Dalla necessità alla libertà

"Con la presa di possesso dei mezzi di produzione da parte della società, l’anarchia all’interno della produzione sociale viene sostituita dall’organizzazione cosciente secondo un piano. In questo modo, in un certo senso, l’uomo si separa definitivamente dal regno degli animali e passa da condizioni di esistenza bestiali a condizioni di esistenza effettivamente umane. Le forze obiettive ed estranee che sinora hanno dominato la storia passano sotto controllo degli uomini stessi. Solo da questo momento gli uomini stessi faranno con piena coscienza la loro storia e le cause sociali da loro poste in azione avranno gli effetti che essi hanno voluto. È il salto dell’umanità dal regno della necessità al regno della libertà" (Engels, Il socialismo dall'utopia alla scienza).

Non è umano

Avvisiamo il lettore che questo articolo è un'apologia della macchina, o meglio, del sistema di macchine. Nella società futura sarà certo possibile per chi lo vorrà, ritornare a vivere come un neandertaliano al tempo del comunismo primitivo, ma i caratteri sociali prevalenti saranno quelli ad alta densità tecnologica. La disumana tecnologia visibile di oggi sarà sostituita da un metabolismo umano regolato da sensori e attuatori invisibili. Il ricorso ad un minimo di apparecchiature sarà il risultato di un massimo livello delle loro qualità intrinseche. Eppure c'è ancora qualcuno che scambia l'aumento della forza produttiva sociale con l'aumento della produzione. La società futura dimenticherà felicemente l'epoca del quantitativismo produttivo e tenderà a mettere in armonia l'energia dissipata con quella che ci regala il Sole. Ma quest'ultima bisogna captarla.

Partiamo da una considerazione elementare: in questa epoca di transizione la tecnologia è talmente invasiva da influire pesantemente sulla coscienza che l'uomo ha di sé stesso. Invece di sentirci liberati dalla fatica e dalle incombenze alienanti o pericolose, ci consideriamo schiavi del lavoro coatto svolto mediante macchine padrone del nostro destino. È chiaro a tutti che la differenza sostanziale tra l'uomo e ogni altro animale è la capacità di produrre manufatti secondo un progetto, cioè di produrre secondo un risultato voluto e conosciuto in anticipo. Ma non è altrettanto chiaro tutto ciò che ne deriva. Il genere di manufatti che risponde meglio a questo concetto di "anticipazione di un futuro" è quello che serve a costruire altri manufatti. Le macchine sono il prodotto che più rende umano l'uomo, secondo quanto osservava Marx a proposito dell'uomo-industria, cioè della vera dimensione antropologica, non ancora metabolizzata dalla nostra specie a causa del protrarsi del capitalismo. Eppure, per dirla con Marx, l'uomo continua a sentirsi più umano nelle sue funzioni animali, quando mangia, beve, copula, compete, dorme, che non quando fa l'unica cosa che lo distingue dalle bestie, quando cioè "lavora" e produce in modo sociale, secondo un piano. Non è da umani giungere al punto di fabbricare macchine che tendono a imitare il nostro comportamento e a scimmiottare la nostra intelligenza e sentirsene dominati invece che liberati.

Lo storico avvento delle macchine automatiche e dei robot veri e propri nel mondo della produzione non va interpretato semplicemente alla luce dei risvolti "sindacali" dovuti alla chiusura delle fabbriche meno produttive e alla conseguente disoccupazione cosiddetta tecnologica. Si tratta di un fenomeno che deve essere collocato nel più vasto processo di affrancamento dell'uomo dai processi fuori dal suo controllo e che perciò lo schiavizzano da quando è sparito il rapporto diretto fra l'uomo, ciò che produce e gli strumenti che gli servono a produrre. Se per "libertà" intendiamo capacità di avere un controllo sulla propria esistenza, sia individualmente che, soprattutto, socialmente, dobbiamo ammettere che oggi questo controllo è meno operante che mai. Mezzi potentissimi ci permetterebbero un'esistenza priva di miserie, ma l'uomo capitalistico non è capace di adoperarli indirizzando la loro potenza alla soluzione dei problemi. Anzi, sembra che più si arrabatta nel trovare soluzioni ai problemi del nostro tempo, più s'impelaga in vicoli ciechi scatenando la parte disumana della nostra specie.

