Il secondo principio

"Il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate ma facendo sorgere una controrivoluzione serrata, possente, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell'insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario" (Marx, Le lotte di classe in Francia).

"Come è una dottrina della rivoluzione così dalla sua prima scrittura il marxismo è una teoria della controrivoluzione" (A. Bordiga, La controrivoluzione maestra).

Un sistema dissipativo

In natura la condizione più probabile di un sistema è quella meno ordinata, caotica. Le condizioni ordinate sono meno probabili, tuttavia esistono e sono prodotti spontanei della natura, ad esempio un sistema planetario con il suo sole. Come tutti gli esseri viventi l'uomo è un prodotto della natura particolarmente ordinato, ma è l'unico che, rovesciando la prassi, cioè progettando sistemi ordinati, genera a sua volta ordine, condizioni meno probabili. Nel far ciò, dissipa calore, energia. Ne dissipa anche per mantenere un ordine raggiunto, perché la naturale tendenza dei sistemi lasciati a sé stessi è regredire verso il disordine, ovvero verso le condizioni di partenza, quelle più probabili. L'uomo è "umano" proprio in quanto è riuscito/riesce a immaginare un risultato prima di vederlo. L'ha fatto con la prima pietra che ha scheggiato, lo sta facendo con la montagna di merci che oggi immette sul mercato, lo fa anche con l'attrezzatura necessaria a produrle. Non è però ancora capace di farlo con la sua stessa società, nemmeno a livello della produzione essenziale. Il paradosso è evidente: la massa degli oggetti progettati prende il sopravvento, va fuori controllo, il lavoro incorporato in essi domina il lavoro potenziale ancora da applicare. In altre parole il lavoro morto domina il lavoro vivo e l'uomo si ritrova alieno nel mondo che ha costruito.

Nel corso della sua rivoluzione, la borghesia si è data un elemento ordinatore potente e in grado di perfezionarsi: lo stato. Ma anche questo elemento ha subìto la sorte dell'intera società, ha perso energia, andando prima verso la sclerosi, poi verso il disordine. Se in un primo tempo lo stato sembrava in grado di dominare le forze economiche ormai troppo gigantesche per lasciarle in mano alle decisioni di singoli, in seguito ha dovuto piegarsi alle forze cieche dell'economia, perché nessuna forza politica era ormai in grado di tenerle sotto controllo.

Ci siamo già occupati di questi argomenti con un'analisi del potere esecutivo in campo interno e internazionale. [1] La perdita di efficienza degli stati e dei loro governi va di pari passo con la perdita di vitalità dell'intero sistema economico. Quella che stiamo vivendo è una grandiosa conferma dell'intero patrimonio critico elaborato da Marx ed Engels: la struttura economica su cui galleggia la sovrastruttura ideologica e politica è a pezzi, produce dissipazione di energia umana oltre che di quella che muove i mezzi di produzione o è consumata dalle popolazioni. La sovrastruttura non poteva evitare di riflettere tutto ciò: va in crisi, non riesce più ad essere coerente, non fa più affidamento su discipline che tentano di dare dignità teorica alle scuole economiche, naviga a vista, precipita in una endemica guerra civile che coinvolge un numero crescente di paesi.

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Dal 2008 e anche prima, il capitalismo è precipitato in una crisi che nessun economista finora è stato in grado di spiegare. Questa incapacità della borghesia di dare spiegazione alle dinamiche della propria economia non si era manifestata nemmeno nella Grande Depressione iniziata nel 1929 e sfociata nella Seconda Guerra Mondiale. Almeno allora i fascismi avevano suggerito il keynesiano intervento dello stato. Noi abbiamo sostenuto che quella in corso non è una crisi "congiunturale" ma un limite storico raggiunto da questo modo di produzione, limite che si è manifestato dieci anni fa, ma che ha le sue radici nello sconvolgimento dei rapporti di valore avvenuto all'inizio degli anni '70 del secolo scorso. All'epoca, raggiunto il massimo della sua potenza produttiva, il capitalismo produceva il massimo di plusvalore, ragione per cui riusciva a distribuirne una quota entro la società ottenendo il massimo del welfare, almeno nei paesi a vecchio capitalismo. Ma siccome in quelle condizioni si consumava anche il massimo di energia e di materie prime, ecco che entrava in gioco la legge della rendita, per cui una quota crescente di plusvalore finiva ai paesi possessori di combustibili, metalli, legname, ecc. ecc. Questo enorme accaparramento di plusvalore produceva capitale finanziario, dato che i paesi produttori di materie prime avevano poche possibilità di investire sul proprio territorio e alimentavano il flusso di denaro verso le banche occidentali. L'ingigantirsi del capitale fittizio aveva già obbligato gli Stati Uniti a denunciare gli accordi monetari di Bretton Woods, a rendere inconvertibile il dollaro e a riformare il Fondo Monetario Internazionale, per cui tutto andava a sommarsi e, dall'apice raggiunto, prendeva avvio una modifica profonda della distribuzione del plusvalore mondiale, con una conseguente drastica variazione della curva di distribuzione del reddito e la scomparsa della fascia mediana, fino all'esasperazione odierna dove gli otto capitalisti più ricchi hanno un patrimonio pari a quello della metà più povera della popolazione mondiale, 3,5 miliardi di persone.

Che da una "congiuntura economica" scaturisca una "congiuntura politica" è perciò del tutto naturale, ma se tentiamo di definire meglio, sia pur sinteticamente, quest'ultima nozione ci accorgiamo che non è semplice, dato che ad esempio la politica soffre di inerzia rispetto all'economia e quest'ultima ne soffre rispetto alla produzione, per cui i tempi del cambiamento non sono esattamente gli stessi. Del resto il mondo sovrastrutturale può non reagire affatto al cambiamento economico, come sta avvenendo con la crisi odierna, durante la quale, in un decennio, non sono stati presi provvedimenti di nessun genere, se si escludono i tentativi di rattoppo monetario, senza altro effetto che quello della creazione di moneta, cioè di ulteriore capitale fittizio.

Il rovesciamento ormai attuato, dal controllo dello stato sul capitale al controllo del capitale sullo stato, non è un fenomeno nuovo e non riguarda esclusivamente i maggiori paesi imperialistici: anche lo stato russo del dopo rivoluzione, non riuscendo a controllare le forze economiche, ne fu infine dominato. E siccome il partito comunista russo era una struttura portante sia del nuovo apparato statale, sia della Terza Internazionale, neppure questa riuscì a darsi strumenti d'indagine che le permettessero di conoscere e padroneggiare il rapporto fra l'economia e il comportamento delle classi (e ovviamente il suo proprio comportamento), lasciando la "congiuntura politica" in balìa a un relativismo e a un possibilismo che da soli spiegano la micidiale indeterminatezza tattica, principale responsabile della degenerazione successiva. Eppure sia Lenin che Trotskij avevano colto con molta precisione le tendenze del capitalismo di allora, indicando la strada del prossimo futuro di un sistema che era un contenitore non più corrispondente al suo contenuto. Entrambi avevano individuato nell'opportunismo l'ostacolo principale alla rivoluzione, ma ciò non aveva impedito che entrambi fossero promotori del fronte unico proprio con i socialdemocratici.

