La socializzazione fascista e il comunismo (6)

6. Patto firmato, lavoro ingabbiato

I sindacati fascisti

Nel novembre del 1921, al suo III congresso il movimento fascista si costituisce in Partito Nazionale Fascista (PNF) dandosi una struttura organizzativa più rigida.

I Sindacati economici vengono via via inglobati in quelli fascisti in formazione: il PNF è per il ripudio della lotta di classe, la condanna degli scioperi degli impiegati pubblici e il riconoscimento giuridico dei sindacati da parte dello Stato. Afferma inoltre che l'apoliticità dell'organizzazione sindacale è pura finzione, in quanto la neutralità, in politica, non esiste; si tratta anzi di politicizzare sempre di più i sindacati portandoli sotto il controllo del partito. L'ambiguità manifesta è spiegabile: il fascismo non è il movimento dell'Italia arretrata, degli "agrari" reazionari ma il cambiamento di cui ha bisogno l'industria. La piccola borghesia e la proprietà agraria forniscono l'ideologia sincretista, che plaude al nazionalismo, alla patria, e anche alla Rivoluzione bolscevica e a Lenin, ma quando si arriva allo scontro i termini della "questione sindacale" si chiariscono velocemente. Le mezze classi, che hanno fornito teoremi politici ondivaghi e soprattutto molta manodopera squadrista, adesso devono mettersi in riga in difesa del capitalismo concentrandosi sul tema principale per cui hanno tanto lavorato: la collaborazione di classe.

Per arrivare a questo risultato, esse sono state indispensabili portatrici dell'opportunismo. Hanno infiltrato nella classe operaia concezioni ideologiche loro proprie fino a quando, esaurito lo slancio per il raggiunto obiettivo, hanno rivelato la loro vera natura. Hanno fatto da supporto alle posizioni confuse su una indistinta "socializzazione", ma infine si sono fatte portatrici di idee "ispirate più o meno coscientemente alle idee-madri, ossia agli interessi sociali, della classe dominante." (Tesi di Milano, 1966)".

Il primo convegno sindacale fascista si tiene a Bologna nel gennaio del 1922, e in quella sede Edmondo Rossoni, pur avendo aderito pienamente al fascismo, ripropone la sua teoria sull'autonomia sindacale in contrapposizione alla visione "politica" di un sindacato legato al partito nella sua attività operativa. La linea di Rossoni risulta sconfitta ma egli viene comunque designato segretario della Confederazione nazionale delle Corporazioni sindacali, e nel marzo del '22 assume la direzione de Il Lavoro d'Italia, giornale della Confederazione.

Mano a mano che si procede nella formazione di una centrale unica delle organizzazioni sindacali fasciste si verificano importanti scioperi, uno dei quali si svolge a Ferrara nel maggio del 1922 e comporta una contraddizione di non poco conto all'interno del fascismo. È Mussolini a ricordare che i sindacati fascisti non devono in alcun modo riprodurre l'azione del sindacalismo rosso e devono tendere alla collaborazione di classe.

Ma tra i proclami e la realtà ci sono di mezzo interessi economici contrapposti: la Confederazione sindacale fascista per poter controllare i lavoratori deve assecondare almeno in parte le loro rivendicazioni organizzando alcuni scioperi e mettendosi di fatto contro gli imprenditori, gli stessi che appoggiano e sostengono il fascismo. Nascono così discussioni e fratture negli organismi dirigenti fascisti sulle azioni da intraprendere per non scontentare la borghesia industriale e agraria senza però inimicarsi operai e braccianti.

