L'Italia nell'Europa feudale (12)
Il retroterra storico del capitalismo più antico del mondo

12. Esplode l'economia curtense

Il feudo è l'insieme delle "proprietà" di un signore investito di una certa carica sociale da un suo superiore. Teoricamente insieme alla proprietà vengono conteggiati i contadini e, finché ci sono, gli schiavi. La città rientra nel modo di produzione dominante quasi solo per l'interscambio con la campagna e, ovviamente, perché il feudatario ha possedimenti anche urbani (specialmente in Italia, ricchi possidenti più o meno feudali abitavano nei loro palazzi in città e utilizzavano i loro castelli in campagna sia per soggiornarvi, sia, soprattutto, per difendersi in caso di scontri militari). La curtis in linea di massima non corrisponde al feudo, dato che quest'ultimo può essere formato da molte curtes. Le abbazie, ad esempio, ne possedevano diverse. La villa romana tipica, quindi produttiva, è di per sé un sistema formato da diversi sottosistemi, dalla casa o tenuta del dominus alle ville rustiche periferiche. Ha quindi in sé tutte le caratteristiche necessarie per il trapasso ad "azienda agraria" altomedioevale. Con il consolidarsi dell'impero carolingio tale insieme di sistemi (ville e cascine) diventa il modo di produzione di un'epoca. Abbiamo usato appositamente il termine "azienda". Secondo il Codice Civile italiano l'azienda è "il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa". Appunto. Ma può esistere un'azienda non capitalistica? Oggi no, e anche al tempo di Catone la villa era un’istituzione, non un'azienda. Invece nella società tardo-antica v’erano migliaia di imprenditori che organizzavano complessi di beni per far denaro. Erano aziende le ville tardo-antiche, come abbiamo visto. La loro dinamica interna dipenderà interamente dai rapporti fra villae-curtes e città, e come al solito questo farà la differenza, almeno fino ai secoli XI e XII, tra il territorio italiano e quello del resto d'Europa. Data l'importanza del modo rispetto alla forma, abbiamo compilato una sequenza illustrativa di questa trasformazione, tenendo ben presente che essa si verifica in parallelo a quella che vede la mansio trasformarsi in vicus. Ovviamente non tutte le ville diventeranno curtes né tutte le mansiones diventeranno vici, altrimenti avremmo ancora meno documentazione archeologica di quella disponibile, dato che, nel plurisecolare processo di trasformazione, il materiale delle vecchie costruzioni sarà cannibalizzato per edificare le nuove: pietra già tagliata, mattoni già cotti, tegole, marmi, colonne, metalli di tutti i tipi verranno estratti dalle macerie del vecchio impero. Persino le statue antiche, di bianco marmo pregiato e quindi buone da calce, verranno fatte a pezzi e gettate nei forni. Niente andrà sprecato.

Finalmente il Medioevo

A scuola ci insegnavano che la fine della società antica e l'inizio del Medioevo hanno una data, il 476 dopo Cristo. Poi, che per la fine del Medioevo e l'inizio del Rinascimento è fissata un’altra data, il 1492. Seguitando, la fine del Rinascimento e l'inizio del capitalismo venivano ricondotti al 1789. Questo schema era di una comodità ineffabile. Peccato che fosse sbagliato.

Intanto, la Rivoluzione borghese del 1789 era scoppiata per abbattere il feudalesimo, quindi andiamo a scombussolare il calendario dei modi di produzione di un tre secoli e passa. E poi c'è da sistemare il Rinascimento, che per i marxisti non è un modo di produzione. Risultato: antichità fino al 476; feudalesimo fino al 1789; capitalismo fino a oggi. Questo obbrobrio di periodizzazione lo giustifichiamo con un espediente, lecito, ma sempre un espediente: il modo di produzione è quello dominante in una certa epoca. Sorge qualche problema. Ad esempio: qual era il modo di produzione dominante durante i due secoli di dominazione longobarda in Italia? La struttura antico-gentilizia germanica che dominava o quella tardo-schiavistica che era dominata? Non siamo nemmeno sicuri che entrambe le strutture si potessero ancora definire gentilizia o schiavistica. Siamo però sicuri che un'orda barbarica germanica aveva potuto dominare con la spada una popolazione di gran lunga più numerosa e a uno stadio economico-sociale superiore. Per duecento anni.