Deterministica eredità

Ogni "congiuntura politica" discende da un passato del quale porta il segno e si risolve in un futuro al quale trasmette alcuni caratteri che in quel momento rappresentano le condizioni iniziali di una dinamica. Una volta individuate queste condizioni, se ne possono derivare l'evoluzione e l'unicità del percorso. La "rosa di eventualità tattiche" dev'essere conosciuta, ma ciò che è particolarmente utile conoscere è quale fra tali eventualità farà parte dell'evoluzione del sistema. La prevedibilità è una proprietà inerente alla natura stessa di "congiuntura politica": se è vero che negli stati caotici di un sistema perturbato (come è quello di una rivoluzione in corso) si presentano delle biforcazioni, è anche vero che queste, non essendo comunque frutto di indeterminismo, non possono portare a sbocchi indeterminati. Nel periodo immediatamente successivo alla Prima Guerra Mondiale era perfettamente individuabile in tutta Europa lo scostamento fra la capacità di lotta del proletariato e l'inerzia al limite dell'assurdo dei partiti che lo rappresentavano. La congiuntura politica presentava delle "condizioni iniziali" favorevoli, ma la situazione non poteva evolvere verso soluzioni coerenti in quanto non coerente era la comprensione che i partiti avevano delle condizioni iniziali stesse. Se i partiti che rappresentavano il proletariato non erano in grado di guidarlo verso una soluzione rivoluzionaria, ciò significava che lo stesso proletariato non era in grado di imporre ai partiti tale soluzione. Il partito e la classe, come descritto nelle Tesi di Roma del PCd'I, si co-determinano, perciò la situazione era a tutti gli effetti controrivoluzionaria.[2] In questo senso i partiti non "tradivano" il proletariato, semplicemente erano su di un altro piano, non interagivano con esso perché non ne potevano nemmeno capire lo slancio. Importanti a questo proposito alcuni articoli che la Sinistra pubblicò nel 1925, proprio allo scopo di mettere in guardia contro questo estraniamento dalla "congiuntura politica" che non permetteva di prevedere il percorso e che anzi portava dritto filato al fascismo. [3]

In un nostro testo si annota che chi raccoglie sequenze di eventi, immagini o altro, in un certo senso lo fa anche per sapere o immaginare che cosa verrà dopo.[4] Un futuro "atteso" ha senso unicamente perché basato sulle sequenze del passato, cioè di un'esperienza. Che non è semplicemente una sfilza di ricordi, è un ponte per il futuro. Questo vale soprattutto per l'uomo in quanto essere sociale.

Abbiamo sempre trattato con sospetto chi insiste nel sottolineare l'esigenza di essere concreti in polemica con chi sostiene la necessità di astrazione teorica per capire la realtà e modificarla. La concretezza permetterebbe di agire mentre l'astrazione sarebbe sterile. A parte il fatto che si tratta di una emerita sciocchezza, perché l'uomo ha incominciato a conoscere, cioè a sapere qualcosa sulla natura in cui è immerso, cioè ad attrezzarsi per cambiarla, solo astraendo dalla realtà così com'è percepita: il "concreto" non esiste, dato che è un momento di passaggio, una condizione per così dire fluida nel passaggio tra uno stato e l'altro di un sistema in evoluzione. Certo, anche una dinamica è un fatto concreto, ma in essa è rilevabile una sequenza di cause ed effetti, ben diversa dalla non-sequenza di un'unica fotografia. Anche in un sistema sociale caotico in cui sequenze determinate producono l'emergere di nuovo ordine possiamo individuare un divenire nel tempo, mentre il "concreto" degli immediatisti (come li chiamava Lenin) è un punto, cioè zero. Ed è solo dalla dinamica che riusciamo ad imparare qualcosa a proposito della tattica rivoluzionaria; la quale tattica non è ricavabile da generiche "situazioni concrete" ma dall'astrazione che noi possiamo operare al di là di esse, dalle invarianze che ci consentono di costruire modelli, dalla libertà nei confronti della contingenza, libertà di generalizzare e formalizzare, se necessario, con formule matematiche.

Se vogliamo essere concreti, dobbiamo sapere che ci troviamo ogni volta in un punto della storia in cui una parte della strada è già percorsa e l'altra è ancora da percorrere. Il punto in cui siamo ci interessa in quanto transizione, ma il punto in quanto tale non produce conoscenza utile a una rivoluzione. Se volessimo dare una definizione rigorosa della frase "azione politica rivoluzionaria" potremmo incominciare con il dire che essa è appunto la lotta contro questo punto zero, cioè contro il "concretismo", che porta sempre a modellare e condurre l'azione politica in funzione dei risultati immediati senza considerare le conseguenze che ne possono scaturire. Attitudine che la Sinistra Comunista definiva "vero esistenzialismo politico".

"Azione politica rivoluzionaria"

Una espressione come "azione politica rivoluzionaria", che scegliamo fra le tante di cui si abusa, andrebbe quindi intesa come prassi di partito collegata non tanto ai singoli aspetti della realtà quanto, piuttosto, alle relazioni che li legano fra loro in una visione dinamica. Infatti, se davvero la "politica" fosse una bismarckiana "arte del possibile, scienza del relativo", o un machiavellico "fine che giustifica i mezzi", se derivasse meramente da improvvisazioni, manovre geniali per confondere, indebolire, guadagnare vantaggi sugli avversari o costruire ipotetiche egemonie culturali sugli stessi, vorrebbe dire che agli uomini politici sarebbe attribuito un libero arbitrio in grado di influenzare lo svolgimento della storia con mezzi straordinariamente semplici e alla portata di tutti. Basterebbe un'abilità nel destreggiarsi nei corridoi dei parlamenti per definire fazioni, correnti, ecc. I fenomeni oggettivi, materiali, che producono il comportamento degli uomini sarebbero relegati in secondo piano come eventi accidentali, dovuti al caso. Se per gettare le basi di una qualsiasi "politica" prescindiamo dal determinismo, ogni tentativo di prevedere il futuro viene a cadere: non è possibile sapere in anticipo ciò che risulta dall'incontro fra opinioni individuali diverse. Mentre non è troppo arduo dedurre da una condizione materiale il riflesso che essa produce su insiemi di uomini. Tant'è vero che modelli computerizzati riescono a fare previsioni abbastanza precise ad esempio sulla criminalità, il traffico o altri ingarbugliati aspetti dell'attività umana.

Se consideriamo la rivoluzione non come un prodotto dellapolitique politicienne ma come un processo di storia naturale (Engels), come una concatenazione di cause che procede autonomamente verso un fine, se la valutiamo una forza di necessità che agisce al di sopra degli uomini, è evidente che la questione si semplifica enormemente e si risolve nella individuazione di quel percorso storicamente determinato e nell'agevolarne lo sviluppo con gli strumenti adeguati. Infatti, nel contesto di un determinismo non di maniera,[5] dobbiamo chiederci che senso abbia parlare di degenerazione politica della rivoluzione del ventesimo secolo. Come se una dinamica storicamente determinata potesse subire una sconfitta. Date le premesse, ora possiamo affrontare il problema centrale: che cosa è stato veramente sconfitto nei primi decenni dello scorso secolo?

Insieme eterogeneo

Ritornando a quegli anni, bisogna considerarne l'aspetto centrale (il fattore iniziale) cioè il grandioso evento costituito dalla rivoluzione russa. Un avvenimento che influenzò, negli anni successivi, il modo di "fare politica" in tutta l'area europea e poi nel mondo. Questa influenza facilitò al proletariato occidentale la rottura con i metodi pacifisti e collaborazionisti della socialdemocrazia ma deviò, al contempo, il processo di aggregazione politica che andava evolvendo "naturalmente" verso la formazione di una corrente comunista internazionale di "sinistra", più aderente alla maturità storica del capitalismo europeo.