Nel corso del 1922, da un accordo fra sindacati di sinistra, nasce l'Alleanza del Lavoro che proclama, come abbiamo visto, uno "sciopero legalitario" contro la cosiddetta offensiva fascista. Si tratta di un genuino movimento di classe, appoggiato dai comunisti, che dura pochi giorni e poi si spegne, anche a causa di una durissima repressione:

"Il 31 luglio 1922 l'Alleanza del Lavoro riesce a provocare, in risposta ai terribili attacchi contro le organizzazioni proletarie della Romagna, lo sciopero generale nazionale. Ma i fascisti sentono che lo sciopero non si regge e organizzano una serie di violentissime rappresaglie che si scatenano sul finire dello sciopero durato tre giorni: famose quelle di Genova, Milano e Parma: in quest'ultima città il proletariato, organizzato militarmente, resiste però vittorioso a tutti gli attacchi. Ma ormai per il fascismo è indispensabile la presa del potere: la distruzione dei sindacati, la assunzione o la conquista di numerosi organismi e istituzioni gli ha fatto ereditare anche problemi e contrasti che non possono essere sanati che diventando esso stesso forza dominante di governo." ("Appunti per un'analisi del fascismo. Dalle origini alla marcia su Roma", 1946)

La marcia su Roma del 28 ottobre 1922 decreta l'ascesa al potere del PNF e questo, consolidata la sua posizione, passa immediatamente a collegare più strettamente i sindacati fascisti attraverso la costituzione dei Gruppi di competenza, organismi che hanno l'obiettivo di unire i sindacati operai, i sindacati dei professionisti e quelli dei capitalisti.

Essi sono poco attivi ma molto utili dal punto di vista del principio, tanto da sopravvivere fino ai nostri giorni come "Enti bilaterali": enti che raggruppano con criterio paritetico sia gli organismi sindacali dei lavoratori sia le associazioni dei capitalisti di una stessa categoria professionale e aventi la funzione di discutere i contenuti dei contratti collettivi e le modalità della loro applicazione, oltre ad altri compiti di regolamentazione. Come scrive efficacemente l'organo della Confindustria Il Sole-24 Ore:

"Esprimono una concreta ed efficace forma di collaborazione tra capitale e lavoro, indicativa della tendenza al superamento del modello esasperatamente conflittuale. Hanno diversi scopi: mutualizzazione di obblighi retributivi (per esempio, mensilità aggiuntive, ferie) per lavoratori che cambiano spesso datore di lavoro (per esempio, nell'edilizia); formazione professionale; sicurezza del lavoro; prestazioni assistenziali. Da qualche anno la legge ha iniziato a promuovere il ruolo degli enti bilaterali, riconoscendogli compiti relativamente al mercato del lavoro, alla formazione professionale, all'assistenza della volontà delle parti nella stipulazione dei contratti e nella disposizione dei diritti. Sarebbe opportuno, per fare certezza e ridurre il contenzioso, che il legislatore affidasse agli enti bilaterali: la certificazione della sicurezza del lavoro, con esclusione di qualsiasi responsabilità per il datore di lavoro onesto che si sottoponga al controllo e si conformi alle prescrizioni dell'ente; la gestione degli ammortizzatori sociali, per un effettivo reinserimento dei beneficiari; l'istruttoria e l'eventuale conciliazione in azienda delle doglianze dei lavoratori su demansionamenti, maltrattamenti, mobbing".

Abbiamo citato per esteso queste interessanti osservazioni ufficiali della Confindustria perché nella loro sostanza propositiva sono praticamente identiche al programma di conquista della responsabilità sindacale in Georges Sorel, citata nella prima parte di questo articolo (L'avvenire socialista dei sindacati).

La Costituente sindacale

Mussolini, giunto al potere, non rinuncia comunque ai tentativi di coinvolgimento della CGL, tanto che propone a Gino Baldesi, dirigente riformista del "sindacato rosso", la guida del ministero del Lavoro.

