Cinquanta numeri di n+1

A dire il vero sono 51, c'è anche un "numero zero" di prova nel maggio del 2000. Il nostro progetto prevedeva l'approfondimento dei temi legati alle transizioni parziali che portano dalla società comunistica "primitiva" (o, più correttamente "originaria") a quella futura completamente sviluppata. Il nome della rivista, n+1, sintetizza questa impronta programmatica: la successione delle forme sociali è descrivibile come legge delle rivoluzioni. Se definiamo con n ogni singola forma nel tempo, e con n+1 la forma che le succede, abbiamo una dinamica generale di gradini verso il comunismo sviluppato: n+1 è il successore di n, ciò che è vero per n è vero per n+1 e così via. Quel "e così via" è il principio di induzione matematica e simboleggia bene la dinamica storica delle forme sociali, "la Germania non sviluppata vede nell'Inghilterra il proprio futuro", dice Marx.

Questa rivista non nasce dal niente. A monte di questi 50 numeri, c'è la serie di 40 numeri di una newsletter, la Lettera ai compagni, che iniziò a uscire nel 1981. Da quarant'anni il nostro lavoro è volto ad affermare una teoria delle transizioni di fase, cioè la negazione di una società da parte di quella successiva. Quando una forma sociale subentra a un'altra, l'annienta a cominciare dal suo interno, adoperando gli elementi di anticipazione presenti.

Sono usciti meno numeri di quelli previsti, ma abbiamo pubblicato mediamente più pagine per numero. Con chi ci segue avevamo preso l'impegno di continuare il lavoro della Sinistra Comunista, con particolare attenzione al metodo e così pensiamo di essere riusciti a fare. Lungo il percorso abbiamo seminato elaborazioni, semilavorati, volumi monografici tratti sia dal materiale storico da noi reperito, controllato e digitalizzato, sia da elaborazioni nostre, come quella sui "punti di Forlì", dal nome della città in cui furono esposti nel 1951, da noi assimilati e utilizzati come manifesto politico. Tali punti sono presentati da una breve apertura coeva in cui si dice che oggi il programma immediato non può più elencare rivendicazioni positive, nel senso di dare alle persone ciò che non hanno ancora. La miseria crescente si spiega con la sovrapproduzione di beni, non con la loro carenza. Mentre i partiti socialdemocratici non avevano ancora capito questo semplice fatto, la Sinistra l'aveva elevato a dimostrazione di una completa teoria della rivoluzione: non si tratta, oggi, di produrre di più, ma di produrre umanamente, il "quantitativismo produttivo" ha raggiunto da tempo il suo limite.

Sviluppando un lavoro "ad argomenti concatenati" abbiamo riaffermato la continuità con la corrente storica che abbiamo posto con maggiore saldezza alla base del nostro operato.

E quando diciamo operato intendiamo un rapporto interattivo con chi ci segue a partire almeno dal 1981, data per noi significativa che segna una separazione… una ricostituzione… da che cosa e verso che cosa?

Stiamo parlando di quasi mezzo secolo che ha visto nascere e crescere un lavoro a progetto che abbiamo cercato di mantenere esente da qualsiasi "ismo" e condotto con metodo scientifico.

Diversi numeri della rivista sono praticamente monografici. Quando ci siamo tuffati in argomenti che hanno visto in passato nascere battaglie, anche cruente, abbiamo cercato di capire il motivo materiale che aveva prodotto (e produce) un tale fenomeno, ed è subito diventato evidente l'abisso che separava (e separa) le dottrine politiche dallo sviluppo materiale dei fatti. Cos'è che produce nei partiti comunisti degli anni '20 un'ideologia deteriore di stampo democratico – la ricerca di una maggioranza – mentre gli operai spontaneamente si armavano per abbattere il capitalismo? E che cos'è ai giorni nostri l'ottuso rifiuto di vedere che il comunismo è la marcia dall'utopia alla scienza?

Un esempio raccapricciante lo ricaviamo dall'atteggiamento di chi, pur non rifacendosi politicamente allo stalinismo, ne perpetua l'ideologia e i metodi, trattando il comunismo come se fosse una forma di governo. Della Sinistra "italiana" si trascurano tesi fondamentali e testi, a volte anticipatori di un movimento reale verso il comunismo, per adottare in esclusiva quelli della polemica con l'Internazionale di Mosca. Importantissimi, certo per lo scontro che ci fu allora, ma soprattutto perché ci aiutano a capire che cosa ci fosse alla base dello scontro. Testi che, secondo la formula n+1, sono la chiave per capire la centenaria sconfitta del passato, e si pongono alla base dei testi futuri.

