L'Italia nell'Europa feudale (4)
Il retroterra storico del capitalismo più antico del mondo

4. Che cosa fu il feudalesimo?

Il feudalesimo prende il nome da "feudo", termine "il cui significato originario sfugge ancora agli storici" (Duby). Abbiamo appena visto che, stando a Marx e alla nostra corrente, esso è un intermezzo dissolutivo tra l'antichità classica e il capitalismo, l'elemento catalizzatore del divenire capitalistico. Ma il catalizzatore ha la proprietà di rendere possibile una reazione chimica senza parteciparvi. Questo ci sembra fondamentale per capire la complessa società feudale: essa può essere definita semplicemente come "sistema gerarchico degli obblighi e dei benefici", ma in tal modo non si descrive un modo di produzione bensì una sovrastruttura giuridica (che peraltro non fu mai legge scritta unitaria). Riportiamo per esteso quanto scrive un eminente medievalista a proposito del feudo:

"Il feudo è una forma di possesso che, a differenza di altri concessi a contadini o artigiani, non obbliga il suo titolare a servizi materiali; è un bene che procura un reddito, e quando si tratta di un fondo, è ge­neralmente 'provvisto' di agricoltori che lo lavorano. Il proprietario, pur conservando il suo diritto eminente su questo bene, ne concede l'usufrutto al feudatario. Da quel momento il feudo appartiene al feudatario, il quale può lasciarlo in eredità, venderlo, dividerlo, frazionarlo, sempre che sia autorizzato dal concessore e che lo risarcisca in qualche modo. La concessione termina alla morte del feudatario o anche prima, se questi non tiene fede agli impegni presi in occa­sione dell'investitura; il concessore rientra allora in pos­sesso di tutti i diritti che aveva delegati" (Duby).

Entro questa definizione, rimane il problema del "possesso", chiaro per il diritto romano in senso di "proprietà" privata o pubblica, anche se non nel senso odierno, ma del tutto sfuggente in epoca feudale. Come dimostra lo storico Gurevich, nel modo di produzione feudale propriamente detto la proprietà privata non esiste. Anche l'allodio, in origine proprietà di stirpe e poi individuale, pur permettendo in teoria di "usare ed abusare" del bene, come recitava il diritto romano, in epoca feudale non è affatto "proprietà privata". Il sistema del vassallaggio descritto qui sopra da Duby appare come un ritorno indietro rispetto alla proprietà romana, tutto il contrario di ciò che sembrerebbe utile per rivoluzionare l'antico modo di produzione. Gli storiografi moderni, basandosi quasi esclusivamente sulla sovrastruttura, ammettono che detto sistema fu portato dai barbari. Quindi la rivoluzione non consistette nell'apporto positivo di qualche innovazione materiale e politica, ma nella distruzione di ciò che esisteva. L'Europa, specialmente la sua parte rimasta romana, ebbe bisogno del collasso agrario per maturare le condizioni urbane atte ad assorbire la barbarie ed esplodere nella rivoluzione produttiva alla fine del Primo Millennio.

Chi romanizza chi?

In Italia questo passaggio fu decisamente diverso rispetto a quello degli altri regni barbarici. La barbarie fu assorbita e dissolta. Odoacre fu oggettivamente uno degli imperatori romani, anche se si proclamò rex gentium portando le insegne imperiali a Bisanzio. Teoderico ricalcò le orme degli imperatori e, cercando di ricostituire l'Impero d'Occidente, si scontrò con Bisanzio cui aveva sottratto Ravenna. La Guerra Gotica sfiancò tutti e permise "ai più feroci fra i feroci barbari", cioè ai Longobardi, di prendersi l'Italia. Ma essi, in capo a un decennio, non riuscirono più a darsi un re e regredirono a federazione di capi gentilizi che chiamarono duchi, alla romana (da dux). Si fecero cristiani cattolici romani a velocità inconsueta. Si diedero un diritto scritto alla romana e infine, come osservò Machiavelli, dopo un paio di secoli "di longobardo non avevano conservato che il nome". Si potrebbe continuare con i Franchi, il cui re, poi imperatore, si proclamò rex langobardorum sui vinti ormai romanizzati, facendosi egli stesso promotore di una romanizzazione di ritorno, cioè di un mondo che, almeno in Italia, aveva fino a quel momento trasformato tutti gli invasori (e avrebbe continuato a romanizzare i Germani che a ondate successive sarebbero scesi dal Nord). È curioso come un altro storico di fama spieghi la romanizzazione dei barbari con la volontà dei barbari stessi:

"Facendosi incoronare dal Papa, Carlo Magno non guardava all'avvenire, ma al passato. Il suo modello era l'Impero romano. Più che creare una civiltà futura, voleva far rinascere l'antica civiltà romana, rianimandola grazie al cristianesimo. Naturalmente, resta un grandissimo personaggio storico. Ebbe grandi progetti che in parte riuscì a realizzare, contribuendo a fondere i Latini e i Germani, la tradizione romana con quella barbara" (Le Goff).