La dinamica sociale nell'immensa Russia era frenata dall'oggettiva arretratezza economica e sociale. Il paese non poteva da solo giungere a risultati migliori di quelli effettivamente raggiunti, che, venuti a mancare l'aiuto e la solidarietà del proletariato internazionale, furono già un miracolo politico. Il rapido susseguirsi degli eventi esigeva rapidità di decisione e di azione da parte dei bolscevichi nei confronti del consolidamento post-bellico della socialdemocrazia europea, e si tentò di arginarla con la "creazione" di una Internazionale Comunista. Ma il partito russo non era certo in grado di unificare l'insieme eterogeneo di tutti i gruppi che si richiamavano in qualche modo al marxismo o semplicemente al movimento rivoluzionario in corso. Così, nel 1919, all'atto della fondazione della Terza Internazionale, una composita assemblea fu la base oggettiva di tutta la politica successiva. Troppi gruppi che non avevano nulla a che fare con il comunismo, troppe concessioni al democratico confronto di tesi e controtesi, troppa somiglianza con i parlamenti e le loro votazioni (e di conseguenza troppa fiducia nel parlamentarismo e nella possibilità reale di demolirlo dall'interno).

Lo stesso Lenin era consapevole della peculiarità non esportabile del partito bolscevico e dei suoi metodi di lotta. E infatti, commentando la " Risoluzione sulla struttura dei partiti comunisti e sui metodi e il contenuto del loro lavoro", approvata dal Terzo Congresso dell'Internazionale, la riteneva debole, troppo ispirata all'esperienza russa, ed assolutamente incomprensibile per gli stranieri. "Come faranno a digerire l'esperienza non lo so", commentava.

La Sinistra Comunista "italiana", dal canto suo, spingeva per una maggiore selezione politica fino a proporre di "capovolgere la piramide", facendo poggiare il processo rivoluzionario sulla base delle più avanzate forme prodotte dalle lotte e dall'esperienza del proletariato in Europa occidentale, al cui giudizio sottoporre anche i problemi inerenti alle specifiche questioni interne russe.

Gruppi rivoluzionari di "tipo nuovo" erano sorti un po' ovunque in Europa e si aggregavano sulla base delle lotte disfattiste alla guerra imperialista. Una gioventù operaia era cresciuta e si andava formando al di fuori degli apparati socialdemocratici, iniziando a sperimentare un "modo di fare politica", che esprimeva una istintiva opposizione radicale a tutto ciò che si richiamava alle vecchie e logore categorie politiche esistenti. In Italia il processo era maturato prima che altrove con risultati consolidati anche sul piano organizzativo. La bolscevizzazione forzata del PCd'I da parte dell'IC pose fine a un'esperienza unica al mondo, la più avanzata, interrompendo il processo di selezione naturale a vantaggio di una disciplina artificiale, calata dall'alto.

Contemporaneamente anche i meccanismi di "autodifesa" da parte della borghesia occidentale, si orientavano, in quegli stessi anni, verso metodi di controrivoluzione che la nostra corrente ha definito preventiva: un'offensiva tesa ad incamerare le istanze spontanee, politiche e sindacali, provenienti dalle lotte operaie all'interno di inoffensive concertazioni istituzionali. "Bolscevizzazione" e "fascistizzazione", due offensive separate, emanate da centrali politiche avversarie, per ragioni politiche opposte, finirono per ottenere risultati politici oggettivamente convergenti per deviare il cammino spontaneo del proletariato rivoluzionario.

Contano le prospettive

Abbiamo già detto come Lenin si scagliasse spesso contro la socialdemocrazia opportunista in quanto responsabile della situazione politica. Da un punto di vista propagandistico l'argomento poteva anche essere utilizzato in un'assemblea o un comizio, ma lo stesso Lenin sapeva benissimo che da un punto di vista materialistico la sequenza andava invertita: è la materiale disposizione delle forze, la maturità dello scontro fra modi di produzione che produce l'opportunismo, non viceversa. Questo vale per la politica dell'Internazionale stessa: non si può dire, senza entrare in contraddizione con il materialismo storico, che vi era una dinamica reale in grado di evolvere verso i livelli superiori dello scontro rivoluzionario ma che un fenomeno politico aveva prodotto un diverso risultato. Nello scontro fra la nuova società che avanza e la vecchia che si difende scatenando una lotta mortale, le componenti sociali sono costrette a schierarsi adoperando gli argomenti "politici" del caso, ma non è la propaganda che fa la rivoluzione. Anche le Tesi della Sinistra Comunista e la sua opposizione alle politiche dell'Internazionale possono sembrare una sfida al materialismo storico, dato che si proponevano addirittura di modificare la tattica dell'IC, quindi la prospettiva politica di quest'ultima, quindi il corso della rivoluzione. Inutile chiedersi se la battaglia della Sinistra fosse sbagliata, fuori luogo o troppo avanzata rispetto ai tempi. Lenin, la Sinistra e tutti gli altri attori sulla scena della rivoluzione erano costretti a interpretare il copione che il periodo storico aveva scritto per loro: la rivoluzione e la controrivoluzione, l'opportunismo e la sua antitesi, la contraddizione bolscevica e la chiarezza cristallina del PCd'I, la politica frontista e l'esportazione armata della rivoluzione.

Se la rivoluzione non fosse che un programma politico da realizzare, l'esito sarebbe deciso dalle rispettive forze in campo e non nascerebbero "questioni" politiche a valanga. Entro il campo non-opportunista le differenze agirebbero sui programmi, ma la rivoluzione marcerebbe comunque. La politica, dunque, è un elemento coadiuvante, un prodotto della rivoluzione che può diventare fattore se – e solo se – maturano condizioni materiali sufficienti.[6] Proprio perché lo scontro avviene fra modi di produzione, è la dinamica generata da tale scontro che sta alla radice di ogni grande mutamento sociale, non la politica in quanto tale.

Perciò il corretto quesito rispetto alle forze che erano in gioco è: la loro metodologia, la tattica che proponevano, le prospettive che evocavano, erano pertinenti ai fatti storici oppure no? E per quanto riguarda specificamente la Sinistra Comunista, la sua critica era davvero astratta, settaria e schematica o ha invece lasciato una lezione di cui il proletariato potrà ancora fare tesoro? La risposta, oggi facilitata dal senno di poi, era per noi ovvia anche allora: solo sulla base di quegli insegnamenti, solo passando attraverso la comprensione del significato profondo di quella esperienza, di quelle battaglie è possibile formulare con rigore scientifico i fondamenti sui quali poggerà la politica rivoluzionaria come fattore di storia a venire. Ma se accettiamo la lezione della Sinistra come valida, tutto l'impianto della teoria rivoluzionaria va accettato su presupposti completamente diversi rispetto a quelli correnti. Il marxismo-leninismo, in altre parole lo stalinismo nelle sue variegate forme, è la negazione dei presupposti rivoluzionari di Marx ed Engels, è un'apologia del pacifismo, del frontismo, della democrazia, del parlamentarismo, vale a dire di tutto ciò che è "politica" entro la forma sociale esistente, come è reso evidente dalla storia stessa nel periodo brevissimo che va dal 1921 al 1927. C'è un problema di invarianza: se salta un particolare del sistema, salta tutto il sistema. Allora vediamo che, materialisticamente, la rivoluzione può dilatare i tempi della propria vittoria definitiva, ma non può essere fermata, deviata o falsificata da una sovrastruttura politica. La rivoluzione stabilisce la successione degli eventi; la politica dovrebbe rilevare da questa successione una dinamica formalizzabile scientificamente, ad esempio adottare norme tattiche chiare, inequivocabili, come richiesto dalla Sinistra all'Internazionale. La rivoluzione è un processo ascendente continuo che ricalca la curva ascendente continua della forza produttiva sociale. Se si osservano elementi di sconfitta, essi non provano la sconfitta della rivoluzione bensì quella della politica.

