Un altro Sessantotto?

Pur dovendo riconoscere che state facendo un grosso lavoro in difesa del marxismo e della Sinistra Comunista, non sono d'accordo con il giudizio negativo che date su tutti quei movimenti o singoli personaggi che hanno rappresentato una opposizione allo stalinismo. Escludendo Trotsky e seguaci, che possiamo considerare nell'insieme e nella struttura teorica non troppo diversi da Stalin, mi riferisco soprattutto alle correnti "settentrionali" i cui rappresentanti, non omogenei né portatori di un programma monolitico paragonabile a quello di Bordiga, hanno comunque lottato per una soluzione rivoluzionaria che non passasse attraverso lo stato russo. Korsch, Gorter, Pannekoek, Rühle, Mattick, pur con sostanziali differenze, hanno lasciato una traccia profonda, rappresentano ancora una corrente di riferimento per gruppi sparsi, specie di giovani, non inquadrati nelle file di quello che voi chiamate giustamente sia marxismo-leninismo, sia luogocomunismo. So bene che i personaggi elencati non facevano parte di una corrente unitaria, ma il fatto che dopo il Sessantotto siano stati riscoperti e presi come riferimento mi sembra significativo. Tra l'altro mi risulta che proprio in quel periodo un gruppo consistente di giovani provenienti da quell'area aveva aderito al Partito Comunista Internazionale (Programma) gettando le basi per le sezioni scandinave di quell'organizzazione. So che furono espulsi perché chiedevano una discussione sul ruolo storico dell'area "consigliare" e se è così mi sembra che quel partito abbia commesso un errore madornale. La discussione non si rifiuta mai, probabilmente ci sarebbe stata una rottura comunque, ma secondo me potevano anche fare da ponte fra esperienze storiche.

Non sto parlando di fronte unico, ma di senso della misura e della storia. Se nasce un interesse credo che sia meglio coltivarlo piuttosto che stroncarlo sul nascere. Anche il Sessantotto poteva essere un'occasione per selezionare e fondere origini ed esperienze. Tra l'altro stiamo vivendo in un'epoca di fermento e mi viene spontanea la domanda: quali analogie e quali differenze corrono fra il Sessantotto, su cui la Sinistra Comunista scrisse analisi molto precise, e le ondate attuali di agitazione interclassista? Solo rispondendo a questa domanda sarebbe possibile impostare il problema in una dinamica storica in modo che da essa sia possibile trarre capacità di previsione.

Credo che sarebbe corretto rivalutare tutta l'area non "marxista-leninista" del Sessantotto, l'operaismo, il situazionismo, il neo-utopismo della "fantasia al potere", non per ricavarne qualche calderone politico, ma per studiare le spinte a forme inedite di rifiuto del capitalismo. In fondo anche voi avete scritto cose molto precise sulle periferie francesi e sui movimenti recenti, dalla "primavera araba" a Occupy Wall Street. Le condivido quasi al completo e proprio per questo credo che occorra fare una valutazione analoga per il Sessantotto. Il marxismo-leninismo è morto ed è un bene, perché gli stessi Marx, Engels e Lenin (in parte anche Bordiga) hanno fornito gli argomenti per le libere interpretazioni dei loro seguaci. Perciò bisogna riconoscere che questa morte è anche merito di un'opposizione molto più vasta della Sinistra comunista e che nelle diverse sue forme s'è battuta erigendo barricate, incendiando simboli del potere, dimostrando di essere irriducibile.

 

Nella lotta rivoluzionaria è normale che si formino convergenze, spinte unificanti su determinati obbiettivi. Una situazione del genere si verificò negli anni '20 del secolo scorso, come dimostra la corrispondenza fra la Sinistra e Trotsky o fra Korsch e Bordiga, ma non si è mai più riprodotta. Oggi sembra del tutto improbabile per due motivi: primo, perché non vi è sufficiente fermento sociale per produrre convergenze; secondo, perché le varie aree politiche sono raggruppate in insiemi divisi da baratri incolmabili di differenza. L'esperienza delle sezioni scandinave del PCInt. da te ricordata avrebbe potuto essere importante se effettivamente si fosse formato un polo d'interesse intorno al problema della degenerazione dell'Internazionale e del PC russo con relativa necessità di ritornare agli elementi fondamentali del comunismo; ma così non fu. Purtroppo ci fu invece una contrapposizione su presupposti consolidati e la soluzione fu poi obbligata (però non ci risulta che vi sia stata un'espulsione formale).

