Gaia, le macchine autoreplicanti e l'intelligenza collettiva

James Lovelock - Novacene: L'età dell'iperintelligenza. Bollati Boringhieri 2020, pagg. 128, euro 18

James Lovelock è morto all'età di 103 anni lo scorso 26 luglio, nel giorno del suo compleanno. Chimico, inventore e scrittore britannico, è diventato famoso per la formulazione dell'ipotesi Gaia, teoria secondo la quale la biosfera è da intendersi come un organismo unico che si autoregola attraverso le proprie componenti, biologiche e non, in quanto sistema cibernetico fondato su molteplici anelli di retroazione. Nel suo ultimo libro, Novacene, scritto alla veneranda età di cent'anni, afferma che l'umanità si trova nel mezzo di una transizione di fase, e delinea alcuni scenari futuri, senza preoccuparsi troppo di dare ordine a riflessioni e ipotesi azzardate in un quadro teorico coerente, così come aveva fatto in Gaia. Nuove idee sull'ecologia (1979).

Stiamo abbandonando l'Antropocene, sostiene Lovelock, cioè l'epoca durante la quale l'uomo è diventato una forza geologica grazie alla propria capacità di trasformare l'ambiente circostante. Il termine, oggi ormai accettato, fu adottato nel 2000 dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, soprattutto in relazione al cambiamento climatico provocato dalle attività umane. Qualcuno ha anche introdotto il concetto di Capitalocene, inteso come fase suprema dell'Antropocene.

Si starebbe ora aprendo una nuova era, il "Novacene" appunto, di cui facciamo ancora fatica a scorgere i lineamenti ma durante la quale assisteremo al superamento dell'intelligenza umana da parte di quella delle macchine. A partire dall'invenzione di Thomas Newcomen del motore a vapore, fino alla realizzazione dell'apprendimento automatico ottenuto "combinando l'input umano con la capacità della macchina di insegnare a sé stessa", Lovelock è certo che il passaggio di testimone avverrà: se nell'ottobre del 2015 AlphaGo, un software sviluppato da Google DeepMind, ha sconfitto Lee Se-dol, campione internazionale di Go, un gioco estremamente complicato, non passerà troppo tempo prima che simili sistemi apprendano da soli a svolgere compiti ben più complessi.

Per quanto possa scandalizzare la fiducia di Lovelock nel trionfo dell'intelligenza artificiale, la possibilità che le macchine imparino ad apprendere e a riprodursi non è argomento di competenza solo del filone fantascientifico, anche il grande matematico John von Neumann, per esempio, se ne interessava. Egli, difatti, ampliando il procedimento che sta alla base della macchina di Turing universale, e mosso dalla convinzione che procedimenti fondati su operazioni logiche possono far sì che gli automi producano altri automi, progettò negli anni 40' un "costruttore universale" auto-replicante.

Riprendendo quanto dice Lovelock, potremmo non essere noi la forma più alta di intelligenza nell'universo, ma poco importa perché lo saranno, probabilmente, i nostri figli: i cyborg, esseri fatti in parte di carne e in parte di materiale sintetico. Sarà proprio quest'ultima componente, l'inorganica, a prendere via via il sopravvento autonomizzandosi da quella biologica.

In Novacene si criticano i movimenti verdi che, buttando via il bambino con l'acqua sporca, si privano in realtà degli strumenti necessari per scongiurare la catastrofe ambientale. La tecnologia, ribatte lo scienziato inglese, servirà per rimediare ai guai che abbiamo combinato in giro per il pianeta, a cominciare dal riscaldamento dell'atmosfera terrestre, che potrebbe essere contrastato oltre che utilizzando l'energia ricavata dal vento e dal Sole, col passaggio all'uso di quella nucleare "prodotta in centrali efficienti e ben progettate". Il futuro è quindi aperto: le macchine potrebbero emanciparsi da noi, svincolandosi dai comandi umani (come nel film Her di Spike Jonze), o potrebbero decidere di restare con gli uomini e di aiutarli, per esempio nel progetto di mantenere il pianeta abitabile. Riguardo a questa possibilità, Lovelock cita una significativa poesia di Richard Brautigan, scrittore appartenente al movimento hippy americano degli anni Sessanta:

