Brexit

"In particolare l'imperialismo, epoca del capitale bancario, epoca dei giganteschi monopoli capitalistici, mostra lo straordinario rafforzarsi della 'macchina dello Stato' e la inaudita crescenza del suo apparato amministrativo e militare, tanto nei paesi monarchici che nei più liberi paesi repubblicani." (A. Bordiga, Inflazione dello stato, 1949).

È nato un neologismo: brexit. Adesso significa anche "esitare di fronte a una scelta senza prendere una decisione". Ovviamente non si tratta solo di questo: già la vicenda era iniziata con qualche grossa contraddizione, ad esempio quella di un referendum che stabiliva l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea nella quale non era mai entrata. C'era poi una "questione scozzese", dato che la Scozia sarebbe volentieri uscita dalla Gran Bretagna ma rimanendo nell'Unione Europea. E naturalmente la "questione irlandese", un contesto delicato che l'uscita dall'Unione metterebbe in crisi sia per l'interscambio commerciale che per gli accordi del 1998, che stabilivano l'apertura dei confini con l'Eire per sempre.

Il tentativo di mediare da parte del primo ministro ha portato a tre sconfitte parlamentari e ne sta maturando una quarta mentre scriviamo. L'uscita dall'Unione avrebbe dovuto essere un processo guidato, ma le forze in campo sono quelle che già non avevano più il controllo degli stati coinvolti. Ciò è assolutamente significativo rispetto a quanto stiamo dicendo da anni sull'impotenza della borghesia nei confronti dell'autonomizzazione del capitale, che si riflette nel comportamento della sovrastruttura politica. La contraddizione in cui versano le "istituzioni" con i loro apparati governativi non è dunque una novità; la brexit ne fa risaltare alcuni aspetti.

Il modo di produzione capitalistico non è lineare già per sua natura, ma dieci anni di crisi profonda hanno scardinato indirizzi, regole, norme, trattati. Organismi sovranazionali che hanno governato il pianeta negli ultimi settanta anni, e che avevano stabilito intorno all'economia capitalistica un quadro apparentemente indissolubile di direzione e stabilità, sono paralizzati. La pressione del capitale sulle istituzioni preposte alla sua regolazione ha scatenato forze centrifughe devastanti, spaccando trasversalmente partiti politici solidamente strutturati e sedimentati, facendo apparire i protagonisti come tanti apprendisti stregoni che invece di controllare le evocate forze della natura ne diventano preda. Oltre a questo, emergono fenomeni sociali innescati dalla crisi con la loro carica di lacerante contraddizione. Le sollecitazioni dei processi migratori provocano sconquasso, determinano le linee della ricerca di consenso, annichiliscono equilibri sociali storicamente dati. È sempre più provata la legge secondo la quale gli uomini si ammassano là dove è più alta la quantità di capitale investito per unità di superficie.

Il percorso di abbandono denominato brexit presenta crudamente tutte queste caratteristiche. Ricordiamo sinteticamente le peculiarità del rapporto fra Regno Unito e Unione Europea delineatesi nel secondo dopoguerra. Lo schema guida ha ricalcato fondamentalmente il pensiero di Churchill: "Noi siamo con l'Europa, ma non dell'Europa". La frase rappresenta il concentrato della posizione strategica della Gran Bretagna come anello di congiunzione fra Usa, Commonwealth ed Europa. L'adesione al mercato comune, giunta solo nel 1973 attraverso un percorso a dir poco tortuoso, assume i toni da ultima spiaggia inserendosi in un percorso di profonda crisi economica e di forte declino complessivo del Regno. L'Europa si trasforma quindi nella principale area di riferimento pur rimanendo tutti i distinguo originari della "filosofia di Churchill". Nel concreto Londra ha sempre goduto di uno status speciale (le deroghe cosiddette Opt Out), rinegoziato via via nel corso del tempo e comprendente oltre alla non adozione della moneta unica, esenzioni rispetto all'accordo di Schengen sulla mobilità di cittadini e merci, minori vincoli rispetto alla Corte di Giustizia europea, rimborsi di fondi versati alla UE e un complessivo distacco dal concetto di Ever Closer Union (Unione sempre più stretta) contenuto nella Carta costituzionale europea.