Questo essere dis-umani non ha niente a che fare con la morale, l'amore per il prossimo o la carità: ha a che fare con il blocco dell'umanizzazione del primate homo nel suo viaggio dalla preistoria alla storia o, come dice Engels, dalla necessità alla libertà. Le macchine automatiche, liberando tempo di vita, contribuiscono massicciamente al crescere di un bisogno nuovo, quello di fare il salto in una società completamente diversa, dove sparisca il tempo di lavoro per essere sostituito da tempo di vita. E non si tratta di un fenomeno contingente, che può trovare un suo equilibrio una volta raggiunto un certo livello di macchinismo; non esiste un limite, il processo di automazione è una condizione essenziale per il capitalismo, non è un optional per qualche capitalista. Perciò l'eliminazione di lavoro coatto, salariato, è irreversibile e prepara l'epoca in cui l'umanità ne farà a meno.

In un lontano passato l'affrancamento dalla necessità e la marcia verso la libertà non sarebbe stato concepibile. Fino all'Antichità classica compresa, non avrebbe avuto senso fare distinzione tra fato e volontà. Solo nel Medioevo si fece avanti l'idea di un dualismo fra un destino sotto il controllo della divinità e un libero arbitrio che permettesse di spiegare e giustificare l'esistenza del peccato. L'individuo borghese ha radici nel Medioevo, è dunque più antico della borghesia come classe, ma solo con l'avvento al potere di quest'ultima dispiega idealisticamente tutti i suoi propri caratteri sociali. Con la rivoluzione borghese illuminista sparì il fato, sostituito dal determinismo e dalla meccanica; mentre la volontà, cioè la libertà, divenne prerogativa del cittadino che aveva acquisito diritti politici, meglio ancora se con mezzi rivoluzionari che avessero condotto alla democrazia. Quest'ultima non più prerogativa delle classi possidenti, come nell'antica Atene, ma potere distribuito sotto il motto "Libertà, uguaglianza, fraternità". La libertà diventava prerogativa del Popolo attraverso i diritti individuali.

Tutto ciò finì molto presto, addirittura mentre le rivoluzioni nazionali borghesi erano ancora in corso. Oggi, in piena epoca di decadenza della classe dominante, ogni riferimento alla libertà è addirittura ridicolo, dato che gli aspetti rivendicativi delle varie componenti sociali vertono su questioni assai meno ideali e più prosaiche. Perciò è necessario de-semantizzare il vecchio termine e ribadire con forza il nostro significato, che è quello del titolo e della citazione che apre l'articolo. Non è necessario sottolineare che la chiave dell'intero processo "da → a" è il crollo del sistema capitalistico e l'abbattimento dello stato borghese tramite l'emergere del partito, quindi rimandiamo al patrimonio teorico messo a disposizione dal movimento rivoluzionario e cerchiamo di capire, date le condizioni dei rapporti di classe e della produzione sempre più socializzata, globalizzata, automatizzata, che cosa in effetti bolle in pentola al di là delle percezioni immediate.

Il cervello sociale modulare

In un paese capitalistico maturo (ma stanno maturando velocissimamente anche i nuovi paesi rampanti) la proporzione tipica del PIL è intorno al 25% per la produzione industriale, il 5% per l'agricoltura e il 70% per i servizi. Nessuno se ne stupisce: è considerato un fatto normale che l'automazione cambi la natura del processo produttivo, che i salariati espulsi dall'industria e dall'agricoltura si spostino nei settori che producono merci intangibili e che la produzione si spalmi sull'intero pianeta come prodotto e fattore allo stesso tempo della crescente divisione sociale del lavoro. Ma è considerato un male sociale il fatto che i salariati espulsi si spostino dalla classe attiva per confluire prima nell'esercito industriale di riserva, poi nella sovrappopolazione relativa, infine nella sovrappopolazione assoluta. Invece– può sembrare un paradosso – è un fatto rivoluzionario: è più vicino al comunismo il paese che libera più forza lavoro, non quello che ne libera di meno. È "colpa" delle macchine? Non assistiamo forse alla quotidiana abdicazione dell'uomo rispetto alle sue prerogative di "re del creato"? Non lo diceva anche Marx che la macchina, o meglio, il sistema di macchine, trasforma l'uomo in una sua appendice, un mero guardiano senza arte né parte? Solo una società degenerata può pensare che le macchine siano come una classe dominante, intrinsecamente capaci di sottomettere gli uomini.

Nel comparto "fantascienza" della narrativa e del cinema ci sono migliaia di opere che trattano di macchine, fedeli all'uomo e più spesso ribelli, in grado di essere autosufficienti e attentare alla libertà degli umani o addirittura di sottometterli come in Terminator o Matrix (vedere il vasto elenco presente in List of fiction al robots and androids su Wikipedia). Ma la macchina non ha la capacità di essere libera, non progetta da sola, non anticipa forme a venire. Può darsi che in un futuro non prossimo (100 anni dice Stephen Hawking) possa riuscire a emulare il cervello umano, ma per adesso vale ancora il concetto di macchina in quanto protesi delle facoltà umane. Un bell'esempio ci viene dall'industria: l'acronimo CAD, Computer Aided Design, Progettazione Assistita da Computer, ci dice che la macchina, con la sua potente ma primitiva intelligenza è nostra assistente. Se nel sistema produttivo, che è un sistema di macchine, si verifica il contrario, non è certo per iniziativa della macchina.

