivocabile. Nel paragrafo che segue riportiamo quello che è un vero e proprio manifesto programmatico. Lo citiamo senza virgolette perché lo abbiamo trascritto in linguaggio un po' semplificato rispetto all'originale, ma conservandone fedelmente il contenuto.

Nell'industria così come la conosciamo abbiamo la materializzazione sintetica delle capacità umane sotto forma di oggetti utili, benché estraniati, cioè tolti all'uomo che fisicamente li produce. L'industria odierna può essere considerata sia come parte del movimento universale della natura, sia come parte specificamente capitalistica dell'industria in quanto tale, dato che ogni attività umana è sempre stata lavoro e quindi industria. Una scienza che sia estranea all'industria, cioè al lavoro specificamente umano (diverso da quello degli animali, per quanto organizzati), è non-scienza. L'astrarre sdegnosamente da ciò che è specificamente umano è non-umano, è attinente al regno della necessità, non a quello della libertà. Senza la coscienza di che cosa sia l'industria universale rimane l'industria borghese, rimangono cioè i bisogni non-umani che essa soddisfa e per cui si è sviluppata. La scienza ha permesso un'attività produttiva enorme e si è allargata a campi sempre più vasti della natura, mentre la filosofia moderna s'è dimostrata estranea sia alla produzione che alla natura. Di conseguenza, la scienza si è resa estranea alla filosofia. Tutte le volte che la produzione e l'industria hanno fatto sorgere il bisogno di unire scienza a filosofia, quest'ultima ha risposto con fantasticherie: se a volte capiva la necessità di questa unione, non era in grado di trasformarla in conoscenza della realtà.

Lo stesso dicasi di branche come la psicologia o la storiografia: non possono definirsi scienza se non tengono conto dell'industria, cioè della specifica attività dell'essere umano, quella che fra l'altro impegna quasi tutta la sua esistenza reale. A dispetto di questa situazione la scienza, tramite l'industria, si è impadronita della vita dell'uomo, l'ha rivoluzionata, ha gettato le basi della sua emancipazione pur contribuendo nell'immediato alla sua completa disumanizzazione. L'industria è il rapporto storico, reale, dell'uomo con la natura, e la scienza è il suo linguaggio. Perciò se essa industria venisse finalmente riconosciuta come la vera essenza umana, sarebbe chiarito il processo che all'interno della natura porta all'uomo e che dall'uomo porta alla conoscenza della natura. Il risultato sarebbe un superamento del materialismo volgare anche da parte della scienza stessa, la quale diventerebbe davvero la base della conoscenza umana. Del resto produzione e scienza sono già la base, seppure estraniata, della vita umana. Per cui affermare che la base della vita e la base della scienza sono cose diverse, è in via di principio una menzogna.

Riscritto questo passo assai noto, citiamone la conclusione riportando l'originale alla lettera:

"La natura che diviene storia dell'uomo, nell'atto di nascita della società umana, è la natura reale dell'uomo, onde la natura, quale diviene attraverso l'industria, se pure in forma estraniata, è la vera natura antropologica. La sensibilità deve costituire la base di ogni scienza. Questa è scienza reale soltanto se procede dalla sensibilità, nella sua duplice forma, tanto della coscienza sensibile quanto del bisogno sensibile: dunque soltanto se procede dalla natura. Tutta la storia è la storia della preparazione a che l'uomo diventi oggetto della coscienza sensibile, a che l'uomo in quanto tale diventi effettivo bisogno dell'uomo. La storia stessa è una parte reale della storia naturale, della natura che diventa uomo. La scienza naturale sussumerà in un secondo tempo sotto di sé la scienza dell'uomo, allo stesso modo che la scienza dell'uomo sussumerà la scienza della natura: allora ci sarà una sola scienza". (Manoscritti).

Qui i termini "sensibilità" e "sensibile" vanno intesi come capacità di ricevere informazione dai sensi. Più precisamente, dato il contesto in cui si tratta di reciprocità fra uomo e natura, vanno intesi col significato di "ricevere informazione dalla natura tramite i sensi e reagire di conseguenza" (Lalande). Marx cibernetico? Proprio così, e si scandalizzi chi non ci arriva.

Il sincretismo rinascimentale profondo

Arriveremo a trattare il tema centrale della tendenza contemporanea all'unificazione della conoscenza, passando attraverso l'esempio di un'epoca in cui non c'era bisogno di "unificarla" per il semplice fatto che essa non era scissa e, di conseguenza, si esprimeva con un linguaggio unitario. Teniamo presente che non possiamo qui ricorrere a molti esempi, ma che nell'epoca feudale, in quella antico-classica, in quella cosiddetta asiatica e in quella preistorica, non esisteva una "cultura" umanistica separata da quella scientifica. L'umanesimo quattrocentesco, culla del Rinascimento, non aveva ancora fatto il salto alla non-umanità borghese, alla scissione della conoscenza. Pur fornendo la base per la successiva separazione, pur mettendo l'uomo al centro dell'universo, non lo concepiva certo come individuo egoista e alienato, produttore di bisogni e di merci. Lo immaginava come un essere che aveva il compito di nobilitare la propria presenza nel mondo attraverso la comprensione della natura, la quale era come il libro finalmente aperto dell'opera divina. Verità e conoscenza non dovevano più derivare dal dogma o da un'autorità ma dalla ricerca in grado di svelare ciò che della natura era rimasto segreto. L'universalismo teocratico medioevale, che non concepiva uno Stato nazionale, veniva sostituito da una nuova interpretazione della società greco-romana, il cui paganesimo era assunto come simbologia entro il quadro politico e religioso delle Signorie e degli Stati urbani. In tale ambiente persisteva, trasformata, una conoscenza unitaria dell'universo che veniva difesa in molte occasioni attraverso opere paradigmatiche, veri e propri manifesti politici. Essa fu ancora recepita da alcuni illuministi enciclopedisti nel '700, ma fu presto soppiantata dalla incombente scienza della rivoluzione industriale.

A Roma negli ex appartamenti dei papi, vi sono vari affreschi di Raffaello. In una grande stanza, detta "della segnatura", studio privato e biblioteca di Giulio II, sono raffigurate scene di notevole importanza. Come si usava fino al tardo Rinascimento, i dipinti dovevano essere interpretati, dato che non tutti i significati erano espliciti. Oggi ci troviamo di fronte ad allegorie che i critici d'arte esperti spiegano facilmente, mentre di altre s'è perso il significato, e di altre ancora il significato è finito nella tomba con l'autore, dato che egli non lo rivelava nemmeno al committente. Fatta questa premessa, è possibile limitare le ipotesi all'indispensabile e leggere ciò che è chiaramente leggibile e interpretabile.

Per prima cosa, inquadriamo i tempi: il lavoro di affresco venne commissionato intorno al 1507 ai più grandi pittori dell'epoca cui fu affiancato, nel 1508, il giovane Raffaello. Poi, per ragioni che non conosciamo, Giulio II volle solo il pittore urbinate e le opere iniziate furono distrutte per essere sostituite da quelle che vediamo oggi. Sui motivi possiamo solo fare delle congetture. Uno di essi, ad esempio, può essere la crisi che la Chiesa stava attraversando, sia dal punto di vista della Fede che da quello politico-militare. Stava maturando uno sconvolgimento di portata europea, più che racconti servivano trionfi. Raffaello lavorò ai dipinti come li vediamo oggi dal 1508 al 1511. Nel 1510, se si fosse sporto dalla finestra, avrebbe visto Martin Lutero, in missione a Roma, inginocchiato sul sagrato di San Pietro, scandalizzato per la condotta dei preti e per l'ostentata ricchezza della Chiesa. Giulio II era un papa adeguato per una Chiesa del genere. Più capo di signoria che pastore di fedeli, guerriero che non disdegnava la mischia, uomo politico che non andava troppo per il sottile, colto umanista, aveva grandi progetti di rinnovamento in ogni campo. Ma morì nel 1514 prima di vederli completamente realizzati. Morto Giulio II, la Chiesa, sorda ai segnali che venivano dal suo interno, insistette nella mercificazione del rapporto con i fedeli, ad esempio offrendo indulgenze plenarie a chi avesse versato il suo contributo per l'edificazione della nuova basilica di San Pietro. Il riferimento alla basilica divenne poi secondario ma le indulgenze ebbero comunque un loro mercato. Nel 1517 l'indignato Lutero espose le sue Tesi scatenando forze sociali enormi. Egli di fatto reagì con spirito medioevale contro la Chiesa "capitalista" finendo per rappresentare invece una religiosità più consona proprio al capitalismo. Come la Riforma non iniziò con l'esposizioni delle Tesi luterane, così la Controriforma non aspettò il Concilio di Trento per glorificare la Chiesa. Gli uomini sancirono in ritardo ciò che già succedeva nella vita quotidiana. Giulio II era stato in un certo senso preveggente: in guerra con le maggiori potenze dell'epoca, aveva ordinato la distruzione di opere che presumibilmente raccontavano episodi sacri (come i cicli quattrocenteschi alle pareti della Sistina), e aveva voluto al loro posto opere che interpretassero simbolicamente la gloria della Chiesa e di sé stesso. Un'opera colossale: mentre Raffaello affrescava le stanze vaticane, Michelangelo affrescava il soffitto della Sistina, Bramante organizzava il cantiere di San Pietro e gli urbanisti papali ridisegnavano l'aspetto di Roma.

Nelle quattro stanze vaticane affrescate da Raffaello vi sono rappresentazioni varie riguardanti fatti della Chiesa, ad esempio alcuni miracoli nella stanza delle udienze o storie di Costantino in quella dedicata all'imperatore cristiano. Ma nello studio privato di Giulio II è condensata la "cultura" tradizionale della Chiesa attraverso allegorie che la rappresentano. Le quattro pareti mostrano rispettivamente Teologia, Filosofia, Giurisprudenza, Poesia. Non racconto, dunque, ma astrazione simbolica.

Il papa ordina di riunire in un ciclo unico, nel suo studio, le quattro fonti della conoscenza e l'artista obbedisce. Il sincretismo è spinto, l'unificazione della conoscenza rinascimentale con il retaggio antico sembra perfetta, i temi pagani sono fatti rientrare come simbologia nei contenuti cristiani. In una parete è raffigurata l'apoteosi della Chiesa, nella parete di fronte l'apoteosi della conoscenza umana. Nelle altre due pareti si fronteggiano il ciclo della Poesia raffigurato come Parnaso (il monte che sovrasta la città sacra di Delfi, residenza delle Muse) e il ciclo della Giustizia raffigurato attraverso le Virtù. Complessivamente, su tre pareti i richiami simbolici di origine pagana sono soverchianti, ma sono fatti rientrare nella visione cattolica per mezzo del rutilante Trionfo della Chiesa che su tutto incombe. Anzi, si potrebbe dire che proprio il trionfo cristiano abbia bisogno della sua antitesi pagana per sconfiggerla, dominarla e infine assorbirla. Anche i cristiani antichi annullarono i templi pagani e, con le loro pietre, costruirono le nuove grandi basiliche. Nello zoccolo della parete, con il Trionfo della Chiesa vi è un ciclo che rafforza il sincretismo: a sinistra è rappresentato un Sacrificio pagano (il paganesimo ormai fa parte del passato); in centro Sant'Agostino che ha la visione del fanciullo in riva al mare (voler capire l'immenso mistero della fede è come voler vuotare il mare con il secchiello); a destra la Sibilla Tiburtina che mostra la Vergine ad Augusto (l'impero terreno ha dovuto lasciar posto al Regno dei Cieli).

Giulio II poteva essere soddisfatto, il trionfo della Chiesa era il suo proprio trionfo. Per precauzione dottrinale aveva messo un teologo alle costole di Raffaello. Non che fosse sensibile all'ortodossia, anzi. Non era un gran letterato o filosofo, ma teneva contatti con circoli, anche interni alla Chiesa, attraverso i quali ascoltava opere umanistiche non sempre in linea con la Dottrina. Erasmo da Rotterdam ricorda di aver assistito a una orazione in cui il papa, presente, era paragonato a Giove Ottimo Massimo. Altri osservatori annotano come egli premiasse poeti e tragediografi dediti all'imitazione un po' troppo fedele dei classici del paganesimo.

La Grande Sintesi

Soffermiamoci sulle due grandi pareti contrapposte, dove si fronteggiano la Disputa del Sacramento e la Scuola di Atene (Teologia e Filosofia). Il primo affresco è diviso in due parti distinte: la Chiesa trionfante nella parte superiore, e la Chiesa militante nella parte inferiore. Quest'ultima rappresentazione, dicono i critici, è un vero e proprio Concilio che si svolge con animate discussioni. Perché un Concilio sovrastato da un trionfo nei cieli? La lingua batte dove il dente duole, e i temi non potevano essere "liberi" in un momento cruciale per la Chiesa. Di sicuro un papa come Giulio II ordinò soggetto e modalità di rappresentazione. Il teologo e Raffaello si adeguarono. Il primo limitandosi a badare che il neoplatonismo imperante non stravolgesse l'ortodossia, il secondo mimetizzando sapientemente il proprio neoplatonismo. Con la Controriforma tutto questo sparirà e il trionfo della Chiesa sarà evocato con le sole apoteosi: grovigli di dei, angeli e santi, assai movimentati nella forma, glaciali nella sostanza.