De-industrializzazione spinta

Dagli anni Ottanta del secolo scorso in poi la Gran Bretagna conosce una vera e propria desertificazione industriale che trasforma il paese da produttore ed esportatore a importatore netto di beni. Parallelamente e in coincidenza con il decennio thatcheriano, viene applicata una profonda deregolamentazione del settore finanziario che permette alla City di riaffermare la sua centralità. Oggi la Gran Bretagna è al 6° posto nel mondo per l'ammontare del PIL, l'80% del quale prodotto nel settore dei servizi, il 14% in quello dell'industria, il 5% in quello delle costruzioni e meno dell'1% in quello dell'agricoltura. La Gran Bretagna è al terzo posto nel mondo (dopo Usa e Cina) e al primo in Europa nella speciale classifica FDI (Foreign Direct Investment). È all'avanguardia nel campo delle semplificazioni burocratiche e fiscali. Offre agenzie specializzate nel lavoro di attrazione degli investimenti con un serbatoio di specialisti altamente qualificato. È dunque un vecchio paese finanziarizzato, la cui gloria imperialista è irreversibilmente tramontata. La finanziarizzazione non è senza riflessi sulla brexit, anche se non se n'è parlato molto: una quota importante delle attività finanziarie della City è legata al mercato dei derivati in euro. Il 75% di questi contratti viene negoziato a Londra presso le stanze di compensazione (clearing house), strutture che ricoprono il ruolo di controparte per ogni parte negoziale, ovvero di acquirente nei confronti dei venditori e di venditore nei confronti degli acquirenti. Si tratta di un giro di denaro virtuale che ammonta a 575 miliardi di euro al giorno. La Francia è appena sopra i 100 miliardi, mentre l'Italia non arriva ai 10. Siccome la Gran Bretagna possiede la maggiore industria bancaria e finanziaria del mondo, le sue banche sono di conseguenza il più affidabile e potente strumento di intermediazione, consulenza, amministrazione e gestione. L'intreccio tra il mondo finanziario e quello giuridico è fisicamente visibile: la City degli economisti e quella degli avvocati lavorano in tandem. Ciò fa sì che nella cittadella blindata del capitale mondiale sia custodita la maggiore concentrazione di conoscenza sui capitali altrui.

Un tempo Londra era anche al primo posto per l'attività borsistica di titoli e materie prime. Oggi contende il primato a Wall Street e Chicago. Londra non poteva far altro, per non soccombere, che mettere in campo i risultati del suo ex primato per attirare e catturare i capitali vaganti. È il capitale finanziario mondiale che esprime la potente ed urgente necessità di moltiplicare le piattaforme di investimento, in concorrenza fra loro, alla disperata ricerca di rivalutazione e rendimento. La moltiplicazione dei concorrenti produce ulteriori, violente contraddizioni non risolvibili a colpi di riforme fiscali come, ad esempio, quella attuata da Washington che si è posta apertamente sul terreno di scontro con la Gran Bretagna.

Il processo non è lineare. Essendo l'accaparramento dei capitali praticamente una guerra, quando nemici economici si scontrano con amici politici si profilano all'orizzonte gigantesche arrampicate sui vetri. Volendo inserire il processo di distacco dalla UE in una strategia complessiva riconducibile ad un preciso percorso ideologico tra alleati o avversari, si imbocca una strada palesemente falsa. L'abbaglio in questo campo è dovuto al divario fra percezione e realtà: la percezione ci conduce nel campo del sovranismo, della rinnovata potenza dello stato nazionale, delle velleità rispetto a chiusure, confini, dogane, dazi, ecc. La realtà svelata dal comportamento sul campo dai mostri statali come America, Cina, Giappone, Unione Europea, è esattamente opposta. La lettura corretta mostra che siamo di fronte alla sepoltura definitiva di ogni strategia a lungo termine caratterizzata dalla condivisione meditata di molteplici soggetti collettivi. La reiterata e disperata ricerca di soluzioni singole o solitarie rappresenta il segno più tangibile dell'assenza di una qualunque programmazione e della progressiva disgregazione dei modelli di gestione complessiva dell'economia applicati finora.