Il 3 ottobre del 1922 si verifica l'ennesima scissione in campo socialista: dopo quella del 1921 che ha portato alla costituzione del PCd'I, si produce una spaccatura tra massimalisti e riformisti, da cui nasce il Partito Socialista Unitario sotto la guida di Giacomo Matteotti. La divisione del fronte socialista in tre tronconi determina la rottura del legame storico che la CGL aveva stabilito con il PSI. All'interno della CGL convivono ormai diversi orientamenti politici e, per evitare scissioni, il sindacato lascia liberi gli iscritti da ogni vincolo politico e si pone "nella esplicazione della sua attività non contro né fuori della nazione", aprendo le porte a una possibile collaborazione con il fascismo.

Nell'ottobre del 1922 Angelo Oliviero Olivetti fonda il giornale La Patria del Popolo, "settimanale sindacalista-dannunziano". La sua linea politica è sintetizzata nel Manifesto dei sindacalisti – adottato dalla UIL nel suo quarto congresso – in cui sostiene che

"il vero organo della rivoluzione proletaria ed insieme della ricostruzione sociale è il sindacato, il quale non nega beotamente ed aprioristicamente il capitalismo ma lo supera, socializzandolo e distaccando il capitale e la sua funzione utile dalla persona del capitalista. Il sindacalismo non è anticapitalistico nel senso tecnico, ma è contrario alla detenzione illecita ed arbitraria dei mezzi di produzione in una casta privilegiata per ordinamenti giuridici e politici."

In quest'ottica il sindacato non è più un organismo di lotta dei proletari ma diventa uno strumento utile all'accumulazione capitalistica e alla difesa degli interessi nazionali:

"Il sindacalismo riconosce il fatto e l'esistenza della nazione come realtà storica immanente che non intende negare, ma integrare. La nazione stessa anzi è concepita come il più grande sindacato, come l'associazione libera di tutte le forze produttive di un paese in quei limiti e con quella unità che furono imposti dalla natura della storia, dalla lingua e dal genio profondo e invincibile della stirpe. Il fatto nazionale è immanente, fondamentale e supremo, è il massimo interesse per tutti i produttori. Estranei alla nazione sono solo i parassiti, gli elementi improduttivi."

Puntualizzata la funzione del "sindacalismo" e ribadito il proprio concetto di nazione, Olivetti affronta il problema della separazione tra proprietà e capitale: il fine del sindacalismo, per Olivetti, non è negare il capitalismo ma socializzarlo sempre più, spostando la proprietà e la produzione dall'esclusivo controllo dei capitalisti a quello dello Stato. Essendo la tendenza del Capitale quella alla massima socializzazione del lavoro, serve una sovrastruttura politico-sindacal-governativa, adatta a gestire questo processo impedendo che abbia uno sbocco rivoluzionario. D'altronde, come dice Engels,

"il carattere sociale delle forze produttive costringe gli stessi capitalisti ad abbandonare i grandi organismi di produzione e comunicazione a società per azioni prima, a trust poi, infine allo Stato. La borghesia diventa una classe superflua: tutte le sue funzioni sono ora espletate da funzionari stipendiati". (Antidühring)

Una volta conclusasi l'esperienza fiumana alla fine del 1920, furono fatti dei tentativi di unificazione tra il sindacalismo nazionale di Olivetti e quello dannunziano. La Costituente sindacale dannunziana mirava a costruire un fronte unico indipendente dai partiti che coinvolgesse tutte le forze del lavoro, dai sindacalisti rivoluzionari, alla CGL, dai legionari agli anarchici, col fine dichiarato di arrivare a una pacificazione generale in Italia. Ma il tentativo frontista non va in porto perché i rapporti di forza sono ormai a vantaggio del fascismo e perché D'Annunzio si ritira dall'operazione. Rossoni chiude le porte a qualsiasi idea di collaborazione con i sindacalisti socialisti, e ormai il fascismo può muoversi autonomamente in ambito sindacale, anche se il sindacalismo "rosso" resiste.