Il ripetersi di un eventuale movimento generalizzato interclassista non potrebbe che riproporre i vecchi temi, ma nello stesso tempo si realizzerebbe in un mondo capitalistico più vecchio di oltre quarant'anni. La stessa febbre sociale avrebbe un retroterra per certi versi nuovo, tanto più che stiamo vivendo una crisi di portata epocale. È quindi facile prevedere che il Sessantotto non si ripeterà. Il motivo è semplice: al culmine della ricostruzione postbellica c'era una società tesa a rivendicare qualcosa in più rispetto a ciò che aveva; oggi la società è tesa a difendere ciò che le viene tolto. La differenza è fondamentale: allora c'era spazio per il riformismo, compreso quello "con la pistola", come disse la nostra corrente; oggi il riformismo è come le facciate dei set cinematografici, dietro c'è il nulla. Il movimento rivendicativo è annichilito e il movimento politico non è all'orizzonte, quindi ci aspetta il classico caos dei sistemi giunti in prossimità di una transizione di fase.

Siamo rimasti sorpresi dal finale sulle barricate e sugli incendi. Un conto è cercare le determinazioni sociali che producono gli effetti più disparati, un conto è non trovare strano che, nella nostra epoca, a qualcuno venga in mente di erigere barricate, per di più simboliche, dato che quelle in questione non fermavano neppure le camionette della polizia. Haussman sventrò Parigi aprendo grandi viali e rendendo obsolete per sempre le barricate. Nel Sessantotto la società andò in fibrillazione per una strana miscela di aria nuova e interclassismo vecchissimo. L'operaismo non riuscì a innestarsi sul nuovo per la semplice ragione che era incompatibile. Ricordiamo che i Quaderni Rossi nel 1962 presero le distanze dagli operai che erano scesi in piazza con modalità poco ortodosse, cioè violente. Il nuovo rimase orfano e durò poco. Ancora oggi il Sessantotto viene ricordato più per la sua estetica che per i risvolti di classe. Fu grande il potenziale emotivo (base di tutte le rivoluzioni in saldatura con le ovvie condizioni materiali), che però non riuscì a trasformarsi in energia cinetica. Qualcuno vi scorse un superamento del vecchio concetto di proletariato; la nostra corrente non fu d'accordo, evocando piuttosto un parallelo col movimento dannunziano (scandalo!). Gli studenti non sono una classe e, anche se possono essere la prima espressione sintomatica della malattia sociale, non possono essere protagonisti di un rivolgimento radicale. No, il Sessantotto non fu speciale, fu molto normale. Almeno per chi c'era. Per quelli che vennero dopo fu presto leggenda. E in quanto leggenda ogni tanto ricompare sulla scena cambiando costume.

Ci sembra che questo amarcord rispetto alle piazze di allora sia un po' fuori luogo, specie alla luce della paralisi del movimento attuale in Europa, mentre altrove è degno di attenzione. Tolto l'episodio delle periferie francesi, in effetti assistiamo continuamente alla recita di un copione che esaspera caratteri del passato: riformismo istituzionale o radicale, pseudoviolenza fine a sé stessa, rassegna di tutti i salmi incendiari che finiscono in gloria pompieristica parlamentare. Serpeggia indubbiamente un clima di incertezza generale, ma le reazioni al momento sono in linea con un comportamento sociale teso al minimo disturbo. Sia il proletariato che il movimento interclassista piccolo borghese della scuola (ricordiamolo: studenti, docenti precari e baroni insieme) non riescono ad esprimere né uno scontro di classe, né quella febbre sociale generalizzata che colpisce le mezze classi quando sono rovinate nella collisione con la borghesia.

Gli individui possono rimanere inerti o fibrillare caoticamente, ma il complesso sociale ha un comportamento unitario, ed è quello che va studiato. Dicono i nostri classici che una lotta rivendicativa in una fabbrica ha carattere economico, ma che la stessa lotta estesa al proletariato in movimento unitario ha carattere politico. Operai che salgono su un tetto, per quanto incazzati, non contano niente, anche se ricevessero tutto lo spazio mediatico che chiedono. Un milione di operai che salissero sui tetti dimostrerebbero che si sono organizzati e ciò farebbe cadere in secondo piano sia la visibilità mediatica che le stesse rivendicazioni immediate. Questo vale anche per gli studenti e per le mezze classi, ma per adesso sui tetti sono saliti piccoli gruppi, subito coccolati da politici, cantanti e giornalisti.

Se parliamo di un nuovo Sessantotto, come sembra di capire in relazione all'attuale fibrillazione del mondo, dobbiamo per forza chiederci a quale livello di decomposizione del sistema siamo giunti rispetto a mezzo secolo fa. Può darsi che siamo vicini a una singolarità storica e vi è chi deduce da questo fatto e dal fermento sociale un futuro imprevedibile. Ma i momenti singolari hanno una storia pregressa, ed è questa che decide che cosa succede quando si scatena la catastrofe. La storia che la precede ci dice che un Sessantotto bis è da escludere: hanno ragione gli americani: la lotta sarà per la vita o per la morte fra i simbolici 99% e 1% della popolazione. L'uomo si è completamente dissociato dalla sua matrice naturale, ha fatto diventare sua nuova natura l'urbanesimo delle megalopoli e soprattutto ha prodotto una sovrappopolazione assoluta di cui il Capitale non sa cosa fare. Lo scenario al momento non è entusiasmante, ma quello futuro senza un ribaltamento sociale è ancora peggio: la dissoluzione del rapporto primario fra l'uomo e la terra fa sì che, nel caso si presentasse quella situazione che definiamo "singolarità", quattro o cinque miliardi di uomini – su sette – non possano semplicemente più vivere.