Oggi è possibile progettare e costruire macchine in grado di assistere l'uomo fino a sostituirlo completamente, cosa assai utile specie nelle operazioni alienanti o pericolose. Si vada a convincere un montatore indiano di componenti elettronici che è buona cosa accettare un salario di fame per non essere sostituito da un robot che lo potrebbe invece liberare per sempre da quell'instupidente lavoro. Si vada a convincere un minatore cinese, i cui compagni muoiono a migliaia ogni anno, che una scavatrice robotizzata sarebbe una disgrazia per l'umanità se estraesse minerali da pozzi profondi trasformando il tempo di lavoro in tempo di vita invece che in disoccupazione e miseria. La macchina dunque non è soltanto uno strumento più o meno complesso che dà un po' di lavoro a sindacalisti e sociologi e ne toglie molto agli operai. È un elemento portante del cambiamento sociale: niente come la macchina evoca una società in cui non esiste più lo sfruttamento. Non si può drenare plusvalore da un robot, è sbagliato immaginare il persistere del capitalismo in un mondo la cui produzione fosse completamente automatizzata.

Andiamo affermando da tempo che nella società umana il cervello individuale è un modulo di quello sociale. Allo stesso modo ogni macchina è parte di un sistema e ne rappresenta un modulo. Valeva per la macchina a vapore la cui potenza era distribuita da sistemi di cinghie di trasmissione. Vale per la macchina elettromeccanica che si connette alla presa dell'energia come terminale di una rete. Vale a maggior ragione per la macchina elettronica che per la sua costituzione fisica è nodo di una rete che non si limita a veicolare energia ma fa "lavorare" informazione. Giunti allo stadio della macchina elettronica diventa possibile e quasi naturale confrontarla con il cervello umano, con la debita attenzione: ogni analogia possibile si ferma al confine fra il mondo minerale e quello biologico, che è come dire fra il mondo discreto/digitale e quello continuo/analogico. Se è vero che l'elaborazione digitale può simulare il comportamento analogico, non è vero che questa simulazione ci autorizza ad attendere l'avvento di un robot che sia un clone delle nostre facoltà organiche. Cosa nient'affatto indispensabile per la crescita di una intelligenza artificiale. Nell'articolo precedente abbiamo accennato alla Macchina virtuale di Turing rilevando che essa in sostanza rappresenta la trasposizione del nostro pensiero analogico, continuo, in passi discreti in grado di risolvere ogni problema computabile reiterando l'operazione il numero necessario di volte. Numero che è finito, e tale limite potrebbe impedire di risolvere ogni problema computabile. Ma in una Macchina di Turing si può inserire una Macchina di Turing che ha a sua volta inserita una Macchina di Turing e così via. Questa sintesi fra cervello analogico (il nostro) e cervello digitale (il computer) è possibile solo mantenendo uniti i due organi computanti, il che significa che per ottenere super-prestazioni da quello biologico si deve adoperare quello minerale, e per ottenere super-prestazioni da quello minerale si deve ricorrere a un operatore umano che capisca il problema da risolvere e scriva il programma capace di sfruttare le prestazioni della macchina.

La macchina da sola non ce la fa a simulare il cervello in tutto e per tutto. È un problema legato alla termodinamica e alla teoria dell'informazione. Affinché il computer possa sostituirsi al cervello umano, occorre che la macchina sappia invertire il ciclo naturale come sa fare l'uomo. Dovrebbe ad esempio stravolgere la catena deterministica della macchina di Turing. Entro un dato sistema, ogni catena deterministica è orientata nel tempo: lasciata a sé stessa va dall'ordine al disordine, dalla situazione meno probabile a quella più probabile, come accadrebbe nella casa in cui abitiamo se, a partire da quando è nuova e appena arredata, non riordinassimo ogni tanto. L'azione del "riordinare" comporta l'immissione di informazione nel sistema andato in disordine. Ma se il computer funziona in modo deterministico, come fa a "mettere in ordine" dei dati a partire da un ordine inferiore?

