Il capitalismo non è eterno

Nella migliore delle ipotesi l'inconsistente anticapitalismo odierno si basa su di una critica morale a una cattiva ripartizione del reddito. L'operaio sarebbe sfruttato perché pagato "poco". Subito dopo, nella corrente scala dei valori, viene la teoria del cosiddetto attacco padronale: il capitalismo sarebbe un sistema taroccato per avvantaggiare i capitalisti a spese dei lavoratori. C'è chi dice, addirittura, che siccome nella formula del saggio di profitto il capitale costante e quello variabile (impianti e salari) sono al denominatore di una frazione, i capitalisti tramerebbero a favore della guerra generale, in modo da riequilibrare il sistema distruggendo capitale e ammazzando operai.

Ora, è senz'altro vero che una guerra generalizzata potrebbe rigenerare il capitalismo per qualche anno, ma attribuire una catastrofe del genere alla volontà dei capitalisti ci sembra davvero eccessivo. Far ripartire un ciclo economico pilotando la società verso la guerra significherebbe avere una padronanza del sistema che la borghesia non ha. Le implicazioni sistemiche complesse che entrerebbero in gioco nel caso di una guerra planetaria non sono controllabili da una borghesia che non ha una teoria riguardo al proprio modo di produzione. Essa procederebbe alla cieca, come nel caso della Seconda Guerra Mondiale o come nel caso della Terza che è in corso da anni. Quindi la guerra, in teoria auspicabile per la salute del capitale, in pratica non sarebbe risolutiva. Anche perché la guerra d'oggi non è più basata sull'enorme dispiegamento di forze distruttive ma su reti capillari di informazione e disinformazione che muovono una specie di cruentissima guerra civile generalizzata. D'altronde, se fosse anche distruttiva come quella del 1939-40, non riuscirebbe a mettere in moto tanto capitale quanto ne servirebbe: abbiamo visto più volte che, in termini di valore, i beni materiali esistenti sono una piccola parte dei capitali che circolano sotto le varie forme più o meno speculative. Nel mondo capitalistico il "lavoro morto" domina il "lavoro vivo" in percentuali che, tradotte in cifre, la mente umana non riesce nemmeno ad afferrare. Di fatto, semplicemente non è possibile raggiungere un ammontare di investimenti produttivi che si avvicini alle cifre normalmente citate quando si parla di crisi, debito pubblico, Prodotto Interno Lordo, capitalizzazione di borsa, finanziarizzazione. Di fronte a un mondo in cui circola capitale fittizio che si conteggia ormai a quadrilioni di dollari (milioni di miliardi), gli investimenti e i profitti nell'industria o nei servizi, che si calcolano in centinaia di miliardi, sono quasi patetici.

C'è un risvolto politico che dovrebbe preoccupare i capitalisti e i loro rappresentanti dello stato, ed è la distanza che separa sempre di più la popolazione dal potere centrale. Se si toglie tutto a una popolazione, dal lavoro alla possibilità di riprodursi in un ambiente artificiale connaturato al sistema dei consumi, può scattare l'indifferenza. Già di per sé negativa per un sistema che ha bisogno di essere amato, celebrato e ubbidito, essa potrebbe essere il primo gradino verso la ribellione.

In uno dei soliti sondaggi è risultato che la metà dei giovani americani sarebbe contro il capitalismo. Sarà vero, ma quello che non si sa è ciò che vorrebbero al suo posto. Risponde in vece loro The Economist (17 novembre, The next capitalist revolution) che riporta la notizia: occorre ritornare a un sano capitalismo di concorrenza; quello attuale è arrivato a un tale grado di aberrazione monopolistica che fra poco non funzionerà più. Dal 1997 a oggi l'industria americana si è infatti centralizzata per due terzi, mentre il 10% dell'economia è costituito da grandi aziende che controllano due terzi del mercato. Normalmente la centralizzazione avviene quando il saggio di profitto è in pericolo, ma la situazione di monopolio di alcune aziende soprattutto dei comparti tecnologici ha invece portato i profitti a salire del 76% in confronto alla media degli ultimi 50 anni (profitti/PIL).

The Economist calcola che la globalizzazione possa ancora stimolare la concorrenza, ma ammette che le cifre in gioco sono basse, anche se per alcune grandi aziende sono alte. I profitti del comparto tecnologico ammontano a 660 miliardi di dollari, il 66% dei quali realizzato negli Stati Uniti. Se facciamo il confronto con le cifre di cui sopra, vediamo che l'economia di produzione-distribuzione-consumo è una quota veramente sproporzionata rispetto a quella del capitale fittizio, tanto che sarebbe difficile usare i dati complessivi per inventare un qualsiasi discorso sul futuro del capitalismo. Si capisce dunque come mai la metà dei giovani americani, dopo aver ammesso che non ama il capitalismo non ci faccia sapere che cosa vorrebbe al suo posto. È probabile che non ce lo faccia sapere non tanto perché non lo sa, quanto perché non potendo ancora pensare a una anticapitalistica società futura, non può assolutamente immaginare una ennesima edizione del capitalismo, nemmeno "rinnovato" riformisticamente. In effetti la gioventù americana ha già inviato qualche segnale. L'effimero movimento Occupy Wall Street un programma l'aveva: voltare le spalle alla società dell'uno per cento. Non voleva il miglioramento di questa società, ne voleva un'altra, anche se al momento sapeva descriverla solo come negazione di questa.

Adesso il confine è più vicino di quanto non fosse nel 2011. Siamo infatti a una fase pre-agonica del capitalismo. I suoi parametri fondamentali non funzionano più. Nonostante il denaro non costi che qualche cifra con lo zero virgola per cento, l'industria non investe. La quota del lavoro operaio sui cicli di produzione, quindi sul PIL, sta diminuendo senza che altro lavoro produttivo lo sostituisca, ad esempio nei servizi vendibili. I monopoli, incontrastati, hanno ridotto ai minimi termini la popolazione che produce plusvalore, condannandosi al disastro. In questo clima, si affacciano sulla scena due miliardi e mezzo di persone, solo in Cina e India, che aspirano a un livello di vita pari a quello occidentale e scopriranno molto presto che non è possibile.

Può darsi che il capitalismo riesca a salvarsi ancora una volta, ma non sarà più sé stesso e comunque non ritornerà più ai tempi della sua marcia trionfale. Siamo in terra di confine e i segnali sono assai potenti. Questo non-capitalismo che sta lasciando blaterare i suoi emissari (in questo caso, non troppo stranamente americani e inglesi) sulla ricomposizione sociale della quota lavoro nelle fabbriche e sull'azionariato operaio, non offrirà loro alcuna possibilità. Le loro parole non valgono nulla: il liberismo è già stato provato all'inizio dell'ascesa e ripresentatosi oggi in veste neoliberista ha combinato disastri; il riformismo è morto per inadeguatezza storica; il fascismo ha introdotto la socializzazione corporativa ma alla lunga non ha guidato il capitale; il keynesismo ha tentato la carta del liberalfascismo; insomma, la borghesia ha provato di tutto e adesso non ha più risorse salvifiche. The Economist, con il piglio ottimistico fuori luogo da sempre, accenna al ruolo dei sindacati. Se la sbriga in fretta perché non può evocare adesso lo stretto legame che c'è stato con il fascismo. E riduce tutto alla ripartizione: non è "giusto" che l'operaio sia retribuito così poco. Oltretutto è anche antieconomico, abbassa i consumi.

Rivista n. 44