Elezioni Pop

In Italia è impossibile parlare o scrivere di elezioni, democrazia e parlamento senza pensare nello stesso tempo che questa è la patria originaria della borghesia, che qui c'è il più vecchio capitalismo del mondo e che dunque l'assetto politico borghese è più maturo che altrove. Quando parliamo di trasformismo, ad esempio, possiamo risalire fino all'Antica Roma, ma oggi è quello poco eroico del tran tran quotidiano, del lento scorrere del tempo che adegua con precisione gli uomini agli interessi e viceversa. Quando un giornale come Il Sole 24 Ore (11 marzo) riporta che qualcuno "ritiene non impossibile" il passaggio alla destra di una settantina di deputati e senatori del PD e del Movimento 5 Stelle, vuol dire che si è esplorato tutto l'immaginario politico per trovare un qualche espediente in grado di far girare comunque il capitale asfittico, a costo di mescolare ogni parvenza di colore politico. In effetti, come riporta lo stesso giornale, è solo questione di tempo, come s'è visto nella legislatura passata: dal marzo del 2013 al marzo del 2018 ben 347 deputati e senatori hanno cambiato gruppo parlamentare ovviamente fregandosene del mandato espresso dal santo elettore. E l'hanno fatto più volte, raggiungendo la cifra di 566 salti di fosso complessivi, in media 9,58 al mese. I gruppi parlamentari erano quattro e sono diventati undici.

Quando uscirà questa rivista i partiti e il capo dello stato avranno probabilmente già deciso che cosa fare per la formazione di un governo. Così come stanno le cose adesso è impossibile fare previsioni, l'unica considerazione certa è che non c'è una maggioranza che si possa ottenere con le solite coalizioni, nemmeno ricorrendo alla formula di un governo di minoranza con l'appoggio esterno dell'altra minoranza. È vero che il trasformismo italico ha fantasia quasi infinita, ma è anche vero che c'è un problema di numeri difficilmente risolvibile.

La logica elettorale vorrebbe che il capo dello stato assegnasse l'incarico alla coalizione destrorsa, visto che ha preso più voti. Mancando la maggioranza, dovrebbe pescare nell'area PD – 5 Stelle, ma le tabelle pubblicate ci dicono che mancano 51 seggi alla Camera e 21 al Senato. Troppi anche per il trasformismo più sfrenato, pur se fosse diluito nel tempo. La Lega sembra abbia proposto un governo di minoranza, senza sottoscrizioni di protocolli formali. In tal caso serve "solo" avere i numeri quando si vota la fiducia. Ma gli analisti di cose parlamentari escludono anche questa possibilità.

Data la precedenza a chi ha preso più voti e constatato il possibile fallimento della ricognizione, il capo dello stato dovrebbe affidare l'incarico a qualcuno del Movimento 5 Stelle. Dal punto di vista dei numeri e delle possibili configurazioni non cambierebbe granché rispetto al primo scenario. A meno che il Movimento 5 Stelle non accetti di sottoscrivere accordi compatibili con gli interessi di Berlusconi il quale, a questo punto, sentita l'unica musica in grado di apprezzare, quella che è in armonia con i suoi interessi, potrebbe resuscitare del tutto e dare l'assenso per far quadrare i numeri. Ma sembra troppo anche per un paese come l'Italia.

Il capo dello stato, viste fallire le due ipotesi precedenti avrebbe solo due altre scelte: un governo del Movimento 5 Stelle con il PD o con la Lega. In realtà questi due scenari dovrebbero venire per primi, dato che coinvolgono i maggiori protagonisti; ma la logica non viene in aiuto, non siamo in Germania e le coalizioni qui servono per logorare l'avversario, non per risolvere problemi. Oltre alle difficoltà già viste, queste coalizioni significherebbero l'apertura di un periodo pre-elettorale, caotico, in cui l'unica prospettiva sarebbe la solita solfa: andare alle elezioni con una nuova legge elettorale. Che nuova non potrà essere perché dovrà rispecchiare un compromesso fra le forze che la propugnano. In una coalizione con il PD il Movimento 5 Stelle avrebbe un'influenza micidiale sulle correnti interne dell'alleato-nemico, correnti già uscite malconce dalla prova elettorale. In una coalizione con la Lega il Movimento 5 Stelle sarebbe penalizzato da un partito sfacciatamente populista, forte del cambiamento recente che l'ha fatto passare da partito autonomista regionale a partito nazionale di destra. La facciata populista del M5S nasconde un movimentismo "social" pieno di ideologia, balbettante vaghe formule da centro sociale che sembrano un'alternativa ma non lo sono. Un esecutivo con Di Maio presidente del consiglio e Salvini vicepresidente vedrebbe quest'ultimo intento al bombardamento continuo, sanguigno, populista, contro il temporaneo alleato. Come quando Bossi tuonava contro Roma Ladrona sbraitando che la Lega sarebbe andata in parlamento per distruggerlo dall'interno e le schegge residue della Prima Repubblica s'indignavano per le parolacce contro la bandiera.

La borghesia italica sembra non essere in grado di darsi un esecutivo funzionale. Gira e rigira, sente sempre più il bisogno di un governo tecnico ma riesce sempre meno ad attuarlo. L'ultimo tentativo, con Monti, sembrava sconvolgere le tradizioni, anche per le modalità da piccolo golpe, ma ha fatto una fine poco eroica. È vero che ciò dimostra l'inutilità del parlamento, ma dimostra anche l'impossibilità di avere un controllo sull'andamento economico tramite un esecutivo funzionale. Rispunta dunque la vecchia proposta di slegare i partiti dall'esecutivo, relegandoli a funzioni di ratifica, riducendo drasticamente il numero dei loro rappresentanti a cominciare dall'abolizione del senato.

La crisi incominciata nel 2008 non è affatto finita. Nei prossimi mesi vedremo all'opera pesanti determinazioni a favore di un esecutivo forte, senza che però esista la materia prima per fabbricarlo. Dovrebbe in tal caso maturare al di fuori dell'ambiente parlamentare la forma tecnica cui porteranno queste determinazioni.

Il Partito democratico riciclato al centro poteva essere la soluzione ma, una volta constatato che le leggi della democrazia portano inevitabilmente, matematicamente, a una situazione di non-democrazia (legge di Arrow), e che la spasmodica ricerca dei voti tende a concentrarli sul centro, secondo una distribuzione statistica gaussiana, da soluzione è diventato problema. È evidente che, senza questo partito, le cose sarebbero più semplici, perché si formerebbe un grande centro intorno alle ipotesi pop. Se Beppe Grillo avesse quell'intelligenza politica che gli attribuiscono, invece di starsene in un improbabile Aventino cercherebbe di coprire lo spazio politico che la situazione gentilmente gli offre. Sarebbe in contraddizione con l'odio del movimento per i partiti, ma il PD avrebbe i giorni contati e tutti i restanti schieramenti sarebbero costretti a fare i conti con quello che sta diventando un tormentone epocale: il reddito di base.

Rivista n. 43