Quando si parla di questi argomenti, è quasi inevitabile ricorrere al proverbiale "esempio della tazzina". Mettiamo in ordine la nostra casa e quindi facciamo un'operazione antideterministica "locale", ma nel far questo facciamo cadere una tazzina che si rompe. Il secondo principio della termodinamica ci dice che sarà molto ma molto improbabile che la tazzina si ricomponga, a meno che noi non la "mettiamo in ordine" come abbiamo fatto con la casa, raccogliendo e incollando i cocci. È un'operazione che sa compiere anche la macchina, non esistono limiti teorici: si analizza ogni frammento per mezzo di un apparato di visione, si configurano delle forme secondo un reticolo tridimensionale, si fanno combaciare i pieni e i vuoti, ecc. ecc. Volendo si può utilizzare un robot da linea di montaggio per incollare fisicamente ogni frammento. Va tutto bene, ma a questo punto viene spontaneo osservare che la macchina lo fa perché è programmata dall'uomo. In realtà la macchina potrebbe auto-programmarsi: come non ci sono limiti teorici nel risolvere problemi computabili, così non ce ne sono nell'utilizzo di informazioni raccolte, memorizzate, elaborate, attuate. Solo che tale processo si configura come co-evoluzione del cervello e della macchina: il cervello ha "informato" la macchina la quale, operando, insegna al cervello che cosa fare, e come, per il passo successivo. Dal punto di vista dei sistemi logici, l'uomo ha incominciato per primo a produrre qualcosa, e da quel momento si è sempre trovato a dover gestire dei feedback, come un apprendista stregone. L'uomo capitalistico è un rattoppatore di situazioni critiche da lui stesso prodotte. Con lo sviluppo del capitalismo la complessità sociale è talmente cresciuta che la gestione dei vari processi si è fatta estremamente problematica tanto che questi vanno spesso, per molti versi, fuori controllo.

Vediamo in dettaglio che cosa sta succedendo.

Cervelli maggiorati

Vi sono singoli cervelli umani che, usando cervelli elettronici, amplificano la propria potenza di elaborazione mediante macchine. Nello stesso tempo si è venuto a formare un grande cervello biologico sociale, fatto di tanti cervelli individuali, che usa la planetaria rete di macchine; facendo questo, non amplifica solo la propria potenza di elaborazione ma realizza un organismo di ordine superiore, un neo-organismo, in grado sia di elaborare informazione che di produrne. L'effetto è dirompente: il cervello individuale più il computer individuale (personal) diventa una macchina bio-tecnica il cui centro di controllo, per l'attività quotidiana, risiede nella coscienza dell'individuo, situazione che permette di coltivare l'illusione idealistica che esista il cosiddetto libero arbitrio. Nel caso del cervello sociale, invece, non esiste oggi un centro di controllo, una coscienza collettiva che centralizzi le decisioni e coltivi una teoria del libero arbitro sociale. Nella misura in cui questa coscienza esistesse, sarebbe certamente un portato storico della rivoluzione in corso, una potenza in grado di assumere un assetto formale e manifestarsi non ovviamente come depositaria di libero arbitro ma come veicolo di quel "rovesciamento della prassi" di cui tanto ci occupiamo. Potrebbe essere (o: certamente sarà?) la "forma fenomenica" attraverso la quale si manifesta il partito storico e formale. Svolgendo le attività quotidiane la maggior parte degli uomini non si è ancora resa conto di cosa significa che la Rete sia diventata talmente pervasiva da assorbire il 100% delle transazioni fra industrie e servizi, quasi il 100% delle comunicazioni telefoniche e quasi il 100% delle attività produttive e logistiche, con 4 miliardi di computer installati (ma anche uno smartphone è un computer…). L'omologazione imperante non permette l'assimilazione generalizzata di un tale concetto di partito, ma è la maturità stessa dell'attuale forma economico-sociale che lo impone. Scriveva Herbert George Wells:

"Una chiarificante organizzazione universale della conoscenza e delle idee, ossia l'emergere di ciò che ho chiamato Cervello mondiale, rimpiazzerà la nostra molteplicità di gangli scoordinati… in quella e in quella soltanto, è certo, vi è l'unica chiara speranza di trovare un Amministratore Competente per le questioni mondiali. Non vogliamo dittature, oligarchie o domini di classe, vogliamo un'intelligenza diffusa a livello mondiale e autocosciente" (Il Cervello Mondiale, 1938).