Sconfitte che abilitano

Marx scrive in: "Le lotte di classe in Francia":

"Non la vittoria ma una serie di disfatte abilitano il proletariato al suo trionfo nel mondo".

In effetti, il proletariato e il suo partito non detengono di per sé "certificati d'idoneità" per la rivoluzione. Solo il confronto sempre più serrato con la controrivoluzione garantisce, in una certa misura, continuità e coerenza organizzativa. Ogni disfatta, pertanto, va vista come uno spostamento in avanti del confronto storico fra le classi, come un processo di semplificazione dell'attività politica in relazione all'evolvere degli eventi economici e sociali. Processo che produce uno spostamento qualitativo nei rapporti di forza sul piano storico, a dispetto di ciò che sembra sul piano immediato.

Bordiga, riferendosi alle controrivoluzioni le definisce senza mezzi termini come tappe necessarie istruttive al massimo grado. E non si riferisce in special modo al ruolo propedeutico che scaturisce dalle esperienze pratiche, dalla funzione di "palestra politica" utile al proletariato. Si riferisce in primo luogo al fatto che le "disfatte"costituiscono una "conferma teorica" e una "garanzia storica della rivoluzione". Che cosa intende esattamente?

Se facciamo astrazione dagli aspetti concreti, dalle forme particolari assunte dalle sconfitte, osserviamo un unico fenomeno politico che le accomuna tutte, una costante che si ripete ed agisce nel corso del tempo. Ogni qualvolta l'azione politica non ha potuto situarsi sul piano stretto dell'offensiva di classe è stata costretta a retrocedere di fronte all'incalzare della conservazione borghese. La Comune del 1871, ad esempio, non ebbe la forza di spingere l'offensiva politica e militare fino a sbaragliare l'esercito versagliese prima che questo si riorganizzasse, non tenne conto dell'effetto dirompente che avrebbe provocato l'espropriazione della banca di Francia e ne pagò le sanguinose conseguenze. L'Internazionale commise errori altrettanto devastanti, ma soprattutto non fu in condizione di rifiutare il confronto democratico con la socialdemocrazia.

Fintanto che la politica rivoluzionaria non è in grado di fissare praticamente una linea di demarcazione netta tra le classi, formalizzando una tattica ("piano sistematico d'azione") che sappia prevedere anche i risultati futuri dell'iniziativa rivoluzionaria, la borghesia conserverà sempre un vantaggio nel fronte della guerra tra le classi.

La "garanzia storica della rivoluzione" consiste proprio in questo. La borghesia è costretta a rivoluzionare continuamente il proprio modo di produrre e, per difendere il proprio ordine sociale, è anche costretta a realizzare alcune delle istanze proprie della rivoluzione, come nel caso del programma del Manifesto, che il riformismo aveva ereditato e in buona parte realizzato; come nel caso del programma riformista, ereditato dal fascismo. In questa dinamica ogni successo che la borghesia ottiene contribuisce a ridurre gli spazi di manovra politici che le restano, quelli che la storia non ha ancora potuto chiudere. È così evidente che la serie non può risultare infinita. Infatti ha raggiunto un culmine, un punto in cui anche un ulteriore balzo in avanti delle forze produttive sociali non comporta vantaggi politici decisivi alle forze della conservazione sociale. I rapporti di forza non hanno permesso all'Internazionale di giungere a formulare quel piano tattico obbligatorio e vincolante di cui la Sinistra percepiva la necessità; non è stata quindi in grado di dare una sistematizzazione soddisfacente al "modo di fare politica" nei paesi a capitalismo avanzato; non è stata in grado di sintetizzare le esperienze ricavate dalle disfatte precedenti; non è stata in grado di capire le modalità con cui lavorava la controrivoluzione. Tutto ciò è stato oggetto di critica serrata da parte della Sinistra, critica che è una potente verifica sul campo.

Dalla propaganda alla demolizione

Se dal 1921 al 1926 l'indeterminatezza nel condurre l'azione politica fu il limite palese dell'Internazionale, essa fornì però, nello stesso tempo e nello stesso contesto, lo stimolo a elaborare formulazioni politiche più precise. L'ambiguità nelle formulazioni tattiche poneva, nonostante tutto, una questione pratica reale e decisiva, mai posta, in quei termini, dal movimento operaio del passato: come e con quali mezzi si distrugge la società capitalista. E tentava di risolverla. Con la Terza Internazionale, la politica delle forze che lottavano per una società nuova esce per sempre dal campo delle dichiarazioni astratte e del semplicismo, eredità di un passato che considerava espressioni sufficienti della "politica" la propaganda e l'educazione delle masse. Questa attitudine "contemplativa" cambia totalmente, la politica viene impostata come il mezzo necessario per la distruzione dell'ordine sociale esistente, e si trasforma da strumento di propaganda e denuncia della realtà a mezzo per incidere su di essa. Un cambio di indirizzo significativo ed essenziale, anche se in quel momento storico non ha avuto la possibilità di essere portato a compimento.

Nonostante la sconfitta, si era però delineata una direzione precisa per il futuro, rappresentata dall'inquadramento teorico di quell'esperienza, elaborato dalla Sinistra, che rappresentava effettivamente la "garanzia storica futura della rivoluzione".

Non sarebbe corretto attribuire la mancanza di risolutezza politica ai militanti dell'Internazionale che invece erano più che risoluti. La debolezza politica scaturiva da rapporti sociali immaturi. Sembra banale osservare che l'Internazionale non ha potuto elevarsi alla completa autonomia nei confronti delle influenze esercitate dall'ambiente ideologico borghese perché i tempi non lo permettevano. Ma c'era bisogno di un ultimo passaggio per completare la serie storica dei tentativi rivoluzionari. La rivoluzione avrebbe potuto farsi strada più facilmente se fossero stati ben compresi i limiti politici che la contaminazione democratica comportava: ma la chiarezza che la Sinistra pretendeva non era fatta dipendere dalla buona volontà di singoli od organizzazioni, bensì dalla capacità collettiva di rispondere alle insidie della controrivoluzione, le stesse che agiscono da un secolo e mezzo.

Controrivoluzione preventiva

Passiamo ora ad esaminare in dettaglio che cosa abbia comportato e in che modo sia stata istruttiva al massimo grado quest'ultima, lunghissima epoca controrivoluzionaria. Vediamo come, ritenuto necessario attenuare i contrasti fra le classi, siano state "consumate" risorse economiche e politiche "non rinnovabili", un po' come succede con le risorse energetiche presenti in natura.

La politica "rivoluzionaria" del passato, adottando tattiche inidonee, aveva ravvicinato i partiti proletari a quelli piccoli borghesi, dopo averli separati, confondendone, in una certa misura, programmi e metodi. Questo processo si è spinto da una parte fino a trasformare il sindacato di classe in sindacato di stato, dall'altra a cancellare i confini di riferimento fra i partiti politici. Ha realizzato le istanze riformiste dei partiti operai ingabbiando il proletariato in una rete assistenziale e previdenziale. Ottenendo un successo di media durata, la politica "rivoluzionaria" si è dunque messa nella condizione di preparare meglio la sua futura rovina. Legare il proletariato alla politica e alle istituzioni borghesi si è rivelato un metodo adeguato finché c'è stato un minimo di garanzia rispetto alla gestione dei rapporti sociali. Ma non appena questa garanzia è venuta meno, sono stati proprio quei legami di condivisione a cedere per primi. Saltata la rete d'assistenza e di previdenza, per il proletariato è fuori gioco qualunque soluzione istituzionale. Messo con le spalle al muro, è costretto a cercare al di fuori del sistema delle relazioni borghesi altre istanze politico-organizzative di riscatto sociale. Solo una controrivoluzione serrata come quella sorta nel Novecento poteva rendere esplicito e funzionale l'assunto della Sinistra secondo il quale non è il buon partito che fa una buona politica, è la buona politica che fa un buon partito.