Ora, in Struttura frattale ecc. abbiamo scritto che le necessarie periodizzazioni in realtà sono sovrapposizioni di "stati" di un sistema in evoluzione continua, anche se punteggiato da episodi eclatanti con i quali scriviamo libri di storia. Atteniamoci alla sovrapposizione di stati: se nel secolo VII i Longobardi dominavano i Romani pur essendo sfasati di almeno un modo di produzione, è certo che i vinti non erano tornati a vivere in un modo di produzione gentilizio-germanico o antico-classico. I Longobardi non avevano il potere di far girare indietro la storia, di farla marciare in "ritardo", di far sì che la romanità del basso impero, decadente, corrotta, asiatizzata, potesse teorizzare una "incompiutezza" del proprio percorso. È vero che sorge subito quel grave problema storico che è l'effetto delle controrivoluzioni, ma è ben risolto sia da Marx ed Engels che dalla nostra corrente. Questo problema si risolve con l'assioma: possono essere sconfitti i rivoluzionari, mai le rivoluzioni. Le rivoluzioni non si possono fermare, nessuna forza può impedire che il mondo vada verso la futura società comunista. Anche se questa forza ci provasse, sarebbe costretta a "lavorare per noi", come disse Engels a proposito di Bismarck. Lo stesso Mussolini, dissero i nostri vecchi compagni, fu "realizzatore dialettico delle istanze riformiste del socialismo". In questa ultima parte affronteremo tre esempi eclatanti di rivoluzione condotta da forze reazionarie: monaci imprenditori, feudatari antifeudali, una capo supremo del feudalesimo che diventa capitalista di stato.

Fin qui per riallacciarci all'inizio e non perdere il filo. Dobbiamo adesso arrivare a dimostrare come mai nel Mezzogiorno italiano vi sia stato meno feudalesimo che nel Nord, in tutta la penisola meno che altrove, e negli altri paesi meno di quanto si pensi normalmente. E di conseguenza, con Marx, dobbiamo sgombrare il campo da una visione non dinamica del succedersi dei modi di produzione e sostituirla con il concetto di dissoluzione di una forma nella successiva.

Anche la visione ottocentesca dell'economia medioevale, cioè curtense, è diventata un luogo comune ormai senza senso. Non è vero che la gerarchia di poteri e di obblighi, dall'imperatore all'ultimo vassallo, oltre alla Chiesa, concentrasse su di sé tutta la proprietà terriera. Non è vero che la produzione e riproduzione sociale avvenisse in circolo chiuso, anche se ad esempio documenti carolingi suggerivano l'autarchia delle aree economiche. Non è vero che ci fosse un ritorno all'economia naturale con l'abbandono della moneta. Non è vero che lo schiavismo fosse superato e che fossero subentrati i servi della gleba. Non è vero che la popolazione delle campagne fosse tutta legata alla terra e non potesse lasciarla. Non è vero che i feudatari abitassero nei castelli e i borghesi, artigiani, letterati, ecc. nelle città. Non è vero che i secoli feudali fossero "oscuri" dal punto di vista della conoscenza, della tecnologia, della produzione e delle arti (mestieri).

È vero invece che la proprietà privata continuò ad esistere, tanto che interi feudi, castelli, palazzi, perfino città furono oggetto di compravendita. Le curtes in effetti erano composte da terreni vari e, come conseguenza della centralizzazione dell'epoca tardo-antica, questi non erano racchiusi in un confine preciso, ma si intersecavano con quelli dei privati e di altre curtes. Con tale configurazione la chiusura sociale ed economica era impossibile: e infatti c'era scambio di prodotti attraverso i mercati, sia di villaggio che cittadini, scambio che spesso avveniva ancora in natura, non nella forma di baratto bensì facendo riferimento al valore in denaro e compensando solo la differenza. Del resto che ci fosse notevole circolazione di denaro è evidente, dato che gli affitti, i dazi, i pedaggi dei traghetti o dei ponti, i trasporti venivano pagati in moneta.