Potrebbe essere, abbiamo detto. Manteniamo pure il condizionale, ma è certo che il processo evolutivo dei due cervelli con protesi, quello individuale e quello sociale, è molto più avanzato di quanto gli studi ufficiali possano rivelare. La base materiale che potrebbe far optare per questo processo di formazione del partito (piuttosto che un altro) ce la rivela una indagine elementare sugli schemi di funzionamento dei suddetti cervelli individualmente e socialmente improved, migliorati, potenziati. Le macchine da elaborazione che potenziano i cervelli biologici nei due sistemi sono le stesse: il loro controllo interno è dato da un programma univoco che "gira" su una macchina von Neumann dall'architettura costante (memoria di avvio, memoria di massa, programma, memoria volatile, dati in ingresso e in uscita, interfaccia ergonomica, ecc.). Le stringhe di programma che elaborano le informazioni sono date, com'è dato l'apparato materiale. Il computer può funzionare o no, ma non può riservare sorprese, "fare cose" per cui non è programmato. Non è in grado di rovesciare la prassi a nessun livello. Le sue cellule al silicio o a bit non devono preoccuparsi di ciò che succede, da dove viene l'energia che le alimenta, che cosa succede nell'ambiente che le circonda con il quale interagiscono soltanto se viene loro ordinato.

Le cellule del nostro cervello, come quelle del resto del corpo, sono molto diverse. Certo, sono anch'esse condizionate dall'essere parte di un tutto, dall'essere destinate a nascere e morire in continuazione per svolgere solo un certo lavoro specializzato, affinché l'organismo intero funzioni. Ma, come abbiamo visto nell'articolo precedente, sono le discendenti degli organismi unicellulari (procarioti ed eucarioti) che agli albori della vita sulla Terra non avevano ancora imparato ad aggregarsi in insiemi complessi. Che fluttuavano in ambiente liquido "decidendo" dove andare a seconda del fatto che "sentissero" o no la presenza di "cibo", cercando di sopravvivere ad ogni costo quando agenti "esterni" minacciavano la loro esistenza. Per far ciò hanno dovuto sviluppare delle capacità, dei sensi, della conoscenza primordiale. E ognuna di queste cellule era naturalmente predisposta a teorizzare nei minimi termini il proprio libero arbitrio: "cibo sì, cibo no; lasciar perdere il no e andare verso il sì". L'eucariota non poteva sapere che il suo libero arbitro finiva là dove incominciava il deterministico, materiale disporsi del gradiente zuccherino, là dove milioni di cellule dello stesso tipo si muovevano caoticamente, tese tutte allo stesso risultato e quindi generatrici di flussi ordinati emergenti dal disordine. Le nostre cellule si sono infine specializzate e sedentarizzate, i nostri neuroni hanno sviluppato migliaia di miliardi di sinapsi e noi continuiamo a "sentire" che facciamo quel che facciamo perché lo vogliamo. E assolutizziamo la piccola parte di verità che c'è in questo a scapito del nostro essere "atomi sociali", condizione che, esaminata con il metodo della fisica, è molto più interessante e promettente di tutte le disquisizioni teo-filosofiche.

Intelligenza artificiale e progetto

Ammesso e non concesso che la capacità di elaborazione simil-umana di un cervello artificiale dipenda da un numero di componenti che si avvicini a quello del sistema biologico neuroni-sinapsi, si è ancora lontani dall'eguagliare le 1015 sinapsi naturali, ognuna delle quali è simulabile artificialmente con un centinaio di componenti (porte logiche). Da un punto di vista puramente quantitativo, dunque, il cervello biologico sembra in vantaggio, colmabile forse, ma con molte difficoltà. Un cervello artificiale quantitativamente analogo a quello biologico avrebbe il vantaggio della velocità di commutazione dei componenti, misurabile in nanosecondi, mentre il tempo di risposta dei neuroni è nell'ordine dei millisecondi, cioè un milione di volte tanto. Tuttavia, mentre nel computer i processi sono sequenziali nel tempo, nel cervello sono paralleli e si avvalgono di relazioni diffuse fra cellule attraverso una memoria "associativa", cioè in grado di connettere frammenti di informazione e trattarli in contemporanea. Ciò, a detta dei neuroscienziati, farebbe la differenza sostanziale, secondo alcuni di loro assolutamente insormontabile. Anche perché il cervello umano dissipa una energia pari a 10-16 joule per operazione al secondo, mentre quello artificiale allo stato delle cose ne dissipa 10-6,dieci ordini di grandezza in più. Ciò significa che per ottenere una potenza di elaborazione simile a quella umana, un computer assorbirebbe una quantità di energia immensa, che obbligherebbe a distribuire l'elaborazione su migliaia di processori per non vederli vaporizzati in un attimo. Questa via è stata tentata.