Come al solito il punto focale è il Grande Individuo che "vuole" fondere barbarie con romanità al fine di ripristinare l'Impero attraverso il cristianesimo. Se qualcuno nel Medioevo avesse "voluto" qualcosa del genere l'avrebbe fatto scrivere dai suoi memorialisti; invece abbiamo solo cronache, brandelli di legislazione, atti notarili e formule roboanti di rapporti fra rappresentanti dei vari strati sociali. In effetti il barbaro Carlo aveva bisogno della Chiesa, come questa aveva bisogno di lui, perché il contesto economico-sociale vedeva entrambe le forze in posizione complementare nel corso del lungo cammino verso la formazione degli stati nazionali, vera culla del moderno capitalismo. Né l'antico impero, né il nuovo assetto barbarico, né la Chiesa potevano tanto, e quindi si produceva inevitabilmente uno scollamento fra i rapporti politici, ovvero "l'anarchia feudale" (Tabacco), e il movimento materiale verso lo Stato nazionale, centralizzato, fondato sulla legge. I feudali cronisti dell'Alto Medioevo non ci fanno il piacere di descrivere il substrato materiale, che oggi non è facile discernere, e si limitano a raccontarci storie e relazioni fra persone. Aspettarci altro sarebbe come pretendere che la Cronaca di Novalesa (tanto per citare una pubblicazione integrale e di facile reperimento) ci parli del modo di produzione feudale invece che di santi monaci, feroci Longobardi, demoniaci saraceni o imperatori mandati da Dio con qualche miracolo di contorno. Per questo ci è indispensabile avere una chiave di lettura. Altrimenti le transizioni del passato non ci serviranno a comprendere quelle del futuro:

"Non può accampare pretesa a chiamarsi dialettico e marxista chi non sa leggere, ogni qualvolta si discute del passaggio da precapitalismo a capitalismo, i taglienti enunciati del passaggio da capitalismo a comunismo, che sono tutti capiti e addotti a rovescio non solo dagli opportunisti delle varie storiche ondate ma anche dai gruppetti delle sinistre eterodosse che nelle loro storture svelano ad ogni tratto la loro soggezione reverenziale per i 'valori' capitalistici di libertà, civiltà, tecnica, scienza, potenza produttiva" (Dottrina dei modi di produzione).

Dottrina dei modi di produzione

Riprendiamo un momento Marx. Solo i rapporti sviluppati permettono di decifrare compiutamente il contenuto dei modi di produzione superati come passi verso ciò che è già attuato (per vedere il proprio futuro la Germania non doveva far altro che guardare all'Inghilterra; ogni passo in avanti realizzato in un determinato paese era immediatamente "un passo compiuto per tutti i paesi del mondo"). Anzi, per essere più precisi, il contenuto sostanziale di una determinata forma di produzione si manifesta chiaramente solo allorquando essa si dimostra superata. Analizzare la vecchia forma feudale (n-1) vuol dire considerarla come capitalismo in divenire verso la forma comunista futura (n+1). Ciò non significa tanto scovare "elementi di capitalismo nel passato" quanto individuare la dinamica che porta al capitalismo di oggi (n). L'esistenza di rapporti proto-capitalistici di per sé non spiega il trapasso dal feudalesimo al capitalismo: devono realizzarsi le condizioni primarie, quindi non solo il capitale mercantile ma il rapporto capitale/salario. E tale rapporto deve essere generalizzato.