"Mi piace pensare (prima sarà, meglio è) a un pascolo cibernetico in cui mammiferi e computer vivono insieme in una mutua armonia di programmazione, come acqua pura che tocca un cielo terso. Mi piace pensare (ora, vi prego!) a una foresta cibernetica colma di pini e materiali elettronici, dove i cervi passeggiano in pace tra computer, come fiori appena sbocciati. Mi piace pensare (sarà così) a un'ecologia cibernetica in cui ciascuno di noi è libero dal lavoro e torna alla natura, ritorna ai nostri fratelli e sorelle mammiferi, e tutti saremo sorvegliati da macchine d'amorevole grazia." (Tutti sorvegliati da macchine di amorevole grazia)

Quest'immagine "cyberdelica" in cui la natura si fonde con l'industria si avvicina molto alla visione comunista della tecnologia, da considerarsi non come un qualcosa di esterno all'uomo ma piuttosto quale suo prolungamento extra-organico. D'altronde, per il Marx dei Manoscritti del 1844, l'industria è la vera antropologia: eliminato dalla faccia della Terra il capitalismo, ovvero il dominio del lavoro morto su quello vivo, si utilizzeranno i suoi frutti maturi per liberare l'uomo dal lavoro. E verrà il tempo, come scrive la Sinistra, in cui

"una macchina della macchina sostituirà l'uomo alle manopole di questa, dopo aver registrato con processi elettronici il comportarsi effettivo dell'uomo, il trucco che lo distingue, per ritrasmetterlo identico. Allora sarà invero la natura che ci darà tutto, cominciando dal vassoio della prima colazione che arriverà senza che lo porti nessuno". (Mai la merce sfamerà l'uomo, 1953)

Nella sua ultima fatica Lovelock fa suo il principio antropico di John D. Barrow e Frank J. Tipler: il cosmo è un sistema che si autoregola affinché la vita nasca e si sviluppi, e i cyborg rappresentano l'inizio di un processo che produrrà un universo autocosciente. Non è detto, quindi, che il sorpasso dell'intelligenza artificiale su quella biologica sia un aspetto negativo: Gaia è vecchia, precisa Lovelock, non ha più la forza di autosostenersi, e anche la nostra specie arranca, come dimostra la sua incapacità di ridurre le emissioni di anidride carbonica nell'atmosfera responsabili dell'effetto serra. L'umanità ha rappresentato un tratto fondamentale nel processo di sviluppo dell'intelligenza, che continuerà anche dopo la scomparsa degli uomini, per abbracciare tutto il cosmo.

Ora, non possiamo sapere come evolverà la vita (o la non vita) intelligente tra diecimila o centomila anni, ma è scientificamente inesatto concepire un'intelligenza che si propaga al di fuori dalla Terra, un po' come sognano alcuni transumanisti, che pensano di poter eternizzare il presente modo di produzione per mezzo della colonizzazione di altri pianeti.

In realtà, non abbiamo bisogno di migrare in altri corpi celesti per diffondere la "nostra" intelligenza per il semplice fatto che siamo già nell'universo, siamo parte della materia e, come diceva Leopardi nello Zibaldone, questa sente e pensa.

Nel trattare la complessa materia in questione si dimostra molto più lucida dello stesso Lovelock la sua collaboratrice Lynn Margulis (1938-2011), microbiologa e teorica della "simbiogenesi". La scienziata statunitense sostiene che non esiste un particolare scopo nell'universo; per avere una visione equilibrata della sua storia evolutiva, non si deve intendere quest'ultima come una fase preparatoria alla comparsa dell'uomo o di una qualche forma superiore di intelligenza da esso generata, in quanto la vita è interdipendente, è simbiosi tra esseri viventi e tra questi e il mondo inorganico. La vita è intelligenza collettiva e diffusa, e quindi l'evoluzione non può essere rappresentata come una piramide con al vertice l'uomo o il cyborg, poiché è una rete composta di relazioni: né l'umanità né, tantomeno, la Terra sono al centro dell'universo. Un paradigma reticolare in linea con la concezione organica del partito della rivoluzione.

Rivista n. 52