La malattia non esiste
La salute come specchio dell'essere sociale

Non esiste alcun modo per descrivere il passaggio storico dalla non-malattia alla malattia. Con il nostro linguaggio possiamo parlare di malattia solo da quando rileviamo questa condizione. La salute è non-malattia, può essere malato solo chi non lo era. Prima della malattia c'erano solo nascita e morte, ma anche in questo caso possiamo definire solo per negazione: è morto solo chi era vivo. Tra nascita e morte vi erano scompensi negli equilibri della natura che coinvolgevano la società e gli individui che ne facevano parte. Ma era una questione talmente vasta che la soluzione era lasciata alle divinità.

PRIMA PARTE

ANAMNESI (RICORDO)

Erodoto narra che i Babilonesi, quando cadevano ammalati, venivano condotti a quella che per i Greci del suo tempo era l'agorà, cioè principalmente la piazza del mercato, dove il malato cercava un rimedio chiedendo a coloro che vi si trovavano se avessero mai avuto i suoi stessi sintomi e, se sì, come fossero guariti. Ma mille anni prima di Erodoto i Babilonesi avevano già codificato malattie, rimedi e persone che se ne occupavano specificatamente. Avevano cioè già trasformato la salute in un fatto sociale, si rivolgevano a un medico, possibilmente specialista, seguendo regole e prescrizioni che ricevevano dietro un compenso (che avveniva secondo la forma del baratto dato che il denaro come "forma fenomenica del valore" non era ancora monetizzato ed era riservato ai grandi mercanti e al nascente stato in forma di scritture contabili). Perciò Erodoto narra un fatto simbolico, la metafora di uno schema la cui memoria si era conservata per tutto quel tempo.

Il fatto curioso è che Erodoto narra un qualcosa che ricorda in modo semplificato ciò che succedeva effettivamente presso le più antiche civiltà, ad esempio in Egitto, duemila anni prima o anche più. Non essendo ancora giunti a riconoscere all'interno della loro forma sociale un fenomeno "salute" che poteva esserci o mancare, gli Egizi del III millennio a.C., si comportavano un po' come i Babilonesi: i quali avevano già maturato buone tecniche per affrontare le malattie e i loro sintomi ma, pur non avendo sviluppato una risposta sociale a un fenomeno sociale, non consideravano tali sintomi come fenomeni a sé, separati dall'insieme dei fatti inerenti alla vita quotidiana. Persino oggi, in molti paesi, tra le prestazioni immediate che vengono offerte con un consulto in piazza, vi è quella del guaritore.

Prima delle civiltà urbane, quando le nostre possibilità di registrare e capire i fenomeni della natura erano quasi inesistenti, la vita scorreva in modo abbastanza semplice. O meglio, per l'uomo scorreva nei limiti di ciò che conosceva. Si pensava che lo stretto rapporto fra noi e le cose fosse sempre esistito e sempre sarebbe stato, per cui ci volle molto tempo per assimilare alcune caratteristiche di questo rapporto, per renderle più malleabili. L'insorgere di una patologia era un'interruzione di continuità e l'unico modo di rimediarvi era un intervento sui sintomi: si cercava cioè di "buttarli fuori" dal corpo per alleviare o far sparire il dolore.

L'uomo non può fare altro che regolare la sua esistenza materiale su ciò che le leggi di natura suggeriscono ai suoi sensi. D'altra parte, la sua conoscenza della natura deriva da un insieme di cause che muovono da queste stesse leggi; perciò, una corretta teoria della conoscenza deve tener conto del fatto che noi possiamo conoscere la realtà unicamente attraverso ciò che i nostri sensi ricavano e trasmettono al nostro cervello. Il quale elabora ma non può fare a meno di avere un primo approccio del tipo "Io interpreto la realtà là fuori". Questa concezione è durata fino a Galileo, che in passi memorabili ne iniziò l'implacabile demolizione. Nessuno può spiegare una realtà dall'interno di quella stessa realtà. C'è voluto del tempo, ma stiamo incominciando a capire che bisogna spingersi al di fuori dell'individuale cervello per sapere come questo funziona.

Oggi, che al di fuori della religione tutti sembrano abbracciare il rifiuto galileiano del soggettivismo in scienza, la descrizione della realtà attraverso i risultati della percezione individuale è ancora molto potente. L'elaborazione dei dati che il nostro organismo raccoglie avviene ovviamente a posteriori rispetto alla loro raccolta. Se parliamo disalute che la medicina dovrebbe salvaguardare o di malattia che essa dovrebbe curare, dev'esserci stato nella nostra storia un passaggio dallo stato di normalità a quello di eccezionalità. Così si adotta il concetto di medicina con il significato di pratica volta a ottenere la guarigione; ciò vuol dire che si è già accettato il significato di malattia, una entità a sé da combattere, come una devianza da riportare alla normalità.

Man mano che avanza la società di classe nella storia, con regolamenti tagliati sulla sua autodifesa cui devono sottostare risorse naturali destinate alla sua sopravvivenza, fin dagli albori della proprietà si consolida il concetto dato per universale che la natura sia al servizio dell'uomo.

Quando gli elementi della nostra specie si dovevano misurare con la produzione sociale sullo sfondo del ricco vassoio di alimenti presenti in natura, "sapevano" benissimo che, giunti a quel poco di trasformazione necessaria per alimentarsi, ottenevano un immediato vantaggio nel disciplinare il consumo delle risorse. Lo capivano ovviamente attraverso gli strumenti che avevano a disposizione, cioè i sensi sviluppati in milioni di anni di evoluzione. La società paleolitica, dato il suo basso grado di dissipazione dell'energia, era ad alto rendimento e bassa produttività, mentre quella neolitica era ad alta produttività e basso rendimento dato lo sviluppo delle tecnologie da dedicare a una produzione quantitativa.

La rivoluzione del Neolitico fu un passaggio sconvolgente: per la prima volta una parte della società umana produsse più di quanto consumasse, permettendo all'altra parte di non dedicarsi alla produzione e all'alimentazione ma ad altro. Il radicale salto di qualità è stato in vario modo interpretato, ma tutti l'hanno registrato, filosofi e storici, scienziati e pubblicisti, borghesi e proletari. Dalla società del primo surplus della storia alla comparsa dei primi caratteri classisti e proprietari, in un tempo relativamente breve si passò dalle forme ibride di transizione alla proprietà, alla famiglia patriarcale, all'urbanesimo, allo stato e alla religione. Le società nuove non si vedono arrivare e non ci vedono come protagonisti quando arrivano, ma lavorano nel profondo dei rapporti sociali. Solo nell'ultimo paio di secoli l'umanità si è data strumenti teorici in grado di avvicinare gli estremi e incominciare a rompere barriere.

La rivoluzione quantitativa

Sulla transizione neolitica vi è una letteratura sterminata, e anche in questa rivista ce ne siamo occupati in quanto parte del percorso dell'umanità dal comunismo originario al comunismo sviluppato (transizioni di fase, struttura frattale delle rivoluzioni, dottrina dei modi di produzione). La domesticazione degli animali e dei vegetali commestibili è andata di pari passo con quella degli uomini, fino ai giorni nostri quando la sottomissione al capitale è giunta al culmine, rivelando una forza sociale che sembra impossibile rimuovere. La ragione di questa forza va ricercata nei rapporti materiali all'interno di un complesso sistema nel quale si sono formate gerarchie di valori contraddittorie, per le quali l'antico rapporto dell'uomo con la natura era appunto del tipo omeostatico cioè tendeva a mantenere un equilibrio attraverso aggiustamenti automatici del sistema. Ma se un qualche fenomeno destabilizzante rompeva l'equilibrio, entravano in funzione meccanismi di autoriparazione che lo ponevano al riparo da fenomeni pericolosi anche estremi come l'estinzione. In generale ogni forma di vita è difesa da una dinamica interna adatta alla conservazione di sé stessa. Abbiamo visto altrove che quando una forma sociale non è più in grado di salvaguardare sé stessa interviene una rivoluzione che la conduce a una forma più alta e complessa. Tale rivoluzione si presenta come anticipazione di elementi della società futura, per cui abbiamo il paradosso di un sistema che per salvare sé stesso avvia una dinamica distruttiva che finisce per annientarlo.