Se la controrivoluzione si è fatta maestra inglobando in pieno il riformismo come base per la politica sociale fascista, è evidente che la ripresa dell'offensiva rivoluzionaria può manifestarsi solo a partire dalla rimessa in discussione della catena degli eventi, storica, quindi irreversibile. Se è vero che in qualche modo passato e futuro si stanno ricollegando, dovrebbe essere visibile un ripudio della "politica" tradizionale che, come abbiamo messo in luce, è nata dall'influenza che la grande rivoluzione degenerata ha avuto sulla società in tutto il mondo.

Fra alti e bassi, timide avanzate e brusche ritirate, con pochi e spesso confusi e fantasiosi presupposti teorici, l'indistinto movimento di massa che da qualche anno caratterizza il panorama sociale in buona parte del mondo si colloca oggettivamente in una prospettiva di superamento della vecchia politica. In " Natura funzione e tattica del partito rivoluzionario" (1945), il "ripudio" delle forme politiche è posto come la prima esigenza da soddisfare affinché

"le masse proletarie intendano l'esigenza della ricostruzione del partito rivoluzionario, diverso sostanzialmente da tutti gli altri".

Per la prima volta, da un secolo, in questo scenario "non rivendicativo" è possibile scorgere un'avvisaglia del cambiamento nei rapporti fra le classi, condizione indispensabile affinché il proletariato possa passare, dalla difensiva entro il sistema, all'offensiva per uscirne.

Duemilaotto

Come riprova della natura "fisica" della rivoluzione individuata da Engels, [7] e della concatenazione naturale degli eventi che ne esprimono la necessità, vanno segnalati i due elementi che materialmente hanno contribuito a far saltare la situazione di stallo in cui si trovavano le classi prima di questa crisi e prima delle rivolte di massa.

1) I crack economici: 1987 (anno del grande crollo mondiale delle borse); 1997 (anno della crisi finanziaria che aveva colpito i "dragoni" nell'estremo oriente); 2000 (anno in cui scoppiò la bolla della new economy); 2008 (an no in cui implose il sistema del capitale fittizio provocando un shock sistemico), hanno contrassegnato la chiusura degli anni ruggenti per la cosiddetta globalizzazione, dopo di che si è aperto un periodo di glaciazione dei capitali, situazione inedita per il capitalismo, tanto che ha fatto parlare di "crisi secolare".

2) L'assoluta incapacità/impossibilità dimostrata dai funzionari del capitalismo di risollevare la catastrofica situazione sociale, che ha messo a nudo impietosamente l'impotenza delle sovrastrutture politiche e finanziarie. Ricordiamo che il 2008 è l'anno in cui la popolazione urbana ha superato numericamente, per la prima volta dall'inizio della storia dell'umanità, gli abitanti delle campagne. E negli spaventosi agglomerati urbani ha avuto inizio una battaglia a livello globale contro le disuguaglianze sociali crescenti, contro le istituzioni e la politica in generale, identificata con un sistema di cui beneficia "l'uno per cento contro il 99 per cento".

Siamo ancora allo scontro entro il quadro borghese, con una frazione della borghesia che riconosce l'esistenza di disuguaglianze e la necessità della lotta contro di esse, e un'altra che difende con le unghie e con i denti i propri privilegi. La prima senza spingersi a riconoscere il dato fondamentale, e cioè che la lotta contro determinati privilegi sociali è lotta per il potere politico; la seconda utilizzando il potere politico nel tentativo di spazzare via ogni opposizione. Per adesso ancora entro lo stesso quadro, masse composite in quanto ad appartenenza di classe, in maggior parte senza-riserve o diventate tali, lottano contro la "feroce avidità" dell'1 per cento. Ma, il punto di passaggio in cui ci troviamo, abbiamo detto, non è particolarmente significativo. È la complessiva dinamica che dobbiamo considerare. E questa indica, chiaramente, una sequenza storica, una catena causale unidirezionale.

Lo prova la situazione dei senza-riserve, che non possono continuare a vivere nelle condizioni attuali; lo prova il bisogno sempre più impellente di cambiamento; lo prova la situazione in cui si trovano gli elementi delle classi che vivono del plusvalore prodotto dal proletariato, le quali intuiscono di non poter dominare come in passato perché quel tipo di dominio manderà il sistema completamente fuori controllo. Questa situazione che rende evidente una perdita di vitalità dell'intero sistema è l'avvisaglia di una consapevolezza delle condizioni di classe, il proletariato da una parte, la borghesia dall'altra, ognuna delle due classi tesa a difendere le proprie condizioni che stanno degenerando. È l'inizio di quella che la nostra corrente chiamava "polarizzazione sociale", condizione che sarà accelerata dalla crescente dissipazione di energia da parte del capitalismo. Non si tratta qui di energia in senso stretto, nell'accezione ecologica, ma di energia sociale, da parte di un sistema che scivola sempre più nel disordine e nell'incapacità di porvi rimedio con qualsivoglia programma basato su una teoria. Il passaggio dal riformismo fascio-keynesiano alla deregolamentazione selvaggia del neoliberismo ha riportato il sistema a condizioni darwiniane. La convivenza impossibile fra il corporativismo e il Far West economico ha condotto alla cancellazione di forme di controllo consolidate come l'economia pubblica e il welfare, indebolendo tutta la società, a cominciare dal capitale che rimane praticamente congelato.

Volendo rimanere nell'ambito della metafora fisica, se per muovere gli atomi sociali occorre energia, bisogna vedere da dove questa possa arrivare. Il processo che ha portato il capitalismo fino a questo punto è irreversibile, quindi tale energia non potrà venire dal passato, bensì dal futuro. Se infatti il comunismo è un movimento reale che abolisce lo stato di cose presente, l'unica possibilità di sfuggire allo stato di zero energia è superare il presente e legarsi al futuro, del quale vediamo già potenti anticipazioni.

Categoria dell'insoddisfazione sociale

Trotskij osservava che nessuna rivoluzione può risultare vittoriosa se l'apparato statale della borghesia è nella sua piena efficienza, con il controllo completo degli strumenti di propaganda e repressione quali i mezzi d'informazione, la magistratura, la polizia, l'esercito. Ebbene, da questo punto di vista, anche un parametro come quello della "sfiducia sociale", perde ogni configurazione astratta e generica per divenire parte integrante della concatenazione fisica del cambiamento sociale in corso. Milioni di uomini che scendono in piazza per dieci anni di seguito contro i governi rappresentano un fattore materiale con una potenza che nessun apparato paramilitare antisommossa potrà esorcizzare.

Nella crisi del '29 negli Stati Uniti, dopo una fase iniziale di scoramento, gli operai accordarono in massa la loro fiducia a Roosevelt, scorgendo nell'interventismo statale di tipo keynesiano uno strumento utile a recuperare il tenore di vita precedente. Allo stesso modo in Germania, milioni di disoccupati andarono a formare la base elettorale del partito nazista. Con le stesse motivazioni gli operai francesi nel 1936, con i loro voti, contribuirono a far andare al governo il Fronte popolare socialdemocratico. In ogni caso, tutto fu ricondotto nell'ambito dei rapporti borghesi senza che questi fossero minimamente messi in discussione.