Nonostante il cervello biologico sia di una complessità non solo difficile da riprodurre, ma anche da capire, con le cosiddette reti neurali si è cercato di simulare quel poco che si è scoperto. Si è dunque tentata la realizzazione di macchine in grado di processare i dati non in base a istruzioni programmate in sequenza ma in parallelo, privilegiando le relazioni e le associazioni, così come le neuroscienze avevano constatato che succedeva nel cervello biologico. In tal modo si sono raggiunti risultati interessanti dal punto di vista delle architetture dei computer (che però rimangono fondamentalmente von neumanniani, cfr. articolo precedente), ma è praticamente caduta ogni velleità di simulazione integrale. Da una parte, il funzionamento del cervello biologico fornisce informazioni trattabili statisticamente con i metodi della fisica, quindi utili sia per la loro implementazione nelle macchine sia per la loro capacità di informarci sul cervello stesso; dall'altra fornisce informazioni sui limiti della simulazione. Il computer, ad esempio, non riesce a risolvere problemi senza che gli siano fornite informazioni computabili e numeriche, non riesce a dare risposte su problematicità "sfumate". In tale situazione, che è ben più complessa di quanto appaia dal riassunto che ne stiamo facendo, emerge in modo chiaro che l'interazione uomo-macchina innesca processi evolutivi proprio sul binomio uomo-macchina.

Relegata in posizione di nicchia la ricerca sull'Intelligenza Artificiale "forte", si fa strada quella sulle soluzioni rese possibili dall'uso del computer da parte dell'uomo. Insomma, l'uso del computer come veicolo per scoperte sul miglioramento dell'uso del computer. Pensiamo alla nostra concezione "frattale" degli stadi dell'evoluzione sociale e ne troveremo traccia anche a proposito del rapporto tra uomo e macchina: un individuo con il "suo" personal computer, smartphone, tablet, ecc. ecc. collegato in Rete è un frattale dell'intera umanità con i suoi computer ecc. ecc. ormai vivente in Rete.

Non sembri banale. Siamo nel campo dell'evoluzione stessa dell'uomo da quando il nesso mano-cervello-linguaggio ci ha prodotto come nuova specie all'interno dell'ordine dei primati: il computer, che era all'inizio un mezzo per risolvere problemi, è diventato un fine, un problema da risolvere. Non ci accontentiamo più di elaborare dati, vogliamo sapere se e come questa macchina potrà simulare il nostro cervello. E se non lo potesse, come farla diventare la migliore protesi amplificatrice delle nostre facoltà? Ne abbiamo già dei saggi anticipatori: la macchina "stupida" può essere dotata di milioni di sensori che le inviano dati minuti, numerici e quindi perfettamente computabili, da tutta la società. Dati caotici (un po' come quelli meteo), dai quali però è possibile trarre modelli ordinati che serviranno all'invio di "istruzioni" ad attuatori automatici o umani. La macchina stupida diventa così parte di un sistema intelligente facendo quello che meglio sa fare: elaborare dati in modo estremamente veloce, magari ispirandosi allo schema dell'attività cerebrale:

"Il nuovo approccio si fonda sul paradigma connessionista di rete neurale, così chiamata per analogia con la rete biologica del cervello composta di neuroni collegati fra loro da sinapsi. Il vecchio punto di vista, che pretende di simulare e comprendere il funzionamento della nostra mente ispirandosi all'analisi del calcolatore sequenziale a stati finiti, viene in un certo senso ribaltato: invece di ricondurre il confronto del nostro cervello alla struttura del calcolatore sequenziale, si parte dal modello che possiamo farci della nostra mente, con le conoscenze di cui attualmente disponiamo, per costruire una macchina con struttura a rete neurale che ne emuli il comportamento" (Control systems, Università di Brescia).

Questo succederà quando avremo imparato come specie a considerarci e ad essere un grande superorganismo che evolve in simbiosi con un altro superorganismo, il Pianeta su cui viviamo. Ciò non si sarebbe potuto neppure immaginare se non avessimo proiettato noi stessi (i nostri stessi cervelli) in potentissime macchine divoratrici di dati in ingresso, capaci di tradurre il caotico agitarsi delle molecole sociali e fornirci in uscita l'ordine di una società che sa cosa vuole e lo progetta.

L'avvento dell'uomo simbionte

Un risultato come quello della consapevole simbiosi fra umanità e Pianeta non sarà certo ottenuto con forme di conoscenza obsolete come le discipline specializzate e soprattutto separate dalla grande barriera dualistica materia/pensiero, scienza/umanismo, tecnica/arte. È grazie alla pressione evolutiva esercitata dalla rivoluzione industriale che oggi si fa strada l'idea che sarà proprio la scienza/tecnologia, con il suo corollario di macchine sempre più leggere e meno energivore, a permetterci di fare a meno di troppe macchine e troppa tecnologia.

