Dalla "partecipazione" alla schiavitù
Appunti per uno studio sulla genesi delle prime società divise in classi

"Il marxismo scolpisce i connotati e i rilievi della società comunista, li desume da quelli della società immonda borghese e ve li contrappone in contrasto spietato. Tratta scientificamente la derivazione della forma capitalista da quelle antiche ma, nell'antitesi, le esalta ed ammira contro quella borghese, tra tutte infame. Non può accampare pretesa a chiamarsi dialettico e marxista chi non sa leggere, ogni qualvolta si discute del passaggio da precapitalismo a capitalismo, i taglienti enunciati del passaggio da capitalismo a comunismo, che sono tutti capiti e addotti a rovescio non solo dagli opportunisti delle varie storiche ondate ma anche dai gruppetti delle sinistre eterodosse." (A. Bordiga, Dottrina dei modi di produzione).

Chiave di lettura

Immaginiamo una società proto-urbana, poniamo, del terzo millennio a. C., insediata in un punto qualsiasi della Mezzaluna fertile, quell'area che va dall'Egitto alla Persia, dall'Anatolia all'Iraq. Una caratteristica invariante l'accomuna a tante altre nella stessa area: la produzione, cui si dedicano tutti i membri della società, e la distribuzione, realizzata attraverso metodi programmati secondo una lunghissima esperienza, cui si dedicano pochi membri della stessa società. Non c'è proprietà, non c'è denaro, e le differenze tra individui sono ancora il risultato di una divisione naturale del lavoro, dalla cui sistematicità tutti dipendono, produttori e distributori; e tutti contribuiscono ai bisogni individuali attraverso una struttura collettiva. Tutti sono quindi "mantenuti" attraverso un ricambio metabolico tra lavoro e quantità di beni, differenziati solo per quanto riguarda le condizioni di chi riceve: se è giovane o vecchio, se è uomo o donna, se fa un lavoro pesante o uno leggero, se ha figli piccoli o già in grado di portare il loro contributo nella società. In un sistema come questo si è già formata una primitiva divisione sociale del lavoro, derivante dal bisogno di coordinamento e anche dal bisogno di figure simboliche, re, sacerdoti, evocanti la divinità attraverso una mediazione.

Ma non sono ancora figure in grado di sovvertire la forma sociale. Perché ciò avvenga, la divisione sociale del lavoro si deve accentuare, si devono produrre beni differenziati alcuni dei quali destinati appositamente allo scambio. Il re e il sacerdote (o il re-sacerdote) diventano via via più influenti sulla società. Insomma, secondo lo schema di Engels nascono la proprietà e lo stato. Lo schema è classicamente corretto, ma presenta un problema: non spiega come mai una classe minoritaria compare e, contro ogni palese rapporto di forza, diventa classe dominante. Non è una questione di psicologia del comportamento. C'è sicuramente un fattore tempo, dato che queste trasformazioni sono avvenute nel corso di molti secoli; ma il tempo non è un fattore determinante se pensiamo che in alcuni casi la trasformazione è stata velocissima, come nel caso dell'Etruria (Torelli), di Roma (Carandini) e, molto prima, di Ebla (Pettinato). Se non si vuole concedere nulla alla visione idealistica di un re che con la sua corte (o una proto-classe) prevarica nei confronti del resto della popolazione, dobbiamo presupporre un modello sociale in cui l'intera popolazione beneficia del cambiamento e non avverte il pericolo che incombe. In effetti il proto-stato non è altro che la maturazione estrema della società che si auto-organizza e che, giunta a un certo grado di complessità, trova in un ente coordinatore la soluzione ottimale. Lo stato si impone perché il suo centralismo, finché è organico, permette oggettivamente un'organizzazione più proficua di quella che lo precede. D'altra parte, la presenza di una popolazione che riceve tutto ciò di cui abbisogna in cambio di lavoro, è già di per sé una situazione potenziale per lo sviluppo dello schiavismo.

Mezzaluna fertile

In generale, l'ondata di incendi e distruzioni attestati dagli scavi e risalenti alla fine del II millennio a. C., possono essere attributi a rivolte contro il passaggio dal tardo comunismo originario al primo sistema sociale in cui compaiono le classi e la proprietà. Questa spiegazione non è accettata dalla storiografia corrente, anche se è un'ipotesi che fa capolino tra le altre. Le quali del resto non si fondano su dati più plausibili: ad esempio, l'ipotesi dell'invasione dorica, un tempo sostenuta come se fosse una prova e non un indizio, è completamente caduta. Le distruzioni rappresentano un po' dovunque il tramonto di civiltà fiorenti e l'avvento di un periodo "oscuro". L'eredità sarà raccolta dalla Grecia molto più tardi, circa nell'VIII secolo a. C., e quella società sarà caratterizzata da proprietà, stato e schiavitù.

Schemi delle forme e delle transizioni

Normalmente la grande periodizzazione storica dei modi di produzione individua epoche divise secondo questo schema:

  • - comunismo originario;
  • - società schiavistica antico-classica;
  • - feudalesimo;
  • - capitalismo;
  • - comunismo sviluppato.

Diversamente da quanto fa Marx, per una questione di insiemi incompatibili non dividiamo la seconda forma in tre varianti, antica, asiatica e germanica. Nella nostra ricerca, che si snoda attraverso cinque numeri della rivista (vedi bibliografia), ci occupiamo delle grandi transizioni che dividono le società comunistiche da quelle classiste e proprietarie:

  • - dal comunismo originario alle forme comunistiche paleo-urbane;
  • - dalle forme dinamiche a quelle "omeostatiche" ("asiatiche");
  • - dalle forme comunistiche paleo-urbane a quelle classiste;
  • - da quelle classiste al comunismo sviluppato.

In realtà il nostro studio si limita a prendere in considerazione le prime tre, dato che l'ultima è stata indagata a fondo da Marx ed Engels. Oggetto di questo articolo è la terza grande transizione, quella dal comunismo originario giunto al suo limite storico (paleo-urbanesimo) alle società di classe (schiavismo, feudalesimo, capitalismo).

Fin dalla preistoria l'umanità escogitò strumenti organizzativi perfezionatissimi per liberare sé stessa dal regno della necessità e avvicinarsi al regno della libertà. Da quando però emersero le classi e la proprietà, essi furono usati dalle classi dominanti per potenziare il proprio dominio. Uno degli strumenti, lo stato, non è altro che lo sviluppo della capacità organizzativa delle antiche società, le quali avevano maturato un perfetto sistema centrale di produzione, immagazzinamento e distribuzione ben prima che esistesse la proprietà privata. Solo la comparsa di quest'ultima permise ai detentori di proprietà di impossessarsi anche del sistema amministrativo. Ovviamente non fu un processo volontario, ma quel sistema era già pronto, perciò fu sufficiente prenderlo com'era e utilizzarlo a fini di classe.

Per seguire efficacemente le pagine del presente articolo è forse necessario richiamarne un altro, della nostra corrente, intitolato Fiorite primavere del capitale. La tesi ivi sostenuta è potente quanto complessa: il determinismo economico e storico è più robusto delle determinazioni politiche; il passaggio da un modo di produzione all'altro avviene quando si verificano determinate condizioni oggettive e non quando le classi sono "pronte" con i loro schieramenti anagraficamente accertati. Anzi, questo non è mai successo e non succederà neppure nel corso della prossima (presente) rivoluzione.

L'affermazione suscita reazioni contrastanti: il corso dell'ultimo tentativo rivoluzionario, tramutatosi in controrivoluzione, ha prodotto un proprio linguaggio il quale, sopravvivendo alla catastrofe, è ancora utilizzato nel contesto odierno. Il guaio è che quel linguaggio, coniato da una rivoluzione montante, viene utilizzato nel contesto di una controrivoluzione che soffoca ogni iniziativa. Così parole come comunismo, tattica, sciopero, partito, democrazia, dittatura, lotta, parlamento, guerra, sindacato, soviet, eccetera eccetera hanno perso il loro significato originario con ciò che esso implicava: negli anni della rivoluzione (quella europea che va all'incirca dal 1917 al 1924) si aderiva al partito in modo incondizionato accettandone il programma, si lottava nel sindacato come inquadrati in un esercito in guerra, si parlava di tattica per sconfiggere il nemico e non per allearsi ad esso. Oggi si aderisce a un partito o a un sindacato in modo platonico, come si aderisce a un club acquistando la tessera. E fosse anche differente l'approccio individuale, la vita politica in generale è ancorata agli eventi dell'ultimo secolo, vale a dire all'immenso sconquasso prodotto dal rapporto corporativo fra le classi.

La sopravvivenza del linguaggio di un'epoca passata non aiuta a fare chiarezza, e del resto il linguaggio cambia quando cambiano le condizioni sociali del suo utilizzo. Sarebbe già tanto se esistesse almeno una consapevolezza del problema. Perciò diamo per scontato che chi ci legge avendo nella mente il modello di rivoluzione bi-classista pura, trovi poco marxista un approccio diverso. Non stiamo a citare ciò che dice Marx a proposito: il modello astratto serve a trattare con metodo la insidiosa complessità del reale. Insidiosa, perché è la prima a stimolare la percezione soggettiva. È una fonte di opinioni e, come si sa, queste non hanno nulla a che fare con l'approccio scientifico.

L'avvento dello schiavismo è una rivoluzione? Per gli schiavisti, sì. La storia non si è svolta secondo i criteri della lingua morta prodotta dalla scorsa rivoluzione fallita, che descrive le rivoluzioni come rivolte degli oppressi contro gli oppressori. Il passaggio dal comunismo originario alla società schiavista non è caratterizzato da moti di classi oppresse. Semmai, la classe degli schiavi, una volta formatasi, ha prodotto una lunga serie di rivolte contro la società schiavista. Le rivolte degli schiavi sono certamente da considerare lotta fra classi, ma non erano l'espressione di un bisogno di rivoluzionare il sistema esistente. Erano piuttosto l'espressione di una nostalgia della condizione precedente. Anche la transizione dalla società antico-classica al feudalesimo non vede protagonista una classe proiettata nel futuro: l'energia fresca portata dalle tribù barbare contro la decadenza romana non è quella di una classe oppressa portatrice di esigenze innovatrici (anche se il feudalesimo ha innovato più di quanto mediamente si creda). I cristiani, pur perseguitati, non sono i rappresentanti di una classe particolare, la loro presenza nel mondo antico era marcatamente interclassista. Gli stessi borghesi, già largamente sfruttatori di lavoro salariato nel Medioevo, non sono consapevoli di un movimento che farà vincere la loro classe e la loro ideologia.

Un'impronta di classe in assenza della classe

Una determinata forma sociale, dice Marx, non scompare mai prima di aver dato luogo a tutte le potenzialità di cui è portatrice. Le classi beneficiarie di una rivoluzione possono soltanto rappresentare una fluttuazione intorno a questo dato di fatto. Possono cioè accelerare il processo se sono all'attacco (rivoluzioni multiple) o ritardarlo se sono in difesa (situazione attuale). Un decorso "normale", cioè aderente al modello della rivoluzione come scontro fra due classi "pure", rappresentanti due modi di produzione che collidono è un decorso "ordinato" e quindi meno probabile, esattamente come succede con le leggi di natura. Dunque, si dice in Fiorite primavere, la certezza degli eventi che portano al trapasso della forma sociale sta nel motore della rivoluzione, cioè nelle condizioni materiali più o meno mature. Nell'ambito di queste condizioni si muovono sulla scena storica gli attori delle rivoluzioni, cioè le classi coinvolte. E sulla scena storica la rivoluzione recluta i suoi militi, cioè coloro che fisicamente combattono per i fini rivoluzionari.

In tutte le rivoluzioni passate non c'è stata coerenza tra i motori, gli attori e i militi: a condizioni mature (anticipate o ritardate che fossero), le rivoluzioni sono avvenute comunque, e hanno utilizzato brutalmente gli utensili disponibili, senza troppo riguardo per il curriculum personale dei militi. La rivoluzione futura (presente) è assai semplificata, come abbiamo rilevato più volte, e non avrà come attori principali che due classi: proletariato e borghesia. La piccola borghesia, classe di mezzo, sarà costretta ad oscillare fra l'una e l'altra. Il proletariato è una classe particolare: quando rivendica qualche miglioramento della propria esistenza chiede, cosciente o no, una modifica del modo di produzione, cosa che non è possibile. Perciò ogni sua richiesta ha un carattere universale. Nell'articolo Marxismo e miseria la nostra corrente ha esteso i confini del proletariato includendovi lo strato dei senza-riserve. Sessant'anni fa poteva sembrare un allargamento al lumpenproletariato, operazione che Marx non avrebbe sottoscritto. Oggi è evidente a tutti che i milioni e milioni di giovani senza prospettive non sono canaglia ma parte integrante di quella classe a cui il capitalismo non ha più niente da offrire, nemmeno un lavoretto da schiavi. Essendo una classe numerosa come nessun'altra in questa epoca, è chiaro che darà alla rivoluzione un'impronta che nessuna classe del passato avrebbe potuto dare. Anche perché avrà un'arma in più: il partito politico in quanto espressione della società futura.

Detto questo, bisogna sottolineare che in base al censimento delle forze proletarie che la borghesia ci mette a disposizione, il numero dei salariati nel mondo ammonterebbe a 1,3 miliardi, ma le statistiche borghesi sui salariati così come quelle sui disoccupati, tendono al ribasso. In effetti le cifre dovrebbero essere ben più alte. Sia perché non figurano fra i salariati i lavoratori in nero, che mondialmente sono in percentuale pari all'economia nascosta, cioè il 30% circa; sia perché non è conteggiato fra i proletari chi è costretto a figurare imprenditore… di sé stesso. Ma la fonte più importante per calcolare l'energia potenziale in grado di trasformarsi in energia cinetica è la massa dei senza-riserve, che sfugge a qualsiasi rilevamento, statistica, stima. L'energia proletaria potenziale è dunque maggiore della semplice somma statistica.