In Materialismo ed empiriocriticismo Lenin afferma che il mondo esiste indipendentemente dagli uomini che lo osservano. Ragiona su questa constatazione elementare per bacchettare i suoi interlocutori che fanno confusione fra realtà percepita, soggettiva, e realtà in sé, oggettiva. Non entreremo nel merito, ci basta introdurre a questo punto una piccola parentesi sulla realtà e le sue forme.

Esiste questa realtà oggettiva indipendentemente dall'esistenza degli uomini? Abbiamo risposto con un sommesso consenso: ça dépend. Noi non saremo in grado di capire la realtà in cui siamo immersi finché faremo confusione fra il reale e il percepito. Sappiamo che se avessimo indirizzato la domanda a Lenin anche al di fuori della diatriba filosofica egli avrebbe comunque risposto infuriato elencando i motivi per i quali sarebbe stato meglio non intralciare il lavoro del partito con discussioni accademiche su temi filosofici evocanti addirittura il solipsismo di Berkeley. Ma anche il grande Lenin scivolava in tema di filosofia "entrando nel merito", cioè elogiando Hegel per la sua chiara esposizione della Logica, invitando i compagni a leggerlo tutto per poter capire Marx. Ebbene, non c'è dubbio che la realtà di Hegel non è assolutamente quella di Lenin e che, chiarezza a parte, si può studiare criticamente il fenomeno Hegel per capire il fenomeno Marx, ma a che cosa servirebbe un tale studio se non fosse finalizzato a cambiare la società? Dobbiamo giungere alla conclusione che la necessità di conoscere sta nel cambiamento continuo nel tempo e non nell'equilibrio. Cambiamento che può essere causato o spontaneo fin che si vuole, ma che dev'esserci. La cosa è meno banale di quanto appaia a prima vista: se, come dice Engels, il movimento (il cambiamento in relazione a ciò che esisteva in precedenza) è il modo di essere della materia, allora i cambiamenti che rileviamo durante la storia della nostra conoscenza hanno un inizio. Ciò significa che ogni fenomeno osservabile ad un tempo dato prima non c'era. Senza tirare in ballo il Big Bang dei fisici o la Creazione di tutte le cosmogonie religiose, ogni innovazione deriva dalla rottura di un equilibrio precedente. Giunti alle conoscenze di oggi, dice la nostra corrente, stabilito che materia ed energia sono equivalenti, il passo successivo sarà la formulazione dell'equivalenza fra materia e pensiero. La prima c'era quando il secondo non c'era ancora. O no? Per non cadere nel giochetto dell'uovo e della gallina bisogna concludere che la materia pensa.

Ciò che prima non c'era

Una frase come quella del titolo di questo capitoletto la possiamo scrivere solo se ci poniamo in un mondo in cui la malattia è comparsa ed è parte del bagaglio conoscitivo dell'uomo. La polemica sul tema della realtà oggettiva e realtà percepita ha diviso e divide i filosofi. Qui ci basta constatare che se in natura tutto è movimento, ogni istante rappresenta una dinamica evolutiva; quindi, ci mostra qualcosa di diverso rispetto a ciò che c'era prima. L'uomo che pensa sé stesso in relazione alla natura, che la consideri "esterna" o la veda come un tutto unico che co-evolve, ammette in ogni caso che il cambiamento c'è stato e c'è. Le prime forme di vita rappresentano una rottura rispetto al mondo minerale, rispetto cioè alla stabilità strutturale di ciò che precedeva, ma evidentemente si trattava di una stabilità imperfetta se fu possibile romperla introducendo quello che rispetto al passato era un disordine caotico e imprevedibile (fenomeno fortuito, diranno gli scienziati come Poincaré ed altri). Ma per dire "imprevedibile" occorre qualcuno che possa prevedere, e costui non c'era prima che la materia nel suo essere movimento lo rendesse possibile. Oggi escogitiamo diversi modi per dire "materia vivente", cioè "pensante"; e su questa realtà dinamica, che va dal passato al futuro, introduciamo un altro concetto, quello di "medicina", che sarebbe il rimedio a quello che consideriamo un malfunzionamento della natura.

Ora, in passato, non esistendo la malattia, non poteva esistere la medicina. Il pianeta sul quale viviamo è un sistema che risponde a leggi semplici e a dinamiche complesse. È la comparsa dell'uomo che ha comportato che in natura si venisse a considerare positiva o negativa la variazione di un equilibrio. Certamente l'uomo nella sua evoluzione ha giudicato positivo ciò che ha favorito nell'immediato la sua presenza. Nell'immediato, perché per milioni di anni egli non è stato in grado di valutare gli effetti a lunga scadenza, ad esempio, della formazione delle montagne cui è seguita la formazione delle pianure alluvionali: eventi catastrofici a scadenza millenaria che hanno permesso quello che sarebbe diventato il mondo dell'agricoltura e dell'allevamento. Fino alla comparsa della scienza geologica, la singola alluvione nell'immediato non era che una catastrofe locale.

Noi siamo fatti della stessa materia di cui era fatto l'universo quattordici miliardi di anni fa. Le leggi della fisica sono le stesse. Per adesso sappiamo che la malattia è una conseguenza che riguarda l'uomo e non la materia, e che il rimedio, la medicina, è una conseguenza dello stesso tenore. Se è così, la "questione della salute" nell'ottica della rivoluzione e del suo programma immediato va affrontata a partire dalla situazione esistente all'epoca in cui l'evento "malattia" era ancora estraneo, quando cioè la materia non si era ancora organizzata sistematicamente in qualcosa che noi, oggi, possiamo chiamare con quel nome.

Materialisticamente e storicamente parlando, la comparsa dei sistemi viventi sul terzo pianeta di uno dei miliardi di sistemi solari fu un evento di portata immensa: fu il risultato di una complessa catena deterministica che comportò l'esplosione di fenomeni collegati e prevedibili conseguenze.

Questo modo di sentire gli eventi attraverso i nostri sensi ha plasmato ogni attività umana; e per millenni, anche con la comparsa delle civiltà, compresa l'attuale, si è fatto scienza sulla base di una piramide al cui vertice risiederebbe l'uomo. Noi ci saremmo evoluti come individui che, agendo nel mondo soggettivo, hanno maturato un atteggiamento ambiguo verso ciò che ci circonda. Il virus è una forma di quasi-vita che convive con forme avanzate della vita stessa, cioè con le forme che all'uomo attuale convengono. La convivenza di specie che insieme formano un orizzonte metabolico in grado di permetterne la perpetuazione, fa parte dell'omeostasi, dell'equilibrio che regge l'attuale ecosistema. La pandemia in corso è il risultato di una rottura dell'equilibrio tra i fattori in gioco: in questa situazione "chi" è malattia per chi? Per l'uomo certamente il virus è lo stereotipo della malattia, ma per il virus la persistenza di una società che non è capace di debellare un'influenza è una pacchia. Ad altri livelli di organizzazione della materia vivente è possibile riscontrare in natura contraddizioni analoghe: le cellule tumorali sono il risultato di processi evolutivi in corso o in fase di superamento, la loro proliferazione è una malattia per l'uomo, per il tumore è una vittoria.