Che Raffaello ci mettesse del suo sembra confermato dall'analisi dei disegni preparatori rimasti. In effetti, a dispetto dell'intento papale, nell'affresco raffaellita il mondo dello spirito è decisamente separato da quello della materia. Tra l'uno e l'altro il pittore ha interposto una nuvola strana, una specie di barriera di calcestruzzo in cui sono impastati nugoli di putti. Il Paradiso è popolato da santi, esseri ieratici di una freddezza innaturale, mentre la Terra brulica di uomini in carne ed ossa, peraltro ritratti dal vero a cominciare dal papa e da alcuni suoi famigliari. Raffaello non sapeva dipingere le nuvole? In altri suoi dipinti sono soffici e vaporose. Separando il Cielo dalla Terra Raffaello poté rappresentare una Grande Sintesi dedicata alla Terra dell'Uomo.

Il mondo della conoscenza laica, diciamo così, è rappresentato in dicotomia rispetto a quello della conoscenza divina. È decisamente un altro universo. Dunque nel piano pittorico dell'artista sono indispensabili due separazioni per ottenere una unificazione: la prima entro il mondo della Chiesa, fra Cielo e Terra; la seconda fra Chiesa e società. I personaggi della Chiesa militante parlano fra loro e uno soltanto lavora, lo scrivano; i personaggi della Scuola di Atene fanno, e sono tutti ritratti mentre svolgono un'attività o vi partecipano. La maggiore potenza espressiva è dedicata a loro. Sotto un'unica architettura che potrebbe essere il Tempio della Filosofia del neoplatonico Ficino, viene unificato non soltanto il sapere ma anche il tempo, dato che sono ritratti filosofi e scienziati di ogni epoca, ai quali si mescolano le sette "arti liberali", grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, musica, geometria, astronomia.

Nel dipingere la Scuola di Atene, l'artista si era dunque preso qualche libertà, tollerata o non afferrata da un pontefice assai occupato in altre faccende. Del resto lo stesso Michelangelo s'era permesso qualche trasgressione lavorando alla Cappella Sistina. E così Pontormo a San Lorenzo in Firenze. Era abbastanza usuale. Anche nel Medioevo, quando si rischiava di più, in molte chiese affrescate fra il '300 e il '400 pittori in odore di eresia avevano fatto filtrare di soppiatto rappresentazioni non canoniche, specie nell'Italia settentrionale. Persino il titolo dato a posteriori al gran dipinto dei "filosofi" di Raffaello è arbitrario. È importante sottolineare che esso in realtà non raffigura affatto la "Scuola di Atene" ma un'allegoria della complessiva conoscenza umana entro una cornice antico-classica. Il tempio che racchiude la folla dei personaggi, ritratti spesso con le sembianze dei contemporanei a significare una unità nel tempo, ricorda la basilica di Massenzio ed è ornato con statue e bassorilievi di alcune divinità pagane (in evidenza Apollo e Minerva con le loro simbologie). Al centro vi sono Platone (ritratto con le sembianze di Leonardo) e Aristotele (Sangallo), e tutto intorno si dispiegano i rappresentanti della conoscenza accumulata: Eraclito (Michelangelo), Socrate, Diogene, Alessandro Magno, Senofonte, Alcibiade, Diòniso (in una scena di rito orfico, con tanto di simbologia della metempsicosi), Pitagora con il figlio Telauge, Averroè, Boezio, Plotino, Euclide (Bramante), Zoroastro, Senofonte, Claudio Tolomeo (che regge un globo terracqueo), Apelle (Raffaello), Protogene (Perugino), Parmenide.

Secondo alcuni, sarebbe addirittura raffigurata la matematica alessandrina Ipazia, martire pagana, fatta a pezzi dai cristiani, ritratta con le sembianze – se fosse vero sarebbe il colmo – di Francesco Maria della Rovere, giovane nipote di Giulio II. Molti critici discordano sull'ipotesi che Ipazia possa essere stata raffigurata anche perché essa appare due volte, sulla "Scuola" e sulla "Disputa", e sarebbe stato oltremodo temerario inserire un'antitesi al cristianesimo nell'apoteosi della Chiesa. Per di più un personaggio che compare in dipinti che si fronteggiano non può che essere un trait d'union fra di essi. Generalmente è accettata l'ipotesi che, essendo l'unica figura femminile in mezzo a una folla di uomini, ed essendo l'unica che, con l'autoritratto dell'artista, guardi l'osservatore, rappresenti la bellezza-bontà (kalòs kai agathòs ). Nella sfera della conoscenza greca questo binomio aveva un significato profondo: ciò che è buono è anche bello, intendendo con "buono" il sapere, il valore in battaglia, il discernimento tra il vero e il falso. Kalokagathia è quindi il principio che, nell'uomo ideale ellenico, unisce le qualità della perfezione, unisce la sfera etica con quella estetica, dalla quale deve dipendere anche la produzione artistica. Il neoplatonismo aveva ereditato questo principio. Anche Dante compare due volte, nella "Disputa" e nel "Parnaso", ed è certo anche questo un importante segno di unificazione. Ma fermiamoci qui.

Nel tardo Medioevo il pensiero unico teocratico precedente era stato spezzato e varie branche della conoscenza si erano formate incominciando a separarsi, autonomizzarsi. Ma il Rinascimento che seguì fu anche l'epoca dell'uomo dalla conoscenza globale, il prototipo, sebbene ancora elitario, dell'uomo completo descritto da Marx. Non era certo biologicamente diverso da quello capitalistico, ma era immerso in una società diversa, che ne poteva sfornare a centinaia. E non aveva bisogno di tante accademie per maturare velocemente: Raffaello incominciò ad avere le prime commesse importanti a 17 anni, incominciò ad affrescare gli appartamenti papali a 25 e a 30 era a capo della bottega più importante di Roma, produceva dipinti in serie e si cimentava con l'architettura, tanto che alla morte del Bramante fu nominato capo del cantiere di San Pietro con Giuliano da Sangallo (1514).

Continuo e discreto nella teoria della conoscenza

L'unione fra la conoscenza antica e quella rinascimentale fu incoraggiata dalla Chiesa, che trascrisse nei secoli, a proprio vantaggio, ciò che rimaneva di papiri e pergamene. Fu un'opera colossale e gli artisti la celebrarono riscoprendo la classicità pagana. L'arte è linguaggio e il linguaggio è mezzo di produzione in ogni società: senza l'informazione trasmessa con il linguaggio, di qualunque tipo, non sarebbe possibile alcuna attività umana. L'umanità non può fare a meno di ricorrere all'unificazione della conoscenza, specie nelle transizioni di fase, e il Rinascimento fu transizione borghese materiale tre secoli prima della transizione politica. Nemmeno il capitalismo, che pure si nutre di separazione, di discretizzazione in oggetti vendibili in quanto merci, può rinunciare al collegamento fra le sfere della conoscenza. Siamo nuovamente in un'epoca di transizione e questo fenomeno unificante è obbligato a manifestarsi con crescente evidenza. Non è un caso che una "Terza cultura" esploda negli Stati Uniti, cioè nel paese che incarna il capitalismo imperialistico globalizzato e feroce dei giorni nostri.

L'umanità progredisce quando risolve problemi, aggira scogli e abbatte barriere. Nel suo percorso dal comunismo originario a quello sviluppato, attraverso le società di classe entro cui siamo ancora immersi, di ostacoli ne ha superati molti. Le classi di volta in volta dominanti sono state costrette a rivoluzionare senza sosta le forme sociali di cui erano espressione e, quando filosofia e scienza erano ancora la stessa cosa, hanno gettato le basi per la conoscenza futura. L'intermezzo caratterizzato da discipline specializzate e separate è come quello caratterizzato dall'esistenza delle classi: transitorio. Tutte le volte che le classi dominanti, invece di accelerare i processi della conoscenza (e della forza produttiva sociale), giungevano ad ostacolarli, venivano spazzate via da una rivoluzione.

L'elencazione delle differenti classi, categorie o parole non è forse la base storica del linguaggio e della conoscenza? La discretizzazione delle conoscenze è un problema antico che l'umanità ha cercato di risolvere senza finora riuscirvi. Da tre o quattro millenni l'uomo astrae, formalizza, calcola, ma continua ad avere l'impressione che la dicotomia fra discreto e continuo sia una specie di legge naturale, un ostacolo insormontabile. Spazio, tempo, movimento, magnetismo, gravità, tutto ciò che è "campo" è continuo, mentre il mondo materiale come l'abbiamo conosciuto da quando abbiamo incominciato ad essere uomini è fatto di oggetti discreti, a loro volta costituiti da atomi, peraltro già ipotizzati dai Greci antichi. E a proposito di atomi, a complicare le cose, dal secolo scorso è intervenuta una constatazione: nel mondo sub atomico coesistono le due proprietà in una stessa particella. Di più: in un insieme di due particelle, la variazione di una proprietà osservabile in una, influenza istantaneamente il corrispondente valore assunto dall'altra, indipendentemente dalla distanza a cui si trovano. Come descrivere scientificamente una proprietà del genere con teorie del discreto? Quindi: onda o corpuscolo? Non si sa, ma si sono escogitati strumenti teorici per avere comunque risposte. "Funzionano", ma in ultima analisi alcune domande permangono: una teoria unica della conoscenza dovrebbe essere affrontata dal punto di vista unificante del continuo, ma come si concilia ciò con la necessaria tassonomia degli argomenti che fu l'embrione della separazione per discipline?

Quando esplode la rivoluzione industriale, per la borghesia diventa ovvio mettere in secondo piano le questioni fondamentali per concentrarsi sulla fisicità degli strumenti atti alla produzione. Ma proprio le necessità di quest'ultima alla fin fine obbligano a sviluppare la teoria, a scoprire leggi, ecc., per cui le dualità devono venire comunque affrontate. E già che sembrano esistere in natura e generare paradossi inattaccabili, tanto vale inserirle nella teoria di classe e accoglierle nel pensiero dominante. È proprio in tema di pensiero che sorge (o risorge) la dualità primaria, dalla quale discendono tutte le altre: pensiero e materia sarebbero due cose diverse e non confrontabili. Addirittura ci sarebbe dualità fra cervello e mente, in fin dei conti fra uomo e natura, come se l'uomo non facesse parte di quest'ultima. Di qui a giustificare la separazione delle conoscenze in accademie specializzate, il passo è breve. Quelle umanistiche diventano serbatoi di ideologia per la classe dominante, quelle tecnico-scientifiche serbatoi strumentali al servizio dell'accumulazione. Croce e Gentile sono solo due fra i tanti che impersonano il dato di fatto. Con buona pace dell'uomo rinascimentale.

In una società complessa come quella capitalistica, che per il suo proprio funzionamento ha comunque bisogno di concatenare conoscenze altrettanto complesse, il dualismo fra "culture" diventa ad un certo punto un intralcio. È in tale contesto che si sviluppa il paradosso madornale: la società affida il proprio funzionamento essenziale, cioè la garanzia di un flusso produttivo regolare e tecnicamente avanzato, a una sfera sociale fatta di tecnici, scienziati e in genere di solutori di problemi, teorici o pratici che siano. E affida il funzionamento politico, cioè il controllo della società intera, dalla scuola alla produzione, a una sfera sociale che non sa nulla su ciò che è chiamata a "governare". Se pensiamo che per controllo si intende responsabilità su materie come l'uso dell'energia atomica o il maneggio genetico ci rendiamo conto di come sia addirittura pericoloso per la specie continuare su questa strada. Uno scrittore può non saper nulla su come funziona il differenziale della propria automobile senza doversene vergognare, ma un ingegnere fa una figuraccia se non ha letto un libro famoso. Come vedremo, la borghesia stessa avverte la contraddizione, ma è impotente a porvi rimedio.

Ogni forma sociale succedutasi finora ha prodotto la propria antitesi rivoluzionaria, e il capitalismo non fa eccezione. In primo luogo ha prodotto la teoria della rivoluzione che porta al suo superamento e alla società futura, ma ha prodotto al suo stesso interno anche anticipazioni di quella società. Il superamento di dualismi dei quali la borghesia ammette l'assurdità, è un'anticipazione, un qualcosa che non fa più parte dell'ideologia dominante, per questo la borghesia stessa non riesce a far nulla per superarli. Marx se ne occupa presto. Nell'Ideologia tedesca e in altri scritti mette in luce l'arretratezza della filosofia tedesca e il conflitto fra la pura affabulazione sulla quale essa si fonda e l'avvento potente del carbone, del vapore, dell'acciaio, del telegrafo e delle ferrovie. Il linguaggio della rivoluzione non consiste più in belle frasi senza contenuto empirico ma nella dinamica reale del cambiamento, la quale va capita e descritta individuandone le leggi, i percorsi avvenuti e quelli avvenire. La borghesia non poteva comprendere l'avvento dell'uomo-industria così come descritto da Marx: poteva solo comprendere l'operaio-industria e la sua forza-lavoro vendibile. Ma abbassare la propria filosofia a quel livello sarebbe stato come volgarizzarla, perciò l'ha lasciata nell'empireo in cui si trovava e le ha negato ogni contatto con la realtà produttiva/riproduttiva della società umana.