Questo fatto è stato inequivocabilmente dimostrato dalle rivolte che dal 2005 in poi hanno incendiato le piazze di molti paesi, segno che attori e militi tendono a mescolarsi, per cui non è più possibile valutare la pressione di classe con il semplice computo numerico. La nostra corrente aveva già fatto un analogo discorso, riferito ad altre occasioni, ad esempio nei Fili del tempo Avanti barbari e Pressione razziale del contadiname, pressione classista dei popoli colorati. Nel primo, auspicando la comparsa di nuovi barbari contro l'incivilimento opportunistico del proletariato; nel secondo, attribuendo un carattere reazionario al contadiname e un carattere rivoluzionario ai popoli che lottavano per la liberazione nazionale.

Gli incendiari delle banlieue francesi non erano affatto anagraficamente proletari, erano però certamente il riflesso di una "pressione classista" di "colorati" metropolitani. L'analogia con le popolazioni che nel secondo dopoguerra hanno lottato per la liberazione nazionale non è da intendere in modo diretto, ma come espressione di una simmetria: il banlieusard che incendiava le automobili e assaltava i centri di normalizzazione sociale stava al senza riserve come il rider di Foodora sta al proletario puro. E questo vale per tutti i casi di recenti rivolte urbane. Il proletariato si allarga in rapporto alla concatenazione fra le figure interne delle classi, fra chi non ha niente da perdere e chi ha qualcosa da perdere e lo sta perdendo.

Un tema centrale e permanente del nostro lavoro è una critica al concetto di rivoluzione come evento costruito da gruppi, governi o partiti; concetto in assoluto contrasto con l'approccio di Marx ed Engels e il risultato del loro metodo di analisi della storia: le rivoluzioni vanno trattate come eventi fisici, le forze in gioco si comportano come quelle dei fenomeni naturali. Nessuna rivoluzione è stata mai "fatta" in base alla volontà degli uomini che hanno infine combattuto nei suoi ranghi. Questo si riflette sulla composizione di classe dei reparti combattenti di ogni rivoluzione: non è detto che il nerbo degli eserciti della rivoluzione sia composto da elementi che di questa rivoluzione sono o saranno i maggiori beneficiari. Così, è importante la funzione che il proletariato ha e avrà nel cambiamento, è importante il dato quantitativo, ma lo è ancora di più la capacità di dare la propria impronta qualunque sia lo schieramento che si accinge a dare battaglia per far saltare lo stato di cose esistente. In Russia era all'ordine del giorno la rivoluzione borghese. Tutto faceva pensare a uno sviluppo conseguente, secondo lo schema consueto della successione storica e delle classi in movimento. Lenin, nel libretto Due tattiche, ne espresse una dura critica, basata su di un'analisi qualitativa delle forze in campo. L'unica in grado di passare dall'energia potenziale a quella cinetica era il proletariato. La Russia nel 1914 aveva 175 milioni di abitanti. Nel 1905 la grande serrata di novembre lasciò fuori dagli stabilimenti 100.000 operai, un numero che doveva essere vicino al totale. La borghesia era inconseguente; le classi intermedie, dopo aver prestato i loro transfughi al movimento rivoluzionario, avevano esaurito ogni energia; l'immensa massa dei contadini era inerte. Lenin ne trasse la conseguenza che in Russia stava maturando la rivoluzione proletaria. Il 5 o 6 per cento della popolazione forniva l'aggettivo storicamente corretto.

Il modello marxista delle rivoluzioni

Gli elementi di ogni rivoluzione sono inseriti nello schema di Marx sul succedersi dei modi di produzione secondo un modello riduzionista classico:

1) Preistoria. I produttori hanno il completo controllo dei mezzi di produzione e di distribuzione. La divisione del lavoro è esclusivamente tecnica. Non si può in tale fase parlare di "modo di produzione" in quanto i rapporti fra le cellule dell'organismo sociale sono di tipo metabolico. Non esistono la proprietà e lo stato, quindi neanche le classi. Transizione di fase: la popolazione è dedita alla produzione e riceve il prodotto senza scambio. All'apice di questa forma sociale una parte della popolazione è al servizio della società, ancora senza scambio (compenso). Si trova quindi, rispetto all'altra parte, nella condizione materiale di esserne "dipendente". Vedremo come questo termine che mettiamo fra virgolette assumerà un significato generale valido per tutte le società in transizione dal comunismo originario alla società classista.

2) Antichità classica. Produttori e distributori si distribuiscono secondo una divisione tecnica e sociale del lavoro. Compaiono proprietà, classi e stato. Una parte cospicua della popolazione viene ridotta in schiavitù. Il modo di produzione si caratterizza per la preminenza della produzione ottenuta con il lavoro di schiavi. Transizione di fase: la massa degli schiavi è protagonista di imponenti rivolte ma non riesce a diventare classe alternativa. In assenza di una classe in grado di rivoluzionare i rapporti sociali, cresce il potere di una setta interclassista, quella cristiana, ben inserita nella civiltà greco-romana (civiltà poco sensibile alle vicende religiose ma sensibilissima a qualsiasi vicenda che adombrasse il potere costituito).

3) Feudalesimo. Si accentua la divisione sociale del lavoro. Si accentuano i caratteri di classe. Si attenua la proprietà, sostituita dalla concessione. Sopravvive la schiavitù, nascono forme di lavoro salariato, ma la classe su cui poggia il modo di produzione è la servitù della gleba, legata economicamente e di fatto alla terra del signore anche se giuridicamente libera. Transizione di fase: la grande e la piccola borghesia preparano il terreno alla rivoluzione, ma non ne saranno i combattenti, in quanto le loro esigenze materiali sono già in buona parte soddisfatte all'interno dell'Ancien régime. Diventeranno militi della rivoluzione borghese tutti coloro che dalla sopravvivenza del vecchio modo di produzione sono non solo danneggiati ma soffocati.

4) Capitalismo. La divisione tecnica e sociale del lavoro raggiunge il culmine. Sopravvive la schiavitù come fattore storicamente marginale, si sviluppa il proletariato fino a diventare l'unica classe su cui poggia l'intera produzione. È esasperata la diffusione della proprietà, negata alla maggior parte della popolazione e accentrata in poche persone. Il capitalismo è il modo di produzione meno interclassista mai esistito in quanto capitalisti e proletari si fronteggiano elevandosi rispetto alle altre classi, relegandole ai margini. Non solo, ma, essendo due classi che dipendono in tutto e per tutto l'una dall'altra, si fronteggiano per la vita o per la morte. Non solo in senso figurato. Nonostante queste caratteristiche anche il capitalismo, ereditando forme di sfruttamento di altre epoche, non raggiunge mai il grado di purezza che sembrerebbe compatibile con la sua natura esclusiva. Anzi, proprio perché un alto grado di purezza corrisponde ad una caduta del saggio di profitto, è costretto ad affiancare, a metodi di produzione d'avanguardia, metodi obsoleti per mitigarne l'impatto.

La possibilità che si presentino sulla scena storica rivoluzioni ibride non annulla il modello marxista che tiene conto solo delle grandi classi contrapposte. Un esempio illuminante ci viene dal confronto fra Lenin e Gramsci: nel libretto citato Lenin dimostra che in una rivoluzione ciò che conta è la funzione svolta dall'influenza sugli schieramenti. Gramsci, come al solito lontano da ogni teoria, afferma che la Rivoluzione russa ha radici più ideali che materiali e la definisce Rivoluzione contro il Capitale di Marx (l'Avanti del 24 novembre 1917). Secondo lo schema tradizionale il passaggio dalla società antico-classica a quella feudale avrebbe dovuto comportare il passaggio del potere dalla classe dominante a quella dominata, cioè dai possidenti romani agli schiavi. La storia non si è dunque svolta secondo modello teorico? Mentre era chiaro quale fosse la classe dominante, non lo era chiaro quale fosse la classe dominata che insorgeva contro quella dominante.

Lenin avrebbe individuato nel mondo barbarico il nerbo della rivoluzione antischiavista. Essa infatti fu combattuta non dagli schiavi ma dai cristiani e dai barbari. Gli uni erano presenti in tutte le classi (in buona parte, però, quelle ricche e possidenti), gli altri erano estranei al mondo romano, assimilati con difficoltà e non in grado di affrontare vittoriosamente, da soli, l'impero; ma l'avevano praticamente in mano: erano la forza determinante dell'esercito, nominavano gli imperatori, portavano un nuovo rapporto con la terra coltivabile, dissolvevano il modo di produzione schiavistico pur facendo transitoriamente ricorso agli schiavi. Roma copre mille anni di storia dalla fondazione alla caduta (duemila se consideriamo l'impero d'Oriente), la forma schiavistica pura non copre un quarto di questo tempo.

Nascita della schiavitù: divisione del lavoro

In una società comunistica la schiavitù è un non senso ma, se andiamo ad analizzare le società più antiche, ne troviamo un'apparente traccia assai precoce a partire dalla preistoria. In parte il problema è marcatamente terminologico, in parte è oggettivamente difficile da inquadrare dal punto di vista dei rapporti sociali, cioè di classe.

Le classi hanno origine non tanto dalla proprietà, che compare abbastanza tardi, quanto dalla famiglia, come ci mostra Engels, a partire dalla divisione tecnica del lavoro che in essa, all'inizio, è divisione naturale del lavoro. I membri della famiglia paleolitica condividevano infatti competenze differenziate primarie, che ogni soggetto metteva a disposizione dell'altro, l'uomo per la donna, il vecchio per il bambino, il produttore che iniziava a produrre utensili di pietra per tutti, e viceversa. A questo livello di competenze divise ha ancora il sopravvento un metabolismo sociale che si riflette al di fuori della famiglia e permea la comunità. La schiavitù non può esistere perché la società non è abbastanza complessa da riuscire ad esempio a integrare i nemici vinti, i quali vengono uccisi o, com'è risultato da scavi in Spagna, mangiati. La trasmissione delle competenze avviene tra individuo e individuo e solo lentamente si impone anche un messaggio grafico su osso, roccia o pelle, che inizia a trasformare l'informazione da uno a uno in informazione da uno a molti. Alla società non serve ancora sviluppare un rapporto di dipendenza al suo interno, e neppure serve il passaggio dalla divisione tecnica del lavoro a quella sociale. Non vi è produzione di surplus e quindi possibilità di accaparrarlo, perciò continua lo sviluppo della forza produttiva sociale finché la produzione in eccesso non viene proiettata all'esterno. Si forma il baratto elementare, e siccome l'eccedenza ha valore d'uso soltanto per chi la riceve, lo scambio è limitato e la competenza trasmessa fra gruppi mitiga il bisogno di scambio: se ad esempio un gruppo ha bisogno di ceramica prodotta da un altro gruppo, può acquisire la competenza e fare a meno di acquisire materialmente il prodotto.

La fissazione del passaggio delle competenze avvenuta con le prime forme di scrittura comporta la generalizzazione delle competenze stesse e la produzione di derrate o manufatti appositamente per lo scambio. La competenza elementare che stava alla base della primaria divisione tecnica del lavoro diventa poco per volta divisione sociale, cioè rapporto sociale fra individui, rapporto che presenta la potenzialità di evolvere. Con la nascita dell'artigianato finalizzato allo scambio si prospettano rapporti già pronti per manifestare le prime forme di dipendenza, ad esempio la fabbricazione di oggetti sotto la sovrintendenza di qualcuno. Servitù e schiavitù sono una conseguenza evolutiva dell'iniziale beneficio dell'aumentata produzione.

La struttura del lavoro sociale

Con l'avvento di civiltà complesse, in grado di sviluppare molta energia, gli abitanti degli agglomerati urbani incominciano a costruire monumenti grandiosi, a bonificare territori, a fondare città, opere che richiedono una direzione centralizzata e una conseguente competenza decentrata. Conseguentemente decentrata, perché i modelli organizzativi centralizzati, dal progetto all'esecuzione dei particolari, dall'organizzazione alla logistica (comunicazioni, trasporti, alloggi, alimentazione), oltre una certa dimensione non funzionano più sulla base del semplice controllo centrale: l'esecutore di operazioni elementari ordinate da un centro non è adatto a grandi sistemi, va sostituito con una catena decisionale locale, parziale, che riceva le istruzioni da un centro ma che nello stesso tempo sia in grado di elaborarle e applicarle. Il problema dell'efficienza nei grandi sistemi produttivi è proprio quello di superare lo schema gerarchico rigido a favore dello schema distribuito flessibile. Un sistema molto vasto funziona meglio se dal centro partono ordini chiari e sintetici, accolti da una periferia che sa come interpretarli dal punto di vista esecutivo senza il bisogno di qualcuno che dall'alto spieghi ogni particolare.

Il limite maggiore del lavoro schiavistico consiste nell'impossibilità di coordinare i movimenti e le azioni di una massa amorfa, demotivata, che non ha iniziativa e che per sua natura fa solo ciò che le ordinano di fare. Lo schiavo rende poco nella produzione. Rende di più nel lavoro individuale, ma questo tipo di lavoro in ogni società è poco rappresentativo: anche nelle due civiltà schiavistiche modello, Atene e Roma, lo schiavo con il maggior rendimento era il tutore dei figli del padrone, l'amministratore, il musico e, per altri versi, l'efebo o l'ancella. Superato il limite della casa e della famiglia (lo schiavo ne faceva parte in quanto elemento della proprietà), il rendimento decresceva, tanto che le due capitali ricordate ebbero ad un certo punto una popolazione di schiavi pari numericamente a quella dei loro padroni. Più numerosi erano gli schiavi, più la loro produttività era socialmente bassa. Diversa infatti, rispetto al contesto domestico, era la situazione dove il lavoro dello schiavo era utilizzato in massa, come nelle campagne e nelle miniere: non sappiamo gran che sulle condizioni di lavoro, di salute, di alimentazione dello schiavo sfruttato in massa, ma il solo dato della percentuale rispetto alla popolazione ci rivela che quel tipo di forma sociale aveva già fatto il suo tempo all'epoca dell'impero.