Hard, soft or nothing?

Tendenzialmente, la Brexit esprime la necessità fisica di totale sublimazione dello Stato nazionale, di liberazione totale da vincoli e rigidità di qualsiasi sorta, la necessità fisica di una entità sganciata dalle istituzioni, per come le conosciamo, una immensa isola finanziaria aperta all'imperversare del capitale. Ma l'avanzante disgregazione innescata dallo scontro economico produce dilemmi non più risolvibili nel quadro degli attuali rapporti sociali, produce progetti che si schiantano contro la tenace resistenza dei vincoli borghesi. Da qui l'assurdità di Brexit che rischia di provocare per il Regno Unito maggiori danni rispetto ai benefici e, a cascata, una serie infinita di contraddizioni insanabili: il capitale non può fare a meno dello Stato che, intanto, si è trasformato nel suo principale avversario; non può fare a meno di regole, accordi commerciali, sistemi di compensazione e riequilibrio diventati ostacoli odiati e mal sopportati; non può fare a meno dei confini, che però sono dissolti da una produzione ormai totalmente sganciata dal Made in… un paese piuttosto che in un altro; non può fare a meno del consenso delle altre classi, ma il consenso non può essere eternamente scollegato da una qualche concretezza economica e risolto con il terrore mediatico; non può infine evitare la consultazione elettorale correndo il rischio di complicare la situazione. Il sisma in corso ha sbriciolato la compattezza dei partiti storici britannici. Tra laburisti pro-Brexit, laburisti anti-Brexit, Tories per una soft Brexit, Tories per una hard Brexit e Tories anti-Brexit è impossibile che possa emergere un filo d'Arianna capace di condurre gli inglesi fuori dal labirinto. Spinte e controspinte, centrifughe e centripete, stanno mettendo in moto la macina di un mulino capace di trasformare in poltiglia qualsiasi velleità di mettere ordine entro il caos. Indipendentemente dal tipo di accordo che stipuleranno GB e UE, dobbiamo rilevare gli innumerevoli annunci di movimenti, trasferimenti, chiusure, delocalizzazioni più o meno ingenti, che si sono susseguiti nell'ultimo biennio, quello successivo al referendum. La reazione più veemente è venuta dal mondo finanziario raccolto intorno alla City che, fra l'altro, si era mostrato compatto nello schierarsi per il Rimanere. Da Nomura a Citigroup, da Hsbc a Goldman Sachs, da Morgan Stanley a Deutsche Bank, tutti i maggiori gruppi finanziari hanno prima espresso preoccupazione e poi, nella prospettiva di un accordo penalizzante o peggio di un non accordo fra GB e UE, hanno disegnato articolate strategie di uscita col trasferimento di migliaia di funzionari e addetti, e la dismissione di intere sezioni di investment banking. Una identica linea d'allarme attraversa le scelte dei vari istituti: la prospettiva di non disporre più del portafoglio clienti europeo e di trovarsi di fronte a normative più farraginose, potenzialmente penalizzanti sulla competitività dei prodotti offerti.