Dualismi a go-go

Marx si forma alla scuola tradizionale, ma per tutta la vita si alimenta di tutto ciò che produce la società umana in ogni campo. Fonte primaria, oltre ai molti libri che acquista, è la sconfinata biblioteca del British Museum. Sappiamo tutto sulle sue letture, gli elenchi sono pubblicati. Era onnivoro e instancabile. La conoscenza, osservava, non procede per separazioni ma per collegamenti e fusioni. Solo per esigenze elementari di classificazione le conoscenze sono suddivise, categorizzate, schedate. In futuro cadranno come frutti marci tutte le opposizioni: soggettivo/oggettivo, materia/spirito, pensiero/azione, vita/morte, coscienza/incoscienza, continuo/discreto, e vi sarà una sola scienza, quella dell'uomo-industria-natura, unità organica inscindibile. Tutte queste opposizioni potrebbero cadere anche subito, se solo avessimo la possibilità rivoluzionaria di abbandonare l'ideologia e collocarci nell'ottica del sistema d'industria, cioè del processo di trasformazione della materia esistente in natura nei prodotti che servono all'uomo, mere utilità d'uso e non merci. Tale rapporto uomo-natura è ovviamente degenerato nel capitalismo, ma sarà rivoluzionato e potenziato nel comunismo. Questo rapporto è di tipo fisico, non ideologico. L'uomo è parte della natura, non se ne distacca mai neanche quando la sottomette e la violenta con le sue macchine, con la loro potenza produttiva e distruttiva. I dualismi non possono essere risolti dall'interno del sistema dualistico. Per farlo occorre scattare ad un sistema di potenza superiore. Tale sistema non c'è ancora, almeno come modo di produzione dominante, quindi occorre individuarne qualche saggio, mettersi dalla parte del non-dualismo. Marx dice: "I dualismi non possono essere sciolti al solo livello del pensiero, della filosofia. Devono essere filtrati attraverso l'energia pratica dell'uomo".

L'energia pratica dell'uomo è per sillogismo energia pratica della natura. L'uomo non sottomette affatto la natura, come si continua a dire. È la natura che ha prodotto l'uomo e attraverso l'uomo trasforma la propria materia, produce, memorizza, impara, conosce sé stessa. Quello della conoscenza non è un problema di pensiero, mente o qualcosa del genere, ma di pratica di vita. Se dunque non c'è dicotomia fra uomo e natura, perché dovrebbe esserci fra uomo e uomo? È un'altra opposizione che cade. La conoscenza unificata va di pari passo con la società senza classi, perciò l'attuale separatezza fra uomo e uomo non avrà più senso, figuriamoci quella fra operaio e capitalista o anche solo fra umanista e scienziato. La produzione/riproduzione umana avviene tramite trasformazione di materia e consumo di energia. Dov'è il posto del capitalista in un sistema di scambio energetico? E che ruolo potrà mai svolgere il "puro pensiero" filosofico in un contesto del genere? Ovviamente sparirà prima il regime borghese che non la lotta fra le classi e l'ideologia della separatezza. In tal senso la "dittatura del proletariato" avrà molto lavoro da fare. La rivoluzione è un fatto fisico, si accumula energia potenziale fino a che non si producono le condizioni della transizione di fase, durante la quale si scatena l'energia cinetica. La filosofia non è all'altezza di un cambiamento di tale portata.

Anche i dualismi si risolvono attraverso l'applicazione pratica di energia da parte dell'uomo. È una proposizione potente che ha radici lontane, ad esempio nella lettera di Marx studente al padre, 1837, quando aveva 19 anni. L'abbiamo già utilizzata altrove, ma vale la pena glossarla per la parte che qui ci interessa.

"Nell'espressione concreta del vivente mondo del pensiero – come nel diritto, nello Stato, nella natura, nel­l'intera filosofia – l'oggetto stesso deve essere silenziosamente spiato nel suo sviluppo, non debbono essere introdotte suddivisioni arbitrarie, la ragione della cosa stessa deve svolgersi come qualcosa di in sé con­flittuale e trovare in sé la sua unità… L'errore stava nel credere che una cosa potesse e dovesse svolgersi separata dall'altra, e nell'ottenere io così non un'autentica forma, ma un casellario, in cui poi spargevo sabbia".

Qui lo studente si accorge che nella filosofia del diritto, come in tutte le sfere della conoscenza, l'incasellamento di categorie tenute separate impedisce di vedere il tutto. Egli accenna all'idealismo di Kant e di Fichte, modelli giovanili ormai superati e sostituiti da un vago materialismo: l'idea è un prodotto della realtà, non sta in Cielo ma sulla Terra. Dice di aver letto Hegel una prima volta e precisa che la sua "grottesca melodia rocciosa" non gli è piaciuta. Studia scienza della natura (Schelling) e della storia producendo un manoscritto, andato perso, "in cui si univano in certa misura l'arte e la scienza, che prima si erano del tutto separate". Si dedica alle scienze positive, cioè a opere non speculative (forse riprende il termine di Saint-Simon, che lo usava per la matematica e le scienze della natura). "Per la rabbia bruciante di dover prendere come mio idolo una concezione a me invisa mi ammalai". Quale fosse la concezione invisa non lo chiarisce. Forse la filosofia del diritto? Da ammalato, legge "dal principio alla fine Hegel insieme alla maggior parte dei suoi discepoli". Brucia velocemente tappe senza sbocco:

"Nelle discussioni si manifestarono parecchie opi­nioni contrastanti, ed io mi legai sempre più saldamente all'attuale filosofia del mondo, alla quale avevo pensato di sfuggire: ma ogni armonia si era ammutolita, e fui preso da una vera smania di ironia, come era assai facile che avvenisse dopo tante cose negate. Non potetti aver pace fin quando non mi fui messo al passo e non ebbi raggiunto il punto di vista del­l'attuale concezione scientifica".

Dunque aveva cercato di fuggire dalla contemporanea filosofia del mondo nello stesso momento in cui ne era attratto. L'armonia unitaria cui era giunto si era ammutolita perciò era stato necessario rimettersi in carreggiata. Come? Ironizzando sui nuovi filosofi e mettendosi al passo con la contemporanea concezione scientifica. Peccato che non ci dica qualcosa in più sulle fonti scientifiche, ma le troviamo nella bibliografia delle sue opere. È chiara invece la "promessa" che sarà poi mantenuta con L'Ideologia tedesca, La Sacra famiglia e La miseria della filosofia. Probabilmente per "attuale concezione scientifica" Marx intende qualcosa di più completo che non quella dei suoi contemporanei. Sapendo che egli privilegiava le dinamiche invece delle categorie fisse incasellate, azzardiamo che intendesse la storia materiale che aveva portato alla scienza della sua epoca. Bacone, Galileo e Cartesio erano gli antenati di Saint-Simon e, forzando un po', di Feuerbach. La scienza del 1837 si accordava forse più con la filosofia di Comte che non con quella di Hegel. Marx positivista, allora? Ma no, questa è la stupida conclusione cui arrivano certi sinistri d'oggi che lo criticano in quanto più scienziato che filosofo, troppo poco hegeliano (ammesso e non concesso che Marx fosse hegeliano, anche solo un po'). Comte aveva collaborato per sette anni con Saint-Simon e il suo primo saggio sul positivismo era stato pubblicato nel 1830, cioè ben prima che Marx scrivesse la lettera al padre. Marx conosceva molto bene sia Saint-Simon che Comte, ma risulta che avesse studiato quest’ultimo molto tardi:

"Adesso, a tempo perso, studio anche Comte perché inglesi e francesi fanno tanto chiasso intorno a questo signore. Ciò che in lui attrae è l'enciclopedico, la sintesi. Ma è povera cosa in confronto a Hegel (quantunque Comte in quanto matematico e fisico di professione gli sia superiore nei particolari, ma quando si viene al succo, Hegel lo supera infinitamente persino in questo). E dire che questo positivismo merdoso apparve nel 1832!" (Marx, lettera a Engels, 7 luglio 1866).

La filosofia di Comte non poteva ricevere da Marx un'attenzione maggiore di questa. Ma la concezione statica e dicotomica della conoscenza lo disturbava sempre. Quando nel 1869 Thomas Huxley pubblicò un celebre articolo intitolato Intorno alle basi fisiche della vita, contenente un giudizio sprezzante sul positivismo, Marx osservò: "non contiene quasi nulla all'infuori dello scherzo sul comtismo". Eppure si trattava di una presa di posizione a favore di una concezione materialistica dell'evoluzione contro il creazionismo. Evidentemente riteneva che "lo scherzo sul comtismo" fosse più degno di nota. Huxley aveva scritto che il materialismo comtista era come il cattolicesimo senza il cristianesimo, e ovviamente i positivisti si erano infuriati. A Marx importava poco che fossero entrambi materialisti, che entrambi mettessero alla base della conoscenza le scienze positive. Li studiava con interesse, annotava che Compte teorizzava una "fisica sociale" e che Huxley poneva alla base della vita i processi fisici, ma non poteva accettare che vi fosse un livello filosofico-scientifico indipendente dai rapporti sociali, come se scienza e filosofia fossero altri mondi rispetto a quello dell'uomo-industria descritto nel 1844.

Marx non era un filosofo ma uno scienziato della rivoluzione. Concepire il mondo come dinamico sistema di relazioni significava certo superare l'enciclopedismo positivista; ma descrivere sul piano materiale pratico, non filosofico, il sistema di relazioni fra uomo e natura (cioè fra aspetti diversi della natura) significava superare anche Hegel. Comprendere la storia della conoscenza significava proiettarla nel futuro modo di produzione. Se è vero che "la storia dell'industria in quanto connessa con quella dell'uomo è stata relegata a mera relazione di utilità", e che quindi occorre rovesciare questa relazione per ritrovare la vera storia dell'uomo, è anche vero che la stessa operazione si può e si deve fare anche con ogni filosofia. Andare oltre questo modo di produzione significava superare tutti i Comte sul piano scientifico e tutti gli Hegel sul piano filosofico. La natura non è la sede dello spirito dell'uomo e nemmeno il mero serbatoio cui l'uomo possa attingere carbone, grano, ferro, petrolio, cotone, legname, ecc. Non ci sono natura, uomo e spirito in quanto entità autonome, c'è la natura che agisce e pensa tramite sé stessa, cioè tramite l'uomo. Hegel e Comte (e tutto l'idealismo e tutto il positivismo) erano stati passaggi necessari, gradini di una scala. Superare e negare ciò che rappresentavano significava abbattere un'altra barriera, un'altra dicotomia che impediva di avanzare verso la scienza unica e potente dell'uomo e della natura. Leggiamo Engels:

"La scienza della natura e la filosofia hanno finora trascurato del tutto l'influsso dell'attività dell'uomo sul suo pensiero; esse conoscono soltanto da una parte la natura, dall'altra il pensiero. Ma proprio la trasformazione della natura da parte dell'uomo, non la natura come tale da sola, è il fondamento essenziale e più prossimo del pensiero umano. E nel modo in cui l'uomo imparò a trasformare la natura, nel suo rapporto con la natura, crebbe la sua intelligenza" (Dialettica della natura).

C'è un errore epistemologico grave nella usuale dicotomia uomo/natura. Di questo errore, la cui struttura è fonte di tutti i paradossi logici, è vittima anche il movimento attuale che si ricollega alla teoria rivoluzionaria. Non si può fare confusione di tipi logici, come li chiamava Bertrand Russell. Non si può, cioè, parlare di insiemi che appartengono a sé stessi. Dal paradosso di Epimenide (del cretese che dice di essere bugiardo) a quello del solipsista che pretende di osservare la natura dall'esterno pur facendone parte, è sempre stato un fiorire di proposizioni irrisolvibili. Anche la volgare marxologia ne sforna: se in un dato modo di produzione l'ideologia dominante non può che essere quella della classe dominante, se perciò siamo ancora dominati dall'ideologia borghese, da dove salta fuori la teoria della rivoluzione basata sulla fine delle ideologie? Marx risolve brillantemente il problema logico: è la società stessa che genera la propria antitesi (estendiamo: il partito della rivoluzione) con un movimento reale di trasformazione che abbandona l'ideologia. Il comunismo è fuori dal capitalismo, anche se incomincia a manifestarsi in esso. Chi pretende di cambiare il mondo rimanendo dentro al capitalismo con tutte le sue categorie logiche è un fallito in partenza. Non per sua incapacità ma per legge matematica. Ciò vale anche per chi pretende di separare ciò che è unito mettendone le parti in semplice rapporto, salvo poi parlarne come di un tutto gerarchizzato, con l'Uomo (maiuscola!) in testa alla piramide e la Natura al suo servizio:

"Per un professore pedante i rapporti dell'uomo con la natura non sono fin dall'inizio rapporti pratici, cioè rapporti fondati sull'azione, bensì teoretici… L'uomo sta in rapporto con le cose del mondo esterno come mezzi per il soddisfacimento dei suoi bisogni. Ma gli uomini non incominciano affatto 'a stare in questo rapporto teoretico con cose del mondo esterno'. Gli uomini incominciano come ogni animale a mangiare, a bere, ecc. e dunque non a 'stare' in un rapporto, bensì a comportarsi attivamente, a impadronirsi di certe cose del mondo esterno mediante l'azione e così a soddisfare il loro bisogno. Essi incominciano dunque con la produzione… A un certo stadio dell'evoluzione, quando si sono moltiplicati e sviluppati ulteriormente i bisogni e le attività per soddisfarli, gli uomini daranno un nome a intere classi di queste cose che l'esperienza ha insegnato loro a distinguere dal resto del mondo esterno… Ciò che una ripetuta verifica ha reso esperienza… è già un presupposto necessario per l'esistenza del linguaggio" (Glosse al manuale di economia politica di Adolph Wagner, corsivi nell'originale).

