Legami forti e legami deboli (2014)

Normalmente lavoro anche di sabato e quindi raramente posso venire alle vostre riunioni redazionali che durano, appunto, tutto il sabato e mezza domenica. E siccome lavoro su tre turni, anche se abitassi dove avete le sedi non potrei venire neanche alle riunioni settimanali due venerdì su tre. E meno male che sono "anziano" e ho un lavoro, perché molti giovani che conosco hanno tempo ma non potrebbero venire lo stesso perché sono disoccupati e non hanno i soldi per pagarsi il viaggio e l'hotel. Questa mattina, parlando con i compagni, chiedevo se potevamo trovare qualche minuto per occuparci di un piccolo particolare: noi abbiamo invitato diversi compagni a questa vostra riunione aperta e non sono venuti. Si tratta di compagni che in parte lavorano in fabbrica con noi, in parte abbiamo conosciuto fuori dalla fabbrica con i quali abbiamo discusso, anche sui temi della rivista. Alla fine siamo venuti in due.

È un problema collegato alla relazione di questa mattina [sul lavoro comune, ndr.]: come spiegare la contraddizione fra l'interesse dimostrato verso un certo lavoro e la generale, apparentemente immutabile mancanza di partecipazione? Da notare che il fenomeno si manifesta a tutti i livelli, dal calo degli elettori alla quasi scomparsa dei raggruppamenti politici antagonisti. Personalmente ho fatto parte in un passato molto remoto di un'organizzazione super-attiva sul piano della propaganda e del proselitismo. Aveva migliaia di iscritti ed è praticamente scomparsa. Così è stato per la totalità delle organizzazioni, grandi o piccole, indipendentemente dal loro programma politico. È evidente che c'è un motivo profondo, non solo tecnico. Mi riferisco alla teoria delle reti ricordata nella relazione. È chirissimo: se in una rete di lavoro si formano soltanto dei "legami forti", cioè fra nodi che aderiscono totalmente ad un programma, la rete stessa non evolve, si richiude in sé stessa.

A me sembra però che sia successo anche il contrario: tutte queste organizzazioni che sono scomparse erano apertissime, avevano come obbiettivo non solo il fine ma il proselitismo immediato, il tesseramento, l'aumento numerico. Perciò uno si chiede: che cosa sta succedendo? Quali possono essere i sintomi di una ripresa, ovviamente su altre basi, dato il fallimento delle esperienze passate? Com'è possibile che in una grande città, quella in cui abito e lavoro, non si sappia neppure che esistete? Noi, che pure ci interessiamo abbastanza di quello che succede in questo campo, abbiamo trovato la vostra rivista per caso, in libreria, e dalla rivista siamo risaliti al sito su Internet. Tra l'altro sul sito è molto interessante la sezione dedicata ai semilavorati che mettete a disposizione di chiunque voglia intervenire per aggiungere o modificare in modo da poterli pubblicare. È una cosa che funziona? Qualcuno contribuisce dall'esterno?

 

Incominciamo dal fondo: la sezione dei semilavorati da portare a compimento va vista insieme a quella dei lavori ricevuti che, come avrete visto, sono numerosi e riguardano temi assai diversificati. Quindi mediamente il contributo esterno c'è ed è sostanzioso, anche se consiste principalmente nell'invio di tesi, articoli o appunti vari piuttosto che in un intervento diretto sui nostri semilavorati. Sul fatto che in una grande città non si sappia neanche della nostra esistenza c'è poco da dire: se la libreria dove avete trovato per caso la rivista non la esponesse, voi da quello che si può capire non sareste qui. Nel 1999, quando pubblicammo il sito, avevamo in lista più di cento librerie che tenevano ed esponevano riviste, in Italia e all'estero, oggi ne saranno rimaste dieci o dodici. Invece funzionano bene le biblioteche pubbliche, ma non abbiamo modo di sapere se e quanto la rivista sia letta. Nella vostra città abbiamo tenuto due conferenze in sale pubbliche confidando sul tam tam via Internet e su contatti locali, entrambe le volte sono venute circa trenta persone (che per noi è già un buon numero), con alcune delle quali abbiamo in seguito avuto qualche contatto sporadico. Voi siete qui per vie differenti, altri contatti sono avvenuti, e continuano, via Internet, qualche lettore ha partecipato a riunioni come quest'ultima, ed è tutto. Non è difficile ragionare su numeri, non è un segreto. Prendiamo quelli certi: nella vostra città, tra riunioni pubbliche, corrispondenze e conoscenza per vari motivi, avremo contattato in modo diretto un centinaio di persone, ma, almeno finora, non si è radicato alcun lavoro in loco attorno alla rivista. Si potrebbe concludere che alla verifica dei fatti, conoscendoci, il nostro lavoro non sia piaciuto. Eppure, tutti coloro con i quali abbiamo parlato ci hanno detto che è interessantissimo. Voi stessi prima di venire qui avete inviato dei commenti favorevoli addirittura imbarazzanti.