Gli animali allo stato selvatico si "ammalano" poco, sia perché ci pensa la selezione darwiniana ad eliminare i soggetti cagionevoli, sia perché alcune specie fanno parte della catena alimentare di altre specie; e allora entra in gioco il modello matematico predatori-prede di Volterra, con il quale ci viene mostrato quel particolare tipo di equilibrio omeostatico. Solo gli eventi traumatici che procurano ferite escono dalla generalizzazione dei processi evolutivi tendenti all'equilibrio. Sulla base di evidenze archeologiche di interventi su scheletri del Paleolitico si è constatata la conoscenza tradizionale di tecniche e procedure. Nel Neolitico era in uso la pratica dentistica mediante trapano. In questo caso abbiamo la patologia indotta da un cambiamento sociale: il passaggio dalla dieta decisamente proteica dei cacciatori raccoglitori a quella ricca di carboidrati dei coltivatori allevatori ha evidentemente influito sulla dentatura diventata meno resistente alla carie. Si tratta di due casi estremi del fenomeno: sia la cura delle ferite che quella della carie non vengono provocate dai meccanismi evolutivi, genetici o darwiniani, ma dai cambiamenti sociali. In ogni caso si era presentata la rottura di un equilibrio precedente, e la successiva registrazione entro la società aveva prodotto un comportamento simile a quello evolutivo. Ciò non era una novità: anche la materia inerte, grazie al collegamento e alla risonanza fra tutte le sue componenti, aveva compiuto il salto a un nuovo livello di conoscenza e di comportamento.

Comportamento?

Il mondo minerale aveva prodotto la propria antitesi passando dalla materia che sembrava inerte e immutabile alla materia che incominciava a conoscere sé stessa. Dalla relativa stabilità strutturale del mondo inanimato si era passati alla morfogenesi del vivente.

Dopo una dozzina di miliardi di anni durante i quali la materia dell'universo si era presa il tempo necessario per mettere un po' d'ordine fra gli atomi che avrebbero costituito stelle, galassie e buchi neri, tre o quattro miliardi di anni fa, sul terzo pianeta del sistema solare, si presentò un nuovo tipo di ordine. In un certo senso, si presentò la malattia. E i tempi delle fasi evolutive si accorciarono enormemente.

Le società malate

Dopo il Neolitico, durante l'Età del Bronzo, tutta l'area mediterranea e parte di quella siro mesopotamica furono sconvolte da accadimenti che l'archeologia non è ancora riuscita a spiegare: guerre, rivolte, spostamento di popoli portarono a una crisi di vaste dimensioni e addirittura alla scomparsa di alcune società minori ma floride. Egizi, Ittiti, Babilonesi, Assiri, Minoici, Micenei, Amorrei, Ugariti, Cananei, Ciprioti, Cretesi furono colpiti da un'ondata di violenza le cui cause non sono state chiarite, nel senso che alcuni le hanno attribuite all'invasione dei "Popoli del Mare" altri a troppe guerre, altri ancora a rivolte generalizzate contro chi deteneva il potere. Se quest'ultima tesi risultasse fondata, potrebbe comprovare una resistenza delle popolazioni all'avvento della società di classe. In quel periodo, infatti, la marcia verso la famiglia patriarcale, la proprietà e lo stato era ancora da consolidare e la medicina rispondeva alle esigenze di un mondo in cui la mancanza di salute non era una normalità cui contrapporre un rimedio istituzionale normale. Nella storia, a partire dall'età antico-classica, gli interventi sull'individuo sono stati apporti del mondo greco, il quale aveva introdotto, fin dal secolo VIII a.C., una netta svolta dell'attività medica, resa possibile dall'assenza di un apparato teocratico-sacerdotale come quello delle società "asiatiche" rimaste all'omeostasi, cioè per quanto riguarda il discorso che stiamo facendo, a un sistema in grado di stabilizzare sé stesso per millenni.

Abbiamo dati sul trattamento degli squilibri individuali e collettivi della società antico-classica ma facciamo fatica a ricostruire le teorie e le pratiche necessariamente presenti. La medicina antico-classica affonda le proprie radici nell'Egitto predinastico e diventò un fenomeno durevole, con seguaci ovunque, fino alla rivoluzione illuminista. La Mesopotamia, la Persia, l'Asia erano civiltà completamente diverse rispetto a quella che si era sviluppata in Grecia, dove si era presentata una cesura netta rispetto al passato. L'Egitto era socialmente ben attrezzato per la conservazione delle pratiche empiriche tradizionali centrate sui rimedi. Ad osservare bene si trattava non tanto di una disciplina governata da regole ma di uno sviluppo di strumenti, conoscenze e manuali nati per affrontare la traumatologia sviluppata come corollario al lavoro e alla guerra. La medicina come cura di una ferita.

Uno psicologo americano, Julius Jaynes, di fronte al cambiamento prodotto dal grande collasso in civiltà che avevano conosciuto i giganteschi cantieri e le grandi battaglie che sfornavano abbondante materia prima per il lavoro dei rattoppatori, espose una teoria nel libro Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza. Quest'ultima intesa come risultato di un paradosso logico:

"differenza tra ciò che gli altri vedono di noi e la nostra auto consapevolezza unita al senso profondo che la sostiene. Esseri umani sono stati consapevoli del tema della coscienza solo a partire dalla nascita della coscienza stessa".

La formazione della coscienza, com'è proposta da Jaynes, precede l'uso della stessa per averne consapevolezza. È un classico serpente che si morde la coda. Esso ci obbliga a tener conto di molte discipline come ad esempio le neuroscienze, la linguistica, la psicologia, l'archeologia, la storia, la religione e l'analisi di testi antichi, ma non è soddisfacente per spiegare ciò che sarebbe successo agli antichi. Secondo la tesi centrale del testo, quei popoli non erano originariamente "dotati" di coscienza; questa si sarebbe imposta successivamente all'affermarsi di alcune mutazioni avvenute nello schema di collaborazione tra i due emisferi cerebrali. Le configurazioni che il cervello compila e mostra rendendole compatibili con il materiale di supporto sono certamente possibili e possono dirci molto sulle domande avanzate, ma tre o quattro secoli non sono certamente altrettanto sufficienti a sviluppare una mutazione genetica come quella richiesta da una spiegazione psicologica. È vero che esistono fenomeni mutanti che possono accelerare la diffusione di caratteri genetici, ma archeologia e storia non hanno dato la prova che ciò sia avvenuto. Sarebbe come dire che in relativamente pochi anni si fissò il passaggio da una situazione di sintonia fra uomo e natura a una in cui il crollo della mente bicamerale avrebbe aperto la via al libero arbitrio. Le testimonianze archeologiche, storiche e organizzative giunte fino a noi provano che non è andata così: dal XIII all'VIII secolo a.C. le violente vicende che provocarono il collasso della civiltà mediterranea ebbero infine una soluzione.

I secoli bui del Tardo Bronzo lasciarono il posto alla civiltà ellenica che, per la prima volta, si allargò e radicò su di un territorio in cui gli elementi unificanti del linguaggio, dello stato, della religione, della sovrastruttura e della scienza si imposero formando la base per la nascita della conoscenza razionale. Ciò che era venuto prima non poteva coesistere, e le nuove forze si scontrarono con l'Impero persiano, rappresentante di un modo di produzione precedente. Con l'Egitto, che non era un impero ma una forma sociale più antica di quella persiana, vi fu un rapporto diverso: quello egizio non era il modo di produzione precedente a quello greco (antico-classico) ma risaliva alla transizione "asiatica". Tra Egitto e Grecia non poteva esserci scambio di conoscenze, e quelle ereditate dai Greci furono in parte trattate come magia, in parte come esempio pragmatico di sanità diffusa. L'armonia egizia fu trattata dai Greci non come risultato di una società organica, metabolica, ma come risultato dell'efficacia di particolari metodi e preparati. È perciò di grande importanza il confronto dell'uso di conoscenze simili in contesto sociale diverso. Per moltissimo tempo la medicina egizia fu alla base della medicina di altre regioni di quell'area, fino alle sopravvivenze ritornate in auge nel Rinascimento italiano.