Ultimo trionfo della non-conoscenza

La nostra corrente storica ha dovuto penare contro ostacoli di ogni genere, ma l'osso più duro è stato certamente quello della tradizione antiscientifica della tarda borghesia italiota. E pensare che questo è il paese dove la borghesia è nata e con essa la scienza moderna. Dante era ancora un ragazzino quando a Firenze, Bologna, Venezia e altre città si lavoravano tessuti con macchine perfezionate che già sostituivano uomini provocando rivolte. La decadenza mortifera della borghesia più vecchia del mondo si manifesta con la difesa accanita di concezioni in via di abbandono nel resto del mondo. Non che vi sia una differenza sostanziale, nelle varie parti della Terra, fra le idee che servono a mantenere il dominio di classe, ma in Italia è ancora presente un repertorio sclerotico che altrove è meno influente. Benedetto Croce fu uno degli esponenti della pedanteria accademica di cui parla Marx. Il mondo dell'interazione fra azione umana e conoscenza in Croce è rovesciato. Mentre ovunque le sfere produttive determinano massicciamente la scoperta di leggi soggiacenti e quindi lo sviluppo della teoria, nella filosofia conservatrice lo scambio energetico fra uomo e natura non è preso in considerazione: la conoscenza scientifica non è nulla rispetto a quella "umanistica", fra le due vi è solo una relazione utilitaristica, dato che il tardo umanista non fa che ricorrere alla scienza come si ricorre a un ricettario o a un manuale di istruzioni per l'uso.

L'industria in tal modo diventa la Cenerentola del "sistema di pensiero" borghese. È una contraddizione tremenda perché l'industria è in realtà il pilastro portante del sistema capitalistico basato sullo sfruttamento del lavoro salariato. È significativa la facilità con cui fra le due guerre mondiali la concezione antiscientifica della società divenne quella ufficiale, trasmessa nelle scuole, linfa del fascismo che di per sé è completamente a-ideologico. La scuola di regime sottolineava la contraddizione: il fascismo era (è) il "realizzatore dialettico delle istanze riformiste" e faceva sfoggio di progressismo industriale; avrebbe dovuto spazzare il vecchiume accademico, come chiedevano i futuristi, e invece lo consolidò, inglobando nelle sue gerarchie l'intellettualità dell'epoca sotto la guida di Giovanni Gentile, erede di Benedetto Croce. A rigor di logica il fascismo, dato che alla scala storica veniva dopo la democrazia, avrebbe dovuto essere il ponte riformista verso la società nuova, il rappresentante di un "18 Brumaio" contro cui si sarebbe scagliata la Vecchia Talpa in tutta la sua potenza. Ma le sue premesse populiste durarono poco. La flaccida borghesia italiota ridusse il movimento fascista a un fenomeno da baraccone suscitando così il fenomeno speculare dell'antifascismo piagnone e mercenario (cui si accodarono gli eredi di Gramsci, a sua volta erede di Croce e Gentile. Cfr. Christian Riechers).

Noi viviamo in un mondo che è un residuo del passato nonostante la grande influenza dell'industria sulla società. Viviamo in un mondo che vede aumentare oggettivamente le conoscenze generali sui fenomeni della natura, indaghiamo sulla struttura della materia spaccando gli atomi, trovando nuove particelle, rivelando le basi molecolari della vita, ecc. Accumuliamo effettivamente una enorme quantità di conoscenze ma la loro qualità è bassa perché nel nostro approccio alla natura ha ancora il sopravvento il criterio del dualismo tra osservatore-uomo e osservato-natura, nonostante proprio la fisica moderna ci abbia dimostrato che questo dualismo è una grande fesseria. Viviamo in un mondo che vede aumentare enormemente le conoscenze relative all'operare materiale e progettuale perché tutto quello che ci circonda è frutto di progetto, di lavorazioni coscienti, di previsioni scientifiche rispetto al risultato, ma stranamente non ci accorgiamo che tutto questo non si riflette in una altrettanto efficace capacità di progetto sociale, anzi, da questo punto di vista siamo a livello della giungla darwiniana. Il "mondo del pensiero" continua imperterrito la propria affabulazione intorno a "concetti" e a relegare l'immane conoscenza scientifica nel crociano libro delle ricette.

Il sopravvivere della filosofia intesa come pensiero opinabile, come secrezione immateriale di qualche cervello superdotato, inchioda le conoscenze ognuna nel proprio ambito, impedisce l'unificazione e rinsalda sia le singole separazioni, sia la separazione massima che è quella tra la sfera "umanistica" e quella delle "scienze positive". La realtà si vendica di ogni errore epistemologico anche se non sono immediatamente evidenti le conseguenze sociali: se la filosofia ha fatto a meno dell'industria e l'industria ha fatto a meno della filosofia, è certo che il capitalismo non può fare a meno dell'industria, mentre può fare benissimo a meno della filosofia. Non s'è mai sentito di un filosofo della piena epoca borghese che abbia avuto il bisogno di sapere cosa fosse veramente una fabbrica. Eppure la fabbrica è il cuore del loro sistema. Il lettore si tolga la curiosità di leggere la potente voce Industria scritta da Diderot sulla Encyclopédie, manifesto della rivoluzione borghese, per confrontare con l'oggi e toccare con mano quale grado di degenerazione ha raggiunto questa società morente. La rivoluzione in corso non ha reso superflua solo la funzione – e quindi l'esistenza – del Capitale e del capitalista, ma anche quella del sistema teorico da essi generato.

In Italia esiste una associazione che si chiama "Fabbrica filosofica" che si dichiara interdisciplinare e rivolta al mondo del lavoro. Ci si aspetterebbe almeno una interazione semplice tra filosofia e fabbrica, macché, ecco che cosa scrivono sulla presentazione del loro sito:

"Studiare, progettare, sperimentare le ricadute del sapere filosofico sulle realtà lavorative e nella cultura del lavoro. Sostenere e collaborare a sperimentazioni, progetti, iniziative educative, formative e didattiche fondate sull’applicazione di metodologie, metodi e paradigmi a carattere filosofico. Favorire l’incontro e la "buona contaminazione" tra sapere filosofico e altre discipline umanistiche e scientifiche. Promuovere la diffusione e la divulgazione della filosofia applicata e del counseling filosofico sul territorio nazionale ed europeo. Stimolare la cooperazione e il confronto tra filosofi, counselor, studiosi, professionisti italiani e stranieri attraverso l'organizzazione di congressi, seminari, giornate di studio. Collaborare e fare rete con Enti, Aziende, Istituzioni pubbliche e private di cui condivide le finalità e gli indirizzi etici e culturali".

Come si vede, nella concezione dei filosofi è la filosofia che illumina il resto del mondo, che offre tiramisù (counselor non vuol dire consulente o consigliere) e ricadute sulla "cultura del lavoro" (una pressa aristotelica? una catena di montaggio kantiana? una fresatrice hegeliana? un tornio crociano?). Il rovesciamento rispetto alla realtà continua ad essere totale. Non è il mondo dell'attività umana, della produzione materiale che influenza il pensiero filosofico ma, al contrario, è il pensiero filosofico che dall'alto dei Cieli vorrebbe infondere conoscenza, filosofia applicata (cosa sarà mai?) alla Terra. Da una parte c'è il Verbo, da tutt’altra parte vige la vera filosofia della produzione, questa sì legata a doppia mandata con la fabbrica: la filosofia del profitto e del denaro. Del resto, al di là delle più o meno azzeccate formule pubblicitarie, la consulenza si paga, la filosofia della "fabbrica umanistica" viene fatta circolare in quanto merce.

La nostra scaletta classificatoria materialistica è più semplice di quella ideologica: alla base c'è la natura; entro di essa, e non in rapporto separato ad essa, vi è l'uomo, inteso come specie insieme alle altre specie del mondo animale e vegetale; in questo insieme unico le varie componenti della natura si rapportano, reagiscono, trasformano e si trasformano. È in questo tutto che si sviluppa l'industria dell'uomo, la quale produce linguaggio, il quale produce informazione, ulteriore sviluppo dell'industria, dinamica delle forme sociali, ecc. Se l'industria del sasso scheggiato viene prima del linguaggio e della razionalizzazione, classificazione, memoria, conoscenza, che senso ha, al termine del ciclo, nell'era dei computer, delle reti e del cervello sociale bionico, rovesciare l'ordine e infilare il pensiero al primo posto, al posto della natura e dell'industria?

Seconda parte

Positivismo logico e altre correnti

Era plausibile che nell'attuale società capitalistica, con il raggiunto sviluppo della forza produttiva sociale e la necessità di ricorrere massicciamente alle scoperte scientifiche, persistesse a tutto orizzonte la separatezza delle conoscenze? La risposta è evidentemente: no. L'antica concezione unitaria del mondo non poteva che diventare moderna concezione unitaria del mondo, sia in senso rivoluzionario che in senso borghese. Tralasciando le aree che possiamo ricondurre con molta approssimazione al fenomeno New Age, con il suo olismo metafisico, che qui non tratteremo, la Terza cultura è stata preceduta da un'altra corrente che si prefiggeva l'unificazione delle conoscenze sotto l'insegna della scienza, e che prendeva le mosse dal cosiddetto positivismo logico (o neopositivismo). Siccome però ci siamo riproposti di seguire più lo scaturire di fenomeni atipici dalle spinte materiali che non l'evoluzione della filosofia in quanto tale, sfioreremo l'argomento solo per quanto è utile al discorso generale. Come si vede, già una semplice introduzione al tema ci ha imposto di tirare in ballo tre fenomeni moderni, diversissimi tra loro, che si riferiscono all'unificazione delle conoscenze: il movimento della Terza cultura, l'area di diffusione di quello che potremmo definire neo-paganesimo, la corrente filosofica del neopositivismo. Non sono gli unici, e l'unificazione non riguarda soltanto una "proposta" per i rami della conoscenza ma anche una "verifica" che si vuole trarre da numerosi dati di fatto, come ad esempio l'Ipotesi Gaia che cerca di spiegare il nostro pianeta come un unico essere vivente; oppure, nel campo della fisica, la ricerca orientata verso una Teoria della Grande Unificazione (GUT) e una Teoria del Tutto (unione delle tre forze fondamentali entro la materia e unione tra queste e la gravitazione).

Accenneremo brevemente al movimento neopositivista per osservare la differenza tra l'approccio filosofico di stampo europeo e quello empirico-pragmatico di stampo americano. Questo movimento ha una data di nascita, il 1928, anche se in quell'anno fu semplicemente sancita l'esistenza di una variante entro la vasta corrente positivista, ormai ritenuta non più all'altezza rispetto alle nuove scoperte scientifiche. Nel 1928, appunto, un certo numero di filosofi, matematici, psicologi, sociologi, fisici, logici si ritrovò in quello che si chiamò Circolo di Vienna. Scopo del sodalizio era l'unificazione dell'intera conoscenza umana per mezzo delle scienze positive (abbiamo visto che questa espressione fu coniata da Saint-Simon, ripresa da Marx e consolidata da Comte) affinché si diffondesse una "visione scientifica del mondo". Il circolo riteneva che la filosofia tradizionale fosse fondata in gran parte sulla metafisica, dato che esprimeva per lo più concetti privi di senso empirico. Non criticava il suo ricorso a proposizioni emotivamente fondate, ma la simulazione di contenuti teorici inesistenti.

Il circolo ebbe successo e in breve tempo si estese in Germania e in altri paesi, coordinandosi attorno a una rivista ufficiale, Erkenntnis (conoscenza, cognizione), e accarezzando l'ambizioso progetto di una Enciclopedia della scienza unificata (International encyclopedia of unified science). Il programma di lavoro della corrente era dichiaratamente anti-metafisico. Ereditava dal positivismo ottocentesco il ruolo preminente delle scienze positive (naturali, esatte, sperimentali, ecc.) nelle dinamiche di formazione della conoscenza, e nello stesso tempo ne criticava i limiti, dovuti, secondo i membri del Circolo, a una carenza di logica, al mancato ricorso sistematico alla funzione primaria della matematica, e all'incapacità di delineare una metodologia scientifica basata sulle strutture che la scienza stessa si era data. Il neopositivismo, bandito nel Terzo Reich (il suo esponente principale fu ucciso in un attentato) si diffuse all'estero ma si estinse abbastanza presto, principalmente a causa di alcune contraddizioni implicite. Volendo dimostrare il fallimento epistemologico della filosofia precedente, esso stesso si comportava né più né meno come una filosofia. E basare tutto sulla logica aiuta a spiegare molte cose ma non la logica stessa. Inoltre alla logica matematica di quei tempi si stava sostituendo la logica sfumata dei sistemi caotici e complessi, quella delle transizioni di fase, delle catastrofi, delle retroazioni che producono effetti non-lineari.