È necessario rendersi conto che la soppressione della forma feudale è stata opera della stessa forma feudale ben prima della rivoluzione politica. La rivoluzione politica del 1789 ne è stata la conseguenza diretta, ma in nessun modo la causa. Perciò la vera forma feudale non è il trito schema piramidale che si trova sui libri di storia del feudalesimo ma la realtà soggiacente, cioè il processo di dissoluzione del rapporto concessione-padrone-servo che lascia il posto a quello proprietà-capitalista-operaio. La forma sovrastrutturale può perpetuarsi nel tempo senza rappresentare altro che sé stessa: e infatti la troviamo vuota e senza significato nell'Inghilterra di oggi, nella Francia alla vigilia della Rivoluzione e soprattutto nell'Italia post-risorgimentale, dove si agitavano nobiltà decadute da secoli e che non contavano nulla. Ciò che invece conta è il lavorìo di mezzo millennio che porta al passaggio dalla situazione pseudo-capitalistica della Roma imperiale a quella proto-capitalistica di molte aree d'Europa dopo il Mille. La elementare formula del passaggio dal feudalesimo al capitalismo è la seguente:

Comprare a buon mercato e vendere caro Scambio fra equivalenti

Dove la freccia rappresenta la transizione fra la situazione descritta alla sua sinistra e quella descritta alla sua destra. Posto un bivio ipotetico al XII secolo in Europa, a sinistra abbiamo il mercantilismo tesaurizzatore, tipico ad esempio dell'area anseatica; a destra abbiamo il capitalismo accumulatore delle manifatture e delle industrie italiane.

"Il patrimonio monetario non ha inventato né ha fabbricato il filatoio e il telaio. Ma, strappati dalla loro terra, filatori e tessitori, con i loro filatoi e telai, caddero sotto il potere del patrimonio monetario, ecc. Il capitale, di suo, non fa altro che unificare le masse di braccia e di strumenti che esso trova già" (Marx, Grundrisse, Formen).

Paradossi dello sviluppo borghese

Osservazione ulteriore di Marx: ci troveremmo di fronte a un paradosso logico se dicessimo che per avere Capitale occorrono operai e che per avere operai occorre Capitale. In realtà nel feudalesimo integrale sviluppatosi fuori dall'Italia non c'erano né l'uno né gli altri, e per sciogliere il paradosso fu necessario giungere a un livello superiore tramite la dissoluzione dell'unità produttore/mezzi di produzione. Occorreva la rivoluzione agraria, la liberazione dei contadini per avere forza-lavoro. Ciò non c'entra nulla con il fatto giuridico o consuetudinario delle sovrastrutture: la servitù della gleba fu abolita per legge in tempi diversissimi, nel XIII secolo nell'Italia centro-settentrionale, nel XIX in Germania. Le terre al confine nord-orientale dell'Italia furono integrate nella Repubblica di Venezia, una potenza che trafficava in schiavi ma gestiva l'agricoltura in modo capitalistico. Una parte di queste terre passò all'Impero asburgico, e conobbe, di ritorno, la servitù della gleba (abolita poi nel 1848); ma di sicuro non fu coltivata e amministrata in modo feudale.

Dante, che di mestiere non gestiva certo una drogheria, dovette iscriversi alla corporazione degli speziali perché gli Ordinamenti della Repubblica Fiorentina stabilivano che chi volesse dedicarsi a un'attività pubblica fosse iscritto a un'arte. Anacronismo feudale? No, perché l'assemblea "dei popolani e mercatanti" aveva decretato l'espulsione dei feudali dalle cariche pubbliche, riservandole ai borghesi (1293). Comunque molto prima, fin dal secolo XI, alle origini del Comune, i nobili avevano incominciato a essere esautorati dai consoli, rappresentanti della borghesia e responsabili, oltre che del governo, anche della giustizia. Per cui è sensato affermare che il banno feudale a Firenze non era forse mai esistito. Le cause minori, i contenziosi tra cittadini, venivano affrontate da ufficiali detti "misuratori del Comune", funzione cui erano chiamati maestri di pietra, di legname e agrimensori. L'arbitrio del signore era sostituito dalla "misura" oggettiva, empirica, di chi era abituato a misurare per mestiere. Questo assetto giuridico non era tipico di Firenze, lo si trovava anche a Pisa e in altre città. Bologna dal XII secolo era la capitale del diritto romano in salsa borghese e il Comune "esportava" giuristi anche all'estero.

La chiave per capire le oscillazioni temporali che impediscono una cronologia feudale unitaria sta nell'industria, e l'industria è un prodotto del dominio della città sulla campagna, il quale è a sua volta un prodotto della trasformazione della terra in merce. La Firenze di Dante aveva 90.000 abitanti, 30.000 dei quali addetti alla produzione tessile. Nella stessa epoca Parigi e Milano, che avevano 200.000 abitanti, erano le capitali monstre di un sistema che ufficialmente era feudale. Specialmente la prima, che aveva dato l'impronta al feudalesimo europeo. Ma pullulava di mercanti, industriali, salariati e… disoccupati dell'esercito industriale di riserva; tant'è che dal XII secolo il re aveva ceduto alla borghesia cittadina un vasto spazio sabbioso (grève) in riva alla Senna come porto fluviale e magazzino di derrate, luogo di gran traffico, dove i salariati disoccupati si recavano in attesa di chiamate. (Diventò la piazza del raduno dei disoccupati e degli scioperanti, e da allora per "sciopero" in francese si usa il termine "grève").