La cassetta degli attrezzi

Il materiale per lo studio della società egiziana antica non manca. I giganteschi cantieri organizzati per la costruzione degli altrettanto giganteschi monumenti ci permettono di ricostruire la struttura della "sanità" egizia. Tutto era meticolosamente progettato: dalla dieta dei lavoratori, che variava a seconda dell'energia necessaria a svolgere compiti specifici, alla presenza di esperti nel campo dei vari traumi da cantiere. La gestione centralizzata e la diffusione capillare delle conoscenze per contrastare l'espandersi del caos danno effettivamente l'impressione di un apparato sociale controllato dallo stato. Sennonché un egiziano antico non aveva alcuna possibilità di mettere insieme le conoscenze necessarie a definire lo stato; perciò, tutto rientrava nella necessità di non contrastare l'armonia, cioè l'omeostasi millenaria.

Il medico egizio non lavorava su di un elenco di malattie derivante da un'esperienza storica accumulata. Non identificava una malattia indagando sull'esistente ma di volta in volta lavorava sulle cause dei sintomi specifici. Secondo questa prassi, il malato non era preda di una patologia classificata che richiedesse una cura classificata, perciò la cura stessa era applicata per neutralizzare l'influsso di qualcosa di esterno. Il medico egiziano antico, ancora legato alla cosmogonia della Maat, applicava una magia più che una scienza. La sua eccezionale capacità di guarire, cioè di contrastare gli influssi negativi, riconosciuta dai Greci era dovuta forse all'organizzazione e alla tradizione igienica più che a una (non) scienza da noi oggi chiamata medicina.

Dai sintomi descritti nei papiri gli archeologi hanno ricavato gli elenchi di sintomatologie curate dagli Egizi. La sabbia del deserto, l'acqua stagnante e l'alta temperatura favorivano la standardizzazione delle patologie agli occhi, ai polmoni, ai denti e alla pelle. Esistono lunghi elenchi di prodotti e sostanze usati nelle ricette per le varie sintomatologie, ma per lo più i nomi delle "malattie" egizie li abbiamo scritti noi.

Su di una parete del tempio di Kom Ombo nell'Alto Egitto è scolpito in bassorilievo un completo di strumenti che assomigliano a quelli del chirurgo, accompagnato da due elenchi di sostanze che assomigliano a ricette. La scultura è presentata ai turisti come prova dell'abilità egizia in campo sanitario, anzi, il tempio è famoso proprio per la presenza di questo documento. Recentemente l'ipotesi sanitaria è stata messa in dubbio: non c'è nulla nelle figure e nel contesto che possa essere riferito a pratiche mediche, né dal punto di vista della funzionalità né da quello della religione. Eppure, per generazioni si è argomentato sulla "valigetta del chirurgo" senza precisare che quella è solo un'ipotesi e che i "ferri" assomigliano dannatamente a quelli di uno scultore o cesellatore, e le ricette a quelle di un preparato magico non necessariamente legato alla salute, ad esempio un cosmetico. Più che una pratica estetica la cura del corpo era considerata parte della vita, si pensi anche soltanto all'enorme attenzione verso le cerimonie funerarie legate al trapasso e alle formule segrete per l'imbalsamazione.

Figura 1. Iscrizione nella parte nord del recinto esterno del Tempio di Kôm OmboFigura 1. Iscrizione nella parte nord del recinto esterno del Tempio di Kôm Ombo, II secolo a.C., Alto Egitto vicino ad Assuan.

L'Egitto antico è un buon punto di osservazione per lo studio delle transizioni socioeconomiche di fase ovvero delle rivoluzioni, non solo per la questione della salute. È un organismo sociale particolare, che registra, cinquemila anni fa, conoscenze, metodi e discipline propri delle grandi civiltà di transizione precedenti e li sistematizza in una forma avanzata. È per questo che continuiamo la ricerca sul lascito della nostra corrente di riferimento, in cui ha importanza imprescindibile lo sviluppo del lavoro di Marx sulle forme che precedono la società capitalista. Una buona padronanza dei temi in oggetto facilita l'approccio generale e introduce sicurezza nei vari passaggi della ricerca.

La struttura della società egizia, sviluppata in condizioni di isolamento sulle rive del Nilo, ci offre un quadro particolarmente incontaminato di transizione di fase. Nasce quasi di colpo cinquemila anni fa con tutti i criteri utili allo sviluppo di quello che può essere considerato un paradigma: durante i tremila anni della sua storia sviluppò tutte le tecniche conosciute, ad esempio quelle legate all'edilizia, memorizzandole sistematicamente per iscritto. La trasmissione della conoscenza tramite scrittura di un testo (del tipo "uno a molti") e il buon funzionamento delle biblioteche delle "Case della vita" (trasmissione "molti a uno") permisero di realizzare una società omeostatica mirabilmente organizzata. Per tremila anni questa società funzionò benissimo, riuscendo a fagocitare i rari conquistatori stranieri. Congelò anche lo stile dell'arte, che esprimeva un'eleganza estetica evidentemente suggerita dai rapporti sociali.

Ma un conto è costruire piramidi, un altro è occuparsi degli stati psicofisici di un essere vivente. Nessuna concessione al vitalismo, per carità, solo diversi livelli di complessità, ma l'Egitto antico riuscì a esprimere il suo funzionamento metabolico attraverso un perfezionato trattamento riduzionistico della mancanza di equilibrio in certi frangenti dell'esistenza di un essere vivente. Non riuscì mai a superare l'aspetto magico in medicina, retaggio del modo di produzione precedente.

Erodoto definì l'Egitto "terra dei sanissimi" e Omero "terra in cui la natura produce moltissimi farmaci e dove ogni persona è un medico". Nel 2700 a.C. Imhotep, visir del faraone Djoser, architetto, astronomo, sacerdote (e in quanto tale anche medico) fu divinizzato e adottato dai Greci con il nome di Esculapio. Ovviamente "divinizzato" non significa "trasformato in dio" ma "posto in armonia con tutti gli altri nether", quelle entità che, riferite a una società da noi oggi etichettata sbrigativamente politeista, erano una connessione naturale tra gli uomini e il Cielo, cioè due parti dell'universo, rappresentate nella significativa cosmogonia che qui riproduciamo e che viene ripetuta con poche varianti per millenni.

Figura 2. Papiro Greenfield, Shu, al centro sopra a Geb (la terra) mentre sostiene Nut (il cielo)Figura 2. Dettaglio del Papiro Greenfield, il Libro dei morti di Nesitanebtashru circa 950 a.C., raffigurante Shu, al centro, in piedi sopra a Geb (la terra) mentre sostiene Nut (il cielo), assistito da una coppia di divinità Hehu dalla testa d'ariete. British Museum, Londra.

Nut, il Cielo, e Geb, la Terra, erano in origine una cosa sola. Il dio Ra, il Sole emerso dalle acque primordiali, origine della complessità, affidò a Shu il compito di rompere l'unità originaria, cosa che questi fece sostenendo il cielo con un atto che ricorda la fertilità. Tutta l'iconografia egizia va letta tenendo conto di questi processi: nella figura non vi è per nulla una "separazione", ma un'evoluzione dell'unità antica. Non possiamo del tutto evitare l'uso di parole attuali per esprimere concetti antichissimi, ma il criterio per l'interpretazione è questo: un'invarianza attraverso una trasformazione, concetto topologico già più volte incontrato nel nostro lavoro.

Abbiamo ritenuto necessaria questa minima parentesi sulla ricerca delle origini perché le società immobili nel tempo, cioè fissate con i caratteri della forma sociale precedente, conservano alcuni caratteri comunistici e ne anticipano altri. Il detto cinese secondo il quale il medico del villaggio dovrebbe essere remunerato quando gli abitanti sono tutti sani, anziché arricchirsi quando cresce il numero dei malati, non rende l'idea delle implicazioni. Troppo lontano è il tempo in cui nessuno era remunerato, nessuno si arricchiva in società che non conoscevano i processi generati dall'esistenza del denaro.