Con il neopositivismo la filosofia si avvita dunque su sé stessa, e muore definitivamente. Non che siano scomparsi i filosofi o le scuole di filosofia, ma oggi, e lo vedremo in dettaglio più in là, anche coloro che si definiscono filosofi sono costretti a lasciar perdere la filosofia e a parlare di scienza. Mentre gli scienziati discutono sulla propria materia riferendosi a una teoria della conoscenza, che una volta era filosofia.

Gli scienziati della seconda metà dell'800 incominciavano a fare scoperte che richiedevano spiegazioni ben più complesse di quelle che fino a quel momento si erano ritenute soddisfacenti. La teoria einsteiniana della relatività sconvolse il mondo della scienza e della conoscenza, ma ha le sue radici nelle osservazioni di Mach, Poincaré e altri, gli stessi che, consapevolmente o meno, furono i pilastri dello scientismo positivista. La teoria dei campi, la geometria non-euclidea, la meccanica quantistica, ecc. ponevano problemi che sembravano filosofici finché non li si capiva e diventavano per ciò stesso nuova ricerca di conoscenza empirica. Questo vale per tutta la storia dell'uomo, ma negli ultimi centocinquant'anni c'è stato un salto qualitativo impressionante. E più ancora nell'ultimo mezzo secolo. Non era proprio possibile che la struttura della conoscenza umana rimanesse quella di un tempo. Per quanto ingabbiata da una forma economico-sociale che frena ogni ulteriore sviluppo, essa si vendica producendo i propri portavoce. E non li trova fra gli accademici ma fra coloro che dagli accademici sono guardati con sufficienza.

Prendiamo le scienze cosiddette dell'informazione. Esse sono unificanti di per sé ma non le si sarebbe neppure potute sviluppare senza un insieme di conoscenze che a loro volta erano unificanti. La necessità di una scienza dell'informazione era scaturita da contesti diversissimi a partire dall'esigenza che un segnale trasmesso arrivasse a destinazione senza farsi annullare dai disturbi. La teoria era nata per migliorare le comunicazioni tramite segnali elettrici, ma si era dimostrata ben presto di portata universale. Anche quando parliamo con qualcuno mettiamo in atto inconsapevolmente i contenuti di detta teoria, e la stessa cosa vale per ogni trasmissione di dati, per ogni codifica o decodifica, persino per la quantità di informazione che un osservatore riceve guardando un quadro di Raffaello. Nel mondo della comunicazione, della computazione e in generale del trattamento dei dati, questa teoria universale diventa una delle chiavi della vita sociale, l'elemento di controllo del cervello collettivo. Il solo comprendere quanto sta accadendo dovrebbe rendere coscienti di che cosa significhi lasciare il mondo in mano al Capitale e ai suoi rappresentanti. Buon per noi che la borghesia è darwiniana, si lascia evolvere/involvere, senza progetto, influenzata da fattori ad essa del tutto "esterni", incapace di pianificare il controllo, così come non è in grado di pianificare l'economia.

Il paradosso è estremo: mentre si profila l'unificazione delle conoscenze e gli uomini incominciano ad esserne consapevoli tanto da voler superare la dicotomia fra le "due culture" imperanti, nasce la "terza cultura". Personaggi che sulla carta ne vorrebbero una sola, alla fine se ne ritrovano tre, di cui quella ulteriore realizzata con le proprie mani.

Genesi della Terza cultura

Nel 1959 Charles Percy Snow, un chimico inglese che tra l'altro si dilettava scrivendo romanzi, pubblicò un opuscolo provocatorio intitolato Le due culture. Provocatorio, perché accusava i letterati di aver monopolizzato la "cultura" a danno degli scienziati, i quali ovviamente erano costretti a rispondere per le rime ignorando la letteratura. Apriti cielo: fu accusato di essere, come letterato, un parvenu di infima categoria e come scienziato un individuo che riduceva la ricchezza della vita umana a formule e misure, che faceva l'apologia del consumismo e del macchinismo esasperati, senza tener conto dell'abbrutimento degli uomini, e cose del genere. Non ce ne importerebbe nulla di una diatriba a questi livelli se essa non scaturisse dalla contraddizione tremenda del sistema borghese in tema di dualismi, separazioni, specializzazioni, funzionali alla legge del profitto.

Di fatto è assurdo e inutile il "dibattito" su simili temi. La realtà profonda non è modificata semplicemente se qualcuno ne discute, ci vuole una rivoluzione per sovvertire un dato di fatto potente come la divisione tecnica e sociale del lavoro. Ma è importante che il partito della rivoluzione (oggi in senso storico, non certo formale) si armi anche da questo punto di vista. Abbiamo nelle pagine precedenti seguito un percorso che ci dimostra come la dicotomia fra "umanesimo" e "scienze positive" sia un problema epistemologico e non ontologico, inerente alla sfera sociale e non ai caratteri intrinseci delle due sfere della conoscenza. Non c'è nessun motivo alla base di questa separatezza al di fuori della forma sociale in cui essa si produce a causa dell’ideologia che vi domina. La dimostrazione sta nel fatto che quando è realmente necessario al mondo della produzione e del profitto giungere a certi risultati, la ricomposizione delle conoscenze riappare come d'incanto. Negli anni intorno alla data in cui Snow scriveva il suo opuscolo, il mondo scientifico era ormai obbligato ad affrontare percorsi interdisciplinari, la pubblicistica scientifica usciva dal ghetto specialistico, anche se, con il pretesto della divulgazione, faceva ricorso più al sensazionalismo e alla meraviglia che non alla teoria. Le varie sfere dell'arte non erano esenti, ed esplodeva il fenomeno di massa della fantascienza, dove la finzione era comunque basata su vere o presunte basi scientifiche.

La guerra mondiale aveva imposto il ricorso massiccio a gruppi di esperti raccolti attorno a un problema per risolverlo, basti ricordare il team atomico americano del progetto Manhattan a Los Alamos, il gruppo inglese di decriptazione del progetto Ultra, i gruppi russi e americani che svilupparono la programmazione lineare. Dopo la guerra si continuò a ricorrere ai think tank (letteralmente: serbatoi di pensiero) che divennero onnicomprensivi rispetto a quelli tutto sommato ancora specializzati del periodo bellico. Subito dopo la guerra nacque ad esempio la Rand Corporation (Research And Development), che oggi raggruppa 1700 esperti di ogni disciplina. Più recentemente è nata negli Stati Uniti una community scientifica multidisciplinare (quindi non solo interdisciplinare), il Santa Fe Institute, che si è prefissa lo scopo di studiare i fenomeni riguardanti i "sistemi adattativi complessi, fisici, informatici, biologici, economici e sociali"; per noi quasi un paradigma delle spinte verso l'unificazione delle conoscenze, che citiamo spesso insieme con il libro che ne illustra la storia (Waldrop).

In regime capitalistico è evidente che la cosiddetta terza cultura affiancherà le altre due (o più) senza sostituirle affatto. Ma le domande che essa fa nascere, almeno in chi si pone dal punto di vista della società futura, sono fondamentali. Perché la concezione unitaria dell'universo ha lasciato il posto a uno spezzettamento, progressivo fino alla dicotomia, fra "culture"? Perché nonostante tutto emerge la necessità, per quanto isolata, di un ritorno alla concezione unitaria? È soltanto una questione di risultati scientifici pratici da ottenere o c'è qualcosa di più? In un mondo complesso, la specializzazione è indispensabile, come lo è in certa misura la divisione tecnica del lavoro. Del resto è chiaro che gli uomini sono diversi uno dall'altro e tendono a utilizzare le loro capacità nei campi in cui ottengono migliori risultati. Le differenze sono di per sé un vantaggio per la specie: dato che gli individui comunicano, si scambiano le differenze accrescendo il proprio bagaglio conoscitivo e quello della specie. Ciò non invalida il principio secondo cui nella società futura ogni divisione di mestiere fra gli uomini sarà tendenzialmente superata. La bestia nera per i rivoluzionari è la divisione sociale del lavoro. Essa scomparirà necessariamente dalla società futura, dato che è una caratteristica peculiare delle società divise in classi, specie quest'ultima che stiamo vivendo. Ma adesso c'è, ed è fondamentale per la conservazione borghese. La necessità, per l’attuale modo di produzione, di perpetuare la divisione sociale del lavoro si riflette nell'impossibilità di avere una visione unitaria dell'universo, nell'impossibilità di andare oltre al "serbatoio di idee". Interdisciplinare o anche multidisciplinare, ma sempre isola nel mare della separatezza fra le conoscenze.

Lo stimolo per giungere a una "terza cultura" è dunque sorto nell'ambiente intellettuale d'Europa, dove le "due culture" erano (sono) una realtà pesante; ma non è per niente strano che il passo pragmatico verso manifestazioni sociali sia stato fatto negli Stati Uniti. Là, negli anni '50 e '60 del secolo scorso, nacquero e si svilupparono community sincretistiche, caratterizzate dal rifiuto più o meno ingenuo, più o meno teorizzato, del modo di vita americano. La nascita della "cultura" beat, hipster, underground, fu un fenomeno speculare rispetto alla formazione dei contenitori di pensiero, definizione che è già di per sé significativa. Il pensiero europeo non si sarebbe lasciato mettere in scatola come la zuppa di pomodori Campbell's, aleggiava troppo in alto rispetto alle fabbriche. Il capitalismo americano era (è) meno sofisticato di quello europeo. Qualcosa di analogamente meno sofisticato doveva svilupparsi in reazione a una società supersfruttatrice e per di più reazionaria nel modo più becero, di cui il razzismo e il maccartismo erano solo due tra le varianti. Questo "qualcosa" fu da alcuni americani paragonato al movimento dadaista europeo di quarant'anni prima. Il paragone non è calzante, ma è utile registrarlo, se non altro perché entrambi i movimenti erano una reazione al conformismo imperante.

Il movimento beat suscitò reazioni spropositate con risvolti sadici di accanimento, per cui poeti, scrittori, musicisti furono perseguitati con tutti i mezzi, ricorrendo largamente a ricoveri coatti, trattamenti con elettroshock e farmaci. Eppure il movimento era del tutto innocuo, assolutamente apolitico e neppure molto conosciuto. Non faceva che riprendere alcuni temi degli hipster ante-guerra, che erano un modo metropolitano (in un paese di cow boy) di rifiutare il conformismo praticando la comunione fra bianchi e neri al suono di un jazz ormai sradicato rispetto alle sue origini afro-europee. Niente di simile poteva nascere in Europa, dove semmai si copiò il filone, specie quando, più tardi, si innestò il pacifismo hippy, l'area new age e, per altri versi, l'interessante fenomeno sincretico situazionista.

Come aveva annotato Norman Mailer, gli hipster erano membri di comunità vive circondate dalla morte atomica, strangolate dal conformismo, costrette a divorziare dalla società, quindi ritenute eversive. I reazionari li avevano ribattezzati beatnik dopo il lancio dello Sputnik russo, nel 1957, a sottolineare che per loro erano solo degli sporchi comunisti. Ovviamente al c0munismo, almeno quello "ufficiale", i beatnik non ci pensavano nemmeno, erano più attratti dal jazz e da infatuazioni come quella per il buddismo zen, ma di fatto erano amorali e odiavano ogni religione in quanto veicolo di violenza sociale. La loro massima aspirazione era di uscire da questa società riuscendo ad essere cool, che in questo caso non vuol dire "freddo" ma "sveglio", "presente". Come scriveva Allen Ginsberg, "diffondevano manifesti Supercomunisti in Union Square" mentre urlavano le sirene dei complessi atomici per zittirli. Supercomunisti (maiuscolo) perché si dichiaravano al di là di ciò che era creduto comunismo. Si dichiaravano poeti in odio alla scienza (Jack Kerouac), ma non parlavano né scrivevano d'altro, producendo la più angosciante, precisa, tremenda descrizione del capitalismo. L'antologia di Ginsberg Juke box all'idrogeno contiene un poema, Urlo, in cui, visivamente, la Macchina del Capitale tritura gli uomini. Quando fu letto in pubblico, l'editore fu arrestato e l'autore denunciato. Secondo lo hipster "selvaggio" Gregory Corso, non erano poeti come gli altri, che parlavano solo di poesia e di sé stessi. Erano bardi che parlavano di tutto. Per questo non avevano posto nel mondo ma in prigione sì.

Questo a grandi linee il lontano retroterra americano della Terza cultura. Una cinquantina d'anni ci separano da quell'epoca, nel frattempo c'è stata la guerra del Vietnam, l'ondata pacifista con decine di migliaia di disertori e, adoperando un termine caro a Marx, la sussunzione totale dell'arte al Capitale. Non che prima della guerra, poniamo, fosse diverso, ma "nell'era della riproducibilità tecnica dell'arte", fu inevitabile che nascesse, ovviamente in America, una fabbrica dell'arte, appunto.