Struttura della curtis

Alla fine del regno di Carlo Magno la rete stradale romana era già in rovina. Ne rimanevano tratti che davano l'idea di una direzione, ma per il resto i collegamenti avvenivano su sentieri, più raramente carrarecce percorribili con difficoltà. Nonostante ciò, il Medioevo, tutto, non vide mai un rallentamento della mobilità, anzi. Stando alle cronache, anche dei grandi eventi che richiesero spostamenti di vettovaglie, armi, tesori e naturalmente soldati, c'è da chiedersi come abbiano fatto gli uomini ad essere in viaggio per tutta la vita, percorrendo migliaia e migliaia di chilometri praticamente a piedi, con attrezzatura da viaggio non certo ultraleggera. Una mobilità estrema dunque – e non è un modo di dire – teneva collegate le comunità di villaggio tra di loro, alla città, alle fattorie. L'Impero carolingio non riuscì a rimettere in piedi le mansiones, nemmeno in parte. Così si limitò a preservare i ponti e i valichi, lasciando alle abbazie il compito di assistere i viaggiatori; compito gravoso e costoso, per cui si incominciarono a pagare pedaggi ovunque vi fosse un passaggio obbligato. Tra questi punti nodali dovevano essere rimaste vestigia della rete romana, almeno come punti di riferimento. Altrimenti non si capirebbe per quale motivo un copista del XII secolo volesse o dovesse riprodurre una mappa del mondo come la Tabula Peutingeriana, così com'era, senza introdurre novità. Sappiamo di sicuro, grazie alla ricerca archeologica, che la stragrande maggioranza delle mansiones e dei punti di riferimento antichi erano ormai rovine quando la Tabula fu copiata. Anche la cristianizzazione di molti toponimi aveva già cancellato il ricordo di quelli romani. Eppure la mappa doveva servire a qualcosa di pratico, non è per divertimento che si disegnano 200.000 chilometri di strade con migliaia di indicazioni per il viaggiatore quando tutti quei metri di pergamena costavano un patrimonio. E sicuramente le copie erano molte. L'unica spiegazione possibile è che non ci fosse mai stata una cesura fra l'Antichità e il Medioevo, e che per il viaggiatore le mappe fossero rimaste leggibili grazie a un qualche segnale presente sui luoghi e riferibile alla mappa. Forse ci viene in aiuto l'archeologia: nel sito di Santa Cristina, che abbiamo citato come esempio di vicus con funzioni di mansio (figura 13), nell'ultimo strato dell'VIII secolo, successivo alle demolizioni per il recupero dei materiali, sono emerse fondazioni di capanne, abbastanza vaste, costruite in legno e fango pressato, con pavimenti di assi e tetto di paglia. Questo significa che il luogo era sempre stato abitato, ma che i materiali con cui erano costruite le case non ne hanno permesso la conservazione. Nel XII secolo non c'era più la mansio;  c'era però un villaggio e, tipicamente, la pieve accoglieva i viandanti. Lo strato corrispondente ha fatto da copertura  a quello dell'VIII secolo ed è stato distrutto dalle arature più recenti o dalle intemperie.

Così la curtis, in qualche modo ancora collegata col mondo, che fosse in mano imperiale, regale, abbaziale o privata, che fosse di proprietà o in beneficio, si sviluppò come erede della villa che abbiamo visto evolvere nella tarda antichità. Poco per volta venne a far parte dello schema post-romano che abbiamo tracciato in figura 11. Le sezioni sono sempre due, la pars dominica (da dominus, signore), che cambia nome rispetto al mondo romano ma non funzione; e la pars massaricia (da massarus, contadino), non più divisa in due (rustica e fructuaria). La parte padronale era gestita direttamente dal proprietario, lavorata da schiavi e, quando serviva, da braccianti stagionali od occasionali salariati. La parte meramente agraria era divisa in poderi (mansi) gestiti da contadini, servi o liberi, in cambio di un canone in natura o denaro e di giornate lavorative da utilizzare per lavori sulla pars dominica.

Spunta la figura del colono

Questa particolarità del lavoro in cambio di terra in concessione va analizzata con metodo un po' diverso rispetto alla leggenda del servo della gleba inchiodato al terreno del signore (che coltiva metà per sé e metà per il padrone), e obbligato a dare un decimo del prodotto alla Chiesa. Il sistema che ha preso il nome di corvée si è sviluppato in epoca tardo-antica e risponde, manco a dirlo, a esigenze materiali specifiche di un comparto produttivo, come quello agrario, che è a base – diciamo – biologica. Di fronte alla variabilità notevole cui ogni ciclo biologico è soggetto, ogni rigidità negli elementi della produzione è semplicemente impossibile. Anche se non sapessimo nulla, proprio nulla, del metodo di conduzione agraria del Medioevo, al racconto del fondo chiuso e del servo della gleba legato al signore e impossibilitato a muoversi dalla povera stamberga, sorrideremmo increduli. I cicli agrari dipendono dal sole e dalla pioggia, dalle variazioni demografiche, dalle politiche fiscali, dalle pestilenze, dall'impoverimento o arricchimento del terreno, dalla qualità dei semi, dalle tecniche di coltura e da mille altre variabili. Non può essere fisso unicamente il rapporto sociale. Infatti anche in piena epoca schiavistica l'ottimo Columella annota le variabili che fanno di un investimento la fortuna o il disastro, e fra di esse vi è pure l'umore dello schiavo, che costa 8.000 sesterzi e, se non è trattato bene, lavora male, figlia poco e si rivela un cattivo investimento.