Veniamo alla teoria delle reti e ai legami forti o deboli. Prima di tutto va detto che Lenin, nella sua Lettera a un compagno, tratta le questioni organizzative come se avesse in mente questa teoria. Ovviamente essa non esisteva ancora, ma è assai significativo che un rivoluzionario, cento anni prima che fosse formulata, ne utilizzasse i criteri. Vuol dire che la rivoluzione lavora profondamente, e che non siamo fuori strada se utilizziamo alcuni risultati della scienza borghese quando vediamo in essi un'anticipazione della società futura. I legami forti fra i nodi di una rete producono un effetto simile a quello dell'accesso a banche dati mediante password, chi non la conosce non entra. Per uscire dalla situazione di chiusura non bisogna affatto eliminare i legami forti, bisogna invece distribuire la password presso i legami deboli. Anzi, prima ancora devono esistere i legami deboli. Questo può dipendere da noi o essere una condizione oggettiva che non abbiamo il potere di cambiare. A questo proposito in un importante testo della nostra corrente è scritto chiaramente che nelle situazioni storicamente sfavorevoli noi lavoriamo comunque con il metodo del partito sviluppato di domani nella misura in cui i reali rapporti di forza lo consentono. Questo significa che adottiamo i criteri di Lenin, cioè gli stessi della teoria delle reti o, se leggiamo bene, del nostro testo. Traduciamo: secondo Lenin, la nostra corrente e la moderna teoria delle reti, una rete di soli nodi collegati con legami forti non può evolvere se non teoreticamente, al suo interno. Questa condizione può essere scelta (turris eburnea nel testo ricordato) od oggettivamente imposta (abbiamo presente il lavoro del partito di domani ma oggi i rapporti di forza impediscono ecc. ecc.). Conclusione: per l'evoluzione di una rete a legami forti occorrono legami deboli, ma non è detto che la realizzazione di legami deboli significhi automaticamente evoluzione.

Un osservatore esterno abituato a reiterati tentativi di "creare" legami deboli in modo attivistico non vedrà alcuna differenza fra il "settarismo" della turris eburnea e quello della rete che rimane a legami forti per cause di forza maggiore. E sappiamo che la nostra corrente, in modo provocatorio, affermò di essere "settaria" di fronte a tanti sbracati attivisti. Di fatto, come avete voi stessi sperimentato, le reti a legami deboli artificiosi possono avere successo, ma questo si dimostrerà effimero. Ci sono concetti che prendono piede in determinate occasioni o anche fasi storiche e in quanto "memi" incominciano a vivere di vita propria, come l'infame leggenda inventata dagli stalinisti contro la Sinistra Comunista, la quale sarebbe capace di formulare astrazioni teoretiche ma incapace di agire a livello di prassi, tattica, rapporti con le masse. Non abbiamo mai creduto fosse il caso di fare una difesa d'ufficio, ma la domanda: dov'è finita la grande ondata del marxismo di marca terzinternazionalista? ci viene ormai riproposta in continuazione. Perché c'è stato un tempo in cui miliardi di persone erano convinte che la teoria/prassi rivoluzionaria fosse quella stalinista, "masse" di cui oggi non si vede più l'ombra? La risposta in sé è molto semplice: prima che possa emergere il paradigma rivoluzionario del futuro occorre che sia seppellito definitivamente il paradigma del passato.

Rivista n. 36