Non si possono capire le società pre-stato e pre-denaro se non si arriva a comprendere che l'unità di livello n è sempre lo stadio che precede l'unità di livello n+1. Ogni rivoluzione è il risultato di un assioma: se n è un numero, esso ha sempre un successore.

La parentesi ci offre lo spunto per vedere anche sotto questo aspetto la dinamica del passaggio dal prima al dopo la comparsa della malattia. La vecchia questione dell'uso del linguaggio di una certa epoca per descrivere le caratteristiche di un'altra è più distruttiva del piccone che annienta gli strati archeologici superiori per andare a scoprire quelli più profondi. Sempre parlando dell'Egitto, capita di leggere che funzionari specializzati chiamati medici venivano cooptati nell'apparato statale inteso come una monarchia assoluta con al vertice il faraone-re. Il quale, garantendo l'assistenza sanitaria statale ad ogni cittadino, anticipava una forma di welfare. Ogni attività era sotto controllo, quindi era come se ci fosse una pianificazione delle grandi opere in sintonia con la produzione e la distribuzione del cibo, e quindi con forme di prevenzione invece che di cura, non solo per quanto riguarda la salute ma anche per quanto riguarda l'economia in generale. Siamo sempre lì: per fare prevenzione contro la malattia bisognerebbe conoscere la causa della malattia stessa. Da questo punto di vista l'alimentazione egiziana, particolarmente curata, era la medicina inconsapevole quotidiana. Esiste un'iconografia vastissima sulla cucina, sontuosa, elaborata, sana, bilanciata e abbondante. Si capisce subito che la dieta egizia era frutto di tradizione, esperienza e tecnica. Carboidrati, grassi, proteine e altri alimenti andavano a costituire una piramide alimentare adatta all'ambiente, variabile a seconda del lavoro svolto. Non discendeva dai concetti di salute, medicina, prevenzione. Era una regola di vita che, essendo funzionale a un certo tipo di società, era stata codificata e tramandata come conservazione. Di fronte a un'abbondantissima produzione grafica sul cibo e la sua preparazione, non è mai stata trovata una ricetta scritta di "cucina egizia". In compenso, tra le migliaia di libri sull'antico Egitto ce ne sono tanti con ricette, ma li abbiamo scritti "noi". Si potrebbe dire: si tratta di ricette figurate. No, nel ciclo di lavorazione di un bovino, da vivo ad alimento, attraverso la macelleria la pentola e tutto il resto, è illustrato un aspetto della produzione sociale, non una ricetta. Una società che giunge allo stadio omeostatico non ha bisogno di ricette, ha bisogno di non perdere ciò che ha conquistato. La rottura rivoluzionaria è questa: arrivare al punto di sovvertire la società per non perdere ciò che si ha. È una contraddizione, ogni rivoluzione deve passare di là. Se non si viene a formare questa rottura logica la società siasiatizza. E può durare tremila anni.

L'Egitto, relativamente isolato dai deserti si stabilizzò su di un modello funzionale tanto potente da inglobare modi di produzione più avanzati. Nel campo che qui ci interessa, la Grecia rappresentò un'eredità in parte egizia, in parte innovativa. Se leggiamo Il crollo della mente bicamerale di Jaynes non come risultato di un conflitto fra forme mentali ma come successione di forme sociali vediamo quale grande importanza desse Marx alla dissoluzione delle società precapitalistiche. Sul piano storico l'Egitto fa fronte all'ellenismo alessandrino trasformando gli invasori greci in una dinastia faraonica (tolemaica). La stessa Romanità subisce l'influenza egizia per alcuni decenni, ma ormai le forze in gioco sono a favore della società antico-classica che per emergere in tutta la sua potenza adopera le formidabili legioni di Roma.

Pesante eredità

Noi siamo ancora eredi della medicina greca. Quest'ultima si precisa e si rafforza in ragione puramente classista e adotta il concetto di malattia, perciò di medicina come rimedio. L'eziologia, cioè lo studio delle cause della malattia, è già in fase avanzata, anche se, non essendo ancora suffragata dall'anatomia in quanto disciplina separata, manca la conoscenza specifica della funzione degli organi. Nonostante ciò, si pratica normalmente la chirurgia. Il tempio, dedicato a una divinità, è il luogo dove i sacerdoti preparano il malato all'incontro con la divinità, preferibilmente nel sonno, attraverso i sogni. La malattia, già individuata come tale, richiede una cura sperimentata, quindi l'accesso a prontuari standardizzati, anche se l'origine locale non li rende coerenti se confrontati.

Vi è anche un largo strato di medici che pratica la propria arte a domicilio. Quasi inesistente all'inizio della civiltà ellenica, si autoidentifica dapprincipio come insieme di mestiere. Si precisa più tardi come classe media nell'ambito dello sviluppo della proprietà, eccetera. È uno strato che oggi definiremmo "laico", e finisce per determinazione materiale ad essere guardiano della salute nella casa delle classi abbienti. I medici di questo tipo sono già attestati nel periodo omerico, ma, date le caratteristiche del passaggio miceneo, come abbiamo visto, non dovevano essere numerosi. Nella produzione ceramica greca compaiono figure di guerrieri che curano le ferite di altri guerrieri, molto famosa quella di Achille che fascia le ferite di Patroclo. Lo sviluppo delle città-stato permetterà alla categoria di riconoscersi come unitaria e omogenea, di darsi un programma comune (come discendenti di Imhotep/Esculapio) e di tramandare la loro conoscenza da maestri a discepoli.

Tra i santuari e la medicina laica si collocano molte specie di guaritori che si basano sul residuo ricordo del modo di produzione precedente: esorcisti, maghi, sciamani, operatori di incantesimi svolgono la loro opera sulle piazze dove sanno di essere attesi. Non sono soltanto gli eredi delle tradizioni orientale e nordica dello sciamanismo, sono il mezzo di trasporto attraverso il quale antiche tradizioni resistono al nuovo corso di classe. Nessuno dei protagonisti di quest'avventura è cosciente di ciò che sta succedendo, troppo grande è il divario fra le classi e anche fra gli strati all'interno delle classi. Troppo difficile capire il momento storico, più complesso di quanto percepissero i suoi osservatori. Ma intorno al V secolo a.C., il cervello collettivo dà vita a una prima rottura con l'esistente.

Da questo punto in poi si può parlare di medicina in senso sviluppato. La disciplina si fonda su conoscenze condivise da un sodalizio che le organizza in base a un programma. Il medico è in possesso di tecniche e conoscenze razionali per applicare una terapia che, a parte le differenze fra le varie scuole, è indipendente dagli altri rami della conoscenza. Ciò vuol dire indipendente sia dalla divinità che dal comportamento magico degli uomini, residuale, ma persistente. Ma vuol dire anche indipendente dalla scienza.

Il quadro patologico in cui si inquadra il paziente deve derivare da uno studio logico-razionale della sintomatologia, e di conseguenza la previsione di un futuro in cui la malattia è scomparsa, il paziente guarito, comporta una visione dinamica. Questo processo si compone di tre precisi passaggi che d'ora in poi si fisseranno stabilmente in tutto l'arco millenario che va dalla Grecia micenea a oggi. Tre passaggi fondamentali, separati ma inscindibili che sono l'anamnesi, la diagnosi e la prognosi, cioè la ricerca dell'origine del male nel passato, l'individuazione del tipo di malessere nel presente, il percorso futuro del medico insieme con il paziente per eliminare la malattia.