Nel IV secolo, nelle ville compare la figura del colono. Non è ben chiara la sua funzione e gli storici non sono d'accordo tra loro. Di certo il colono è un uomo libero, in grado di gestire una pars rustica con la famiglia e di pagare un canone. Essendo libero va e viene quando vuole, con disagio del dominus. Costantino emana una legge che in casi specifici permette al padrone di trattenere con la forza il colono che vuole andarsene. Naturalmente ciò provoca abusi, cui  si cerca di porre rimedio con un'altra legge, in difesa del colono. Il colonato prende piede e si sviluppa, guarda caso, proprio nelle fattorie ai limiti dell'Impero, quelle specializzate per prodotto, che funzionano con metodo imprenditoriale. È fin troppo chiaro che, in un sistema schiavistico rigido, appena mitigato dall'uso stagionale di lavoratori a salario o in prestito, provenienti da ville con ciclo agricolo diverso, la figura del colono introduce un elemento di flessibilità compatibile con le variabili agrarie. Inoltre, siccome il colono deve sottostare alla legge di Costantino che ne limita i movimenti, e siccome lo troviamo anche nell'alto medioevo, può darsi che sia all'origine della leggenda sui servi della gleba. Non che non esistessero schiavi e servi, ma il Medioevo era una società molto più dinamica di quanto si credesse nell'Ottocento.

La curtis dunque aveva il proprio centro amministrativo e produttivo nella pars dominica e la periferia nella pars massaricia condotta dalle famiglie alloggiate nei mansi. La sua estensione variava e comunque non era mai poco estesa, almeno rispetto alle proporzioni che abbiamo in mente noi se pensiamo a una fattoria. Quando Carlo Magno vinse la battaglia delle Chiuse di San Michele prendendo alle spalle l'esercito longobardo, per ingraziarsi l'abbazia di Novalesa, posta nella valle che porta in Francia, le concesse una curtis nel Monferrato con mille mansi. Se non è una delle frequenti esagerazioni del cronista, tenendo conto della superficie media dei mansi si calcola che il regalo imperiale fosse pari a una superficie di 13.000 ettari. Comunque alcune curtes regie arrivavano tranquillamente a 20-30.000 ettari. Parlando di estensione, c'è da tenere presente che era molto vasta anche la parte incolta, in genere boschiva, un po' per l'abbandono delle terre a causa delle passate invasioni e del decremento demografico, un po' perché gli invasori erano tutti popoli dediti alla caccia e impedivano il disboscamento. La foresta, d'altra parte, era una risorsa economica: in un documento altomedioevale conservato a Brescia, tra le risorse elencate ai fini di tributo, vi erano 700 maiali allevati col pascolo boschivo (ghiande, castagne). La foresta d'altronde, a parte pastori e cacciatori, non era completamente disabitata anche per quanto riguarda gli insediamenti: in ampi spazi dissodati, sorgevano aziende contadine, dette casalia, che non facevano parte delle curtes ed erano gestite dai proprietari con l'uso di manodopera servile e libera. Questa tipologia di fondo era diffusissima in Italia. Qualche autore dice "largamente prevalente"(Bordone-Sergi).

Nella curtis rispunta il colono che avevamo lasciato, nel IV secolo, nella pars massaricia a gestire il lavoro agricolo per sé e per il dominus in cambio di un canone. Era allora una figura giuridicamente poco definibile, ma la sua persistenza nei secoli fa di lui una chiave interpretativa del modo di produzione. In epoca di economia curtense il colono pagava un affitto, parte in natura, parte in denaro. Una quota dell'affitto veniva invece pagata con giornate lavorative, come un tempo. Essendo legato da un contratto a lunghissima scadenza, era in certo modo costretto a prestare questo tipo di servizio. Lui, non altri. Quindi la corvaria o corvée, non era una imposizione da signore a servo. Era un contratto (presso i Romani enfiteusi, e durava 29 anni). Quando il contratto era trascritto su pergamena si chiamava libellum. Certo la prestazione di lavoro, aggiunta all'affitto e alla decima per il prete non lasciava molto margine al colono. Per converso, al signore conveniva assai. Intanto non doveva mantenere uno schiavo che mangiava anche quando non lavorava (per di più gli schiavi si stavano facendo rari e costavano un sacco). Poteva inoltre tenere una esigua manodopera fissa (servi praebendarii, o mantenuti con la prebenda), ampliandola quando serviva con la prestazione dei coloni. In più, come abbiamo detto, siccome la suddivisione del territorio aveva comportato lo sparpagliamento dei mansi, il signore poteva gestire le proprietà a distanza.

 

Rivista n. 35