Negli scavi archeologici delle società proto-urbane, tra il neolitico e la prima età del rame, si sono trovate prove di lavoro collettivo organizzato centralmente con utilizzo di lavoratori non schiavi (Frangipane). La costruzione di gigantesche opere aveva fatto pensare ai popoli venuti più tardi, già schiavisti, che esse fossero il risultato di folle di schiavi. In realtà, in seguito a indagini più accurate che hanno sconfitto molti pregiudizi oggi si sa che quelle grandi opere sono state possibili con relativamente poca mano d'opera, ben addestrata e ben rifornita di informazione, materiali e alimenti.

Ma che cosa significa "schiavi"?

Il modello di funzionamento di un gruppo sociale in grado di autoprodursi porta già in sé la condizione materiale per diventare un'altra cosa. Consideriamo ad esempio una città operaia egizia in cui un certo numero di individui, abili costruttori e decoratori, svolgeva il proprio lavoro in piena libertà, "pagato" con una quantità di beni a volte superiore a quella distribuita fra altri appartenenti alla popolazione. Negli studi più recenti quei lavoratori sono chiamati "operai", ed è sicuramente meglio di quando venivano chiamati "schiavi", ma il termine non è ancora esatto. Siccome non producevano una certa quantità di beni o servizi in cambio di remunerazione, ma la producevano in cambio del mantenimento, qualunque fosse la quantità e la qualità del prodotto fornito, rappresentavano un ibrido, una forma di prestazione lavorativa di passaggio. Le condizioni particolari dell'Egitto non permisero un'evoluzione di quella forma, tuttavia è evidente che il passaggio al modello schiavista era presente, anche se in modo potenziale.

Le suddette condizioni particolari impedirono che quei gruppi sociali fossero completamente travolti dal cambiamento del modo di produzione, con il relativo avvento di sovrani, burocrati e sacerdoti in veste di classe dominante. Non divennero classe dominata nemmeno quando le dinastie egizie furono sostituite da quelle ellenistiche. Ciò successe però alle popolazioni di altre civiltà, ad esempio in tutta la Mesopotamia. Qui la situazione di partenza era analoga a quella dell'Egitto, dove il vocabolario non registrava la parola "schiavo" ma solo le funzioni svolte o la situazione rispetto ad altri gruppi della crescente divisione sociale del lavoro:

Egizio Eblaitico Significato ipotizzato
mrj.t gurush Termine generico per "Dipendente"
d.t na-se11 Persona addetta a un compito specifico
hsb.w ir11 Lavoratore nelle corvée
b3k.w ir-a-num Operaio retribuito in natura
hm.w-nzw ugula Addetto al servizio reale
sqr.w'nh irn-irn Prigioniero di guerra
'3m.w-w - Asiatico (vale "estraneo" senza diritti)

Le civiltà della Mezzaluna fertile al tempo dell'espansione assiro-babilonese conobbero la schiavitù, alimentata dalle continue guerre, ma non divennero mai modi di produzione schiavistici. La rivoluzione urbana delle civiltà protostoriche, definite finalmente "egualitarie" da qualche archeologo meno propenso alla conservazione accademica di modelli superati, non comportò mai un rivolgimento completo dei rapporti sociali, e la forma di dominio di una classe sull'altra si limitò a qualche forma di rapporto servile. La prova è che in guerra continuò lo "spreco" di potenziali schiavi, dato che i prigionieri continuavano ad essere uccisi. Gli studiosi della materia sottolineano che, all'inizio, neanche nel caso di lavoro coatto nelle miniere si può parlare di schiavitù come modo di produzione. E l'uso assiro della deportazione per il popolamento di province disabitate non basta a far definire la forma sociale.

Lo schema del linguaggio che si forma intorno alla parola "schiavitù" è quanto mai chiaro: il personaggio che noi chiamiamo "schiavo" non esiste nelle società più antiche. Esiste invece il tentativo di dare un nome al lavoro dipendente in tutte le sue forme. E siccome non esiste una condizione materiale generalizzata, ecco che il nome non è generalizzato ma, per così dire, si specializza, come è evidenziato nella tabella.

Verso la schiavitù sviluppata: la "dipendenza"

La "dipendenza" è la forma più antica di dominio dell'uomo sull'uomo, ma non ha caratteristiche rapportabili alla concezione che ne abbiamo oggi. Troppe forme considerate schiavistiche si sono succedute, una diversa dall'altra, in tutte le epoche, perciò la necessaria generalizzazione deve tener conto delle differenze, soprattutto per capire quale sia il confine tra una forma e l'altra. Per stabilire se in una certa società esiste o meno un rapporto schiavistico dominante occorre individuare l'esistenza di una produzione e distribuzione di beni basata sugli schiavi, i quali devono essere oggetto di commercio sul mercato.

"Schiavi" Appartenenti a…
1. Patronimico x
2. Lavoro in famiglia x
3. Professione x x
4. Origine straniera x
5. Fonte guerra x
6. Compravendita x x
7. Mobilità x
8. Mantenimento x x
9. Lavoro in città x
10. Lavoro in campagna x
11. Servizio continuo x x
12. Attrezzatura x
13. Diritti x
14. Numero significativo x

Schema elaborato da Lucio Milano. Sarebbe più corretto usare il termine "dipendenti" in luogo di "schiavi" ma la sovrapposizione di epoche richiede una differenziazione. 1) Compare o no nella documentazione disponibile; 2) tempo di lavoro prevalente; 3) documentati per professione; 4 e 5) invarianza forte; 6) compresa l'acquisizione per debiti; 7) mobilità assente o scarsa in ogni caso; 8) invarianza forte; 9) e 10) prevalenti; 11) coincidenza tra tempo di lavoro e tempo di vita; 12) possesso dei mezzi di produzione; 13) in alcuni casi riconosciuti allo "schiavo"; 14) nelle società più antiche il numero degli "appartenenti a…" è incomparabilmente più alto.

Si tratta di un problema che è nello stesso tempo quantitativo e qualitativo: quando in una determinata società un'alta percentuale del sistema produttivo è basata sul rapporto schiavistico, sembra si possa affermare che la società in questione è di tipo schiavistico. Ciò non è del tutto esatto perché molto dipende dal linguaggio: se si definisce "schiavo" un uomo che ha un rapporto qualsiasi di dipendenza nei confronti di un altro uomo, allora diventano schiavistiche società che non lo erano affatto. Possono esistere società in cui buona parte della popolazione è schiava senza che questo fatto ci permetta di chiamarle schiavistiche.

Nella società micenea, ad esempio, esisteva una forma di schiavismo, riverberato da Omero, che era una forma di sfoggio di potere piuttosto che un modo di produzione. Il re di Micene, Agamennone, aveva come schiava Criseide, figlia di un sacerdote. Quest'ultimo chiede di riscattare la figlia, ma il re rifiuta. Quando è costretto a lasciare Criseide, compensa la perdita reclamando Briseide, schiava di Achille. Le due donne non erano tanto schiave produttive quanto trofei, non era in gioco una perdita economica ma un orgoglio. Infatti, Achille s'infuria e per un anno rifiuta di combattere. In un mondo schiavista classico la storia avrebbe avuto toni ben diversi. In realtà Omero descrive un contesto che ai suoi tempi era già tramontato. Al suo tempo i micenei di Creta e della terraferma non avevano schiavi: le tavolette in lineare B, essendo scritte in una lingua affine al greco, una volta tradotte sono meno difficili da interpretare rispetto ad altre lingue e perciò, quando catalogano beni e persone in modo asettico rispetto all'appartenenza di classe, ci comunicano situazioni simili a quella ricordata da noi poco sopra. Anche presso i micenei prima del rapporto di schiavitù vi era un semplice rapporto di dipendenza, residuo dell'età in cui si produceva e distribuiva organicamente, senza che si sentisse il bisogno della proprietà privata.

Il problema non è solo quello di individuare il modo di produzione dominante, per cui anche una percentuale relativamente bassa può rendere schiavista un sistema economico, a patto che produzione e distribuzione siano basate sul lavoro di schiavi. Devono anche e soprattutto essere chiariti i rapporti quantitativi e qualitativi. Ed è qui che interviene il criterio di classificazione delle forme in cui si presenta la dominazione dell'uomo sull'uomo.

Abbiamo visto che nelle lingue dei popoli preclassici la parola "schiavo" non esiste, così come non esistono altre parole che, forgiate attraverso millenni di storia, hanno un significato solo per noi, come "re", "stato", "religione", "denaro". Mentre scriviamo abbiamo sotto agli occhi il testo di un insigne egittologo che chiama "sindaco" il capo di una comunità urbana egizia. Perciò, quando noi diciamo "schiavo", ci riferiamo a una condizione economica generalizzata, registrata nella memoria come rapporto giuridico assoluto, condiviso all'interno di una classe di individui in contrasto ad un'altra classe. Quando un paleo-babilonese usa la parola che noi traduciamo con "schiavo", si riferisce a un rapporto di dipendenza relativo, di una persona verso un'altra, un qualcosa di contingente che l'individuo può acquisire o perdere, non un qualcosa che quell'individuo si porti dentro come una condizione sociale. E siccome questa dipendenza è relativa, può essere attinente a un "servo" rispetto a chi ne ha ottenuto la servitù, ma può essere attinente a un grande sacerdote, che per definizione è al servizio di un "dio", oppure al capo di tutta la società ("re") che è al servizio della popolazione.

Chiarito questo punto, osserviamo che il criterio di classificazione delle posizioni sociali all'interno delle società protostoriche si precisa introducendo una generica dipendenza, che è presente in tutti gli strati sociali e che non ha niente a che fare con la schiavitù come viene generalmente intesa nell'interpretazione dei documenti sopravvissuti. Nella maggior parte dei casi la dipendenza non è quindi una condizione data una volta per tutte ma una condizione in cui si precipita accumulando debiti, salvando sé stessi da situazioni di pericolo o perdendo una guerra. Diciamo dunque che la schiavitù di tipo antico classico è stato un fenomeno relativamente circoscritto e poco duraturo, caratterizzato da una situazione spuria piuttosto che da una forma rintracciabile sistematicamente. Se affiniamo i criteri di scelta per disegnare uno schema geostorico, notiamo come la primitiva società divisa in classi assorba entro di sé il "dipendente" senza trasformarlo in schiavo nel senso giuridico del termine. Questo dipendente ha ampia facoltà di riscatto ed è frequente il caso di manifesta mobilità sociale che impedisce il concretarsi della schiavitù propriamente detta.

La certezza della legge per quanto riguarda la schiavitù è risolta nei testi antichi con la specificazione delle cause che provocano la perdita della libertà. Il Codice di Hammurabi, una stele del 1800 a.C., alta due metri e mezzo, coperta di iscrizioni, contiene le disposizioni legali utili all'unificazione dei trattamenti per eliminare l'arbitrio del giudizio. Molti sono i riferimenti alla condizione dello schiavo "dello stato" o "di un uomo libero" ed è evidente che si tratta di servi la cui condizione è diversa da quella che sarà tipica nella società antico-classica.

Nelle società protostoriche i figli di uno schiavo che abbia sposato una donna libera non sono automaticamente schiavi, e neppure sono tali i figli generati da un padrone con la sua schiava, e anzi vi sono situazioni in cui la prole è cresciuta e istruita come se fosse del padrone e di sua moglie. Naturalmente, in ogni caso, occorre tener conto della traduzione dei termini, inevitabilmente viziata dalla natura odierna dell'oggetto cui si riferiscono.

Quando si parla di schiavismo, ci si deve riferire al modo di produzione e allora abbiamo bisogno di compiere una enorme selezione, dato che lo schiavo produttore, oggetto di compravendita, è esistito in forma pura in poche società: se guardiamo alla sostanza, solo in quella greca e quella romana (anche in quella americana moderna, ma è un altro discorso).

La schiavitù contingente non è un modo di produzione

Abbiamo visto che non erano schiavi coloro che "dipendevano" semplicemente da qualcuno. Perciò nella tarda età del bronzo, le società dell'Egitto, della Mesopotamia, di Creta, dell'Anatolia, non vi erano schiavi, probabilmente con eccezioni per quanto riguarda i prigionieri di guerra. Se vogliamo, un criterio per stabilire cosa fosse lo "schiavo" nelle società a modo di produzione non schiavistico, è quello di riferirsi alla mobilità sociale: la schiavitù in questo caso è una condizione contingente. Gli schiavisti che procuravano schiavi africani all'Europa e all'America non erano membri di società schiavistiche; gli schiavi africani che diventavano schiavi americani non vivevano in società a modo di produzione schiavistico.

Fino alla Repubblica Roma non era una società a modo di produzione schiavistico, anche se ai suoi albori le guerre avevano procurato schiavi. La stessa cosa si può dire per i Greci, la cui civiltà schiavistica dura grosso modo dall' VIII al IV secolo a.C. In seguito, con Alessandro e con i diadochi, pur persistendo la presenza di schiavi, la società ellenistica si asiatizza. L'Egitto e la Mesopotamia, aree sottoposte al dominio militare, assorbono completamente l'ellenismo sottoponendolo al dominio sociale. Le dinastie tolemaiche, greche, sono del tutto "egittizzate".