Andy Warhol era nato nel 1928. All'inizio degli anni '50 aveva incominciato a produrre immagini per l'industria, imballaggi, copertine, pubblicità. La grafica industriale veniva riprodotta in migliaia di esemplari; perché dunque, si disse, non applicare la produzione seriale anche alla cosiddetta arte? In fondo l'avevano fatto anche Dürer e Rembrandt con l'acquaforte. Warhol incominciò ad usare la serigrafia per la realizzazione di opere multiple, non più come artista commerciale ma come fine artist, il che voleva dire produrre le stesse cose da pittore famoso invece che da artigiano. Siccome vendeva comunque, il successo gli consentì di realizzare telai serigrafici con la più veloce tecnica fotografica invece di quella manuale. Verso la fine degli anni '50 aveva già esposto in mostre presso i maggiori galleristi degli States. Negli anni '60 esplorò altre tecniche espressive migliorando anche quella di sponsorizzare sé stesso, ad esempio utilizzando la Coca Cola come metafora della democrazia, oppure filmando per cinque ore a macchina fissa una persona addormentata. Così, oltre che pittore divenne scultore, regista, fotografo, sceneggiatore, attore, regista, produttore e manager della propria industria dell'arte e, ovviamente, capitalista. Un Raffaello del nostro tempo. Ed è inutile storcere il naso dicendo che almeno Raffaello sapeva dipingere. Come dice Marx, ogni epoca ha il Raffaello che riesce ad esprimere (Ideologia tedesca), e in fondo anche il giovane urbinate produceva Madonne in serie. Di fatto, Warhol riuscì ad essere uno dei simboli dell'epoca. Aprì la sua bottega, la riempì di artisti e di sodali a vario titolo e la chiamò The Factory, La fabbrica. Non era l'antitesi della spontaneità beat, ne era il complemento razionalizzato e industrializzato.

Nella fabbrica universale di Andy Warhol circolavano, verso la fine degli anni '60, numerosi personaggi dediti a varie manifestazioni artistiche. Fra gli altri, un certo John Brockman, non sappiamo in rappresentanza di quale disciplina. Sembra che organizzasse eventi e progettasse ambientazioni per grandi party. Lo vediamo in una foto scattata nei locali della Factory con il padrone di casa e Bob Dylan. Nel 1969 scrisse un libro che fu un fiasco totale. Andò in crisi e scomparve dalla vita pubblica per quattro anni. Sembrava che il suo legame con i libri a quel punto si impantanasse, ma non andò così. Come aveva preso piede la fabbrica dell'arte, così prese piede la fabbrica della comunicazione scientifica.

In via naturale, la struttura del nostro cervello non ci permetterebbe di fare preferenze fra il fenomeno artistico e quello scientifico. La suddivisione fra "culture" è, fisiologicamente parlando, una sciocchezza, un prodotto sociale. Il nostro cervello riconosce delle conformazioni di segnali che rileva dall'ambiente, e le elabora per mezzo di strumenti in parte innati, in parte acquisiti. Per quanto riguarda la cosiddetta arte è ovvio che l'elaborazione sarà più semplice di fronte a uno stile figurativo naturalistico e più complessa di fronte a un'opera astratta, con tutte le gradazioni intermedie che l'uomo ha prodotto nella sua storia. L'accumulo, nella nostra memoria, di conoscenza e soprattutto di relazioni entro i vari rami della conoscenza, modifica la capacità di osservazione, elaborazione, sintesi, per cui la conoscenza acquisita modifica la conoscenza potenziale. La risonanza magnetica sul cervello di volontari ha dimostrato che i neuroni delle aree dedicate si attivano (indifferentemente dal fatto che si osservi arte figurativa o astratta, opere d'arte o di scienza) a seconda dello stato in cui si trova il bagaglio di conoscenze del soggetto. I neuroni specchio si attivano addirittura in modo indifferente rispetto al contenuto dell'oggetto osservato, e solo quando il soggetto si immedesima nel processo di produzione dell'oggetto stesso. In quest'ultimo caso, si viene a creare una empatia fra l'artista o lo scienziato e il soggetto che fruisce dell'opera d'arte o di scienza. Se il nostro background "culturale" non fosse devastato dall'ideologia borghese, potremmo godere allo stesso titolo guardando la Stanza della segnatura di Raffaello e leggendo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo. Per un Greco antico era così: non poteva concepire il bello senza il contenuto di valore da cui esso scaturiva.

Fenomeno commerciale?

Charles Percy Snow non fu ovviamente ascoltato, anzi, il suo opuscolo fu prima attaccato e poi ignorato. Nell'edizione del 1962 predisse che la separazione fra le culture non poteva durare: gli umanisti, i letterati, si sarebbero fatti almeno portavoce della scienza. Non sarebbe stata l'unificazione della conoscenza, ma sarebbe stato meglio di niente. Come si può immaginare, nulla si mosse, almeno su questo piano. Tutti continuarono tranquillamente a fare il loro mestiere come comandava la capitalistica divisione sociale del lavoro. Invece qualcosa incominciò a cambiare sul versante scientifico. L'aumento della complessità delle conoscenze, e soprattutto delle interazioni fra discipline, comportò una notevole crescita del bisogno di informazione e la conseguente moltiplicazione dei periodici scientifici. Questa sovrabbondanza di informazione finì per peggiorare le cose in un campo dove già si intrecciavano lotte fra correnti, arrivismi, affarismi, imposture, ecc. (argomento che sarebbe interessante approfondire a parte sul filone della conoscenza asservita a una ideologia). Ciò che fu interessante e per certi versi straordinario fu l'invasione della scienza nel campo della letteratura. Non più sotto forma di narrativa più o meno riferita a varie discipline, come era stato il caso della fantascienza, ma come divulgazione di qualità.

Fino a quel momento la divulgazione scientifica era monopolizzata da giornalisti, più raramente scrittori specializzati, che "spiegavano al popolo" le conquiste della scienza. Con l'apparire di discipline che coprivano più campi, come lo studio dei fenomeni caotici, della complessità, dei sistemi informatici, della logica fuzzy, delle neuroscienze, dei processi conoscitivi, ecc., gli scienziati che se ne occupavano difficilmente riuscivano a scrivere e pubblicare sintesi delle proprie ricerche su giornali e riviste. Così un modo per condividere e diffondere i risultati delle proprie ricerche fu per gli scienziati scrivere libri di proprio pugno.

Il capitalismo guasta e svilisce tutto ciò che tocca e quindi non vedrà il risorgere dell'uomo rinascimentale, neanche come caricatura; tuttavia, essendo sensibile al linguaggio del denaro, tende a ottimizzare il profitto anche nel campo della conoscenza vendibile. L'antica sintesi rivoluzionaria di conoscenze in ogni campo non è più possibile, ma succede oggi che il bisogno di conoscenza non più spezzettata, discretizzata, muova dunque ad interesse dei capitali disponibili ad investire in quella sfera. E la diffusione a livello sociale coinvolge inevitabilmente il cervello collettivo della specie. Il capitalismo ci mostra questo fenomeno sotto forma di ampliamento dello star system, adoperando cioè battilocchi pagati come stelle del cinema che diffondono scienza, architettano edifici, intrattengono masse davanti alla Tv sui più disparati argomenti: galassie lontane, civiltà sepolte o particelle quantistiche esotiche. Ma ciò nonostante il corpo sociale di fatto si è evoluto. Non importa se con lo stile dei "nuovi barbari" che non approfondiscono niente e raggiungono risultati importanti solo come sommatoria di innumerevoli nullità.

La science-fiction è un genere che ha unito letteratura e scienza. Questa unione permette a chi ne scrive, e soprattutto al lettore, se lo vuole, di abbozzare un'analisi sociale. Negli anni della sua massima diffusione gli autori, quasi tutti americani, per produrre molto si valevano di un espediente, a dire il vero poco voluto e molto inconscio: prendevano tutte le categorie di questa società, le spostavano nel futuro, in altri mondi, a volte nel passato, e le trasformavano, amplificavano, mimetizzavano. Un classico è Assurdo Universo di Fredric Brown. Scritto nel 1949, narra di un personaggio che viene proiettato in uno degli infiniti universi paralleli, nel quale ambientazione, protagonisti e avventure sono la replica fedele delle assurdità contenute nella fantascienza dell'epoca, compresa l'iconografia delle copertine, con donnine spaziali discinte terrorizzate da mostri orripilanti. Fingendo di liberarsi del realismo quotidiano preso a modello, questi artigiani della macchina per scrivere producevano in effetti una parodia della società borghese, giungendo talvolta a una critica profonda. Abbiamo recensito Philip Dick sulla nostra rivista proprio per tali interessanti aspetti. Il troppo celebrato 2001: Odissea nello Spazio, film di Stanley Kubrik, narra dell'uomo che, dalla condizione di ridicola "scimmia nuda" nonostante il suo potente hardware spaziale, rinasce a nuova vita dopo l'incontro con il mistico monolito della conoscenza. Un altro autore celebre, Robert Heinlein, oscillante fra un militarismo reazionario e un individualismo libertario, descriveva, sempre in quell'epoca, il determinismo sociale che portava alla catastrofe (L'anno del diagramma), il collettivismo militare che negava l'individuo e sconfiggeva alieni-insetti (Fanteria dello spazio), le organizzazioni rivoluzionarie basate su cellule comuniste che combattevano contro l'Ente, un dominio impersonale (La luna è una severa maestra). Più tardi – e la citazione è famosa – scriveva l'apologia dell'uomo "completo":

"Un essere umano dev'essere in grado di cambiare un pannolino, pianificare un'invasione, macellare un maiale, pilotare una nave, progettare un edificio, scrivere un sonetto, tenere la contabilità, costruire un muro, ridurre una frattura, confortare i moribondi, prendere ordini, dare ordini, collaborare, agire da solo, risolvere equazioni, analizzare un problema nuovo, raccogliere il letame, programmare un computer, cucinare un pasto saporito, battersi con efficienza, morire valorosamente. La specializzazione va bene per gli insetti" (Lazarus Long, l'immortale, 1973).

Non abbiamo la pretesa di vedervi un superamento della divisione sociale del lavoro, ma certo non siamo semplicemente di fronte al rude cow boy della Frontiera che deve cavarsela da sé contro la natura e gli indiani. Altri autori, come Theodore Sturgeon (I cristalli sognanti, Più che umano), indagano intorno a psicologie collettive, immaginando addirittura una evoluzione di mutanti, cellule individuali di un superorganismo collettivo, che la nostra specie fa intervenire quando è in pericolo.

Più significativo di tutti è forse il romanzo di Alfred van Vogt Crociera nell'infinito, iniziato nel 1939 e pubblicato nel 1950: un'immensa astronave da esplorazione, che si chiama come la nave di Darwin, ha un equipaggio composto da migliaia di specialisti la cui attività è caratterizzata da una esasperata divisione tecnica e sociale del lavoro. Tale superspecializzazione, necessaria per conoscenze approfondite, provoca non solo danni dovuti alla separazione delle conoscenze stesse, ma anche effetti sociali, cioè scontri fra componenti dell'equipaggio, coalizioni e simil-guerre. Il problema è conosciuto, e quindi i progettisti di questo mini-mondo hanno inserito fra i membri dell'equipaggio uno scienziato di tipo particolare, il connettivista, in grado, appunto, di stabilire connessioni e quindi riportare le discipline separate a funzionare come un tutto unico. Diversamente, dati gli enormi pericoli di cui è denso il viaggio, l'umanità-equipaggio non potrebbe sopravvivere. Dal connettivismo evocato in questo romanzo sono nati un ramo della corrente letteraria cyberpunk e una corrente pedagogica con una propria teoria dell'apprendimento.

La produzione letteraria di svago è ormai, fra le attività capitalistiche, una delle più commerciali, governata da regole finalizzate unicamente (e ovviamente) a trarne il maggior profitto possibile. Il best-seller è confezionato secondo queste regole e anche l'autore, volente o nolente, se vuole vendere deve adeguarsi. Bisogna dire che gli autori si adeguano facilmente e volentieri. Per ottenere lo stesso risultato in ambito scientifico, occorreva teorizzare un uomo completo, un cervello sociale, un comportamento compatibile al risultato che si voleva ottenere e, naturalmente, un connettivista. John Brockman era il connettivista giusto. Veniva dall'esperienza artistica degli ani '50 e '60, aveva sperimentato la fabbrica d'arte, avrebbe realizzato la fabbrica di divulgazione scientifica, cioè un'altra forma di arte.

Con l'avanzare della Terza cultura (in atto prima che la scoprissero e la chiamassero così) era inevitabile che si dovesse mettere ordine fra le discipline, renderle vendibili. Prendiamo ad esempio (e non per caso) un filosofo, Daniel Dennett. Il suo libro Coscienza, che cosa è tratta di cibernetica, di teoria dell'informazione, di intelligenza artificiale, di bioingegneria, di psichiatria e psicologia, di neuroscienze. Una trattazione completa poteva essere pubblicata solo in un libro. Un libro di filosofia? Certamente no. Un libro di scienza? Neanche: non è pensabile scrivere e pubblicare un libro di 600 pagine per un "bacino di utenza" formato da qualche decina di colleghi. Chi produce una merce deve poterla vendere, e il cervello sociale (per carità, ancora prettamente capitalistico) si incarica dell’incombenza: l'autore si rivolge a un agente il quale trova un editore, il quale "consiglia" all'autore di riscrivere il libro, dopo di che il proof reader massacra tranquillamente il testo, il grafico studia l'estetica della copertina, il marketing calcola la potenziale diffusione, i recensori dei media lo fanno conoscere, il supermercato mette il libro sugli scaffali. Il libro dello scienziato entra in un processo industriale e ne esce come merce. Spesso con ottimi risultati: non appena uscì, il libro di Dennett vendette 50.000 copie. La catena di montaggio del libro e dei suoi contenuti aveva prodotto un volumone che "andava bene" non per gli insetti super-specializzati ma per un sacco di lettori con neuroni differenziati facenti parte del cervello collettivo della specie. Merce che diffonde conoscenza? Sembra ridicolo, ma un'altra opposizione paradossale cade: togliamo la merce e vediamo che tutta questa merda capitalistica è il corrispettivo odierno e degenerato dell'effetto ottenuto da Galileo e dai suoi seguaci quando decisero di scrivere il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo in volgare invece che in latino. Anche se solo 10.000 copie fossero state lette e le altre 40.000 fossero finite a far figura nei soggiorni americani, l'industria avrebbe contribuito alla formazione del cervello sociale. Che cosa c'è in effetti "dietro" alla catena di montaggio appena descritta?