Non si tratta di fantascienza catastrofista. Ci sono già dei borghesi che studiano modelli realistici al computer. Chi abbia visto il film The Road si sarà accorto del fatto che la narrazione è di parecchio al di sotto della realtà possibile: nel film la lotta darwiniana è fra individui o piccoli gruppi, niente viene detto su cosa sia successo a sette miliardi di uomini. Anche se i particolari sono localmente raccappriccianti, la borghesia che ha espresso quella sceneggiatura non ha avuto il coraggio di affrontare socialmente le implicazioni del racconto: estinta una microfamiglia ne sorge una nuova con tanto di lieto fine. Nella storia vera che stiamo vivendo si formeranno invece comunità enormi in lotta per la sopravvivenza. Una di queste sarà la più adatta ad affrontare il futuro, una comunità politica anticipatrice che rappresenterà la differenza tra una cuspide tracciata sulla carta e l'avvento di una nuova epoca sulla base delle pregresse "condizioni al contorno".

La quasi scomparsa del marxismo-leninismo o luogocomunismo non è merito di nessuno ma è dovuta semplicemente alla sua estrema inadeguatezza storica. Troppo deboli e divise furono le correnti che vi si opposero o che vi si sarebbero potute opporre. Ciò tira in ballo la questione del partito storico e della sua concretizzazione in partito formale. La rivoluzione non è una questione di forme di organizzazione, lo diciamo fin dal 1921; ma è certo che il nostro modello non deve essere preso dal passato. Sempre nel '21 stabilimmo che l'avremmo preso dal futuro, come se avessimo già i compiti di una società nuova. Comunque, analogamente a quanto successe in tutte le rivoluzioni del passato, fatta salva la scala planetaria di quella che stiamo vivendo (in marcia verso la sua soluzione traumatica), non ci sarà nulla di indeterminato, ma occorreranno strumenti all'altezza del compito. Ci vuole un'ovvia cautela nel parlare di sé stessi: può darsi che n+1 esca di scena, che i suoi militi finiscano morti di vecchiaia o "degringolati" fin da giovani, ma non c'è mai stata una rivoluzione che non sapesse prima o poi darsi gli strumenti per poter vincere. Tanto vale assecondare da subito quella presente e fare il possibile per farsi "usare" da essa. Dal demone del comunismo, come diceva un barbuto dell'Ottocento, ci si libera soltanto sottomettendovisi. E se l'operazione è indubbiamente frutto di molti processi individuali, una volta che si formi una comunità di qualsiasi grandezza è escluso che ci si possa soffermare ulteriormente sui sobbollimenti degli individuali visceri. Chi partecipa liberamente, volontariamente ad un lavoro comune lo fa su presupposti condivisi, per questo la nostra corrente ha sempre escluso le aggregazioni, i blocchi, i fronti, ecc. Fatte salve le differenze naturali fra individui, spesso utili al travaso di conoscenze e memorie, il lavoro si svolge su una base monolitica, che è poi il programma-progetto che si accetta aderendo al lavoro stesso.

Aderire a una comunità per poi continuare l'esistenza da individui non ha senso, nemmeno terapeutico. Da qualche anno a questa parte la situazione è già precipitata e tramite i nostri siti in rete abbiamo la netta sensazione di un cambiamento veloce. Siamo già nelle condizioni di vedere approssimarsi l'esigenza della salvaguardia fisica di organismi, che così prendono poco per volta l'aspetto di comunità ormai capaci di estraniarsi dal sistema pur essendo molto attive nel sistema per combatterlo (gruppi superstiti di Occupy Wall Street). Non è più il tempo delle parate dimostrative. Mentre democrazia, fascismo e stalinismo sono facce della stessa medaglia che si nutrono dell'esistente, il programma-progetto rivoluzionario ha origini lontane, ha delle peculiarità che derivano da una esperienza terribile di lotta. Come ricordato in Natura funzione e tattica del partito comunista (1945), per essere consapevoli del compito rivoluzionario attuale occorre sentire che stiamo vivendo la fine della preistoria umana, fine che prepara il salto dal regno della necessità a quello della libertà, il rovesciamento della prassi (progetto).

Rivista n. 37