Di fatto sta nascendo una nuova forma di intelligenza, che non ha nulla a che fare né con quella umana, né con quella degli attuali computer. Il computer alla von Neumann si alimenta con un linguaggio in grado di interpretare la realtà attraverso una serie di sì e no (o vero o falso, ecc.). Nonostante la poca "plasticità", questo linguaggio ci permette di modellizzare la realtà con grande approssimazione e pochi errori anche per disegnare scenari futuri. È persino incredibile il fatto che con così poche regole si possa elaborare così tanto, che con semplici procedure sequenziali, una memoria e una serie di istruzioni si possa simulare uno stormo di uccelli, una società umana o un universo. Ma semplicemente cambiando la sequenzialità con la messa in parallelo dei processi, copiando come si poteva quel poco che conosciamo del nostro cervello, siamo riusciti a simularlo per ottenere dei risultati simil-qualitativi.

Le reti neurali si autoconfigurano mentre elaborano, appunto, in parallelo, cioè contemporaneamente. Ciò significa che i dati in ingresso producono degli effetti, oltre che sui dati in uscita (cosa ovvia), sul modo di elaborare da parte del sistema, quindi sui centri neurali che a questo punto si modificano, alterano le connessioni esistenti, ne creano di nuove, ne eliminano altre. In pratica le reti neurali autoapprendono man mano elaborano e forniscono risposte. In tal modo si viene a formare una configurazione in continuo e spontaneo cambiamento, assimilabile a un cambiamento qualitativo. Informazione e struttura si influenzano. Mentre in una macchina von neumanniana l'apprendimento deve essere programmato, nelle reti neurali la spontaneità, pur dipendendo dal programma, è un salto di qualità, si avvicina un po' al funzionamento del cervello biologico.

Il computer (neumanniano o a reti neurali), è una macchina capace di simulare la realtà con un margine di errore molto stretto. Da Galileo in poi due sono stati i fondamenti della conoscenza che hanno segnato la storia della ricerca scientifica: 1) lo sviluppo di una teoria a partire dai dati oggettivi e 2) la conseguente verifica sperimentale. La simulazione al computer può essere considerato il terzo fondamento.

Oggi le reti neurali hanno perso un po' del loro fascino iniziale e hanno deluso i molti che riponevano in esse più fiducia di quanta fosse consentita dalla loro evoluzione. A rivitalizzare la ricerca sull'Intelligenza Artificiale non è venuta alcuna altra scoperta o tecnica adeguata. Centinaia di migliaia di robot industriali sono al lavoro nelle fabbriche, ma l'attenzione è catturata dai ridicoli robot-bambola, macchine dalle assurde parvenze umane che non servono neppure a sperimentare. Eppure le reti neurali erano un terreno promettente, anche se, come sempre nel capitalismo, c'era molta propaganda rispetto alla sostanza. Il paradigma di cui erano veicolo era compatibile con quello di una società che conosce sé stessa al punto di rovesciare completamente la prassi e darsi un assetto progettuale, anti-dissipativo. Per mettere la nostra specie in armonia con l'energia che viene dal Sole e partecipare alle trasformazioni che avvengono nella biosfera sono indispensabili macchine potenti e programmi in grado di auto-apprendere mentre gestiscono modelli dinamici. Ma il capitalismo non ce la fa proprio a sviluppare un discorso a lungo (e nemmeno a medio), termine. Non ce la farebbe neppure se fosse garantito un alto saggio di profitto: ogni capitalista ragiona a breve termine, mentre le innovazioni autentiche, a differenza di quelle che alimentano la new economy, richiedono grossi investimenti e comportano rischi, per cui se non ci pensa lo stato, vengono considerate poco appetibili.

Il "famoso" rovesciamento della prassi

D'accordo, "rovesciamento della prassi" è sinonimo di transizione "dal regno della necessità a quello della libertà", oppure "dalla preistoria alla storia" (per Marx la preistoria comprende il capitalismo). Ogni progetto che modifichi la natura per ottenere un risultato voluto in anticipo è rovesciamento della prassi. Lo schema sociale è noto: livelli di determinazione materiale portano al partito della rivoluzione e, da quel livello, determinazioni in senso inverso vanno a influenzare la società o a neutralizzare i tentativi di ritorno della vecchia forma sociale sconfitta.