L'esempio forse più completo è quello della serie dei ricordati punti di Forlì del 1951. Da quella sintetica bozza abbiamo tratto il nostro manifesto in 14 capitoli (per ora) sul programma immediato della prossima rivoluzione. Lo abbiamo pubblicato nella Home page del nostro sito. Non si tratta di un programma elettorale la cui applicazione scaturisca dalla vittoria di un partito d'opposizione ma di un manifesto, appunto, dove si dimostra che la serie n, capitalista, compie il salto in n+1, comunista. Un'infiltrazione di futuro nel presente. Per distruggerlo, non per salvarlo. E questo discorso vale un po' per tutto il nostro lavoro su quella traccia storica: transizioni, teoria della conoscenza, anticipazioni di comunismo, frattura Marx-Hegel.

Abbiamo deciso di festeggiare la cifra tonda della cinquantesima uscita della rivista con un numero un po' speciale: a gennaio compiono cento anni le Tesi sulla tattica, dette di Roma, proposte dal PCd'I all'IC nel 1922, e siccome diamo loro una grande importanza, le inseriamo nei "festeggiamenti". Ovviamente c'è un nesso con il lavoro svolto intorno alla rivista: prima di tutto le tesi ricordano che le questioni di tattica rivoluzionaria non sono da confondere con quelle di tattica militare. In guerra la tattica descrive l'azione per contendere il terreno al nemico in contiguità, mentre la strategia si caratterizza con il grande disegno generale per conseguire la vittoria. I due concetti, così come vengono usati oggi, risentono dei significati assorbiti dalla storia passata, mentre oggi è necessario aggiungere qualche precisazione. Nel mondo greco antico lo stratega era il capo militare che all'occorrenza riceveva dalla comunità l'investitura di responsabile della società intera. Dato che le guerre erano punteggiate da battaglie nelle quali lo scontro generale si frammentava in duelli individuali, la tattica non aveva la stessa importanza di oggi, quando invece lo scontro non perde più il suo carattere collettivo. In campo navale strategia e tattica erano più differenziate poiché nelle flotte l'elemento individuale non conta.

Oggi tattica e strategia si confondono a causa soprattutto della tecnologia. È infatti impossibile, ad esempio, stabilire in che campo collocare la guerra elettronica.

Per Lenin la tattica era un piano sistematico d'azione sostenuto da forti presupposti teoretici. Com'è facile capire, si attenua fin quasi a scomparire la differenza con la strategia, che è dominio della pianificazione e dei presupposti dottrinari. Sarebbe più appropriato chiamarla programma. In tempo di rivoluzione, dunque, la tattica deriva direttamente dalla impostazione teoretica del partito che guida la rivoluzione: dal programma, appunto.

La grande strategia dell'Impero Romano consisteva nel realizzare avamposti militari sui propri confini insediando i veterani delle legioni con le loro famiglie, per cui i castra, i celebri e organizzatissimi accampamenti delle legioni diventavano città fortificate, intrecciate anche economicamente con il territorio. Eventuali eserciti barbarici invasori non potevano assediare le città perché si sarebbero trovati a loro volta assediati dalle legioni di stanza sui confini, com'era successo ad Alesia. Non potevano avanzare superando gli insediamenti poiché avrebbero avuto le legioni alle spalle, padrone delle retrovie e delle linee di rifornimento. La strategia romana del tardo impero era quella di costringere l'avversario a una tattica non congeniale.

All'inizio della Seconda Guerra Mondiale la strategia dell'Asse, la guerra-lampo (blitzkrieg), avrebbe dovuto chiudersi con l'arroccamento su posizioni imprendibili. Nel grande wargame planetario la mossa aveva una sua ragione, ma la supremazia quantitativa degli alleati costrinse l'Asse a trasformare la propria strategia degli attacchi limitati e veloci in una tattica locale, quella che, l'abbiamo visto, si occupa della contiguità con il nemico. La Germania, che aveva inventato il wargaming moderno sintetizzando le esperienze storiche (la tattica della blitzkrieg era nata nella Rivoluzione Russa) e che aveva tratto da questa sintesi la brillante strategia della guerra fulminea, era stata spinta alle trincee fra le macerie di Montecassino. Così il Giappone: partito con la strategia del controllo oceanico, finì con le fortificazioni terrestri nelle isole come nella Prima Guerra Mondiale.