Il diavolo sta nei dettagli

È curioso dover constatare che la Grande Madre dell'imperialismo finanziario mondializzato non ha tenuto conto di un elementare effetto del denaro: essendo l'equivalente universale per il conteggio del valore, facilita gli scambi e rende possibile il confronto fra incommensurabili. C'era arrivato Aristotele, non ci sono arrivati gli economisti pro-Brexit, che adesso sono terrorizzati dalle migliaia di regole e leggi minori che negli anni sono state prodotte lì per lì al fine di poter utilizzare denaro proprio per gli scambi minuti all'interno di un sistema che ha un denaro diverso. Niente di speciale, ma ricordiamo cosa successe quando l'ente spaziale americano e quello europeo, in una missione su Marte, bruciarono qualche miliardo di dollari perché i rispettivi computer erano tarati su misure in pollici e in centimetri. Una costosa banalità, sembrava impossibile, eppure successe. Anche prima dell'Euro si scambiavano sterline con lire, marchi, franchi, ma dopo la sterlina rimase sola a confrontarsi con l'unificazione di tutte le altre monete. Era quasi lo stesso, ma non aderendo alla moneta unica Londra dovette avere una contabilità separata, regolamentata ad hoc. Questa asimmetria causava un certo fastidio all'Unione Europea: la Sterlina poteva oscillare liberamente sui mercati, mentre il valore dell'Euro era stabilito per tutti i paesi aderenti; in caso di deprezzamento della sterlina, Londra guadagnava in competitività. Ma si era tutti nell'Europa Unita, compresa Londra con la sua Sterlina, bastava fare come una volta senza tante storie: comprare e vendere a un determinato prezzo espresso in dollari con la data per il pagamento. Siccome i pagamenti sono dilazionati, in genere a 120 giorni, ogni minima transazione diventava un'operazione sui futures e se per caso i riscontri di queste operazioni finivano sul mercato, si andava ad alimentare il traffico dei derivati. E siccome Londra era diventata dal 1986 il maggiore mercato finanziario del mondo, specializzato precisamente in futures e derivati, c'era da supporre che non fosse insensibile rispetto a questo vantaggio.

E adesso? Con la Brexit non cambia nulla, ma sembra che l'UE non abbia più intenzione di far finta di niente. E siccome uscendone Londra dovrà rinegoziare tutti gli scambi, le regole, i trattatelli contingenti per ogni singola merce, sembra che i costi, dicono gli esperti, saranno altissimi. Senza contare che la confusione così creata potrebbe provocare il blocco delle merci, il blocco delle esportazioni, dall'acciaio ai medicinali, dalla carne alla frutta.

Piccole cose, costi imprevedibili

Oltre al mondo finanziario, anche il settore industriale, pur residuale come apporto al PIL complessivo del paese, ha alzato la voce. Bmw, Panasonic, Airbus e Rolls Royce aerospaziale hanno rapidamente approntato progetti di trasferimento delle rispettive lavorazioni. Questo nonostante la politica decisamente invitante del governo britannico (May ha dichiarato che l'obiettivo esplicito è di portare la Corporation Tax dal 19 al 17% entro il 2020 per arrivare poi addirittura sotto il 15%). In vista della dead-line che dal 29 Marzo 2019 è stata spostata a data da stabilire, sono stati fatti alcuni calcoli sul costo dell'operazione. I punti immediatamente prevedibili per compilare una guida al No deal, cioè all'uscita senza paracadute, suggeriscono un costo di circa 66 miliardi di sterline, più 45 miliardi che chiederà l'UE come rimborso spese. A questa cifra, in parte prevista, va aggiunto il costo difficilmente quantificabile dell'abbandono del mercato londinese da parte dei capitali internazionali. Asset per 1.500 miliardi di sterline hanno già abbandonato Londra e la sterlina si è svalutata del 18% senza che ciò si riflettesse in un miglioramento delle esportazioni, dato che la Gran Bretagna "produce" servizi per l'80% del PIL.

Il calcolo dei costi è molto approssimativo perché è impossibile valutare in anticipo che cosa succederà quando le economie saranno completamente separate. Aumenteranno sicuramente i tempi e i costi di tutte le operazioni bancarie con carte elettroniche o in rete; tutte le operazioni di dogana vedranno aumentare la burocrazia e ci saranno gravi costi per la gestione amministrativa da parte delle imprese; i sistemi pensionistici integrati per attività svolte dai rispettivi cittadini saranno reimpostati con tempi e costi soprattutto per la burocrazia; saltano tutti gli accordi per lo sfruttamento dell'energia nucleare; la regolamentazione dei medicinali andrà rivista; le integrazioni fra vari paesi in termini di sicurezza non saranno più valide e si dovranno firmare accordi bilaterali caso per caso; idem per quanto riguarda il traffico aereo europeo, e quello soggetto agli accordi Open Skies per la liberalizzazione del traffico aereo fra Usa e UE (Londra è un hub europeo aperto sull'Atlantico); sarà da rivedere la situazione di 3 milioni di cittadini del continente che abitano stabilmente in Gran Bretagna.