L'anamnesi è il metodo utilizzato nella prima fase del processo diagnostico. Si tratta di un'indagine analitica, una raccolta di fatti tramite il racconto diretto del paziente o di chi gli è vicino. Va da sé che il risultato sarebbe del tutto soggettivo se non intervenisse l'esperienza del medico a inquadrare i fatti secondo una teoria e una procedura, un protocollo condiviso. Ma in realtà più il medico è esperto, più ha approfondito la propria conoscenza sugli eventi che hanno caratterizzato la vita del paziente, più si trova a fare i conti con il problema della soggettività. Più è bravo, più contribuisce a fissare nella teoria e nella prassi lo stato della medicina in un certo periodo storico, in una certa area geografica. Nell'Antichità e nel Medioevo sono nate scuole sulla base delle ricerche e dell'esperienza riferite a un solo medico.

La diagnosi è il metodo con cui si cerca di individuare i punti di contatto fra i dati così raccolti e sommariamente elaborati (mentalmente, tramite computer o altro) e una categoria di fenomeni conosciuti e certi, o almeno altamente probabili. Il medico impegnato in un processo diagnostico sfrutta in modo evidente, consciamente o meno, concetti riconducibili alla teoria della probabilità. Ciò pone la diagnosi al confine instabile fra ordine e caos: da una parte la statistica utilizzata nei processi conoscitivi è possibile solo perché il quadro analizzato è una conseguenza di catene deterministiche riconducenti al fenomeno sotto osservazione a partire da cause remote; dall'altra il residuo di incertezza è alto e influisce di conseguenza sugli esiti dell'intero processo. Simulazioni di diagnosi eseguite con "sistemi esperti" basati su "intelligenza artificiale", realizzati con il ricorso a potenti computer e montagne di dati statistici (computer learning), sono già in grado di formulare diagnosi più precise e affidabili di quelle dei medici. Il computer è intrinsecamente superiore al cervello umano nell'elaborazione di dati raccolti su data-base relazionali in quantità qualsiasi, ma è per il momento incapace di affrontare la complessità del vivente attraverso una valutazione delle diverse risposte date dall'uomo ai quesiti che scaturiscono dalla prassi. Se sottoponiamo lo stesso problema a cento computer avremo cento risposte uguali; se lo sottoponiamo a cento uomini avremo cento risposte simili, analoghe, affini ma irrimediabilmente diverse. Ciò è assai fastidioso quando si tratta di affrontare problemi che hanno a che fare con la precisione. In questo caso, riconducendo il problema alle sue origini, possiamo affermare che l'esperienza che si accumula in campo medico si presenta come un dato scientifico perché produce statistica trasformabile in processi quantitativi; ma non è così. Non conoscendo i meccanismi che originano la malattia, non possiamo conoscere la malattia stessa e nemmeno il modo di interpretare la relazione tra gli innumerevoli fattori che la contraddistinguono.

Ovviamente il problema della salute nella società umana non è semplicemente tecnico. Non si tratta soltanto di trovare gli algoritmi sui quali fondare modelli che permettano di ricavare dati utili al calcolo. In campo biologico bisogna tener conto dei passaggi analogici, delle manifestazioni del continuo che costringono gli scienziati a escogitare espedienti per normalizzare il digitale.

La materia vivente è in grado di rispondere a sollecitazioni di intensità energetica infinitamente bassa con un minimo dispendio di energia, in competizione con le macchine.

La prognosi (dal greco "sapere prima, prevedere") è un esercizio di previsione sul probabile decorso della malattia. Viene desunta dal medico una volta definita la diagnosi, prendendo in considerazione l'usuale tempistica di guarigione, le condizioni del malato, le possibilità terapeutiche, le possibili complicazioni o le condizioni ambientali.

DIAGNOSI (IDENTIFICAZIONE)

Conoscenza imperfetta, probabilità delle cause

Storicamente parlando, l'accumulo di esperienza nel campo della salute della nostra specie è composto di due dati contrastanti: una enciclopedia cronologica di particolari trattabili con metodo riduzionista classico, e una narrazione basata su esperienze empiriche sottoposte bene o male a un metodo che viene indebitamente paragonato a quello scientifico solo perché prevede il determinismo delle cause, l'uso delle teorie probabilistiche e la sperimentazione. Oggi, in entrambi i casi, il ricercatore tratta separatamente questi elementi di conoscenza non perché sia convinto che questo procedimento sia corretto ma semplicemente perché non può far altro. Egli è parte del sistema, deve orientare la ricerca verso coloro che quella ricerca hanno stimolato, cioè gli utenti finali, cioè i pazienti presi in consegna dalla grande industria chimico-farmacologica. La merce "farmaco" (discreta, a prezzo unitario per esemplare) più la merce "sistema sanitario" (continua, a canone temporale) formano un tutto inscindibile che si compenetra nel generale insieme rappresentato dal modo di produzione capitalistico. Entro questo insieme di livello superiore, il sotto insieme "salute" rappresenta un modello astratto che riproduce, data la concatenazione degli elementi costitutivi, l'interrelazione fra i livelli del sistema.

La teoria della probabilità in campo sanitario serve per calcolare quanto sia possibile che una causa provochi l'evento analizzato. Possiamo calcolare, sulla base di serie storiche di dati, quanto sia probabile che una persona si ammali di una determinata malattia in ambiente e condizioni date. Per esempio, si può calcolare la probabilità che una certa persona soffra di una determinata malattia conoscendo la frequenza con cui questa si presenta e la percentuale di efficacia del test diagnostico.

L'evoluzione delle metodologie diagnostiche è avvenuta in parallelo all'applicazione di metodologie probabilistiche. La raccolta di opere attribuita a Ippocrate, ma certamente scritta a più mani in tempi diversi dal IV al V secolo a.C., è importante e unica per quel periodo storico. La diagnostica vi è intesa come processo di conoscenza delle condizioni materiali pregresse, una cronologia come accumulo di esperienza applicata in luogo della sola analisi del soggetto e della sua vita privata. Il medico diventa non solo il confessore indovino e psicologo ma un interprete, anche se non ancora in grado di formulare teorie allo scopo, di un sistema con diverse interrelazioni al suo interno. Anche il mago e l'indovino sollecitavano con le loro proposte di cura l'organismo del paziente a collaborare per la guarigione, ma adesso il medico lo fa a prescindere dal fatto che vi fossero forze esterne divine, magiche o di altro tipo. La chiamata in causa del corpo malato per ottenere la guarigione con le proprie forze ricorda le moderne indagini intorno alla complessità e la presenza nella materia di capacità autopoietiche, paragonate all'effetto bootstrap in informatica (sollevarsi da terra tirando i lacci degli scarponi), un fenomeno che trae sostentamento da sé stesso. Certo, l'uomo del V secolo a.C. non poteva ragionare in quel modo, ma evidentemente l'esperienza accumulata e il successo ottenuto avevano plasmato le metodologie e le conoscenze che si erano poi fissate nel corpus della disciplina medica ippocratica.

Secondo questo corpus, la forza creatrice della Natura si fonda sulla capacità della Natura stessa di riarmonizzare ciò che per vari motivi è andato fuori posto ("La natura è il medico delle malattie, il medico deve solo seguirne gli insegnamenti"). Occorre imparare, insomma, a padroneggiare il rimedio, non a inventarlo. Sembra di capire che Ippocrate fosse convinto del fatto che non sono le patologie a provocare le disarmonie ma sono le disarmonie a provocare le patologie. Se sviluppiamo lo studio sul compito del medico in quest'ottica dobbiamo riconoscere dignità di scienza alla magia, alla religione, allo sciamanesimo, alla divinazione e altre discipline tipiche del mondo senza malattia. Non è ancora il rovesciamento della prassi che prendiamo in considerazione tutte le volte che nel progetto si verifica una incongruenza fra i fini e i mezzi, ma gli si avvicina: tale principio lo vedremo in azione più avanti, quando parleremo delle tendenze odierne in campo medico.