La strategia alleata fece sua la dottrina geopolitica della guerra oceanica per impedire alle forze dell'Asse di attaccare per poi arroccarsi in posizioni imprendibili. L'uso massiccio delle macchine per la guerra di movimento era previsto da entrambe le parti. All'inizio della guerra gli Alleati non avevano una supremazia schiacciante. Ma avevano una dottrina coerente. L'Asse nascondeva un errore nella dottrina: scambiare la strategia con la tattica e viceversa. Trotsky era stato drastico sulla questione: non esiste una dottrina proletaria della guerra, si combatte per vincere e basta. Ma come mai questa affermazione categorica può riguardare la rivoluzione comunista? Prendere il potere contro una classe in una rivoluzione è davvero analogo al prendere una nazione in guerra come sembra dire Trotsky?

Il 30 gennaio del 1922 il periodico del PCd'I Rassegna comunista pubblicava le Tesi sulla tattica nell'ambito di una discussione fra i partiti che facevano parte dell'Internazionale Comunista. La proposta era di importanza fondamentale: la Sinistra Comunista "italiana" non faceva mistero della preoccupazione per l'andamento della politica di quello che doveva essere il partito mondiale della rivoluzione. Mentre la difficile situazione internazionale richiedeva una risposta lucida e coerente in rapporto alle basi programmatiche, l'IC scivolava sempre di più nel vortice delle "cose da fare", un elenco di impegni tattici che scaturiva dalla preoccupazione di non rimanere isolati rispetto al movimento operaio, influenzato, nonostante fosse ancora in grado di combattere sul terreno dell'organizzazione militare, dalla socialdemocrazia. Invece di utilizzare la forza disponibile per rompere definitivamente con l'opportunismo, si cercavano improbabili alleanze con quello che si presentava sempre più come un nemico da neutralizzare.

Il fatto che il partito del proletariato fosse (sia) contemporaneamente un prodotto della storia passata e un fattore di quella futura, aveva condotto a una confusione fra il programma teoretico e la tattica che ne sarebbe dovuta discendere. La tattica, cioè quella che allora veniva chiamata così, stava esautorando il programma in nome di un successo che, date le condizioni storiche già chiare, era impossibile.

La critica della Sinistra Comunista "italiana" si basava su riscontri oggettivi, su di un modello derivato dalla teoria e non influenzato da fattori contingenti. Tale modello non avrebbe mai dovuto essere considerato come un mero esercizio di stile. Bisognava considerarlo come livello di maturità, da raggiungere da parte di militanti capaci di concentrarsi sull'obiettivo per non lasciare spazio a tesi incerte. Ogni debolezza su questo versante avrebbe comportato una vittoria di quella che dalla Sinistra Comunista "italiana" fu subito definita "indeterminatezza tattica", sia nel senso di mancanza di chiarezza, sia nel senso di pratica insensibile alle determinazioni materiali dell'ambiente.

A proposito dell'ambiente, occorre ricordare che proprio nella frazione che dal PSI confluì nel PCd'I alla sua costituzione si sentiva fortemente la necessità di voltare le spalle alla politica opportunista per dar vita a un organismo "ferocemente antiborghese", che prefigurasse senza mezzi termini la società di domani. E questa non era un'esigenza primordiale di giovani comunisti impazienti che "volevano" il comunismo subito, realizzato con la buona volontà e con l'aderenza al patrimonio teorico, ma la rivendicazione diretta che scaturiva dagli effetti materiali prodotti dalla socializzazione massima del lavoro: quel "movimento reale che abolisce lo stato di cose presente" così chiaramente descritto da Marx ed Engels nell'Ideologia tedesca. E che ancora Engels definiva così:

"Il comunismo non è una dottrina ma un movimento, non muove da principii ma da fatti. I comunisti non hanno come presupposto questa o quella filosofia, ma tutta la storia, specialmente i suoi ultimi risultati reali nei paesi moderni".

La borghesia, leggiamo nel Manifesto, è costretta a rivoluzionare senza sosta il proprio modo di produzione. E per farlo, introduce nell'industria innovazioni importanti che saranno utilizzate appieno soltanto nella società futura. La produzione secondo un piano e gli strumenti teorici di previsione e controllo come l'arte del wargaming fanno parte di queste innovazioni.