Reality Club, Edge: negozi con vetrina

Il già citato Brockman in quanto agente letterario un po' particolare ci serve da paradigma. Prima che gli venga in mente di rispolverare la Terza cultura di Snow, ha una storia come quella di molti altri americani da stereotipo. Viene su dal nulla, frequenta le persone giuste, ad esempio nella Factory di Andy Warhol, ambiente che gli rimane impresso in quanto industria per la "produzione di arte", espressione un tempo normale, ma oggi un ossimoro. Per diversi anni non trova il filone giusto, pubblica manuali tecnici, specie in formato digitale, che allora era poco diffuso. Accumula valore, nel senso di denaro potenziale, nel suo data base: una nutrita lista di tecnici e scienziati conosciuti nell'attività di agente editore. Fa un po' di soldi. Fallisce e si ritrova in cattive acque. Come in un film di Frank Capra, allinea le tre cose che gli sono rimaste: il gruzzolo, il data base e l'esperienza con la Factory di Warhol. Possedendo un elenco di scienziati e tecnici invece che di artisti, la sua fabbrica sarà basata sulla scienza. Affitta una tenuta in Connecticut e incomincia a far incontrare i personaggi della lunga lista. La quale nel frattempo diventa ancora più lunga. C'è tanto materiale da pubblicare. Brockman ricomincia a fare l'agente e a vendere. L'attività di incontro nella tenuta prende il nome di Reality Club.

A questo punto sarà bene dimostrare, con un po' di sano determinismo, che il geniale battilocchio Brockman è in realtà il classico strumento di fatti che si concatenano confluendo verso risultati iscritti nel maturare della forza produttiva sociale, dall'industria alla perdita di mordente dell'ideologia dominante nei confronti della realtà che muta. L'idea della Fabbrica era venuta a un artista. O no? Si può dire che "era nell'aria" e qualcuno l'ha colta, come succede da sempre nel mondo della scienza. Anche la nuova Fabbrica di Brockman non era legata al concetto di Terza cultura prima che all'agente tornasse alla memoria un altro artista, James Lee Byars. Evidentemente gli artisti sono più sensibili all'atmosfera di mutamento. Va riconosciuto, a chi mette in pratica queste intuizioni, un certo grado di prontezza. Nel 1971 Byars aveva immaginato un esperimento di "arte concettuale". Voleva chiudere in una stanza artisti e scienziati in modo che, seguendo un copione, si ponessero a vicenda quesiti sulla loro attività. Quando provò a convocare via telefono il centinaio di persone che aveva selezionato, la stragrande maggioranza rifiutò l'invito, alcuni anche in malo modo. La Grande Sintesi dello Scibile Umano fallì prima ancora che l'artista "concettuale" potesse capire come realizzarla con i protagonisti in carne ed ossa. Brockman non avvertì allora potenziali di sviluppo, ma gli rimase la pulce nell'orecchio. Dopo il fallimento e la ripresa, nella tenuta del Connecticut dove si riunivano tecnici e scienziati, s'era affacciata una possibilità reale di lavorare a una sintesi della conoscenza. Era il 1991. Per conto suo, stava emergendo la Terza cultura e Brockman ne prese atto scrivendo un articolo. Giustamente, non rivendicò il copyright né raccontò che era stata opera di "qualcuno".

"Dopo anni", scrisse, "quella cultura fossile [la prima e la seconda accumunate] è stata sostanzialmente sostituita dalla Terza cultura". Un nobile fiorentino del Tre-Quattrocento si sarebbe vergognato di leggere Dante o ammirare Leonardo senza conoscere la scienza dell'epoca che in Dante o Leonardo era sintetizzata. Oggi un uomo politico può vivere nella più crassa ignoranza di arte e scienza e nessuno se ne stupisce, ma la conoscenza si è trasformata per sempre. In questo ultimo mezzo secolo c'è stato un cambiamento profondo rispetto a quelli che hanno contraddistinto la transizione fra il Medioevo e il Rinascimento e fra il Rinascimento e la rivoluzione industriale. Oggi la conoscenza è un fatto squisitamente collettivo. Essa obbliga gli umani che la veicolano a interagire e quindi a teorizzare discipline "terze", unificanti, le quali, in realtà, sono il risultato di un cambiamento di natura della produzione materiale.

Brockman dice ancora, parlando del Reality Club, che i suoi clienti (non mistifica, usa l'appellativo del linguaggio commerciale) rappresentano tutti insieme un processo di "de-creazione". Da un'immagine cervellotica del mondo filtrata dal pensiero "creativo" e dalle opinioni, si è ormai passati a quella di un universo che risponde a regole semplici, condivise, che obbligano chi le studia a confrontarsi con una poderosa macchina conoscitiva piuttosto che con idee evanescenti. Ma il processo in corso di de-creazione riguarda anche, secondo Brockman, la de-costruzione dell'impianto religioso su cui si è formata nei millenni la nostra mentalità. Egli salva la filosofia perché ormai costretta a occuparsi quasi esclusivamente dell'epistemologia legata all'evoluzione della scienza, ma critica i marxisti, gli storici, gli psicanalisti e i creazionisti, tutti, secondo lui, colpevoli di interpretazione religiosa della materia di cui si occupano. Il marxismo sarebbe, in quest'ottica, del tutto autoreferente, mentre il mondo materiale cambia di continuo producendo sé stesso e obbligando gli uomini a tenerne conto nella loro teoria della conoscenza. Anche se Brockman avesse studiato l'Ideologia tedesca e capito la frase sul "movimento reale ecc. ecc." sarebbe un convinto anticomunista lo stesso.

Ma intanto è spinto a rappresentare questo movimento reale, che tra l'altro gli porta un sacco di quattrini. È spinto a raccogliere centinaia di scienziati, artisti, letterati in un unicum epistemologico che ricorda, fatte le differenze di epoca, l'allegoria raffaellita di cui ci siamo occupati all'inizio. L'unificazione della conoscenza è, e ancor più sarà, un risultato dello sviluppo sociale che abolisce (abolirà) la divisione sociale del lavoro. La conoscenza condivisa rompe la dannazione del "progresso" inteso come sviluppo quantitativo della produzione e anche della potenza produttiva. Non ritornerà "l'uomo rinascimentale", ma, con la scomparsa delle classi, come nota scherzosamente Marx, apparirà l'uomo-tutto senza l'assillo della quantità nel tempo (o produttività: q/t). La qualità non è mai funzione del tempo.

"Appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio a pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico" (Marx ed Engels, L'Ideologia tedesca).

Le opposizioni soggettivo/oggettivo, materia/spirito, pensiero/azione, vita/morte, coscienza/incoscienza, continuo/discreto, onda/particella, ecc. sono come la divisione sociale del lavoro: sfere del pensiero esclusive, nel senso letterale che escludono. La scienza borghese non riesce a eliminarle del tutto, anzi, ne sforna sempre di nuove sotto la veste della specializzazione da insetti. Nello stesso tempo è costretta a far emergere non solo teorie dell'unificazione ma l'unificazione stessa. Non sorprende che questa unificazione si presenti come un ibrido fra un'antica comunità di sapienti come quella raggruppata nella Scuola di Atene (un po' esoterica un po' universale) e un supermercato di argomenti scientifici di frontiera, sotto la guida di un mercante globalizzato: ogni società nuova non può far altro che utilizzare categorie di quella vecchia portandole alle loro massime conseguenze e, nella comunità-supermercato, ciò è messo in vetrina. Il bancone da esposizione della Terza cultura in rete è rappresentato dal sito Edge. Ovviamente le opposizioni permangono. Nel sito è evidente lo spirito militante pro-scienza di chi lo gestisce e di chi fornisce materiali da pubblicare, anche se la missione sarebbe, come abbiamo visto, l'unificazione delle culture separate. La pagina "Chi siamo" di Edge si appella a chiunque tenda alla Grande Unificazione culturale, artisti, scienziati, letterati, storici, insomma, elementi appartenenti a qualsiasi campo della conoscenza, ma nel libro-manifesto intitolato La Terza cultura le cose cambiano assai. Intanto vi sono raccolti unicamente lavori di scienziati. Per giunta, nelle presentazioni, una di Brockman e l'altra di alcuni autori presenti nel libro, c'è un attacco diretto e abbastanza feroce agli umanisti:

"Gli intellet­tuali americani sono sempre più reazionari, spesso si vanta­no d'ignorare anche le più importanti conquiste culturali del nostro tempo. Non amano la scienza e in genere tutto ciò che è empirico e verificabile; usano un loro gergo e s'inventano dispute che solo loro sono in grado di apprezzare " (John Brockman).

"Sono molto pochi gli intellettuali inglesi che cercano di ca­pire la scienza; quando poi gli argomenti sono del tenore di quelli presenti nel libro di Stephen Hawking, Dal big bang ai buchi neri, si sentono fuori dalle loro acque territoriali. L'a­credine che mostrano in questi casi può essere spiegata solo con il senso di sconforto che provano per la loro ignoranza" (Paul Davies).

"Gli intellettuali inglesi vivono nel terrore di perdere il monopolio della cultura. Hanno fre­quentato le scuole giuste, hanno studiato i classici e la lette­ratura inglese, e si sono abituati a pensare agli scienziati co­me a gente di second'ordine… Adesso costo­ro hanno paura: non capendo niente di scienza, la loro unica difesa è sostenere che non ha importanza" (Nicholas Humphrey).

"Nessuno riesce più a immaginare come cambierà il mondo durante la propria vita… Le cose mu­tano troppo in fretta, come mai era successo in precedenza. Ed è evidente che il ritmo di questi cambiamenti è dettato dallo sviluppo scientifico. Dunque, chi non ha la mente in le­targo e vuole capire cosa sta succedendo legga i libri scritti dagli scienziati" (Daniel Hillis).

"Ascoltando studiosi di materie umanistiche, mi sono accorto che hanno difficoltà nel co­municare i concetti più astrusi delle loro discipline. Non rie­sco a seguirne i ragionamenti riga per riga, perché il loro lin­guaggio risente delle dottrine di qual­che filosofo di cui non capisco assolutamente niente. Talvolta ho l'impressione che provino un certo compiaci­mento a essere oscuri; perché poi la cosa faccia tanto tendenza non so proprio dire" (Lee Smolin).

Come si vede, gli scienziati sono partiti alla carica dando fiato alle trombe con una certa arroganza. Nel loro lavoro accolgono la spinta all'unificazione, dedicandosi con una certa coerenza al superamento degli ostacoli materiali, ma quando passano al tentativo di superare quelli sociali, cioè inerenti alla divisione sociale del lavoro, non ce la fanno proprio a rispettare il loro stesso statuto e riducono la Terza cultura al vecchio comparto scientifico che difende il proprio orticello contro quello del comparto umanistico. Dalle citazioni si evince anzi che la Terza cultura è semplicemente la Seconda che parte alla riscossa per diventare la Prima. Eppure uno spiffero di rivoluzione ha investito le Due culture producendo un bisogno di cambiamento, anche se i loro rappresentanti non sono stati per ora all'altezza.

È ovvio che dal punto di vista della società tecnologica relegare gli scienziati nelle università e nei laboratori mentre si riempiono i parlamenti e quindi i governi di letterati non è una buona operazione. A noi non importa nulla, anzi, dato che il nostro orizzonte è la fine di questa società, ciò vi contribuisce senz'altro. Ma è comunque significativo che l'asimmetria si radicalizzi per cause materiali: Terza cultura o no, il famoso "movimento reale" va da una parte verso la neutralizzazione delle chiacchiere senza contenuto empirico e dall'altra verso l'esaltazione forsennata della tecnologia. Ironia della sorte, mentre il mondo della scienza strilla contro l'emarginazione culturale, esso stesso mette a disposizione dei suoi nemici letterati la produzione in massa di potentissimi veicoli d'informazione, reti televisive, computer, Internet. Tutti strumenti che diffondono certo più opinioni prive di contenuto empirico che non conoscenza del mondo. Più affabulazione, ma anche più "merdoso" scientismo positivista, altro che scienza e tecnologia.

Che cosa sta succedendo?