Ippocrate fu il primo a proporre quella che sarebbe diventata la cartella clinica: il paziente andava osservato e studiato memorizzando una dinamica in modo che gli insegnamenti dell'esperienza non andassero perduti. Occorreva registrare non solo l'aspetto esteriore dell'ammalato ma ricavarne i sintomi di quel che poteva succedere all'interno del suo organismo. In questo modo, pur senza poter sviluppare una teoria, Ippocrate adoperò per primo i concetti di diagnosi e prognosi. Pensava insomma che la malattia fosse soprattutto il risultato di un modo di vivere. Ciò in teoria anticipava l'odierna prospettiva medica, ovviamente però in un contesto di classe in cui allora e oggi si poneva e pone: nelle antiche società la prassi era ancora guidata da elementi oggettivi; nella nuova, capitalistica, la prassi è soffocata dalla soggettività del denaro e di chi lo possiede.

Ma attenzione, non si tratta soltanto di un orientamento dovuto alla mercificazione della vita, bensì di una sostituzione: al tempo di Ippocrate il medico si preoccupava dell'individuo come cellula di una società non ancora completamente disorganica in cui quell'individuo si muoveva; oggi l'individuo-cellula è considerato persona, cioè elemento giuridico unico e libero, capace di orientarsi nella superstizione di massa ancora grandeggiante. Sotto indicazione del medico, certo, ma in base a una conoscenza ribaltata. Così la sacra persona con il suo libero arbitrio si affida a un medico che in proporzione ai mezzi (teorici, economici, strumentali) ne sa meno di Ippocrate, per avere diagnosi e prognosi elaborate in base a un teorema statistico.

Se tale prospettiva è tutt'oggi tipica della pratica medica, la varietà dei fenomeni che Ippocrate chiama in causa (dietetici, climatici, psichici o sociologici) suggerisce un'insuperata ampiezza di orizzonti. Anche perché la necessità di una considerazione globale valeva anche in senso inverso: ogni elemento della natura umana aveva ripercussioni sull'esistenza del singolo.

Evidente. Sotto l'influenza delle prime osservazioni scientifiche compiute in area ionica (Talete, Anassimandro) egli aveva rivalutato la capacità di osservazione tipica dei primi medici itineranti, ricordati nei poemi omerici. Ma se da una parte stimava tale approccio sperimentale, ritenendo che grazie ad esso la natura avrebbe potuto essere conosciuta, dall'altra criticava chi non integrasse le osservazioni empiriche in una cornice scientifica complessiva, la sola che fosse in grado di mettere ordine nella inesauribile capacità della natura di dar vita a un'infinita varietà dei fenomeni con i quali il medico si deve scontrare. Solo una conoscenza di tipo universale rende il medico universale a sua volta.

Per il medico greco esisteva una fisiopatologia facente leva sulla totalità delle cause, una vera e propria dottrina degli umori che permetteva di definire un quadro strutturale dell'organismo del paziente la cui patologia era strettamente correlata con l'ambiente naturale in cui viveva, l'igiene, il clima, l'occupazione, il lavoro, insomma la vita, con le condizioni igieniche e meteorologiche, non ultimo l'assetto politico della società (gli ippocratici consideravano la democrazia greca come la migliore forma sociale e il dispotismo asiatico come un sistema patologico).

Non diremo che per questo aggancio alla natura la concezione di Ippocrate sia "avanzata", "moderna" o qualcosa del genere, inerente alle teorizzazioni olistiche d'oggi. È vero invece che essa è in massima parte fondata su di un rapporto antico, con il cibo al centro dell'attenzione pratica e dell'elaborazione teorica. Gli dèi sono ancora di gran lunga i dispensatori di grazia, benessere e malanni; perciò, la medicina è del tutto inefficace in presenza di forme epidemiche di contagio. La dissezione non è praticata e l'anatomia si ferma alla forma esterna del corpo. La cura delle ferite profonde è meglio conosciuta di quella degli organi malati; perciò, la chirurgia è meglio praticata della medicina. Sono ignoti i fatti legati al sistema nervoso, alla circolazione del sangue, alle funzioni del cuore.

La lunga transizione

In campo medico è difficile trovare un punto di svolta, una biforcazione decisiva tra il mondo antico e quello medioevale, poi tra quest'ultimo e quello capitalistico. Le conoscenze si accumulano in parallelo alle sopravvivenze delle antiche forme sociali. L'ellenismo porta con sé un notevole fermento. Nel campo della conoscenza biologica la medicina sposa la filosofia, e le maggiori "scoperte" che si registrano in questo periodo non arrivano dal fronte medico ma dalla scuola di Aristotele (Teofrasto, Erofilo, Stratone, Erasistrato). In questo ambiente nasce la fisiologia poggiata su un robusto ricorso alla dissezione. Ora l'anatomia permette di esplorare il mondo animale con relativa conoscenza comparata della funzione degli organi. La filosofia meccanicista materialista di scuola aristotelica ha ovviamente notevole influenza. Si fa strada l'idea che gli organismi siano formati da atomi organizzati in strutture di due tipi entrambe patologiche: una eccessivamente costipata e l'altra eccessivamente rarefatta. Ricomponendo l'armonia fra questi due poli può essere curata qualsiasi malattia. Farmaci e prescrizioni varie servono soltanto a coadiuvare il processo unificante. L'organismo del malato è predisposto. È chiaro che siamo di fronte a un buon tentativo di scienza: le scuole empiriche e quelle metodiche si affrontano sul piano di un'astrazione, cioè della necessità di superare la mera osservazione dei fatti e il sedimento di un'opinione individuale che poco per volta diventa teoria.

Oggi si può sorridere con sufficienza di fronte a costipazione e rarefazione nello stesso momento in cui, con tranquilla indifferenza, si può aderire acriticamente a pratiche e teorie alla moda che sono significative per ciò che le fa emergere, ma sono anche piene di insidie: è come se la riscoperta di tracce delle antiche carovaniere che si intersecavano nei loro punti di sosta ci rivelasse l'intero sistema della rete carovaniera e noi insistessimo, scavando fra le rovine, che bisogna tornare ai bio-cavalli e bio-cammelli perché hanno un rendimento più alto in termini di energia dissipata. Le reti carovaniere non erano affatto strutture casuali e assolvevano il loro compito con competenza ed efficacia. Non è assolutamente così per le moderne vie seguite dalla produzione di merci, dalla forza lavoro, dalle macchine e dai farmaci alternativi.

L'omeopatia, la medicina ayurvedica, la prano-terapia, l'ago-puntura, la macrobiotica, lo yoga, la fitoterapia, la chiroterapia, il tai chi, lo shatsu, l'ipnosi, la piramidologia e altre discipline fatturano nel mondo un migliaio di miliardi di dollari; perciò, non sono in vera competizione con lo zoccolo duro del PIL mondiale che assomma a 94 volte tanto. Semmai assorbono energie dall'ambiente pasticcione e approssimativo del capitalismo nel suo insieme, aggravando le già notevoli difficoltà di accumulazione.

Il problema della salute va dunque inquadrato nella capacità sociale di risolvere veramente i problemi e non solo di proporre dei rimedi che sono la classica toppa peggiore del classico buco. Oggi come ieri tutti concordano nel dire che la prevenzione è più importante della cura. Ma è una mezza verità, se non si sa esattamente che cosa succede quando il nostro corpo si ammala. Gli antichi, da Ippocrate in poi, risolvevano la questione sostituendo la conoscenza certa con l'ipotesi filosofica (o religiosa). Per un paio di millenni, prima che il Rinascimento rivoluzionasse la filosofia antico classica, in Occidente prevalse la conoscenza fortemente influenzata dalla filosofia, una specie di omeostatizzazione dell'arte medica sotto la bandiera della religione. Naturalmente faremmo una semplificazione indebita se non precisassimo che filosofia, tecnologia o costume fanno parte di un mondo in evoluzione incessante punteggiata da rivoluzioni. Ma qui l'obiettivo nostro non è tracciare una storia della medicina bensì inquadrare il fenomeno per capire quale sarà il risultato della sua evoluzione-rivoluzione in presenza di una società completamente diversa da quella odierna.