L'impero bizantino pone grossi problemi di definizione. Alla caduta dell'Impero d'Occidente il modo di produzione è senza ombra di dubbio schiavistico; ma se guardiamo alla struttura sociale, tutta Roma si stava "asiatizzando", cioè, si stava omeostatizzando, almeno da Diocleziano in poi. Durante la Guerra Gotica (535-553), sia i Bizantini che gli Ostrogoti videro i propri eserciti decimati dalla fame e dalla peste, e ognuna delle parti in guerra fu costretta a promuovere la liberazione degli schiavi della parte avversa per integrarli nel proprio esercito. Quindi gli schiavi erano ancora numerosi e potevano rappresentare l'ago della bilancia nelle sorti di una guerra spietata. Più tardi le cose si complicarono: nacque un rapporto particolare tra contadini e stato, per cui chi aveva la possibilità di far coltivare la terra mentre assolveva agli obblighi militari, conservava la proprietà e lo statuto di uomo libero; altrimenti cadeva in condizione di "dipendenza", cosa che ha fatto pensare a qualche forma di feudalesimo bizantino.

Per una storia completa dello schiavismo bisognerebbe estendere il nostro campo di indagine anche alla sua fine, soprattutto per non interrompere la continuità con il materiale già pubblicato sulla dissoluzione/nascita delle forme sociali. Ma nel lavoro "a puntate" che stiamo facendo è un impegno che possiamo spostare nel tempo. Sarebbe interessante indagare sulle condizioni della società bizantina nei due periodi di maggior floridezza, il primo, all'apice della sua potenza, con Giustiniano, e il secondo a cavallo del Mille. Confrontando i due periodi si dovrebbero vedere non solo le differenze formali ma quelle legate al modo di produzione, quando cioè lo schiavismo è ancora la struttura portante della società e quando invece la società abbandona il ricorso al lavoro schiavistico in quanto non più efficiente in termini di rendimento.

Abbiamo notato, nel corso delle nostre ricerche sulle transizioni di fase, che le società antiche non "asiatiche" tendono ad asiatizzarsi, specie se durano a lungo (oppure durano a lungo perché si asiatizzano). La civiltà di Roma è particolarmente stabile nel tempo: le tecniche in uso a Bisanzio al tempo di Giustiniano non erano troppo diverse da quelle in uso durante la prima fase repubblicana mille anni prima; la guerra, che normalmente produce innovazione, a Roma è combattuta con armi e metodi straordinariamente stabili, tanto che sono ricordate come novità l'adozione del giavellotto (pilum) e la modifica del gladio. Ad esempio, la lorica compare in raffigurazioni di tutte le epoche. L'unica vera e propria novità la portano i Bizantini con l'invenzione del "fuoco greco" (che avviene però tardi, forse nel VII od VIII secolo). Durante la terribile Guerra Gotica l'armamento individuale subisce variazioni insignificanti. Anche le macchine da guerra dei Romani, forse l'espressione più alta della loro tecnologia, sono rimaste invariate attraverso i secoli.

Sappiamo poco della schiavitù a Roma nei primi secoli dalla leggendaria fondazione. Dal tipo di assetto urbano e di economia agraria doveva essere una società povera, austera, con un uso servile più che schiavistico della forza lavoro, sfasato nel tempo di un paio di secoli rispetto alla Grecia. Alcuni autori sostengono che la schiavitù a quell'epoca e in quell'area era addirittura inesistente (De Martino). Anche l'Etruria in quel periodo non era ancora al massimo del suo splendore, registrato due secoli più tardi negli affreschi delle tombe, dove nelle varie scene di vita quotidiana schiavi sontuosamente vestiti non si distinguono dai padroni romani, tanto da suscitare la critica dei Romani: "Si fanno imbandire due volte al giorno tavole sontuose, si fanno servire da nugoli di schiavi, alcuni bellissimi e vestiti con sconveniente eleganza" (Posidonio di Apamea). Siamo nel II secolo a. C., in epoca repubblicana. Gli Etruschi sono in piena decadenza, cioè in tarda età schiavistica, i Romani attraversano ancora la fase preliminare.

Abbiamo nominato gli Etruschi. Nella loro tarda fase villanoviana, nell'VIII secolo a. C., usavano ancora essere sepolti in tombe indifferenziate e piuttosto "povere". Sappiamo che in ogni civiltà le sepolture e i riti per il passaggio all'al di là riproducevano fedelmente la composizione di classe. Ad esempio, a Creta, in epoca minoica, le sepolture erano collettive, realizzate con tumuli in cui le salme erano riposte senza ordine gerarchico e senza particolari differenze nell'abbigliamento o negli ornamenti. In Etruria una netta differenziazione di classe inizia nel V secolo e si protrae per tutto il IV, manifestandosi non solo nelle lussuose e monumentali tombe ma anche nelle testimonianze di lotte entro e fra le classi (Torelli). Nella tarda età del bronzo, dunque, la schiavitù in Etruria è una condizione che non produce molti dati, mentre ne abbiamo in abbondanza sulla produzione agraria e soprattutto su quella artigianale, specie per l'esportazione. Se in un primo tempo tale produzione era il risultato di attività di laboratorio da parte di artigiani, successivamente, con la produzione apposita per l'esportazione, i laboratori diventano piccole industrie e impiegano come manodopera non schiavi ma lavoratori e, nel caso della ceramica funeraria, maestranze greche. C'è dunque una resistenza sociale implicita alla diffusione dello schiavismo, che in Etruria rimane di tipo domestico per molto tempo. Solo con l'età del ferro si generalizza la schiavitù mineraria, data l'attività siderurgica. Anche in questo caso però, è poco documentata. Un'analisi comparata fra le due civiltà che si sviluppano in parallelo, Roma e l'Etruria, consolida l'assunto di partenza: le società egualitarie, come le chiamano i borghesi, hanno una parte della popolazione dedita a lavori collettivi non retribuiti, cioè compensati con beni utili. Nella misura in cui viene a mancare lo sfondo egualitario la classe degli schiavi è pronta per affacciarsi alla storia del più potente e complesso impero mai esistito.

Se è vero che le mura ritrovate alla base del Palatino sono di epoca romulea, la fondazione di Roma va anticipata verso la data mitica, quella a metà dell'VIII secolo a. C. (precisamente il 21 aprile del 753 a. C.), in contrasto con ciò che si credeva precedentemente. Quindi, dicono i sostenitori della data antica, Romolo è un personaggio mitico ma è anche il protagonista di una realtà che la leggenda ha inglobato. Spostando la fondazione indietro di un secolo allunghiamo di altrettanto la durata del periodo in cui Roma non rappresentava ancora il modo di produzione schiavistico. Che cos'era allora nella realtà e nel mito? Le mura sono quelle di una città fortificata, con un ampio pomerio, cioè l'area sacra intangibile, libera da ogni cosa, indice di una società più evoluta di quanto non si credesse. Romolo non è un semplice pastore che traccia il perimetro del suo villaggio con un solco per conficcarvi una palizzata a protezione di capanne. La città romulea è già evoluta, anche se investita di una sacralità antica. Le mura non sono megalitiche come molte, arcaiche, di città italiche coeve, non sono di tronchi come qualcuno supponeva, sono costruite con buona tecnica e rispondono a criteri difensivi avanzati. Nello stesso tempo sono consacrate con riti complessi (incastonate nelle mura vi sono sepolture rituali, forse testimonianze di sacrifici umani), soprattutto quello della creazione della leggenda di Romolo con il protagonista, chiunque fosse, ancora in vita.

L'immagine di Romolo "golpista" (Carandini) renderebbe l'idea se il passaggio dalla società egualitaria orizzontale a quella verticale fosse dovuta a un eroe mitico e ai suoi seguaci, ma per la trasformazione spontanea di una parte della società in un potenziale serbatoio di servi e di schiavi ci vuole del tempo. La maturazione di Roma verso lo schiavismo non può essere molto diversa da quella dell'Etruria, e per quest'ultima ci vollero almeno due secoli dalla forma primitiva, egualitaria, a quella strutturata gerarchicamente in classi (grosso modo dal IX al VII secolo a. C.).

Modo di produzione schiavistico mitologico

Appartiene al mito ciò che della storia è conservato senza prove. Per quanto riguarda la schiavitù come modo di produzione, quindi con la sua espressione generalizzata, di massa, in quanto base produttiva di una società, la storiografia si è adagiata abbondantemente sullo schema artificioso in cui lo schiavo è tenuto in catene, quando non sta al suo posto è punito dal padrone con la tortura e la morte, ogni tanto si ribella alimentando rivolte o addirittura guerre. La vulgata afferma soprattutto che è così da tempi immemorabili, come se lo schiavismo fosse stato un atto di creazione entro una società che non evolve. La figura dello schiavo in catene è poi indispensabile per spiegare opere colossali realizzate con pochi mezzi, monumenti che destano meraviglia a chi è abituato a pensare in termini di macchine, energia, scienza e tecnologia. Poco per volta stanno scomparendo queste credenze; scompariranno anche quelle che vogliono lo schiavo presente in società che non sono passate attraverso quello stadio e in quelle che vi sono passate ma che hanno visto la schiavitù piena molto più tardi di quanto portino a sostenere convinzioni diffuse. Roma è stata la forma sociale entro cui la schiavitù si è con più forza ed evidenza manifestata come elemento portante della produzione sociale. Sarà qui utilizzata per una puntualizzazione.

Lo schema corrente, alimentato soprattutto per abitudine nelle scuole, non è che sia "semplicemente" falso: di fatto è costruito su parti veritiere messe assieme in un modo non aderente alla realtà. La schiavitù sarebbe nata in ambiente domestico in cui la famiglia allargata svolgeva la propria attività secondo la classica divisione del lavoro. Sarebbe dunque molto antica, nel caso di Roma precedente all'emergere di un potere centrale, non parliamo della proprietà privata. L'evoluzione da fenomeno servile limitato a modo di produzione sarebbe avvenuta attraverso le prime guerre, ancora nell'età dei re. I prigionieri avrebbero alimentato questa evoluzione, fornendo manodopera per la produzione crescente, cioè per l'esistenza di quel surplus atto a spiegare lo sviluppo economico e soprattutto la condizione materiale delle classi subalterne. Se è così, e questo schema può essere precisato più che smontato, diventa quasi irrilevante l'insistere sui tempi: essenziale è invece capire il meccanismo di formazione di una condizione sociale.

L'importanza di una "dottrina dei modi di produzione" non sta nel descrivere il processo passato ma, come abbiamo visto, nel descrivere la dissoluzione di una forma per opera di un'altra. Il che vuol dire comprendere come la forma vecchia sia fatta saltare da quella nuova. Ciò ha a che fare più con il futuro che con il passato. Il percorso comunismo → società classiste sarà rovesciato nel suo contrario perché il comunismo non è mai morto, e nell'ultima fase delle società classiste è ricomparso enormemente potenziato dallo sviluppo della forza produttiva sociale. Il comunismo sviluppato è in simmetria con il comunismo originario. Il quale trascese in stato. Lo stato dei nostri giorni trascenderà nel comunismo sviluppato… estinguendosi per opera dell'ultima classe, eccetera.

Non stiamo parlando di progresso, evoluzione, cambiamento, stiamo parlando di rivoluzione, un qualcosa di universale che non ha niente a che fare con lo studio della storia attraverso uomini, stati e battaglie. Perciò, per far parte di questa rivoluzione, dobbiamo individuare il processo inverso. Come sempre, l'informazione che ci arriva dal passato va letta in quanto sintesi di eventi ricordati quando si è sentito il bisogno di tramandarne la traccia, di solito quando la memoria raccoglie ormai solo le briciole.

Uno dei principii stabiliti da Romolo prescriveva che in caso di guerra i prigionieri adulti non dovevano essere uccisi come normalmente si faceva allora, né ridotti in servitù, ma li si doveva tenere in vita con donne e bambini catturati per non sguarnire la campagna o per fondare nuove colonie, alle quali sarebbe stata concessa la cittadinanza romana.

La distribuzione della terra

La cronaca antica è ambigua: da una parte Romolo attua una politica che sembra rispondere a una situazione arcaica, quando i prigionieri venivano semplicemente uccisi; dall'altra si comporta come un repubblicano, che nell'espansione di Roma in Italia ha bisogno di coloni al suo servizio. Sono tramandate notizie di epoca repubblicana su scontri in senato per la sorte dei prigionieri, mentre altre cronache riferiscono di schiavizzazione generalizzata di prigionieri al tempo di Tarquinio Prisco. Più tardi Cicerone ricorda che gli antichi non trattavano crudelmente i vinti, e anzi li indirizzavano ad ottenere la cittadinanza. Tito Livio fa cenno al numero dei prigionieri al tempo delle guerre sannitiche ma non precisa la loro sorte. La fine della monarchia e l'avvento della repubblica fu un fatto repentino, ma non poteva di per sé produrre un cambiamento altrettanto veloce nei rapporti sociali. La storia di Servio Tullio, il buon re figlio di una schiava è certamente un'invenzione. Più realistico è ciò che risulta da due trattati con Cartagine che ci sono pervenuti: nel primo non si fa cenno a regole per il commercio di schiavi, mentre nel secondo si vieta nei porti romani il commercio di schiavi provenienti da guerre contro popolazioni amiche di Roma. Lo stesso divieto vale per Roma, ma il minor risalto sembra indicare una partecipazione romana marginale rispetto a tale commercio.

Il commercio, le registrazioni contabili e le regole scritte per stabilire un qualche tipo di rapporto fra persone o gruppi sono le fonti più attendibili. Il che non vuol dire sicuramente affidabili. Vi sono leggi romane del periodo arcaico che contengono l'obbligo di pagare sanzioni in assi o sesterzi quando non c'era ancora la moneta. Occorre quindi un lavoro di interpretazione. Il guaio è che la documentazione che abbiamo è già il risultato di antiche interpretazioni. Fra queste vanno preferite quelle che ci rivelano in modo sufficientemente esplicito l'intento degli estensori. E siccome Roma è la madre del diritto antico e l'antenata di quello moderno, è proprio il diritto a offrire un campo fertile per una ricerca come la nostra.