La CGL aveva visto nella proposta della Costituente sindacale la possibilità di uscire dall'isolamento cui era stata costretta dal fascismo e, tramite alcuni suoi dirigenti (fra questi Rinaldo Rigola), propone addirittura la costituzione di un Partito del lavoro. Da notare che anche in altri frangenti storici il "sindacato rosso", venuto meno il collegamento con il partito storico di riferimento, accarezzerà l'idea di costituirsi esso stesso in partito. Un esempio recente è la proposta avanzata il 5 dicembre 2002 da alcuni dirigenti della sinistra CGIL "Per una nuova rappresentanza politica del mondo del lavoro". È particolarmente significativo il fatto che l'appello sia finalizzato alla costituzione di un nuovo "partito del lavoro" e non "dei lavoratori".

Anche Roberto Farinacci, che sarà segretario del partito Nazionale Fascista, si scaglia contro qualsiasi ipotesi di Costituente sindacale che dovrebbe legare insieme forze del tutto eterogenee; il fascismo preferisce spendere le proprie energie nel più realistico progetto di unificazione e consolidamento dei sindacati fascisti, rivendicando per le sue associazioni il monopolio dell'organizzazione sindacale. Lo statuto della Confederazione delle Corporazioni sindacali fa propri naturalmente i temi del produttivismo: il sindacalismo non deve riguardare solo le categorie, ma il popolo intero che, pertanto, si deve immedesimare nella nazione. L'elemento dinamico della storia non è più la lotta di classe ma una evoluzione competitiva tra le categorie, al cui interno emergono quelle élite abilitate a guidare non solo la propria corporazione ma, al limite, la patria.

Corporativismo bipolare

Per il fascismo l'azione sindacale deve dunque essere subordinata alle esigenze della produzione, al benessere della nazione, e qualsiasi contrasto tra lavoratori e imprenditori dev'essere mediato dai Gruppi di competenza, formati da tecnici ed esperti nei vari settori. La corporativizzazione della società blocca sul nascere qualsiasi iniziativa autonoma degli operai e rappresenta un freno agli scioperi.

Il corporativismo capitalista non può più raccogliere entro i singoli raggruppamenti di mestiere gli elementi di un'unica categoria come nell'epoca feudale. Esso è moderno, nel senso che è l'espressione di una società divisa non tanto per mestieri quanto per proprietà dei mezzi di produzione. Invece della corporazione unipolare feudale, dice la nostra corrente, il fascismo realizza un modello di corporazione bipolare, entro cui, volenti o nolenti, vi sono i due poli opposti della società: chi non ha nulla oltre la propria forza lavoro e chi ha tutto ciò che serve a produrre, dai mezzi di produzione ai capitali. Nell'economia capitalistica, non ci sono più persone fisiche individuali a rappresentare la loro classe ma i due blocchi contrapposti sono il risultato di una socializzazione massima del lavoro; per cui la responsabilità verso la patria economica si traduce in un inevitabile impedimento dello sciopero, sostituito da una collaborazione il cui esito è la salvaguardia degli interessi di una sola parte.

Questi temi sono sviluppati in un articolo pubblicato nel 1949 dal Partito Comunista Internazionalista (Corporativismo e socialismo), quando era vivo il dibattito intorno alla costituzione dei Consigli del lavoro e dell'economia, organismi che dovevano facilitare il coinvolgimento dei lavoratori nelle scelte aziendali, rendendo corresponsabili i rappresentanti delle categorie produttive di beni e servizi nei settori pubblico e privato:

"È interessante che dopo caduto il fascismo quei gruppi stessi che nel succedergli si atteggiarono a seppellitori e distruttori di ogni sua vestigia, ritornino tuttavia con insistenza alla richiesta di continuare a ricostruire molti degli organi di quel sistema sociale come i Consigli del lavoro e della economia."

Se vogliamo che tutto rimanga così com'è nella sostanza, bisogna che tutto cambi nell'apparenza, questa è la logica gattopardesca che guida l'azione della classe dominante italiana anche e soprattutto nel secondo dopoguerra. Non a caso, dopo la fine della guerra, nella delicata fase del passaggio fra il vecchio corporativismo fascista e quello nuovo, democratico, Togliatti aveva gridato che si doveva raccogliere il tricolore che la borghesia aveva lasciato cadere nel fango e combattere un nuovo risorgimento.