Il parametro "sfiducia" con tutto quello che comporta, non sfiorava in modo significativo le popolazioni dei senza-riserve nonostante la grande e durevole depressione economica. Segno che il sistema politico-ideologico reggeva bene l'impatto negativo esercitato dalla crisi mantenendo una solida presa preventiva sulla società. Evidentemente la borghesia aveva ancora margini di manovra relativamente ampi. Non vogliamo certo presentare un quadro idilliaco del capitalismo degli anni '30. Tuttavia la "grande depressione" anziché allentare i nodi che legavano il proletariato all'ambiente borghese, come oggi sta facendo la crisi in atto, finì, paradossalmente, per stringerli maggiormente, rafforzando l'illusione riformista che lo Stato, in quanto ente al di sopra delle parti, potesse intervenire agendo da strumento indispensabile a contrastare l'anarchia privata capitalista.

Il connubio fra riformismo socialdemocratico e riformismo fascista, sperimentato con successo negli anni '20, presupponeva un armamentario politico e sindacale idoneo e indispensabile per conquistare una serie più o meno variegata di "garanzie" patrimoniali, sotto forma di pensioni, gratifiche, assistenza, previdenze, ecc. Oggi queste riforme sono rimesse pesantemente in discussione dalla condizione asfittica in cui versano il capitalismo e gli enti che le hanno adottate e gestite.

Chi ne fa le spese sono i partiti, le istituzioni, e i vincoli ideologici del passato, sottoposti ad una critica incessante e distruttiva. In un apparente paradosso, il risultato politico non cambia se al posto del fenomeno astensionista, tipico del malcontento sociale, prendiamo in considerazione i voti che i vari partiti raccolgono e si spartiscono fra loro. La classica struttura elettorale, basata sullo schema bipolare destra-sinistra, che serviva a legittimare una parvenza di alternativa sulla quale speculare politicamente, non esiste praticamente più. Il quadro istituzionale è estremamente frammentato, sfumato, con aggregazioni governative che si risolvono inevitabilmente in deboli alleanze trasversali, in altri tempi ritenute scandalose.

È in questa mescolanza indistinta, nella quale i partiti finiscono tutti per somigliarsi e omologarsi, che si rafforza la convergenza verso un centro che non è più neppure un luogo fisico istituzionale di mediazione, bensì un corto circuito politico in cui si ritrovano vari gruppi allo sbando con il solo scopo di conservare sé stessi. Il sentimento diffuso cessa di conformarsi a quello della classe dominante. Prende piede nella società la convinzione che i fenomeni economici e sociali si sono rivelati, di gran lunga, più forti della politica e dello Stato che avrebbe dovuto controllarli. L'idea dominante è che la sicurezza sociale, a cui aspirano le popolazioni, non sia una condizione di cui lo Stato possa farsi garante. Per questo partiti e istituzioni vengono messi fuori gioco. Resiste un populismo reazionario che si fa rappresentante delle paure della popolazione alimentandole, ma al contempo senza essere ovviamente in grado di eliminarle. Il risultato generale che emerge è quello di un sistema dei partiti che si colloca su un piano separato rispetto a coloro che da tali partiti dovrebbero essere rappresentati.

Il processo integrativo, il massimo grado di interdipendenza dell'individuo-cittadino nei confronti del sistema dei partiti e dello Stato, aveva raggiunto il suo apice nel corso della guerra fredda che aveva schierato milioni di proletari dietro cortine artificiali a favore di uno o dell'altro dei due maggiori paesi imperialisti. Il crollo dell'URSS segna ovviamente la fine del fasullo non-allineamento nato a Bandung sotto l'egida sovietica.

La separazione del capitale finanziario dal capitale industriale, la sua autonomizzazione e la sua esasperata vocazione a-nazionale, ridefinisce, e semplifica ulteriormente, il quadro generale. Lo Stato-nazione è ridotto a pura espressione geografica, adibito alle scorribande di capitale fittizio anonimo internazionale sul quale non ha alcuna influenze politica.

È fin troppo evidente, in un contesto generale come quello sommariamente descritto, che non è una forma particolare della politica – neoliberismo, kenesismo, ecc. – che è venuta meno. È il sistema tout court che ha smesso di funzionare, che ha cessato di agire come vincolo di condivisione fra gli individui e lo Stato. È la sostanza unitaria del metodo di governo, che dal fascismo è passato integro all'antifascismo, che ha fatto il suo tempo e che non ha possibilità concrete né di riprendersi né di andare oltre.

Forme diverse, contenuto comune

Una serie di "Fili del tempo" e di articoli (Politique d'abord,Dopo l'attentato lo sciopero, Tendenze e scissioni socialiste, Dopo la garibaldata) pubblicati appena finita la seconda guerra mondiale, descrivevano i diversi volti esibiti dai partiti italiani come altrettante maschere che occultavano fattezze comuni. Gli articoli denunciavano come la ricostruzione dello Stato a opera di tutti i partiti antifascisti era avvenuta rimontando gli stessi pezzi per riproporre il metodo di governo del fascismo, naturalmente in una veste più consona ai tempi. Il trapasso da un regime all'altro, per quanto traumatico sul piano militare, era stato insignificante sul piano del ripristino della sovrastruttura politica. Il partito unico borghese, anche se mascherato e diviso in più tronconi, era in effetti la chiara rappresentazione del nuovo regime democratico-fascista sedicente antifascista.

Qual è – si chiede negli articoli – il vero contenuto della miserrima vicenda delle lotte tra i gruppi politici successori del fascismo italiano?

"Da destra a sinistra – si risponde – tutta questa gente non sbandiera programmi e principi universali, o internazionali: nessun gruppo di capi si prefigge di orientare la sua azione in Italia verso il risorgere di movimenti e partiti di battaglia per una nuova, rivoluzionaria, palingenesi della società europea e mondiale. Per tutti la lotta armata finisce con la vittoria delle armate di sbarco e la rottura delle ultime linee e formazioni tedesche; e si tratta di passare a rifare, a riordinare l'Italia. Nessun partito di lotta, di opposizione, e tanto meno di rivoluzione: tutti partiti di amministrazione e di governo". [8]

Considerazioni del genere erano allora il risultato di un'elaborazione teorica maturata in una esigua minoranza rivoluzionaria: oggi stanno diventando abbastanza comuni fra elementi, specie giovani, che non hanno più un legame diretto con quel periodo. Chiaro segno del lavorio incessante della rivoluzione, che porta alla ribalta, appiana e scioglie vecchi nodi politici un tempo apparentemente inestricabili.

Infatti, anche se già nel marzo del 1944, a Salerno, la proposta avanzata dal PCI per la costituzione di un governo presieduto da Badoglio con la collaborazione di tutti i partiti antifascisti rendeva esplicita l'ammissione della costituzione di un unico corpo politico con diversi travestimenti elettorali, all'epoca non suscitò nessuna reazione "antipolitica" di rilievo tra i proletari. E sì che Togliatti non poteva esser più chiaro al proposito:

"La classe operaia abbandona la posizione unicamente di opposizione e di critica che tenne in passato, intende oggi assumere essa stessa, accanto alle altre forze conseguentemente democratiche, una funzione dirigente nella lotta per la liberazione del paese e per la costruzione di un regime democratico".[9]

Evidentemente e nonostante tutto, il contesto generale si prestava ancora ad alimentare aspettative politiche da una situazione che sembrava offrire al proletariato futuri benefici economici.

Naturalmente la svolta di Salerno non fu repentina e imprevista, ma il risultato di una linea interclassista coerente, in continuità con la politica dei fronti popolari del 1935, figli, a loro volta, dei fronti unici politici degli anni '20; tutte "punteggiature" riconducibili all'eredità traslata dalla II alla III Internazionale. Anche per queste ragioni, la "confessione" del carattere borghese del partito "operaio" e della oggettiva convergenza di tutti i partiti intorno a uno stesso programma politico di ricostruzione nazionale, non sollevò fra gli operai nessuna significativa opposizione. Con i nuovi miti della resistenza e il feticcio dell'unità antifascista il processo di integrazione politica spinse il suo spettacolo ben al di là delle rozze sceneggiate del regime fascista. L'omologazione "volontaria" dei "cittadini" rispetto allo Stato democratico fu superiore e più deleteria di quella "rigida" e "obbligatoria" imposta dallo stato fascista precedente.