Il latino, conosciuto, è certamente d'aiuto, mentre lingue antichissime sono difficilmente decifrabili. Abbiamo quindi, attraverso una grande quantità di dati, una panoramica sulla società romana che nessun'altra società può offrire. In base allo studio del diritto, alcuni sono giunti alla conclusione che a Roma, patria del modo di produzione schiavistico, lo schiavismo sia arrivato molto tardi (De Martino). La tesi è suggestiva:

"[Gli studi sul diritto romano] rafforzano la tesi secondo la quale la schiavitù in antico non era diffusa in Roma ed anzi inducono a dubitare che essa fosse praticata, se non in casi del tutto eccezionali, il che coincide, come si è già osservato, con l'esistenza della clientela, che appare in piena vitalità agli inizi della repubblica, come dimostra la leggenda dei Fabi. [Tali studi] inducono anche a dubitare dell'idea diffusa sul carattere patriarcale e familiare originario della schiavitù, in stridente contrasto con le norme dure e spietate del processo esecutivo per debiti, con la condizione degli annessi e con la prigionia per debiti. Le guerre primitive condotte per l'egemonia nel Lazio diedero luogo ad un assoggettamento dei popoli vinti ed alla loro incorporazione nella cittadinanza romana, non alla loro riduzione in schiavitù. Mancava dunque la fonte principale per l'acquisto degli schiavi, né esistevano ancora le esigenze economiche del periodo successivo" (De Martino).

Lo stesso autore raccoglie una grande quantità di dati sulla proprietà agraria, sull'estensione dei fondi, sui commerci, sulla popolazione e sulle leggi che regolano tutto ciò per indagare sulla natura del fenomeno schiavistico nell'Italia centrale sotto Roma nel IV secolo a. C. Date le condizioni dell'economia, si può estrapolare l'ordine di grandezza del fabbisogno di lavoro servile. Il criterio è corretto: se c'è errore, è meno macroscopico di quello che altre metodologie producono. Una possibile correzione dell'errore è ottenuta anche attraverso il confronto con i risultati ottenuti da altri autori. L'area interessata dall'indagine è quella di Veio dopo una guerra di conquista particolarmente spietata, per cui si hanno dati sulla quantità di terra distribuita fra superstiti di Veio e romani. La terra veniva distribuita in base al censo, quindi abbiamo la formazione di poderi differenziati, da quelli distribuiti ai proletari (nullatenenti, da non confondere con gli operai) a quelli che davano vita a ulteriori grandi imprese agrarie dei patrizi.

Dai calcoli su queste basi risulta che il numero di persone eroganti lavoro schiavistico o servile è piuttosto basso e, sorpresa, è alto il numero degli operai salariati, reclutati nelle stagioni di punta per il lavoro a giornate.

"Con le guerre di supremazia in Italia del IV secolo si ebbe un mutamento nella concezione della schiavitù ed essa venne ricollegata alla prigionia di guerra. La norma secondo la quale la manomissione insieme alla libertà attribuisce anche lo stato di cittadinanza deve essersi formata in questo periodo e si inquadra nella politica romana rivolta all'unificazione dell'Italia e non allo asservimento... In questo periodo le forze di lavoro impiegate erano di liberi, né la formazione di più estesi possessi dopo la conquista di Veio provocò una diffusione degli schiavi, almeno come fenomeno di massa. Fino a quando il libero contadino romano fu in grado di attendere alla coltivazione della terra in modo adeguato ai bisogni della popolazione, il problema non si pose, anche perché lo schiavo finiva con l'essere più costoso del libero lavoratore." (De Martino).

Modo di produzione schiavistico integrale

Il mito assume una luce un po' diversa con l'apporto dell'archeologia. Romolo uccide il fratello all'atto della fondazione perché ha sorpassato il solco. Ma gli scavi dicono che le mura correvano lungo il perimetro del monte Palatino alla sua base, non alla sommità come usava per le città fortificate antiche. Quindi la città già c'era, e l'espansione romulea era più sviluppata di quanto faccia pensare il mito del solco fondatore dal nulla. Allora dovrebbe essere possibile trovare nelle tracce archeologiche, storiche e linguistiche, la presenza o meno del modo di produzione schiavistico. Il ratto delle sabine è posto dal mito in epoca romulea ed esso evoca un problema demografico più che una guerra per soddisfare il bisogno di schiave, ma le parole latine adoperate per "schiavo" pongono un problema: la loro etimologia è in contrasto con la schiavitù come modo di produzione. La parola più antica per definire uno schiavo è puer, che ricorda la famiglia, mentre captivus ricorda la preda di guerra, mancipium ricorda la proprietà e servus non ha radice latina. Il contesto in cui queste parole sono usate non suggerisce che la guerra nella Roma repubblicana fosse "fabbrica di schiavi", come nello schiavismo maturo, bensì un fenomeno marginale rispetto allo sviluppo della forma servile, mentre le altre parole riportano alla famiglia o, nell'ipotesi più antica, alla condizione di "straniero", tipica delle antichità egizia, greca, iranica, celtica, che identificano lo schiavo con l'alieno e stabiliscono un antagonismo sia etnico che civico tra lo schiavo ed il cittadino.

La Roma della fondazione è dunque, dal punto di vista della maturità sociale, più avanzata di altre aree, compresa l'Etruria, ma nello stesso tempo conserva il ricordo di una condizione schiavistica primitiva. La situazione dell'VIII-VII secolo a. C. è caratterizzata non tanto dallo stato, come sostiene qualcuno, quanto da una maturità di rapporti che permette l'esistenza di una precisa gerarchia sociale. Tuttavia, la posizione dello schiavo risente ancora dell'assetto parentale, per cui egli continua a costituire una parte della famiglia. I rapporti con questa vanno oltre alla mera proprietà, e il codice che regola tali rapporti, tra i quali vi è la manomissione, cioè la liberazione, rispecchia uno stadio arcaico in cui la forza lavoro erogabile da uno schiavo non era ancora considerata come imprescindibile rispetto al prezzo di mercato del suo corpo. Il pater familias poteva teoricamente disporre (usare ed abusare) del patrimonio di famiglia, ma in veste di patriarca era rispettato in quanto conservatore attento di tale patrimonio, nel quale erano compresi gli schiavi. Nelle società arcaiche non si potevano acquisire schiavi all'interno della comunità di appartenenza e, con la manomissione, gli schiavi stranieri diventavano membri della comunità in quanto ex schiavi posseduti da un membro della comunità stessa diventato loro patrono.

Non abbiamo riscontri archeologici o storiografici precisi, ma ci sono molti indizi (Carandini) sul fatto che Roma sia stata effettivamente fondata da un "Romolo" nella fase di passaggio tra un assetto egualitario governato dalle famiglie allargate e un assetto egualitario governato dall'alto. Nel primo caso il controllo della società avveniva orizzontalmente tramite modalità assembleari dei capifamiglia, nel secondo avveniva tramite un'autorità coordinatrice centrale, necessaria a svolgere le funzioni di controllo in una società più complessa. L'interesse di questa ricostruzione sta nella forma finale: il potere verticale non sostituisce quello orizzontale ma vi si affianca, con il risultato di ottenere un reciproco controllo dei poteri. Naturalmente gli autori che sostengono l'avvento di questa forma ne traggono conclusioni rispetto agli sviluppi, che sarebbero la piattaforma sulla quale poggerà la storia d'Europa. Più modestamente, ma con risvolti non inquinati dall'ideologia, si può notare come questa sovrapposizione di poteri rappresenti un'accelerazione dello sviluppo sociale rispetto agli stessi fenomeni riscontrati molto tempo prima in Mesopotamia, dove le due forme egualitarie evolvono in parallelo per millenni (Frangipane) fino all'affermazione di quella centralizzata. In rapporto alla schiavitù, la forma ibrida rappresenta meglio il passaggio attraverso una convivenza del "dipendente" e dello "schiavo". E, certo, ha un fondo di verità materiale l'affermazione secondo cui Roma nasce con i caratteri che daranno un'impronta alla "sua" forma sociale schiavistica. Dalla famiglia alle miniere, cioè dalla condizione di schiavo come "strumento che pensa e respira" a quella di strumento e basta, lo schiavismo pieno a Roma viene raggiunto in un paio di secoli per poi riprodursi nella sua forma più disumana per altri sei o settecento anni. Alla fine del ciclo, dato il basso rendimento della forma schiavistica, farà la sua comparsa la prima forma di lavoro salariato. L'operaio sarà pagato in ragione di ciò che produce.

Il rapporto dei servi, poi degli schiavi, con la famiglia cui appartenevano aveva subìto lo stesso processo in Grecia, ma molto più lentamente che a Roma: da una divisione sociale del lavoro ancora embrionale la società greca era passata alla netta divisione in classi in un arco temporale di almeno un millennio e durerà nella sua forma compiuta quanto quella romana. È con Roma, insomma, che si sviluppa appieno il modo di produzione schiavistico. Ed è con Roma che lo schiavismo viene abbandonato più velocemente che altrove in quanto modo di produzione poco efficiente.

Dopo la Guerra gotica vi fu un calo della popolazione, compresa quella degli schiavi. Coloro che erano stati liberati in cambio del reclutamento erano stati presumibilmente sostituiti, ma erano veri schiavi come al tempo del vecchio impero? Erano cioè il nerbo della forza lavoro che definisce un modo di produzione? Tutto sommato il processo storico che aveva prodotto la schiavitù adesso si invertiva: la liberazione in massa degli schiavi, in mancanza di un andamento demografico normale, impediva la loro sostituzione, e d'altra parte non era forse invertito anche il processo di schiavizzazione? La guerra, che un tempo era assurta a industria per la produzione di schiavi, ora diventava l'artefice della loro libertà.

Un processo analogo, anche se a scala minore, ha caratterizzato la lunga guerra fra la Repubblica di Venezia e l'Impero ottomano: quando una delle due potenze conquistava un territorio dell'altra, per prima cosa liberava gli schiavi che, in quanto tali, erano sicuramente nemici di chi li teneva in quella condizione.

Invarianza: III millennio a. C.

Civiltà pre-urbane antichissime d'America si sono riprodotte nel tempo, in forme diverse ma sempre legate a rapporti comunistici fino alle civiltà recenti, urbane, scomparse con la conquista europea. Caral, in Perù, che abbiamo già avuto modo di studiare quando gli scavi erano meno estesi di adesso, risale a 4.500 anni fa ed è un esempio paradigmatico di uno sviluppo proto-urbano in cui non esistevano proprietà, classi, stato. E, presumibilmente, neppure la schiavitù dato che quella società non era abbastanza avanzata verso una divisione sociale del lavoro sufficiente a mettere in moto i processi necessari.

Caral, Perù

Non sappiamo quasi nulla dell'organizzazione sociale di Caral, possiamo solo dedurla a grandi linee, analizzando le grandi costruzioni che ci hanno lasciato i suoi abitanti. Per gli archeologi i grandi insediamenti costruiti come monticelli che ricordano le piramidi costruite altrove o in epoche diverse, sono aree cerimoniali sulle quali ed attorno alle quali si sviluppavano zone abitative. Naturalmente, per capire con la mentalità capitalistica un insediamento grandioso quanto primitivo occorre immaginare una società quasi uguale alla nostra. E di conseguenza si deduce in modo troppo sbrigativo che la costruzione di monumenti così complessi avesse richiesto un'organizzazione centralizzata al cui vertice fosse insediata una classe con una grande capacità di comando. Non avendo trovato edifici che sembrassero "palazzi" l'insediamento è stato considerato alla stregua di una specie di grande santuario, forse governato da una casta sacerdotale.

Può darsi, ma ciò che ci interessa è il confronto con tutte le civiltà che hanno costruito piramidi o monumenti tali da ricordare un enorme utilizzo di energia, segno che quest'energia era disponibile, era "in più" rispetto ai bisogni della riproduzione sociale. È tutto sommato una buona prova che fossero civiltà organiche, non "lontane dall'equilibrio", come quelle dedite all'accumulazione e alla crescita, in cui il surplus era adoperato per lo scambio. Una società organica che non accumula non può che "bruciare" il surplus. Civiltà recenti che conosciamo meglio perché le abbiamo estinte noi, avevano una struttura analoga. Maya, Aztechi e Incas avevano certamente raggiunto una complessità sociale più articolata e alcune interpretazioni del lavoro coatto fanno presumere che fossero civiltà schiaviste. In tutte le civiltà precolombiane la guerra era normale e i prigionieri venivano uccisi o sacrificati. I sacrifici erano praticati in massa, come testimoniavano gli invasori spagnoli, e questo fa pensare a uno spreco di manodopera poco coerente con una società che abbia bisogno di schiavi.

Quella di Caral, in sintesi, era una civiltà giunta a un livello sociale molto sviluppato ma con alcuni caratteri tecnici arcaici, utili a capire la genesi (o non genesi) della schiavitù. Non conosceva la ceramica, non praticava la tessitura a telaio, non conosceva la scrittura, non abitava in vere città, neanche nella forma proto-urbana sviluppata da altre civiltà americane antiche. Soprattutto, come nel caso della Valle dell'Indo, a Caral sembra non conoscessero la guerra. Infatti, non sono state trovate armi e neppure necropoli dove di solito guerrieri e capi militari sono sepolti in modo differenziato. A Caral c'era sicuramente una precisa divisione tecnica del lavoro e probabilmente una divisone sociale in embrione, ma si può concludere con una certa sicurezza che la schiavitù non ci fosse, neanche nella forma servile di transizione. Un sistema di produzione/distribuzione del tipo conosciuto nelle civiltà della Mezzaluna fertile e un sistema di controllo e programmazione come quello delle cretule (i sigilli che prima della scrittura servivano a controllare l'ammasso e la distribuzione dei beni), garantivano una auto-conoscenza del modello sociale atta a garantirne la continuità. Questo sistema di controllo era ottenuto tramite la disposizione di nodi e cordicelle, il quipu (una sorta di macchina mnemonica). A Caral ne sono stati rinvenuti alcuni, perfettamente conservati. Tale sistema contabile era in uso ancora presso gli Incas all'epoca della conquista spagnola. A Caral sono state trovate anche pietre con tracce di barre rosse dipinte: si ipotizza che questi segni avessero la stessa funzione dei nodi sulle cordicelle.