Big bang finanziario

Il 27 ottobre del 1986 in Gran Bretagna diventava operativo il sistema di liberalizzazione dei movimenti di capitali. Lungo tutti gli anni '80 i mercati finanziari internazionali si erano mostrati irrequieti di fronte a troppe leggi che ne limitavano i movimenti. Margaret Thatcher e Ronald Reagan si erano fatti portavoce di questa insofferenza e avevano preso provvedimenti per una gigantesca deregulation. La Borsa di New York aveva sorpassato quella di Londra e quest'ultima non aveva potuto fare a meno di tentare il recupero del terreno perduto. In pratica le banche diventavano organismi economici tuttofare, gli operatori delle agenzie avevano meno limiti, i parametri che servivano da base per i controlli antitrust erano ammorbiditi. Soprattutto gli scambi non avvenivano più nella "sala delle grida" ma nelle memorie dei computer, ventiquattro ore al giorno, sette giorni alla settimana a una velocità di gran lunga superiore a quella possibile a organismi biologici.

L'effetto si sarebbe visto esattamente un anno dopo, quando l'assuefazione al lavoro automatico delle macchine produsse un calo di attenzione umana, per cui si ebbe in un giorno il più grande tracollo borsistico di tutta la storia del capitalismo.

La teoria imperante in quel periodo era quella che suggeriva di eliminare l'eccesso di regolamentazione sui movimenti di capitali. Ma questo eccesso valeva per quei paesi che dominavano tali movimenti, cioè Stati Uniti e Gran Bretagna. Gli altri paesi semmai avevano il problema opposto: un eccesso di liberalizzazione li avrebbe penalizzati rispetto ai due grandi poli attrattori di capitale finanziario.

La Gran Bretagna aveva addirittura superato gli Stati Uniti in quanto a movimento finanziario; e in tale posizione, quando iniziarono le trattative per gli accordi in vista dell'unione monetaria europea, non poteva ritornare alle condizioni precedenti. Non poteva, cioè, fare marcia indietro verso una ri-regolamentazione dei movimenti finanziari, che l'Europa avrebbe certamente richiesto sotto l'egida della nascente Banca Centrale Europea. Il risultato fu, ormai lo ammettono tutti, la crisi del 2007-8, con il capitale anglosassone selvaggio che da New York e Londra riempiva il mondo di prodotti finanziari "sofisticati", cioè di spazzatura.

Come abbiamo visto, oggi la Gran Bretagna è al sesto posto nel mondo per Prodotto Interno Lordo subito dopo gli USA, la Cina, il Giappone, la Germania e la Francia; al settimo posto c'è l'Italia. Questa scaletta ci mostra come la Brexit non sia un sintomo politico, il risultato di un'avventata scelta su di un referendum che non s'aveva da fare: essendo il PIL della Gran Bretagna composto per l'80% di servizi, se essa rivolge le sue attenzioni finanziarie fuori dall'Europa ha a che fare con Stati Uniti, Cina e Giappone; se le rivolge all'Europa ha a che fare con Germania, Francia e Italia. Da una parte liberismo selvaggio americano, surplus finanziario cinese, encefalogramma finanziario piatto giapponese; dall'altra un gruppo di paesi che non può fare a meno di regolamentare sé stesso, se non altro per sopravvivere. Il vecchio paese imperialista sembra essere entrato in un vicolo cieco. Non per l'indecisione dei suoi partiti e del suo governo, ma perché non può dominare come un tempo e neppure coalizzarsi con qualche altro paese, è rimasto disperatamente solo con i suoi ricordi.

Rivista n. 45