Il "partito unico della borghesia"

Attualmente, l'insieme della sovrastruttura politica si è autonomizzata nei confronti delle vicende che accadono nel mondo dei rapporti economici e sociali, sulle quali non può avanzare verifiche né pretendere riscontri reali. Con le sue proverbiali oscillazioni la piccola borghesia ha trovato spazi vuoti su cui esercitare le proprie scorribande ideologiche. Sono all'ordine del giorno improvvisi rimescolamenti, vischiose alleanze fra partiti, fantasiosi legami trasversali fra correnti interne degli stessi, tutti eventi che finiscono per essere rovesciati in tempi brevissimi e rappresentano ormai alimento quotidiano per una sovrastruttura che vacilla e procede per pura forza d'inerzia (e grazie al suo apparato poliziesco che fa da deterrente, almeno per ora).

Ovviamente la borghesia non porrà mai fine spontaneamente al suo dominio di classe e anche se tutto il suo apparato scricchiola cercherà di tenerlo in piedi a tutti i costi. Così, tra il vecchio che tramonta e il nuovo che non riesce a sorgere, si è verificato uno stallo politico, una "terra di nessuno" in cui la strenua conservazione delle forme istituzionali e l'inarrestabile disgregazione politica convivono in quella che per queste ragioni è diventata una palude sociale.

In Italia, ad esempio, la formazione del governo tecnico di Mario Monti, imposto dalle banche europee, raccolse un consenso quasi unanime, molti osservatori ritennero che stesse prendendo forma un'unica grande coalizione politica e confluirono nel neonato movimento "montiano". [10] L'esperimento, come sappiamo, fallì miseramente, ma la tendenza alla formazione di una coalizione unitaria della borghesia non venne meno. Riprese quota nel 2013, ad opera di intellettuali provenienti dal vecchio PCI, i quali dalle pagine dell'Unità rilanciarono la prospettiva togliattiana della formazione di un "partito della nazione" che agisse da barriera al declino, contro la debolezza dello stato nazionale e contro lo sfascio morale. Si trattava, ancora una volta, di realizzare una vasta coalizione che, allargando i confini del PD sia a destra che a sinistra, mostrava nei fatti una utopia irrealizzabile. Tuttavia, anche se il progetto di partito unico non andò mai in porto, limitandosi a fornire margini a manovre utili solo al residuo "cretinismo parlamentare", costituiva comunque una bella dimostrazione del fatto che la tesi rivoluzionaria della Sinistra sulla filiazione politica diretta tra fascismo-antifascismo era corretta.

Dissoluzione, disperazione, ingovernabilità, decadenza del sistema dei partiti, sono fenomeni che hanno origine nella ricordata perdita irreversibile di energia da parte del sistema capitalista. L'antipolitica, in fin dei conti, non è altro che la forma con cui i senza-riserve sono tagliati fuori dal sistema dello stato sociale e dal sistema dei partiti. Tale esclusione potrebbe rappresentare un travaso di energia coinvolgente tutta la società: uno spostamento di forze dal polo della condivisione capitalista a quello dell'opposizione ad essa. Ma per il momento non siamo di fronte a una vera e propria rilocalizzazione dell'energia sociale fra le classi. Alla perdita di energia da parte borghese non corrisponde ancora un equivalente acquisto di energia da parte proletaria. Siamo in presenza di un cambiamento reale dei rapporti di forza, ma certo solo dal punto di vista potenziale. Data la situazione, è già tanto. Questo cambiamento procede in forme grezze o ingenue, ma sta contribuendo all'indebolimento relativo dello stato. Procede senza obiettivi particolari, senza piani e senza rivendicazioni tipiche del passato, ma procede, portando a ondate, senza un ordine visibile, milioni di persone in piazza per i motivi più disparati.

Lo stesso welfare state perduto non diventa un argomento di rivendicazione. E meno male, dato che la rivendicazione inchioderebbe nuovamente il proletariato alla società capitalista, alle sue politiche istituzionali, ai suoi automatismi stabiliti per legge. Quello dell'antipolitica è un rifiuto del sistema; rifiuto che si basa, per adesso, su di un senso d'estraneità e di sdegno verso le malefatte del potere. Del resto non sarebbe proponibile staccarsi dai residui della storia senza passare attraverso una fase di "depoliticizzazione" preliminare, che costituisca una sorta di disintossicazione sociale nei confronti di un lungo e logorante passato.

D'altronde, se, date le premesse, una partecipazione reale alla comunità è impossibile oggi, gli uomini non possono rinunciare a recuperare la fiducia e il sentimento di appartenenza sociale perduto, a cui li spinge, inesorabilmente, tutto il loro essere naturale. Se ne deduce che il ritorno dell'uomo alla società umana può realizzarsi solo mediante il rovesciamento totale dell'ordine sociale esistente e l'annichilimento del sistema politico. Il bisogno di ritrovare sé stessi, di recuperare l'ormai sfaldato senso di appartenenza ad una classe, si trasforma, necessariamente, in attività pratica allo scopo di soddisfarlo. È questo bisogno di "comunità " che produce il processo di convergenza oggettiva fra il partito storico e il movimento di masse di uomini. Si vedrà allora, direbbe di nuovo Marx,

"come da tempo il mondo possiede il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente". [11]

Realizzare e demolire: così procede l'evoluzione sociale. Demistificare la "politica" equivale a realizzare la sua antitesi; il compito di "distruggerla", abbattendo violentemente lo Stato e dissolvendo quello che resta di tutti i suoi organi funzionali, oggi si presenta sempre più chiaro, diretto e imprescindibile non solo al pensiero ma anche alla prassi sociale. L'enunciato marxista per il quale ogni lotta di classe è lotta politica, assume in questo concreto sviluppo delle cose tutto il suo pregnante significato storico: la lotta per il potere è l'ultima azione con la quale la politica si realizza pienamente e nello stesso tempo sopprime sé stessa.

Necessario discorso sul partito

Non essendo ancora giunto il momento per quella polarizzazione sociale che si manifesta nei momenti cruciali del cambiamento rivoluzionario, i militanti della rivoluzione hanno il compito di trarre indicazioni e insegnamenti non dalla temperatura sociale percepita, calda o fredda che sia, ma da quella segnata dal proverbiale detector che la nostra corrente invitava ad usare al posto delle idee (il detector ci dà la temperatura in gradi, il freddo o il caldo sono solo sensazioni relative). Ovviamente questo è un compito permanente ma, come abbiamo già affermato, più che il punto in cui ci troviamo, conta la dinamica. Dietro all'antipolitica, dietro al rifiuto generico dello statu quo, si nasconde la spinta dovuta a una metamorfosi reale del mondo delle relazioni borghesi. Può darsi che sia difficile vedere il nesso tra l'economia e la politica, specie quando l'atmosfera si riscalda e gli atomi sociali si muovono con crescente disordine. Ma produciamo merci a ritmo forsennato, provocando sovrapproduzione e quindi sovraccapitale, e così facendo produciamo (per adesso non consapevolmente) la nostra stessa vita, le relazioni sociali. Tutto questo è portato a livelli inauditi dal mondo capitalistico dove i rapporti di produzione legati al valore rappresentano un vincolo insopportabile. Tutta anarchia, zero progetto. Ciò ha delle conseguenze. L'antipolitica può tradursi in un rifiuto del mondo politico borghese divenuto obsoleto. Tanto obsoleto che persino la borghesia tenta di darsi uno scossone richiamando sulla scena i fantasmi di anarco-capitalisti come la Rand, o di libertariani come von Mises e Hayek.[12] Si può affermare che la diffusione dell'antipolitica è una manifestazione di crescente polarità sociale. Dalla Grecia alla Bulgaria, dalla Romania alla Spagna, dall'Egitto alla Turchia, dalla Francia agli Stati Uniti, ecc. certamente è aumentata la distanza che separa i poli rappresentati dalle classi. Le cause immediate vanno dalla corruzione alle rivendicazioni economiche, dall'insopportabilità di un sistema all'impoverimento, cause che, tutto sommato, producono effetti ancora all'interno della politica. Persino a parlarne come stiamo facendo si rischia di scivolare nel linguaggio politico, ma nell'insieme, nell'arco di anni che hanno visto milioni di persone in piazza, l'antipolitica aleggia sull'intera società.