Le popolazioni americane più tarde conobbero la schiavitù, anche se in forma particolare che ricorda la fase sociale arcaica: presso gli Aztechi diventava "schiavo" chi restava solo e perciò non poteva sostenersi, oppure chi aveva agito in qualche modo considerato criminale da quella società. In ogni caso lo schiavo poteva ritornare libero e, nota importante, i figli di uno schiavo erano uomini liberi.

Nei periodi più antichi le popolazioni precolombiane non utilizzavano i prigionieri di guerra, li uccidevano semplicemente, sacrificandoli ai loro dei. In seguito, la guerra diventerà la maggior fonte di approvvigionamento di schiavi. In generale si può dire che l'uccisione di prigionieri è incompatibile con l'istituto della schiavitù: se questo persiste a dispetto dell'evidente "spreco", ciò significa che è rimasto il ricordo di quando tale istituto non esisteva ancora. L'uccisione rituale è nel frattempo diventata parte del comportamento religioso.

Cambiando continente, in una famosa tavoletta scolpita con le gesta del faraone Narmer (circa 3.200 a.C.) i sopravvissuti a una battaglia sono legati e decapitati in modo rituale: la testa, spiccata dal busto, è posta fra i piedi. Nell'iconografia assira l'uccisione dei prigionieri nei modi più efferati serviva a mantenere l'ordine con il terrore, ma nella pratica popolazioni intere, vinte in guerra, venivano asservite e inviate a colonizzare terre disabitate.

Prigionieri decapitati: tavoletta rituale di Narmer, Egitto, 3200 a. C., e bassorolievo assiro, Ninive, VII secolo a. C.

Presso i Sumeri lo schiavo era rappresentato nell'iconografia come straniero, per cui si può ipotizzare la provenienza degli schiavi dalle azioni militari. Nello Stendardo di Ur il re, al centro di una grande composizione a mosaico, passa in rassegna i prigionieri già raffigurati come schiavi. Il Codice del re babilonese Hammurabi elenca i tipi di schiavi codificando il comportamento nei loro confronti: prigionieri di guerra, schiavi per debiti, volontari per povertà eccessiva, acquisiti per compravendita, nati schiavi, ecc. Potevano possedere beni, commerciare, sposare persone libere e avere figli da loro. Non erano considerati uomini, ma potevano essere liberati. Anche gli Ittiti, gli Ebrei e gli Akkadici avevano un codice di comportamento nei confronti degli schiavi. Insomma, quasi tutte le civiltà antiche, in qualche epoca del loro sviluppo, hanno avuto schiavi in gran numero e in genere hanno regolamentato il loro trattamento. Tuttavia, le civiltà ricordate non erano inquadrabili nel modo di produzione schiavistico perché lo stato di schiavo era un fenomeno contingente e l'economia non era basata sul lavoro degli schiavi.

Tutti gli autori di studi sullo schiavismo tentano di capire l'impatto quantitativo della schiavitù antica sulle varie civiltà, ma i risultati non vanno al di là delle stime, che sono piuttosto grossolane e divergono da un autore all'altro. In piena civiltà schiavista greco-romana, se facciamo una media, sembra che il massimo rapporto schiavi/popolazione sia stato 1:1. Le civiltà a un precedente grado di sviluppo avevano un rapporto notevolmente inferiore. Nel bassorilievo che abbiamo riprodotto in copertina, è raffigurata la costruzione di un accampamento militare: circa venti legionari sono ritratti nello svolgimento del loro lavoro di muratori, carpentieri, sterratori, falegnami, fabbri, ecc. mentre un solo prigioniero viene portato al cospetto dell'imperatore. Certamente il barbaro è una figura simbolica, ma non si può fare a meno di pensare al realismo dell'arte romana, che, all'apice dell'Impero, ci mostra i legionari nell'atto di lavorare duramente senza adoperare nemmeno uno dei prigionieri tradotti in schiavitù.

La storia delle civiltà ci mostra l'esattezza dell'ipotesi engelsiana riguardo alla nascita della proprietà, dello stato e di conseguenza della schiavitù: dev'esserci una condizione sociale favorevole, molto funzionale e diffusa come la generalizzazione di tutti i vantaggi dell'organicità centrale, e questa poté sopravvivere a lungo solo grazie al suo alto rendimento. Condizione, quest'ultima che accelera lo stesso processo da cui è scaturita. Il parallelo che è possibile operare tra le cretule della Mezzaluna fertile e i quipu di Caral ci dimostra che la fase di passaggio di cui sopra è in qualche modo generalizzata, è un'invarianza dalla quale possiamo trarre conclusioni sul futuro delle forme attuali: anche il capitalismo è giunto a uno stadio di massima funzionalità dello stato, raggiunto con la socializzazione fascio-keynesiana. È anche evidente che ora siamo in presenza di una perdita di controllo da parte dello stato, e questo è un indice della necessità di eliminarlo: gli antichi l'avevano organicamente raggiunto, noi lo stiamo organicamente abbandonando. L'adottare il criterio organico per sostituire lo stato con un'altra forma, adatta allo sviluppo armonioso della nostra specie, è un percorso obbligato. È chiaro che, guardandoci intorno, non vediamo una grande armonia, ma è altrettanto evidente che questo mondo è giunto da tempo al culmine oltre al quale sarà obbligato a riconquistare l'armonia. Vale a dire un modo di produzione/distribuzione che progetterà in continuo la vita della specie e, invece di utilizzare cretule e quipu, userà megacomputer intelligenti. Ammesso e non concesso che servano megamacchine e non micromacchine per essere organici e armonici, la tecnologia e la conoscenza scientifica fanno parte della nostra evoluzione. Le società antiche costruivano piramidi anche senza macchine, la nostra società farà a meno sia di piramidi che di un eccesso di macchine.

La struttura delle civiltà a-classiste e a-statali

I grandi cantieri dell'antichità, con schiavi o con operai, erano una dimensione frattale delle civiltà che li esprimeva. Vi era occupata una popolazione che forniva forza lavoro ben organizzata e compensata con cibo e beni utili, che realizzava secondo un progetto monumenti, bonifiche, canali o nuove città. Nell'Egitto faraonico abbiamo almeno quattro esempi paradigmatici di città operaia: quella di Giza con annessa necropoli per i suoi abitanti (circa 2.600 a. C.), quella di Kahun (circa 1.890 a. C.), quella di Deir el Medina (circa 1.600 a. C.) e quella di Tell el Amarna (circa 1.350 a. C.).

A Giza non sono state rinvenute testimonianze archeologiche sulla differenza fra gli strati sociali entro quello generale di "lavoratori" per il cantiere; ma a Kahun convivevano operai, architetti e funzionari, sebbene separati in due settori. Perciò in Egitto, a quell'epoca, era ancora in corso il processo di separazione dovuto alla divisione sociale del lavoro. Deir el Medina e Tell el Amarna sono invece chiaramente città soltanto operaie. In ognuno dei quattro casi citati è comunque da escludere che la manodopera, qualificata e no, fosse di tipo schiavistico.

L'Egitto, però, è un caso particolare, dato che è l'unico in cui una civiltà passa attraverso tre millenni senza maturare sostanziali differenze fra le diverse epoche. In un tempo così lungo, in altri luoghi, civiltà diverse sono comparse e scomparse. Una di queste, Ebla, può essere presa ad esempio di forma sociale in transizione dal livello più antico, quello ancora pienamente comunistico ma già proto-urbano, al livello intermedio, quello in cui l'aspetto urbano presenta forme di organizzazione proto-statale ed esistono proto-classi dovute alla perfezionata divisione sociale del lavoro.

Ebla è una città siriana del III millennio a. C. scavata da relativamente poco tempo e studiata con tecniche moderne, anche se interpretata sempre alla luce dell'ideologia dominante d'oggi. Ebla è un caso interessante anche a causa di profonde discordanze emerse fra i membri della missione archeologica, discordanze che, mettendo a confronto interpretazioni diverse, specialmente dei testi su tavolette d'argilla, ci danno la possibilità di leggere il materiale documentario con criteri nostri.

Occorre subito sottolineare che siamo di fronte a un esempio eclatante di civiltà in evoluzione, fotografata dall'archeologo nel momento in cui non è più come nel passato ma non ha fatto ancora in tempo a diventare altro. Siamo quindi nella situazione in cui Engels e Morgan hanno potuto utilizzare il sistema parentale sopravvissuto per spiegare la forma sociale in cui si trovava la famiglia in epoche precedenti.

A Ebla gli esuberanti archivi di tavolette d'argilla registrano con molta precisione i movimenti di persone e di cose. Ciò era pratica comune a diverse civiltà per i motivi che abbiamo visto: quelle società avevano bisogno di conoscere sé stesse con precisione per programmare l'ammasso e la distribuzione di ciò che producevano. A Ebla è netta la distinzione fra la registrazione di beni consumati all'interno e beni utilizzati per lo scambio con altre comunità. Nel primo caso si spostano in vari magazzini quantità fisiche di prodotto; nel secondo caso il conteggio viene fatto in base al controvalore in argento. L'antica società siriana, quindi, programmava e contabilizzava in quantità fisiche la produzione per il proprio consumo interno e incominciava a contabilizzare i beni da alienare sulla base del valore. Tanto per fare un esempio: "Tremila litri di orzo per il consumo degli addetti ai magazzini del re". Oppure: "Sei balle di lana equivalenti a tre pezzi di argento per i mercanti di Mari".

In tale ambiente, il movimento di persone era registrato sulla base di funzioni: tanti falegnami, tanti fabbri, tanti carpentieri, eccetera. Non risultava in alcun modo il nome e tantomeno la qualifica sociale, cioè non interessava la posizione giuridica ma la capacità di assolvere un compito. In quel modo era preso in considerazione un bacino di competenza, e registrato qualcosa come: "Per la fabbricazione di tre carri leggeri, cinque uomini dalla casa dei falegnami e una donna dalla casa degli impagliatori per trenta giorni." Dove "casa" poteva significare forse un insieme più che un edificio (la scrittura cuneiforme è una sorta di stenografia, anche da ciò deriva la difficoltà di interpretazione). Contava un senso di appartenenza, non l'individuazione personale.

Secondo lo schema corrente, Ebla sarebbe stata una città-stato al centro di un vasto territorio controllato con il quale aveva uno scambio di prodotti. La definizione di "impero commerciale" è degli archeologi che la stanno ancora scavando. Infatti, le merci scambiate uscivano dai confini e partecipavano alla rete di scambi di buona parte dell'area mesopotamica. Ebla città aveva 10-20.000 abitanti, e il cosiddetto impero contava, secondo stime dedotte dagli archivi, 250.000 abitanti. Sempre secondo lo schema classico, la città e il suo territorio erano governati da un "re" e da 14 "ministri", un'amministrazione teneva una minuziosa contabilità che ci permette di avere conoscenze quantitative approfondite, non c'erano schiavi ma "dipendenti" che influivano sul modo di produzione in quanto tali, cioè in quanto inseriti in un insieme collettivo che conservava tracce di comunismo. Ebla era soprattutto molto, molto ricca. Se non fosse stata distrutta verso la metà del II millennio a. C. sarebbe evoluta verso una forma superiore, dato che era già una forma di transizione.

Rileggiamo il paragrafo che precede con la stessa base dati ma con la lente della nostra teoria. Ricordiamo che stiamo utilizzando anche dati prodotti dalle discordanze fra archeologi. Il lettore troverà la documentazione in bibliografia. Ebla era indubbiamente una forma urbana che si avvicinava a quella statale. Non aveva tuttavia un re e neppure dei ministri. Il cosiddetto re in effetti era un personaggio rappresentativo della città, ma era eletto o nominato da un'assemblea. La sua carica era a scadenza, per cui la cronologia del suo "regno" non aveva numerazione crescente bensì decrescente. Dopo di che la sua funzione cessava. Non esisteva una dinastia. Non solo: non riceveva l'autorità da una qualche qualità intrinseca (discendenza, divinità, valore in battaglia) ma dalla regina. Sulla coppia "regale" vigilava una regina madre che molto probabilmente non era parente della coppia. Non è nemmeno provato che la coppia contraesse effettivamente matrimonio. Il re era dunque un primo fra pari e i 14 ministri erano probabilmente gli incaricati della produzione e distribuzione ed erano coadiuvati da qualche centinaio di membri della comunità, forse i capi delle tribù o delle famiglie allargate. Il cosiddetto impero commerciale incomincia ad avere caratteri un po' diversi. All'insediamento del re, infatti, la regina compie uno strano rito propiziatorio: con un corteo percorre un tracciato a stazioni, nelle quali deposita, nel giro di qualche giorno, una specie di campionario della produzione eblaita, dal cibo corrente all'artigianato di qualità. Il tutto è minuziosamente elencato nella documentazione scritta. È quasi automatico vedere in questa cerimonia la celebrazione di ciò che era Ebla in precedenza: la produzione viene distribuita e la scrittura suggella il fatto compiuto. L'autorità per il controllo ha o aveva carattere matriarcale. Siccome esisteva già un equivalente universale per il "commercio estero", la "ricchezza" eblaita viene quantificata, in parte tesaurizzando argento metallico, in parte calcolando il valore degli scambi avvenuti in base all'argento virtuale che sarebbe occorso.

Nella stipulazione di accordi internazionali il re eblaita era rappresentativo non di sé stesso ma della città: mentre presso gli Ittiti, gli Egizi, i Babilonesi o gli abitanti di Mari valeva il sigillo personale del sovrano, presso gli eblaiti la garanzia era data significativamente dall'intera città.