Il sindacalismo integrale

Ritornando alla nostra storia del sindacalismo fascista, vediamo che i Gruppi di competenza limitando l'iniziativa sindacale alimentano una controffensiva degli industriali e degli agrari, e di riflesso una reazione degli operai. Fortemente ridimensionato il sindacalismo di classe, i capitalisti ne approfittano abbassando i salari e peggiorando le condizioni di lavoro.

Il riaccendersi della lotta di classe rappresenta un problema per il PNF, e Rossoni, a capo della Confederazione dei sindacati fascisti, pensa di risolverlo lanciando la formula del "sindacalismo integrale", che prevede l'esistenza di una formazione sociale "organicistica" la quale accolga tutti gli elementi del lavoro, dall'operaio, al tecnico, all'imprenditore. Per Rossoni il sindacato dev'essere nazionale, deve comprendere al suo interno sia le forze del capitale che quelle del lavoro.

Ma questa forma di sindacalismo incontra l'opposizione degli industriali perché mette in discussione la loro autonomia e minaccia i loro interessi. Secondo gli imprenditori, che hanno appoggiato il fascismo in funzione anti-comunista, Rossoni vorrebbe una continuazione della lotta di classe in altra forma, cosa che insidierebbe l'armonia sociale corporativa. Non li tranquillizza certo il fatto che egli dichiari che "l'indisciplina e la rivolta bolscevica delle masse sono esiziali alla Nazione, ma lo sono altrettanto l'egoismo e la speculazione delle classi sordide ed opache". ("Comprendere o perire", Il Lavoro d'Italia, 22 febbraio 1923).

Le polemiche arrivano al Gran Consiglio del Fascismo del 1923, al cui interno si fronteggiano due posizioni: una per il "sindacalismo integrale" (Farinacci e Rossoni) e l'altra per l'autonomia dei sindacati padronali (Corgini). Mussolini media: riconosce nelle corporazioni un aspetto della rivoluzione fascista ma si dichiara contrario al monopolio sindacale. Nello stesso anno si riunisce il Consiglio Nazionale delle Corporazioni sindacali in cui vengono discusse e approvate due risoluzioni: 1) le corporazioni fasciste sono incapaci di imporre ai datori di lavoro il rispetto dei contratti liberamente stipulati; 2) l'unico modo per uscire da questa situazione è riconoscere i sindacati come associazioni di fatto e come organi di diritto pubblico. Sarà questa la strada che percorrerà il fascismo di qui in avanti.

Il Patto di Palazzo Chigi

Le proposte di Rossoni non passano e sono superate con l'accordo siglato nel 1923, noto come Patto di Palazzo Chigi. Il governo, che non intende assorbire nelle corporazioni anche i sindacati dei datori di lavoro e mira a stroncare definitivamente la CGL, pretende però che la Confindustria riconosca i sindacati fascisti al fine di stabilire con essa rapporti contrattuali. Per i teorici del sindacalismo nazionale è interesse di tutti mediare i conflitti e cercare sempre un punto di conciliazione, facendo in modo che i rapporti tra governo, organizzazioni degli imprenditori e dei lavoratori siano continuativi e non saltuari.

Nell'ordine del giorno approvato sotto la presidenza di Mussolini nella riunione del 21 dicembre 1923, la Confederazione generale dell'industria italiana e la Confederazione generale delle corporazioni fasciste, affermano

"il principio che la organizzazione sindacale non deve basarsi sul criterio dell'irreducibile contrasto di interessi fra industriali e operai, ma ispirarsi alla necessità di stringere sempre più cordiali rapporti tra i singoli datori di lavoro e lavoratori e fra le loro organizzazioni sindacali, cercando di assicurare a ciascuno degli elementi produttivi le migliori condizioni per lo sviluppo delle rispettive funzioni ed i più equi compensi per l'opera loro, il che si rispecchia anche nelle stipulazioni di contratti di lavoro secondo lo spirito del Sindacalismo nazionale."