È qui che si innesta il discorso necessario sul partito. Nonostante l'impotenza manifesta e l'isolamento politico che circonda le forze della rivoluzione, si fa strada la formazione di un "ambiente" che matura oggettivamente una tendenza allo scontro, pervaso da un odio antisistemico, premessa allo sviluppo del partito rivoluzionario e del suo rapporto con la classe dei senza-riserve. Come sottolineato dalle Tesi di Roma, senza questa rottura sociale non c'è situazione rivoluzionaria:

"D'altra parte il proletariato appare ed agisce come classe quando appunto prende forma la tendenza a costruirsi un programma e un metodo comune di azione, e quindi ad organizzare un partito".[13]

Abbiamo visto come lo sviluppo e il consolidamento dello stato nazionale borghese abbiano prodotto la politica necessaria a perpetuare e difendere il modo di produzione capitalistico. Abbiamo visto che il cedimento dei partiti socialdemocratici organizzati nella Seconda Internazionale è stato nello stesso tempo prodotto e fattore di quello che è stato poi definito "opportunismo". La gigantesca controrivoluzione iniziata con la capitolazione riformista è poi continuata con la degenerazione della Terza Internazionale. Oggi quel tipo di pressione controrivoluzionaria non esiste più. Di fronte alla disgregazione dello stato viene a mancare il supporto materiale a un efficace dominio di classe, dominio che ha sfruttato fino in fondo la complicità dello stalinismo (ancora nell'immediato dopoguerra i seguaci della III Internazionale hanno fatto ricorso persino all'omicidio contro gli oppositori di sinistra).

In tale contesto la borghesia incomincia a produrre dettagliate teorie di conservazione, ben diverse da quelle che aveva elaborato nella sua ascesa verso il potere. Di riflesso, dato il legame stretto esistente fra vertici borghesi e vertici opportunisti, si viene a creare non solo un'osmosi politica, ma anche quella finta differenziazione ingannatrice su cui poggia il tentativo di recupero di fiducia da parte dell'opportunismo politico e sindacale. L'operazione è però destinata a fallire: l'opportunismo politico e sindacale, organizzato e disciplinato, ha cessato di esercitare la sua nefasta pressione sul proletariato e quest'ultimo si è parzialmente liberato della tremenda tutela anche se non si è ancora sviluppata un'alternativa.

Alla crisi dello stato nazione non è seguita una possibilità di riforma, il sistema si è chiuso in sé stesso, quindi non gli sarà possibile ritrovare la passata vitalità. Il modo di produzione capitalistico sta con tutta evidenza perdendo energia e quest'ultima si riversa, trasformata, in contesti sociali di critica al sistema stesso. Già oggi stiamo assistendo alla crescita in quantità e qualità di fenomeni sociali che assumono caratteri oggettivamente anti-forma, che vanno dalla negazione dei rapporti di valore alle grandi manifestazioni di piazza, dalla caduta del saggio di profitto al bisogno di comunismo.

Abbiamo visto che il primo principio della termodinamica registra l'invarianza della quantità di energia totale esistente nell'universo. Il secondo principio registra invece la perdita locale di energia nei sistemi chiusi, il passaggio da stati ordinati meno probabili a stati caotici, più probabili. Il sistema capitalistico, dopo aver conquistato l'intero pianeta, sta diventando un sistema chiuso che perde energia. Ma, una volta sviluppatosi fino al massimo oggi raggiunto, tale sistema incomincia a produrre la propria antitesi su scala mai vista: tre miliardi di salariati lo testimoniano. All'interno di questa forma sociale si configura tutta l'informazione necessaria al salto nella nuova società. E l'informazione è proprio l'elemento in grado di iniettare nuovo ordine nel sistema, nuova energia che la vecchia società non è ormai in grado di utilizzare. Entro la società così com'è, dice Marx, deve essere allora possibile la lettura di elementi della nuova società, altrimenti ogni rivoluzione sarebbe creazione, una prerogativa degli dei. L'informazione si fa dunque programma, teoria. La sua arma "informata" si fa partito.

Note

[1] Cfr. " Lo Stato nell'era della globalizzazione. Ipertrofia del controllo e collasso dei rapporti nella società civile", n+1 n. 32.

[2] Cfr. "Attivismo", Battaglia comunista n. 6 e 7 del 1952.

[3] Ad es. Il pericolo opportunista e l'Internazionale;Punti della Sinistra;La natura del partito comunista; La quistione Trotskij; Tesi di Lione (1926).

[4] Proprietà e Capitale, ora nella serie dei "Quaderni di n+1".

[5] Caos, complessità, logica sfumata, fisica quantistica e altri rami della scienza hanno messo a dura prova il determinismo che oggi qualcuno chiama in tono un po' spregiativo "meccanicistico", cioè quello che aveva raggiunto il suo apice con la rivoluzione borghese. Tuttavia, prima di "superare" quell'apice sarebbe saggio arrivare almeno alla sua altezza.

[6] Tesi di Roma , 1922, ora nel volume In difesa della continuità del programma comunista, Quaderni di n+1.

[7] "Una rivoluzione è un puro fenomeno naturale, che viene guidato da leggi fisiche piuttosto che secondo le regole che determinano l'evoluzione della società nei tempi normali. O piuttosto, nella rivoluzione queste regole assumono un carattere molto più fisico, la forza materiale della necessità si rivela con maggior violenza" (Engels a Marx, 13 febbraio 1851). Questa concezione dei movimenti rivoluzionari è di fondamentale importanza per capire che l'esito di una rivoluzione, come il suo percorso, non sono mai frutto di una particolare "politica". Marx, contro l'idealismo sosteneva che quest'ultimo è riconoscibile in quanto tende a scambiare il soggetto con il predicato (la rivoluzione fa la politica; la politica fa la rivoluzione).

[8] Bussole impazzite , 1952, ora in Quaderni di n+1.

[9] Avanti verso la democrazia! Discorso di Togliatti alla Conferenza della Federazione comunista romana (24 settembre del 1944, cfr. Rinascita n. 3 del 1944).

[10] Cfr. n+1 n. 30, Il piccolo golpe d'autunno.

[11] Marx, Lettera a Ruge, settembre 1843.

[12] Ayn Rand, Ludwig von Mises e Friedrick von Hayek sono solo tre fra i rappresentanti del capitalismo ultra-smithiano, teorici di un sistema in grado di autoregolarsi purché lasciato libero di fare, in una anarchia sociale di tipo darwiniano.

[13] Tesi di Roma, 1922, ora nel volume In difesa della continuità del programma comunista, Quaderni di n+1.

Rivista n. 41