Non dissimile dovrebbe essere lo scenario presentato da altri popoli nella stessa fase di sviluppo, anche se in epoche diverse. Micene, Creta, Akkad: se ha ragione Pettinato, per il quale Ebla obbliga a ripensare tutta la storia della Mesopotamia, il passaggio alla schiavitù è meno diffuso di quanto si pensasse. Gli eserciti micenei ricordati nell'Iliade sono quasi privi di schiavi (e per lo più sono donne). Quando la schiavitù compare nella storia, nel mondo greco la parola che identifica lo schiavo è la stessa che identifica l'artigiano perché anche quest'ultimo lavora per altri in cambio del sostentamento, quindi è "dipendente da altri", quindi non è libero.

Anche l'operaio d'oggi "lavora per altri". La sua attività è lavoro sociale che si trasforma in appropriazione privata. Se il capitale, giunto a questo grado di sviluppo, fa a meno degli operai sostituendoli con macchine e robot, questi a maggior ragione possono fare a meno del capitale. La condizione di "fare lavoro per altri in cambio del sostentamento", che poteva essere la base materiale per la nascita della schiavitù, dà in mano agli operai una forza tremenda. Lavorando per altri in maniera alienata, l'uomo schiavo proletario è isolato dalla comunità umana come lo era lo schiavo-schiavo nella società antica. La condizione di schiavo è sempre in antitesi con l'essere sociale. L'Homo sapiens, che si è presuntuosamente chiamato così, ha bisogno di spezzare ogni catena con la sua condizione alienata. Nello stesso tempo, la sua caratteristica di uomo è proprio quella di produrre per altri, perché la produzione per sé stesso e per la sua famiglia non basta per definirlo uomo, fanno così anche gli animali. L'antitesi dell'uomo schiavo non è dunque l'uomo giuridicamente libero: è l'uomo che produce per altri uomini così come produrrebbe per sé ma con altri uomini. Non più semplicemente Homo faber, Homo habilis oppure Homo sapiens, ma una sintesi potente di tutto ciò: l'abbiamo chiamata Homo Gemeinwesen.

Russia e Germania o della rivoluzione immatura

Abbiamo percorso vari periodi nel tempo e abbiamo spaziato in diverse aree per trovare invarianze e trasformazioni sulla questione del lavoro coatto, della servitù e dello schiavismo. Abbiamo visto che la condizione primaria per il passaggio dal comunismo delle origini alle società divise in classi è il raggiungimento di una forma perfezionata di centralismo, che permette produzione e distribuzione in un contesto organico. Da questo punto in poi è stata possibile la trasformazione delle funzioni centrali di una società organica self sustaining in quelle che diventeranno funzioni dello stato, con il corollario, per ciò che ci riguarda nel contesto di queste note, della schiavitù, definibile come estesa pratica di utilizzo della forza lavoro di una parte della popolazione in cambio del solo mantenimento, garantito da un'altra.

Nella terza grande transizione, dal comunismo originario alla forma antico-classsica, era dunque maturata una condizione sociale in cui una parte della società continuava a funzionare secondo gli antichi criteri di produzione e distribuzione, mentre il perfezionato sistema di registrazione e controllo incominciava a funzionare come un primitivo stato. Questa condizione si era evoluta attraverso la formazione e lo sviluppo di sovrastrutture utili sia al livello massimo raggiunto dall'organizzazione sociale, sia al livello minimo della forma nuova. Utili allo sviluppo di un modo di produzione, ma deleterie per chi viveva al livello da cui partiva la nuova società, che non aveva più i mezzi per alimentare, vestire, ecc. tutta la popolazione. La centralizzazione, la gerarchizzazione e la sedimentazione di funzioni di controllo aveva prodotto la condizione materiale per la comparsa di una divisione sociale del lavoro in senso stretto, caratterizzata con straordinaria invarianza da sovrani, funzionari, sacerdoti, burocrati, ecc.

Le rivoluzioni non hanno mai un andamento lineare. Anche il solo fatto di avvenire su aree a sviluppo differenziato le pone nella necessità di coinvolgere tutte le classi. È in questa condizione che le classi agiscono, ma nella confusione, scambiandosi i ruoli storici, propugnando metodi e dottrine che non sempre corrispondono ai loro caratteri e anche ai loro interessi. Quindi non tutte le rivoluzioni (anzi quasi nessuna) hanno uno svolgimento secondo un modello ideale: non tutti i combattenti delle stesse hanno un interesse diretto alla vittoria, non tutti coloro che partecipano fanno parte delle classi previste dallo schema astratto. È per questo, e proprio per le difficoltà di rintracciare uno schema lineare nella complessità espressa da aree e da epoche, che diventa necessario indagare intorno ai meccanismi che hanno portato alla nascita delle società classiste e che devono avere una simmetria rispetto ai meccanismi che porteranno alla nascita della società comunista.

Naturalmente lo schema astratto serve moltissimo in un processo riduzionista, e noi come apprendisti scienziati non possiamo fare a meno di questo processo. Perciò inseriamo tutte le rivoluzioni in uno schema invariante per avere bene in chiaro quale sia il percorso-tipo, e solo in seguito aggiungiamo le variabili che rendono lo schema completo e realistico.

Abbiamo fatto l'esempio della società antica. Riprendiamo il modello e applichiamolo alla situazione russa dell'inizio '900. È fin troppo evidente che la Russia dell'epoca aveva una composizione sociale arcaica che si rifletteva nell'ideologia dominante, in quella delle classi dominate, nei programmi politici, e ovviamente nelle azioni cioè nella tattica. In Russia, quindi, troviamo sia il bolscevismo che la sua antitesi politica socialdemocratica, sia l'ideologia puramente borghese, materialista e massonica, che l'ideologia contaminata da credenze e comportamenti arcaici, come la teosofia e il cosmismo. Lungi dal lasciarsi andare a riprovazione o scherno, bisogna capire la funzione e, se del caso, la potenza di simili contaminazioni. Quando si parla della Russia, della sua storia e del suo percorso rivoluzionario non si può fare a meno di introdurre, fra gli altri dati, quello della sopravvivenza della preistorica comunità di villaggio, con la quale dovette fare i conti anche Marx, ad esempio nel famoso mancato carteggio con Vera Zasulich. È del tutto evidente che il profondo interesse mostrato da Marx per l'estensione e il radicamento della comunità di villaggio è da mettere in stretta relazione con i processi dissolutivi che egli aveva individuato nelle Forme che precedono la produzione capitalista (Grundrisse ).

Dovremmo essere in grado di tratteggiare un modello analogo per le Forme che precedono la produzione comunista e capire come potrebbe avvenire il processo di dissoluzione che apre la strada alla nuova società. Forse si comprenderebbero meglio fenomeni come il fronte unico o i cedimenti nei confronti della borghesia e della sua dottrina se si avesse chiaro l'intreccio di situazioni materiali e riflessi politici, di credenze arcaiche e di comportamenti contraddittori. La comunità di villaggio è l'oggetto della dissoluzione nell'antica forma russa: qual è l'oggetto della dissoluzione nella moderna forma capitalistica? Data l'immensa forza produttiva sociale rappresentata dall'industria, forza che agisce materialmente sulla natura della società intera, è evidente che l'industria è l'oggetto e nello stesso tempo il soggetto della trasformazione. L'industria è l'elemento della vecchia società che trascende nella nuova negando sé stesso. Come abbiamo visto in passato, deducendo dalle potenti osservazioni di Marx, all'interno dell'industria non vige la legge del valore; il flusso della produzione non contempla conteggi in denaro ma solo in quantità fisiche. Quantità che, poste a confronto con l'oggetto fabbricato, ne rappresentano la realtà anticipata.

Leggiamo il testo Fiorite primavere del capitale. È un confronto fra la situazione della Germania del 1848 e la Russia del 1917: il dato comune ad entrambe le situazioni era quello di doppia rivoluzione. Germania e Russia soffrivano come tutti i paesi, anche i più avanzati, di una situazione spuria, che univa obbiettivi borghesi e proletari in uno stesso movimento. Un po' la stessa cosa stava succedendo, negli anni '60 e '70 del '900 in tutte le colonie.

Nel 1848 la rivoluzione si presentava in Germania multipla come in Russia ma nello stesso tempo diversa: mentre la Russia doveva superare lo scoglio delle contraddizioni di una rivoluzione proletaria con compiti borghesi, la Germania doveva ancora affacciarsi alla rivoluzione nazionale borghese. Qui non era all'ordine del giorno la rivoluzione proletaria.

Nel 1870-71 in Germania ci sarebbe stata una rivoluzione doppia come in Russia se l'unità nazionale fosse stata un obiettivo del proletariato in lotta per sé. L'unità fu invece il portato di un'azione borghese dall'alto, e la rivoluzione tedesca rimase una semplice rivoluzione borghese.

Dicevamo rivoluzione dagli aspetti multipli anche nei paesi più avanzati. In effetti il capitalismo conserva traccia dei vecchi modi di produzione perché ciò gli serve per aggirare gli ostacoli all'ulteriore sviluppo: se il macchinismo produce un abbassamento del saggio di profitto, occorre che una parte della popolazione operaia sia sfruttabile senza l'utilizzo del macchinismo; se una parte del proletariato è coinvolto nella sopravvivenza del capitalismo con le briciole leniniane, un'altra parte dev'essere schiavizzato brutalmente in modo da permettere la produzione delle briciole.

La nostra corrente ha insistito molto sul fatto che ogni rivoluzione è spuria e ha messo in guardia contro le semplificazioni eccessive in base alle quali ogni rivoluzione seguirebbe uno stesso schema, constatazione che porterebbe a credere in una pseudo-invarianza tra le rivoluzioni. Ogni rivoluzione è un fatto unico, da studiare in quanto tale, con l'obiettivo di scoprire soprattutto le differenze tra una e l'altra, perché sono quelle differenze che predispongono le masse di uomini quando devono dirigersi nella difesa dei propri interessi.

La nostra corrente ha anche chiaramente messo in luce come non ci sia una relazione diretta fra il bisogno di cambiamento che sorge nella società e le classi che partecipano al cambiamento stesso o che combattono per il cambiamento. È un'osservazione di cui è importante tener conto. Se andiamo appena un poco al di là delle leggende che le rivoluzioni hanno prodotto, vediamo che effettivamente la partecipazione di classe, o anche la direzione, quasi mai ha coinciso con le classi che hanno dato l'impronta alle rivoluzioni stesse.

L'integrale di più rivoluzioni

Come non è innescata da proprietari la prima grande rivoluzione tra il neolitico e l'avvento delle prime forme proprietarie così non è combattuta da schiavi la rivoluzione antischiavista. Come non è scatenata da servi della gleba o da borghesi la rivoluzione antifeudale, così non sarà necessariamente opera di soli proletari la rivoluzione proletaria antiborghese. L'avvento della società feudale dopo quella antica, ad esempio, non è dovuto ai cristiani in quanto rappresentanti di classi subalterne e sfruttate. I cristiani, ormai è certo, erano presenti in tutte le classi, soprattutto in quelle della proto-borghesia urbana, non erano una "classe oppressa". In Fiorite primavere del capitale c'è un accenno all'integrale di due rivoluzioni. È un concetto importantissimo: tutte le rivoluzioni sono generalmente trattate come monoclassiste, mentre nella complessa realtà rappresentano "l'integrale" di più rivoluzioni.

La borghesia tedesca del 1848 non riceveva spinte materiali che l'aiutassero a superare la propria condizione. Il motore della rivoluzione tedesca coinvolgeva certamente anche la borghesia, ma la condizione produttiva era talmente arretrata che pesava enormemente sulle condizioni politiche. Mentre in Francia la situazione era matura ed esprimeva una ideologia borghese illuminista altrettanto matura, in Germania ciò non succedeva (non poteva succedere per carenza di carburante in un motore antico).

Su questo aspetto delle rivoluzioni multiple integrate conviene soffermarci perché ha dei riflessi anche sul programma rivoluzionario. È un errore fondamentale basare tale programma sulla convenzione riduzionista della rivoluzione biclasse. Da modello utile a sintetizzare un programma, tale convenzione può diventare dannosa per esempio quando allentasse l'attenzione nel caso di compromessi con forze politiche ambigue (non siamo mai stati favorevoli a compromessi ambigui, ma non è da escludere per principio che si rendano necessari. Di fatto tutte le politiche frontiste sono state catastrofiche per il proletariato). Oppure, in modo altrettanto grave, quando provocasse un eccesso di sicurezza sulla propria forza e conducesse a situazioni non sostenibili.

Dunque, affrontiamo la natura delle rivoluzioni multiple con criteri invarianti ma tenendo conto delle differenze storiche ("struttura frattale delle rivoluzioni").

Non ci saranno mai più rivoluzioni che ne integrano diverse. Ci sarà una rivoluzione proletaria (cui il proletariato darà la propria impronta fondamentale) difficile da iniziare ma facile da vincere (Lenin). Semplificazione estrema: il capitalismo si è blindato, il proletariato ha assorbito in pieno l'ideologia dominante, la transizione è problematica perché è l'ultima, quella che deve lottare contro l'immane esperienza controrivoluzionaria accumulata. Ma proprio per questo è la più inquinata. È quindi necessario soffermarci brevemente su questo aspetto politico.

C'era un nesso storico e stretto fra economia, arte e filosofia in Francia, mentre in Germania le cose erano palesemente scollegate. Non perché i filosofi tedeschi fossero meno preparati di quelli francesi o gli scienziati meno validi. Il loro problema era che tutta la società era scollegata, a partire dalle entità geografiche, per cui non c'era corrispettivo fra filosofia e scienza, fra tecnica e arte, fra letteratura e produzione.