Volendo mostrarne le differenti concezioni nell'ambito del milieu comunista, si potrebbe evocare la frase gramsciana: "il marxismo è una filosofia della prassi" (a dire il vero fu coniata da Antonio Labriola, ma fu Gramsci a buttarcela fra i piedi con il significato deleterio che ha oggi). Marx non aveva nessuna intenzione di fondare una filosofia quando disse che la prassi è il ricambio organico uomo-natura e Labriola può aver equivocato fra il mondo e la sua interpretazione, ma nel contesto gramsciano la proposizione è palesemente attivistica: la rivoluzione "s'ha da fare". Altra proposizione celebre è: "il marxismo non è un dogma bensì una guida per l'azione". Attribuita a Lenin che l'attribuiva ad Engels, resa anch'essa popolare da Gramsci, è un guazzabuglio di non-sensi: i dogmi sono stati per millenni una guida per l'azione e il marxismo contempla certamente degli assiomi o principii che possono essere assimilati ai vecchi dogmi. Allora, cosa vuol dire esattamente "rovesciamento della prassi", formulazione scientifica che non ha nulla a che fare per esempio con i pasticci che abbiamo citato?

Si dice che l'Universo sia fatto di tre elementi quantificabili: la materia, l'energia e l'informazione. I primi due, riconducibili a uno solo secondo l'equazione di Einstein massa = energia, rappresentano la realtà effettiva, a proposito della quale possiamo misurare grandezze fisiche; il terzo è parimenti misurabile ma, come la matematica, non è una grandezza fisica bensì… una nostra invenzione. A proposito di principii, dunque, attualmente ve ne sono alcuni consolidati, mentre altri sono passibili di sviluppi al momento non immaginabili. La fisica, con le incompatibili teorie della relatività e dei quanti è giunta a un bivio: essendovi una manifesta incompatibilità fra di esse, sono certamente teorie di transizione. Anche le teorie dell'informazione e della computazione, sembrano aver raggiunto un punto di svolta. Nella sfera dell'elaborazione e del calcolo la macchina di Turing è il marchingegno concettuale più potente che esista. Come andare oltre, se proprio questa affermazione pone un limite insormontabile, mentre sappiamo che tali limiti in scienza non esistono? Eppure è vero: da quando Turing espresse il concetto di computabilità universale non è intervenuto alcun cambiamento essenziale.

Solo con alcuni sviluppi della fisica quantistica sono stati tentati esperimenti teorici sfociati nel tentativo di realizzare computer basati su nuovi principii. Oggi esistono alcune decine di questi computer sperimentali, ma non si sa ancora se essi funzionino o meno: messi a confronto con quelli ad architettura von Neumann sembra che non abbiano mostrato prestazioni degne di nota, quindi il paradigma di Turing non è violato. L'intuizione sul fatto che nel mondo atomico via sia "un sacco di posto" per sperimentare e operare risale alla fine degli anni '50, precisamente a un rapporto del fisico Richard Feynman, ma le ricerche e gli esperimenti nel campo della computazione sono di questi ultimi anni. Il limite sociale si mostra sempre più evidente: per rovesciare la prassi, per avere la possibilità di "mettere la casa in ordine" o di "incollare i pezzi della tazzina", operazioni che richiedono un piano, occorre non solo una conoscenza preventiva di ciò che si vuole ottenere, ma di tutto ciò che occorre per ottenerlo. Il progetto non è mai solo disegno dell'oggetto voluto, è anche e soprattutto il percorso per giungervi. La conoscenza implicita nel rovesciamento della prassi è di tipo sistemico, il fine è tutto, solo perònel senso che i mezzi ne fanno parte. E ciò vale anche per una rivoluzione della nostra epoca.

Ma proprio nella nostra epoca si è inceppato il rapporto fra conoscenza e realizzazione, quel feedback che ci permetteva di co-evolvere con i nostri stessi prodotti, materiali e sociali, di essere in grado di imparare dalle macchine, una volta inventate e adoperate, anche se per ora siamo riusciti a combinare più disastri che meraviglie. Come abbiamo visto, la scienza si è impantanata con la manifesta incompatibilità fra teorie del mondo macroscopico (relatività) e teorie del mondo microscopico (quantistica). Si fanno, è ovvio, esperimenti e vi sono verifiche in grado di provare l'affidabilità degli assunti; insomma, le teorie "funzionano", ma producono problemi di conoscenza molto gravi e pesanti. Può darsi che si riesca a far funzionare un computer quantistico pur senza sapere che cosa esattamente succeda al suo interno, come nel caso della sovrapposizione di stati o dell'entanglement (particelle che sono allo stesso tempo onde; azione a distanza indipendente dallo spazio e dal tempo), ma certo la conoscenza monca non è buon terreno per un salto quantico dalla macchina di Turing e di von Neumann a qualcosa di più potente. E siccome facciamo dipendere una rivoluzione della conoscenza dalla rivoluzione sociale, finché questa non esploderà vi saranno ben poche possibilità che un computer quantistico permetta di superare gli attuali limiti e apra la strada alla Intelligenza Artificiale con la maiuscola, che abbia cioè la potenza necessaria a simulare quella naturale.

Rivista n. 38