La Terza cultura dunque esiste, si manifesta, prende piede. Ma che cosa è realmente se, come mostrano le citazioni, il suo esercito militante non è "all'altezza" del compito che si pone? È una conoscenza "pop", consumata al self service ipertecnologico che ormai teniamo nel taschino. Va di corsa e nessuno può più aver tempo di approfondire. La "cultura" non è più il contenuto di un libro, la memoria tramandata da una casta universitaria, una trasmissione individuale di conoscenze: è la tecnologia che adoperiamo. Lo sappiamo tutti che un bambino impara ad usare il computer già in tenera età, a navigare in rete e a giocare meglio di un adulto. La tecnologia non è più quella meccanica relegata nelle fabbriche, è nelle case, permea la vita dell'uomo. Il computer non è una macchina a vapore, un motore elettrico o un televisore, è una protesi del cervello sociale. Quando diventa argomento di discussione e di studio, tutto è già accaduto. La Terza cultura è la nostra vita normale. E finché il capitalismo esiste è vita capitalistica. Se è vero che la produzione dell'amigdala di selce scheggiata ha fatto evolvere la mano, il cervello e le aree dedicate al linguaggio, allora è anche vero che la tecnologia ci farà fare un salto analogo in tempi non certo bio-evolutivi. Ma ciò dovrà accompagnarsi a una rivoluzione sociale, perché il capitalismo è un freno assoluto alla conquista della nuova umanità da parte dell'uomo.

Per adesso la scienza superstar finisce sulle copertine delle riviste, produce trasmissioni televisive da primati d'ascolto, permea il cinema con i suoi effetti speciali. È insomma uno degli ingredienti del mercato, una merce immateriale che si vende bene. Ha invaso il linguaggio, tanto che non si fa in tempo ad aggiornare i dizionari cartacei, anzi, in un certo senso è diventata il linguaggio. Come abbiamo visto nello scorso numero di questa rivista, la nostra specie è in una condizione ontologica rispetto alla conoscenza, nel senso che siamo biologicamente fatti in un certo modo e conosciamo il mondo attraverso i sensi. Superata una certa soglia, però, le conoscenze acquisite si organizzano e permettono un salto epistemologico (cfr. anche Einstein e alcuni schemi…). Da questo punto di vista, le due culture criticate da Snow avevano tutto sommato una ragione d'essere dovuta all'esplosione rivoluzionaria del capitalismo: le scienze perseguivano lo scopo di conoscere la natura, mentre l'arte, la letteratura, la storiografia rappresentavano il linguaggio con il quale narrare la conoscenza acquisita in rapporto alla vita dell'uomo. Il problema era che i due livelli non si parlavano, ma la loro esistenza era spiegabile, quindi la dicotomia in via teorica superabile. Non era forse vero che ormai vaste porzioni delle due sfere si sovrapponevano costringendo gli uomini a escogitare processi interdisciplinari, varare teorie del tutto, cercare l'unificazione delle conoscenze?

Abbiamo visto che invece di una sola "cultura" come sintesi delle due esistenti, ne è nata una terza. Bel risultato, verrebbe da dire. Ma non poteva essere diversamente. Ognuna delle due culture svolgeva una funzione complementare rispetto all'altra. Con la terza cultura ciò non può essere. Non solo perché essa non ha potenzialità e capacità di "dialogo" con le altre due, ma perché nasce materialisticamente da presupposti diversi. Ha superato l'esigenza di armonizzare il nostro essere ontologico con quello epistemologico e anche quella di narrarne le vicende. La nostra corrente aveva messo in evidenza come la teoria venisse dopo la prassi: l'uomo prima "fa" e poi pensa, la teoria viene per ultima, anche se, una volta che s'è precisata, è indispensabile per una prassi consapevole. È la Terza cultura che, in quanto figlia della scienza e della tecnologia, ha prodotto gli uomini che le sono serviti a teorizzare sé stessa. Non dovrebbero più esserci difficoltà ad affrontare un processo di autonomizzazione dopo che abbiamo capito come si è autonomizzato il Capitale che in questa società è alla base di tutto. La Terza cultura tende ad eliminare la rappresentazione narrante della società basata sulla scienza e sulla tecnologia: lo scienziato ormai si narra da sé, scrive bestseller, va in televisione, rilascia interviste, ecc. Il suo sarcasmo nei confronti del letterato ha una base fondata e il livore con cui risponde quest'ultimo ne è l'aspetto speculare. D'altronde il letterato non ha scampo: se non vuole finire in un ghetto dove neanche i bambini lo prenderanno più in considerazione, distratti come sono da aggeggi informatici di ogni tipo, deve scendere sul terreno scientifico. Ciò non vuol dire mettersi a produrre scienza, ma parlare il nuovo linguaggio. Marx diceva: che ne sarebbe del greco messaggero Ermes con le ali ai piedi nell'epoca del telegrafo? Oggi si potrebbe dire: che ne può essere del filosofo, del letterato, dello storiografo, con i loro elzeviri, nell'epoca di Internet e di Wikipedia, quando stuoli di barbarici dilettanti, sommando ignoranze individuali, producono conoscenze collettive che battono in quantità e spesso in qualità i profondissimi baroni? (cfr. Wikipedia, il caos e l'ordine e Uno spettro si aggira per la rete).

Le grandi questioni che infiammavano i filosofi di un tempo: che cos'è l'anima, che cos'è la coscienza, che cos'è la mente, oggi sono affrontate scrutando nei cervelli mentre sono in funzione, con apparecchi di risonanza magnetica nucleare. L'intelligenza è declassata a interazione fra particelle e molecole, e se persistono domande su di essa l'esponente della Terza cultura non pensa a una filosofia dell'Io ma al modo di simulare i processi cerebrali con le macchine di cui dispone. Gli scienziati osservavano il cervello, ne sezionavano le forme, ne misuravano le capacità; i filosofi e i letterati ne cantavano le meraviglie con elucubrazioni sull'individuo che lo possedeva; oggi i terzoculturisti studiano il modo di riprodurne uno.

La strumentazione teorica e tecnica di cui dispone la Terza cultura evolve più in fretta di ogni teoria che possa nascere sulla strumentazione stessa. La scienza pop non richiede credenziali accademiche, si accontenta del successo, perché oggi può avere successo unicamente chi si adegua alla tecnologia in evoluzione. La Terza cultura è dunque profondamente autoreferente, molto più delle Due culture che vorrebbe soppiantare. Ma, come dicono i suoi sostenitori,

"A differenza di quanto accade nella cultura tradiziona­le, i risultati della scienza non riguardano le invidie di una casta di mandarini astiosi; le sue conquiste cambiano la vita di ciascuno di noi e del pianeta sul quale viviamo" (Brockman).

"La scienza è semplicemente più rilevante, nella pratica, delle nuove opinioni scritte a pié di pagina su vecchie opinioni altrui" (Kevin Kelly).

Questo è il punto. La storia della nostra specie non s'è svolta sotto il segno di qualche cultura ma, al contrario, ha prodotto cultura mentre si svolgeva. Oggi la cultura in quanto tale conta né più né meno di quanto contasse in qualsiasi altra epoca, ma ognuno di noi può comprare per pochi euro un computer infinitamente più potente di quelli disponibili trent'anni fa e mettersi in rete con un click. Dopo di che può interrogare il moderno oracolo sulla vita, sulla realtà, sulla coscienza, e sentirsi fornire risposte che nessun uomo di altre epoche avrebbe potuto sentire, nonostante i filosofi si fossero posti da sempre le stesse domande. Oggi dunque non si naviga su Internet per cercare dati con i quali emulare Aristotele ma per partecipare a una vita tecnologica artificiale, in una specie di commistione "fra il nato e il prodotto" (Kevin Kelly).

C'è una differenza enorme rispetto al passato. La scienza classica poggiava su di un rapporto fra teoria ed esperimento, e non aveva senso stabilire se fosse necessario incominciare dalla teoria o dall'esperimento. I risultati scaturivano dall'unione di entrambi, la prima dava senso ai fatti, il secondo forniva una verifica della teoria. Ora, con il computer, possiamo "far girare" un programma di simulazione (del traffico, della distribuzione del reddito, del rapporto predatori/prede in un ecosistema, ecc.). Non c'è né teoria né esperimento, ma una riproduzione della realtà per mezzo di dati ricavati dalla realtà stessa e dell'interazione fra elementi del sistema. È scienza o letteratura? È teoria/esperimento o semplice descrizione della realtà come in un quadro? È evidentemente una terza "cosa", un mondo virtuale parallelo a quello reale. Esiste un programma, scaricabile da Internet, con il quale si può simulare la vita di organismi in grado di mutare, evolvere, adattarsi (cfr. Tom Ray). I dinosauri di Jurassic Park erano simulazioni al computer e i loro muscoli erano una rappresentazione ragionevole evocata in base ai dati presenti sugli scheletri reali. E i dati erano quelli raccolti dagli scienziati che studiavano i fossili. Questa non è più semplice unione fra discipline scientifiche, qui la scienza è approdata a Hollywood, cioè al mondo, anche se con risultati cinematografici ben diversi rispetto alla sintesi letteraria di cui fu protagonista ad esempio un Italo Calvino.

Nessuno può sapere quali saranno gli sviluppi di una situazione come quella odierna. Il linguaggio scientifico è globale e accessibile a tutti. Idem per il messaggio che trasmette. Di certo non durerà più a lungo la dicotomia tra le sfere della conoscenza e tra le discipline specialistiche al loro interno. Non è ozioso rilevarlo: Marx fa dipendere le rivoluzioni, i cambiamenti epocali che portano al succedersi dei modi di produzione, dal fatto che, ad un certo grado di sviluppo della società, gli apparati sovrastrutturali soffocano ogni ulteriore sviluppo della forza produttiva sociale, per cui vanno distrutti. Alcuni vedono in questa proposizione un concetto quantitativo del cambiamento (più produzione, ecc.). Sbagliano: è già sotto i nostri occhi un chiaro processo qualitativo verso il superamento del capitalismo.

Letture consigliate

  • Brockman John, La terza cultura, Garzanti, 1995.
  • Comte Auguste, The positive philosophy, Calvin Blanchard, 1858 (download libero su Google books).
  • Dennett David, Coscienza, che cosa è, Laterza, 2009.
  • Edge, http://www.edge.org/.
  • Huxley Thomas, On the physical basis of life, Charles Chatfield, 1870 (download libero su Google books).
  • Kelly Kevin, Out of control, URRA-Apogeo, 1996.
  • Lalande, Dizionario critico di filosofia, ISEDI 1971.
  • Lenin, Quaderni filosofici, Editori Riuniti, Opere complete vol. XXXVIII, 1969.
  • Marx Karl, Lettera al padre, 1837, Editori Riuniti, Opere complete vol. I, 1980.
  • Marx Karl, Glosse in margine al manuale di economia politica di Adolph Wagner in Marx, Scritti inediti di economia politica, Editori Riuniti 1963.
  • n+1 nn. 15-16 (numero monografico sulla teoria della conoscenza).
  • n +1 n. 21, Le molteplici culture dell'epoca borghese, Recensione de La terza cultura a cura di John Brockman.
  • n +1 n. 4, Einstein e alcuni schemi di rovesciamento della prassi, www. quinterna.org/pubblicazioni/rivista/04/einstein.htm.
  • n +1 n. 21, Wikipedia – Il caos e l'ordine, www.quinterna.org/rivista/21/ wikipedia_caos_ordine.htm.
  • n +1 n. 25, Uno spettro si aggira per la rete. www.quinterna.org/ pubblicazioni/rivista/25/uno_spettro_si_aggira.htm.
  • Odifreddi Piergiorgio, La guerra dei due mondi, in C.P. Snow, Le due culture, Marsilio, 2005 (estratto nell'archivio di Repubblica).
  • Ray Tom, programma di vita artificiale Tierra, scaricabile: http://life.ou.edu/tierra/
  • Riechers Christian, Gramsci e le ideologie del suo tempo, Graphos 1993.
  • Snow Charles Percy, Le due culture, Marsilio, 2005.
  • Waldrop Mitchell, Complessità, Instar libri 1996.
  • Wikipedia, Stanze di Raffaello, http://it.wikipedia.org/wiki/Stanze_di_Raffaello.

Chiunque consideri la seconda legge della termodinamica resta colpito da un paradosso: se infatti i sistemi fisici tendono verso il disordine, come si spiega l'ordine che vediamo intorno a noi? Il caos cede spazio a strutture ordinate. Molecole via via più complesse, nubi di gas, stelle, galassie, pianeti, formazioni geologiche, oceani, metabolismi auto catalitici, vita, intelligenza, società. Con il passare del tempo aumenta la complessità e l'organizzazione. C'è una logica che guida la materia ad assumere spontaneamente una certa organizzazione. Molti di noi pensano che essa sia una proprietà non solo dell'intero universo, ma anche dei sistemi matematici noti come "adattativi complessi". Fatti girare su computer, questi sistemi si evolvono da stati caotici e indifferenziati a stati organizzati, differenziati e interdipendenti. Proprio come succede nell'evoluzione naturale. I sistemi adattativi possono essere deboli o forti. Quelli deboli danno luogo a forme molto semplici di auto-organizzazione. Quelli forti generano forme più complesse, come la vita. Ammettiamolo: sappiamo ancora molto poco su questi argomenti. Ci sfugge la vera natura dell'organizzazione, ignoriamo perché alcuni sistemi sono adattativi e altri no. Sappiamo però che devono immagazzinare informazione, che le loro parti devono essere in grado di scambiarsi una certa quantità di informazione, che sopra e sotto questa quantità la complessità viene meno. [Sappiamo però] che il nostro stato attuale non è che un gradino di questo processo. Le intelligenze cibernetiche sono il prossimo gradino dell'evoluzione dei sistemi complessi adattativi (Doyne Farmer, in La Terza cultura).

Rivista n. 34