Il wargaming non è più un semplice gioco da molto tempo. Possiamo dire con una certa sicurezza che va considerato come un'arma immateriale, così come è un'arma immateriale il software che controlla le armi moderne e permette loro di funzionare. Con una differenza: le armi infarcite di elettronica tendono a essere automatiche, a funzionare da sole, mentre i wargame sono "giocati" da uomini. Non che abbiamo un rispetto particolare per l'uomo delle società divise in classi, ma per adesso l'intelligenza biologica di fronte a scenari complessi e sfumati se la cava meglio dei robot. Perciò dureranno ancora poco le grandi flotte, le divisioni corazzate, gli stormi di bombardieri. La prossima guerra, se non sarà fermata dalla rivoluzione, si combatterà con armi leggere. Non secondo la vecchia definizione di chilogrammi per arma, bensì secondo il criterio della smaterializzazione.

Alle ore 10.00 del 2 agosto 1990, giorno in cui l'Iraq diede il via alla Prima Guerra del Golfo, lo Stato Maggiore degli Stati Uniti convocò l'autore del gioco da tavolo Gulf Strike pubblicato sette anni prima, nel 1983, per vedere se fosse utilizzabile come supporto. Il gioco era una completa finzione: i paesi presenti nell'area erano impegnati in una guerra a partire da sette configurazioni diverse, tutte di fantasia. Evidentemente i militari avevano osservato qualcosa di utile rispetto a ciò che stava succedendo. Così ordinarono una versione aggiornata del gioco, applicabile a una situazione in via di sviluppo. Il progettista fu in grado di consegnarla alle 15 del giorno stesso. Avviato il combattimento sul tavolo, in due sole sessioni di gioco la guerra era stata vinta dagli americani con perdite umane vicine allo zero.

Questi risultati provocarono una crisi tra le componenti delle forze armate americane, vale a dire tra i diversi gestori dei rispettivi wargame, quello dell'esercito, quello della marina, quello dell'aviazione, ecc. In realtà non era successo niente di speciale, si era solo manifestato uno dei casi in cui una visione generale e collettiva è più efficace di una visione parcellizzata. Un fattore aveva sicuramente avuto un'importanza notevole nella scelta di simulare la guerra con il gioco da tavolo in competizione con i colossi dello Stato Maggiore: il primo era costato, compreso il progetto originario e il lavoro di sviluppo, qualche migliaio di dollari; il programma del Pentagono era costato qualche milione.

Ovviamente nel dibattito c'era tanta retorica interessata: non era certamente vero che un gioco di guerra studiato come passatempo fosse meglio di un sofisticato sistema computerizzato che collegava in un tutto unico le diverse Armi facenti capo al Ministero della Difesa. Era indubitabile però che, al 1983, non solo le forze armate del Pentagono ma il mondo intero erano già sottoposti a controllo, calcolo, previsione, bilancio tramite le tecniche di wargaming.

Gli operai non possiedono i supercomputer che possiede il Pentagono, ma all'occorrenza e una volta organizzati in partito, possono realizzare dei modelli attendibili del tipo di Gulf Strike. Forse la vera rivelazione era proprio quella: il suo progettista non poteva, evidentemente, presentare dalla mattina al pomeriggio un nuovo wargame, poteva soltanto cambiare alcuni parametri significativi. L'accuratezza del dettaglio non è necessaria quando la guerra (o un "gioco" qualsiasi) è all'inizio: essendo interattivi, gli avversari sul campo fanno evolvere il sistema semplicemente "giocando".

Per stabilire se tutto questo è vero, sono stati realizzati degli spazi-laboratorio dove alcuni esperimenti possono essere ripetuti con varianti qualitative minime. Per evidenti ragioni, sono stati conservati molti documenti originari, un wargame è sempre "aperto", cambiando un minimo numero di parametri può essere facilmente digitalizzato.

Oppure può essere rubato e utilizzato facilmente per scopi diversi: l'unica differenza fra due fucili uguali è la direzione verso cui sono puntati. È più facile rubare un piccolo hard disk che non una flotta con portaerei ecc. Al culmine della breve stagione di Occupy Wall Street era indubbio che la capacità e la potenzialità dei manifestanti erano diverse da quelle dello Stato solo perché essi erano meno ricchi, nel senso letterale del termine: avevano meno soldi. E comunque, una buona parte dei giochi è ancora condotta a mano. La massa delle conoscenze di allora era sufficiente per "giocare" contro lo Stato della nazione più potente del mondo.

Nell'articolo abbiamo cercato di capire che cosa possa significare ciò.

Rivista n. 50