Messa quindi da parte l'idea del "sindacalismo integrale", Mussolini si garantisce l'appoggio della Confindustria in vista delle elezioni politiche dell'aprile del 1924 che porteranno alla vittoria del Listone (il cui simbolo è il fascio littorio). Antonio Stefano Benni, rappresentate degli industriali, eletto deputato nella lista fascista, pronuncia al Teatro Lirico di Milano un discorso in cui valuta positivamente l'operato del governo fascista.

Nonostante il Patto di Palazzo Chigi, il conflitto capitale-lavoro e la diffidenza tra le "parti" non si placano, e gli scioperi continuano, come è naturale che sia in una società divisa in classi, dove si fronteggiano interessi contrapposti.

Il Patto di Palazzo Vidoni

Un ulteriore tentativo di risolvere o quantomeno limitare l'insopprimibile lotta tra le classi è il Patto di Palazzo Vidoni nell'ottobre 1925. Questo accordo, in continuità con l'impostazione di quello di Palazzo Chigi, rappresenta un passo avanti dal punto di vista politico: non vi è un semplice riconoscimento delle due forze, corporazioni fasciste da una parte e Confindustria dall'altra, c'è il riconoscimento della rappresentanza esclusiva dei lavoratori da parte del fascismo con l'abolizione delle commissioni interne di fabbrica. Vengono così scavalcate le rappresentanze di base e tutto viene assunto dai sindacati fascisti locali controllati direttamente dal PNF:

"La Confederazione generale dell'industria riconosce nella Confederazione delle corporazioni fasciste e nelle Organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva delle maestranze lavoratrici.
La Confederazione delle corporazioni fasciste riconosce nella Confederazione generale dell'industria e nelle Organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva degli industriali.
Tutti i rapporti contrattuali tra industriali e maestranze dovranno intercorrere tra le Organizzazioni dipendenti della Confederazione dell'industria e quelle dipendenti della confederazione delle corporazioni.
In conseguenza le commissioni interne di fabbrica sono abolite e loro funzioni sono demandate al sindacato locale, che le eserciterà solo nei confronti della corrispondente Organizzazione industriale."

Questo fatto porta al blocco di qualsiasi azione autonoma dei lavoratori poiché è negata anche la minima agibilità all'interno delle fabbriche.

Durante la seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 6 ottobre 1925, si affrontano i temi del riconoscimento ufficiale dei sindacati e dell'esigenza di una Magistratura del Lavoro. La discussione porta alla formulazione della legge del 3 aprile 1926 che disciplina giuridicamente i rapporti collettivi di lavoro, istituisce la Magistratura del Lavoro e fissa il principio che il mondo sindacale debba essere controllato e inquadrato nello Stato. Nasce il Ministero delle Corporazioni, diretto da Giuseppe Bottai.

Il "riconoscimento" è concesso a un unico sindacato per ogni tipo di impresa o di categoria di lavoratori. I sindacati che sono riconosciuti dalle istituzioni hanno il potere di stipulare contratti collettivi di lavoro con effetto obbligatorio per tutti, mentre i sindacati non legalmente riconosciuti possono continuare a sussistere ma solo come associazioni di fatto.

Questo principio fondamentale del sindacalismo fascista sopravvive ai nostri giorni. Spiega ad esempio l'angosciosa corsa dei sindacati minori al riconoscimento da parte dei datori di lavoro. Significativo il Testo Unico sulla Rappresentanza Sindacale firmato dai tre maggiori sindacati italiani il 10 gennaio del 2014: esso sancisce la validità formale solo degli accordi tra le parti firmatarie del TURS, accordi ai quali tuttavia si deve attenere chiunque, anche se contrario al loro contenuto.

Rivista n. 42