Questo scollamento non era prerogativa dei soli tedeschi; anche nel resto d'Europa si presentava, specie in quel periodo, una diacronia fra le varie parti della sovrastruttura. Ma in Germania il problema aveva caratteri estremi. Come i paesi evolvono in modo differenziato, così al loro interno, entro il complesso della sovrastruttura ideologica e degli effetti materiali che essa produce, c'è sviluppo differenziato. Di fatto la condizione della Germania esasperava questo aspetto. Al riguardo è importante l'osservazione di Engels: la Germania ha buoni scienziati ma nemmeno un economista. I filosofi, poi, sono a un livello primitivo per quanto riguarda la loro concezione del mondo, che assomiglia troppo a una religione (l'idealismo è primitivo per i materialisti, naturalmente per gli idealisti è l'unica filosofia concepibile). Il raccordo fra filosofia e materia si rivela quindi impossibile, irrealizzabile, perché manca il raccordo materiale, cioè una borghesia nazionale, un'industria nazionale, un mercato nazionale, un'economia nazionale. Su quali acque può navigare la filosofia tedesca?

Da un punto di vista materialistico una critica alla filosofia tedesca si può fare solo in relazione alla situazione tedesca, come fa Marx. Se non fosse che l'idealismo romantico è il risultato di condizioni materiali che generano un conseguente pensiero, ogni ricerca sul solo pensiero sarebbe sterile: col solo pensiero ogni filosofo può dire e fare quello che vuole, senza vincoli con le leggi della natura.

L'ultimo arrivato si attrezza con gli strumenti più moderni

La ricerca della filosofia tedesca, condotta sul binario dell'idealismo, è troppo angusta rispetto alle esigenze della rivoluzione, deve quindi trovare sfogo in una teorizzazione universale. È dunque naturale il tentativo di unificare le conoscenze in modo da comprendere l'universo in un tutto. Solo che questa via non viene aperta dal raggiungimento dei risultati parziali che, integrati fra loro, producano un tutto più potente. Presso i romantici il risultato è metafisico, non è un traguardo da raggiungere, è dato. Si trova per sua natura all'altezza massima cui può elevarsi il pensiero e di lì scende verso i particolari del mondo.

Si capisce allora come mai ci si appoggi sulla religione come fattore decisivo di conoscenza di quel mondo. E questo mentre i francesi affermano, con Laplace, che, per giungere a conoscere il mondo, non è necessario ipotizzare l'esistenza di Dio. Il breve accenno di Marx a Schelling ci conduce non a un collegamento con Hegel ma a una scoperta probabilmente indotta da una lettura particolare di Schelling da parte di Marx a proposito della filosofia della natura. In una lettera al padre (1837) Marx, accennando alla sua lettura di Schelling, confessa di aver scoperto che arte, umanesimo e scienza sono la stessa cosa; e che le cose che riguardano il pensiero umanistico e l'arte si possono trattare con il metodo delle scienze. È un vero e proprio ribaltamento di paradigma quello in cui Marx precipita dopo queste considerazioni. Con Hegel Marx giunge alla rottura, con Feuerbach (via Schelling) si rende conto che d'allora in poi la concezione scientifica del mondo passerà attraverso l'utilizzo delle categorie filosofiche filtrate dal matrimonio tra filosofia della natura e scienza. Non sono aggiustamenti rispetto alla filosofia, si tratta di necrologio della filosofia. Scritto con il linguaggio dei filosofi.

Feuerbach come "punto di approdo" della filosofia tedesca (Engels). Ma non è un viaggio "circolare" quello di Feuerbach: l'approdo è quello che segna la fine di un viaggio senza ritorno. Nell'opuscolo in cui Engels tratta dell'evoluzione da Hegel a Feuerbach si riconosce a Hegel una potenza del pensiero che non si era mai raggiunta in campo filosofico, ma si dimostra soprattutto che il pensiero hegeliano è incapace di dare risposte alla vita materiale degli uomini. In fondo è tutta la filosofia in questa condizione. È Marx che riesce a dare queste risposte in modo semplice, lineare: la caratteristica della nostra specie è quella di modificare la natura attraverso il lavoro e la produzione organizzata. Le belle frasi emanate dal Pensiero non modificano un bel niente. Una volta imboccata la strada della comprensione materialistica del mondo, la filosofia muore, non essendo in grado di competere con le nuove forme della conoscenza (scientifica).

In Germania l'industrialismo "non si sviluppò ma giunse", nel senso che non poté avvalersi di una potenza endogena. Istruttivo l'episodio insurrezionale dei tessitori in Slesia, una situazione medioevale: non erano operai ma artigiani che portavano le tele al mercato ed erano tartassati dai mercanti che puntavano al ribasso dei prezzi all'origine. Comunque, con la rivoluzione dall'alto di Bismarck (unificazione e rapido sviluppo del capitale su un terreno vergine) la situazione peggiore dell'Europa diventa la situazione d'avanguardia, quella che diventerà l'ago della bilancia della rivoluzione europea negli anni dal 1918 al 1923.

Non ci occuperemo qui della caduta, in quegli anni, della Germania, paese che manifesta proprio i pericoli da noi elencati e cioè fronte unico e teoria dell'offensiva; con il fallimento tedesco le sorti della rivoluzione sono segnate. Né ci serviremo della lezione cinese. È sufficiente notare che la Cina dal 1911 al 1927 chiude il ciclo delle sbandate tattiche dell'Internazionale. La rivoluzione cinese si fa problematica dato che rientra nel filone storico: anche in Cina la rivoluzione multipla è fallita a causa delle parole d'ordine sul fronte unico sostenute dallo stalinismo vittorioso. Non sarebbe corretto affermare che una delle cause principali della controrivoluzione è la mancata comprensione dei cicli storici visti alla luce delle transizioni di fase: non sarebbe corretto perché sarebbe come addossare a qualcuno la colpa dell'immane fallimento. Però ogni passaggio importante vede i partiti dell'epoca, quale più quale meno, scivolare tutti sul terreno dell'incomprensione totale di che cosa significhi una transizione storica. Un bell'esempio è l'opuscolo di Bucharin e Preobragenskji L'ABC del comunismo, che doveva spiegare ai proletari che cos'è una rivoluzione ma descrive in realtà la genesi di una grossa cooperativa. Non era "colpa" degli autori se non erano riusciti a oltrepassare quel livello, ma sono morti milioni di proletari per la maledetta concezione del comunismo come correzione della società presente.

Abbiamo bisogno di riferirci a Germania, Russia e Cina per individuare il grande percorso storico di una rivoluzione della quale facciamo parte, non è "da attendere". E la caratteristica di questa rivoluzione è ancora sempre quella di un movimento storico spurio, dato che il grado di sviluppo differenziato fra paesi è un'invarianza, anche se ovviamente l'umanità non sta ad aspettare che maturino le forme sociali più antiche. Diciamo allora che il mondo avanza verso l'unificazione di tutti i gradi di sviluppo (Marx: ogni risultato raggiunto da un paese nel mondo è raggiunto per tutti i paesi), ma che nel rincorrersi dei paesi alcuni vengono lasciati indietro, altri prendono slancio e sorpassano i concorrenti (come la Germania), altri ancora rappresentano il capitale al massimo dello sviluppo e mantengono le loro posizioni di egemonia tecnico-produttiva, politica, militare, finanziaria.

Le differenze in genere si attenuano, ma non scompaiono mai del tutto. Gli uomini fanno le rivoluzioni ma non nel modo che vogliono: essi sono le pedine della rivoluzione. Capire come si sono svolti i fatti che gli uomini hanno vissuto come protagonisti significa non farsi prendere alla sprovvista dalla potenza delle rivoluzioni quando raggiungono il loro punto critico e stanno per sopraffare la vecchia società. È il momento più difficile, quando tutto l'armamentario della vecchia società viene mobilitato per una difesa estrema.

Storicamente, negli anni '20, questa mobilitazione si è rivelata nella "questione tattica". Non si può cambiare tattica a seconda delle situazioni contingenti: una volta stabilito il periodo storico con tutte le sue caratteristiche la tattica deve diventare quel piano sistematico di azione ricordato da Lenin.

La parola "sistematico" richiama la capacità di influire sulle situazioni sociali. È il "rovesciamento della prassi", come l'ha chiamato la nostra corrente. Nella produzione è ovvio per tutti che una macchina, una struttura qualsiasi sono già presenti nel loro progetto. Il disegno che servirà a ottenere l'oggetto voluto è il futuro di quest'ultimo, mentre a oggetto realizzato sarà il suo passato. Nella società e nella vita politica il futuro è più vaticinato che programmato. Eppure, un'altra questione fondamentale, quella del partito, è affrontata senza tener conto che il partito è il progetto, il futuro della società di cui rappresenta la dinamica verso la realizzazione. Tutto ciò non ha niente a che fare con la "edificazione del socialismo", triviale metafora edilizia che nasconde solo una crassa povertà teoretica di fronte al compito più grande che la nostra specie abbia mai affrontato e debba mai affrontare. Per questa ragione il partito che avrà il compito di guidare la rivoluzione dovrà avere una struttura organica, dovrà essere come un organismo biologico (Appunti per le tesi sulla questione di organizzazione).

Dal punto di vista sociale oggi il futuro non è progetto. Il sistema attuale, che è progettista per antonomasia nel campo degli oggetti utili alla sua vita, non riesce a progettare la propria esistenza dal punto di vista sociale. In tal modo cade in una contraddizione estrema. Per la prima volta nella storia, ci troviamo di fronte a un modo di produzione cui è stato cancellato il futuro. La rivoluzione senza organicità e senza visione del futuro porta al nulla, è scritto in Fiorite primavere del capitale. Se vogliamo applicare metafore scientifiche alla situazione sociale, dobbiamo notare che dal punto di vista del secondo principio della termodinamica il calore della rivoluzione fluiva dalla situazione calda (molecole in movimento) alla situazione fredda (molecole con movimento debole).

Sia nel 1848 che nel 1918 la Germania rappresentava l'ambiente freddo che captava energia. Nel 1848 a causa dello sviluppo arretrato; nel 1918 la socialdemocrazia si comportava come un ghiacciaio controrivoluzionario in confronto alla pentola a pressione rivoluzionaria. Certamente la quantità di calore imprigionata nel ghiacciaio era superiore a quella posseduta dalla pentola nonostante la temperatura di un centinaio di gradi in confronto a zero; ma ciò non impediva che il calore di quest'ultima fluisse verso la temperatura più bassa. Per invertire il flusso, come nelle pompe di calore che riscaldano un piccolo ambiente attingendone da uno grande anche se freddo, occorreva energia, e questa poteva essere fornita soltanto da un partito coerente con il fine rivoluzionario. Ma quel partito non c'era.

Nelle grandi transizioni di fase che l'umanità ha conosciuto, l'analogia termodinamica ha comportato necessariamente l'indispensabile inversione, altrimenti non si capirebbe come mai un sistema giunto all'apice della sua potenza possa lasciare il posto a un sistema appena nato. Un paragone con l'individuo che nasce e muore lasciando il posto a un altro individuo e così via non è corretto: una civiltà, un modo di produzione sono trattabili come insiemi di parti (individui, molecole, sciami di eventi), per cui l'apice di un sistema morente corrisponde al punto zero del sistema nascente. La frattura fra il vecchio e il nuovo è un cambiamento che avviene adoperando gli stessi materiali. La rivoluzione non consiste nel cambiare questi ultimi, bensì nel disporli secondo nuove configurazioni. La differenza fra utopia comunistica e comunismo sta proprio in questo: l'utopia è un modello sostitutivo proposto sulla base di un'elaborazione del pensiero; il comunismo è il movimento reale che abolisce il modello presente. Il primo è costruttivo, il secondo è distruttivo. Nessuna rivoluzione è mai avvenuta cambiando il modo di pensare degli individui, le rivoluzioni scoppiano, gli individui con il loro pensiero vengono dopo.

LETTURE CONSIGLIATE

  • - Andreau Jean e Descat Raymond, Gli schiavi nel mondo greco e romano, Il Mulino.
  • - Carandini Andrea, La nascita di Roma, Einaudi.
  • - De Martino Francesco, Diritto e società nell'antica Roma, Editori Riuniti.
  • - Donadoni Sergio, a cura di, L'uomo egiziano, Laterza.
  • - Engels Friedrich, Ludwig Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca, Editori Riuniti.
  • - Frangipane Marcella, "The development of centralised societies in Greater Mesopotamia and the foundation of economic inequality", Download libero su Academia.edu.
  • - Gramsci Antonio, "La rivoluzione contro il Capitale", l'Avanti del 24 novembre 1917.
  • - Liverani Mario, "Il modo di produzione", in L'alba della civiltà, vol. II, UTET.
  • - Marx Karl, Carteggio con Vera Zasulich e bozze, in appendice a Il Capitale, Libro I, UTET 1974.
  • - Marx Karl, Forme che precedono la produzione capitalista, brossura, Editori Riuniti.
  • - Milano Lucio, Lessicografia e storia sociale: gli "schiavi di Ebla", www.academia.edu.
  • - Nicolet Claude, Strutture dell'Italia romana, Jouvence.
  • - PCInt., "Avanti barbari!", Battaglia comunista n. 22 del 1951.
  • - PCInt. "Pressione razziale del contadiname, pressione rivoluzionaria dei popoli colorati", Il programma comunista n. 14 del 1953.
  • - PCInt., "Fiorite primavere del capitale", Il programma comunista n. 4 del 1953.
  • - PCInt., "Dottrina dei modi di produzione", Il programma comunista nn. 3-4-5-6 del 1958.
  • - PCInt., "Considerazioni sull'organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole", Il programma comunista n. 2 del 1965.
  • - Pettinato Giovanni, Ebla, Rusconi.
  • - Pettinato Giovanni, La città sepolta, Mondadori.
  • - Pettinato Giovanni, I Sumeri, Bompiani.
  • - Torelli Mario, Storia degli Etruschi, Laterza.
  • - UNESCO, Sacred city of Caral – Supe, in rete. Vedere anche voci in Wikipedia (nelle varie lingue).

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