Rivoluzione tessile. Feudale?

Abbiamo visto che la prima industria degna di questo nome fu quella tessile. Non erano mancati altri tipi d'industria nell'antichità: per esempio, la Gallia meridionale durante il basso impero giunse a specializzarsi e a produrre vasellame d'uso domestico per tutta l'Europa e le aree intorno al Mediterraneo (si calcola una produzione di circa un milione di pezzi all'anno). L'immenso esercito romano del basso impero necessitava di armamento unificato, e questo certamente era prodotto in serie; ciò comportava una grande richiesta di ferro che, date le tecnologie dell'epoca, solo una organizzazione centralizzata poteva soddisfare. Ma la fabbricazione di tessuti fu la prima che richiese macchine complesse e uso di energia meccanica. Ad essa si affiancò la produzione di ricami in serie, ottenuti radunando le ricamatrici in manifatture, spesso connesse a quelle tessili. Due furono i poli di sviluppo della tessitura industriale, l'Italia e le Fiandre. Dapprima gli artigiani si moltiplicarono, poi si sincronizzarono in quartieri cittadini e si specializzarono nelle singole fasi di lavorazione, infine si riunirono in manifatture sotto la direzione di un capitalista. Fu però in Italia che si sviluppò l'industria tessile meccanica con l'uso dell'acqua come fonte di energia. Si lavorava soprattutto la lana, ma anche il lino e la canapa, seguiti dalla seta, che rappresentò per secoli un monopolio mondiale, secondo solo a quello della Cina. Seguiamo lo sviluppo di questa sfera produttiva, che è un po' il paradigma dell'industria italiana.

Il baco da seta, le cui tecniche di allevamento erano gelosamente tenute segrete dai cinesi, arrivò in Europa attraverso i mercanti arabi. Non appena si imparò a produrre la seta, intorno all’anno Mille, la filatura e la tessitura si radicarono in Italia che, nel XII secolo, era già il maggiore produttore europeo (e tenne segreta a sua volta ogni fase della lavorazione). Probabilmente per ragioni climatiche connesse alla coltivazione del gelso, tre città divennero il fulcro della produzione di massa: Palermo, Catanzaro e Como. Solo nel XVII secolo la Francia entrò in concorrenza grazie al fatto che, occupando la Sicilia orientale, nel frattempo diventata un polo della produzione di seta, "esportò" un certo numero di artigiani da Catania e Messina a Lione. Ma la produzione italiana non era affatto artigianale. Vere e proprie industrie sorsero nel XIII secolo sulla base della divisione del lavoro e, ampliando il mercato della seta, trascinarono ovunque l'intero settore tessile (tra l'altro l'allevamento dei bachi aveva una notevole ricaduta sull'agricoltura). Nello stesso secolo, a Lucca, fu inventata una macchina filatrice rivoluzionaria. Introdotta nell'industria bolognese, fu perfezionata mediante l'applicazione di meccanismi mossi da una caduta d'acqua e una ruota come quelle che azionavano i mulini. Il "mulino bolognese", come fu chiamato, era una macchina a filare in legno e metallo alta sei metri con un diametro di tre. Sembra che la prima ad essere costruita e utilizzata (1272), nella filatura di un certo Francesco Berghesano, sostituisse 400 filatrici a mano. La produzione diventava più uniforme e i tessuti erano più fini di quelli fatti a mano, tanto che alcuni secoli dopo divenne argomento di vendita l'indicazione "fatto a macchina". Era del tutto evidente, in ogni ramo d'industria, che il processo iniziato con l'espropriazione dei contadini e degli artigiani continuava con l'esclusione degli operai dal ciclo produttivo e con l'espropriazione degli stessi capitalisti a causa della concorrenza. Parallelamente, nell'industria metallurgica si imponeva il maglio a camme, mosso anch'esso da una ruota da mulino. Il sistema produttivo offriva su un piatto d'argento manodopera a sempre minor costo.

Rivista n. 35