Galeno di Pergamo, vissuto nel I secolo della nostra era, è senza dubbio uno di quei personaggi che certe epoche producono in parallelo allo sviluppo delle conoscenze. Il programma di Galeno, che sia frutto di determinazioni inconsce o vero progetto non importa, è teso a collocare la professione medica nel filone della nascente scienza. Collocare la sintesi galenica in un quadro preciso che racchiude anche la filosofia e la pratica del periodo storico è piuttosto complicato. Bisogna tener conto della differenza fra scuole, cioè tra quella ippocratica e quella aristotelica, differenza che si può tradurre in uno di quei modelli odierni che permettono la comprensione della "complessità".

A noi basta individuare un crescendo storico-evolutivo che ci permetta di capire come in futuro si svilupperà la conoscenza pregressa. La fisiopatologia anatomica e umorale di Ippocrate aveva portato al riconoscimento del valore di una conoscenza empirica e teoretica alla base, come abbiamo visto, della grande trilogia Anamnesi-Diagnosi-Prognosi. Prima che i medici lo avvertissero, si era configurato un tutto in evoluzione-rivoluzione. Da una parte la strumentazione conoscitiva che permette la pratica della disciplina medica (ippocratismo), dall'altra una sorta di meccanicismo anti-finalistico. Insieme, la base teorica per l'unificazione di due rami della conoscenza che sembrano incompatibili, ma producono risultati che saranno considerati validi per un millennio.

Galeno entra in scena come una bomba: la sua preparazione scientifica avviene alla scuola del Museo di Alessandria e quella empirica si forma nelle caserme dei gladiatori a Pergamo, dove la qualità delle ferite lo obbliga a tener conto imprescindibilmente dell'anatomia. È in tale contesto che matura l'esigenza di superare quelli che egli ritiene difetti teoretici. La sua esperienza decisiva è a Roma, dove diventa medico personale degli imperatori Marco Aurelio e Commodo. Un greco nato e cresciuto a Pergamo, formato ad Alessandria e diventato potente nella più grande capitale del mondo non poteva che assorbire le determinazioni di quell'epoca, a partire dalla necessità di fare un bilancio dell'esperienza del passato. Ed egli lo fece in 4.000 opere, delle quali solo un centinaio sono sopravvissute.

Si capisce che gli incontri fra gladiatori, giunti a quell'epoca alla loro massima espressione e praticati in luoghi dove si concentravano considerevoli masse umane che si comunicavano informazione. E siccome gladiatori e legionari erano veicolo di superstizioni e religioni cui si rivolgevano per scongiurare il rischio quotidiano della morte, il loro ambiente favoriva più la pratica della magia che non quella della scienza.

La transizione galenica

Il grande lavoro di Galeno è stato quello di riportare la medicina nell'ambito scientifico, che allora coincideva in molti aspetti con quello filosofico. Rispetto a quest'ultimo il Museo di Alessandria aveva privilegiato l'aspetto empirico per cui la professione del medico era poco per volta scivolata verso un limbo tecnico più congeniale ai Romani che ai Greci.

La quantità di opere galeniche giunte fino a noi è una frazione fra quelle tradotte nelle lingue più diffuse nei vari secoli ma è sufficiente a suggerire quali fossero le determinazioni cui abbiamo accennato. Nel II secolo d. C. Roma era possente, ma non aveva un retroterra storico ed epistemologico paragonabile a quello che il mondo greco poteva gettare sul piatto della bilancia. Così la grecità si era difesa cercando di non farsi fagocitare dall'esuberante romanità. Il riduzionismo galenico non era la stessa cosa del riduzionismo latino: se Roma era la città più grande e potente del mondo, al secondo e terzo posto c'erano le greche Alessandria e Siracusa. L'espansione dell'Islam aveva poi favorito le traduzioni in arabo durante molti secoli.

Galeno aveva una notevole conoscenza del corpo umano, quale poteva essere quella conseguita applicando la metodologia filosofica alessandrina mediata dalla tecnica. Il risultato di questa sintesi era una descrizione del corpo come insieme di organi differenziati in quanto svolgenti una funzione differenziata. Ciò rappresentava un notevole passo avanti sia rispetto ai risultati raggiunti dalla scuola alessandrina, sia rispetto alle concezioni precedenti: l'approccio teoretico era nuovo ma non si era persa del tutto la concezione "olistica" pre-medicina; si sottolineava un riduzionismo di fatto ma si rafforzava la conoscenza dell'interazione fra gli organi.

Galeno non sarà stato ovviamente l'unico ad applicare questo tipo di conoscenza. Quando i veri cambiamenti spingono per imporsi, essi "sono nell'aria" e trovano le vie adatte. Le enunciazioni galeniche sui complessi ossei, nervosi, vascolari, muscolari, sono state considerate valide fino al Rinascimento, l'epoca dei grandi anatomisti, che influenzarono i grandi artisti (e viceversa). Esse non potevano che scaturire da una conoscenza profonda degli organi in quanto tali ma anche in quanto parti di un sistema. Stupisce a questo proposito quanto sia precisa la descrizione del cervello come parte essenziale del sistema nervoso sensorio, del cuore e del fegato come sede dei processi di formazione e circolazione del sangue.

La coesistenza in Galeno di una puntigliosa conoscenza di osservazioni anatomiche avanzate e di teorizzazioni filosofiche antiche può essere attribuita senza eccessive forzature alle condizioni storiche del Medioevo feudale che avrebbe ereditato e conservato quel tipo di conoscenza. L'insieme degli organi risponderebbe ad attitudini naturali, ma nello stesso tempo avrebbe a che fare con l'esistenza di un'anima, ecc. ecc.

Anche Cartesio, più tardi, avrebbe identificato un organo come sede dell'anima. Non ci addentreremo nei particolari, non è questo il nostro compito. Noi ci limiteremo a sottolineare quella che abbiamo chiamato "struttura frattale delle rivoluzioni", cioè il passaggio di residui antichi in contesti moderni e la comparsa anticipata di saggi di futuro in società presenti. La terapia galenica è prevalentemente dietetica. Essa dev'essere orientata a eliminare gli squilibri prodotti nell'organismo da fattori climatici, ambientali o comunque morbosi. Siamo di fronte a una concezione tecnica moderna che si accompagna a residui di concezioni filosofiche antiche. E il fatto non va sottovalutato: si impone per 13 secoli e qualche reminiscenza dura tutt'ora. Anzi, la medicina moderna sta maturando ipotesi che, per non essere ambigue, possono essere collocate solo in un contesto rivoluzionario, cioè come voce del programma immediato della rivoluzione di specie.

Le conoscenze mediche organico-biologiche di Galeno conobbero una decadenza durante i secoli successivi, senza che venissero sostituite da altre. Il Museo di Alessandria non fu in grado di impedire tale regresso, anzi, ne fu in parte responsabile. La crisi dell'Impero Romano comportò, fra l'altro, la scomparsa della figura di medico in quanto uomo di scienza filosoficamente impegnato. La scuola di Alessandria sopravvisse fino al VI secolo e a Bisanzio alcuni secoli in più, tanto da permettere la ripresa della disciplina medica nel secolo XII in Italia e altrove.

Liberaci dal Male

Il Medioevo medico è fortemente influenzato dalla religione cristiana. Anzi, dato che la sovrastruttura religiosa è alla base del modo di produzione feudale, non si può prescindere dal cristianesimo per capire la struttura feudale della società.

La valenza religiosa del peccato e della punizione, la prevalenza della salvezza dell'anima sulla salute del corpo, la fede nella possibilità di "guarire" il corpo malato senza l'intervento di procedimenti materiali evocano interventi di natura miracolistica. Ma i "secoli oscuri" dell'era di mezzo furono in realtà meno terribili di quanto sia stato tramandato dai protagonisti del Rinascimento: la struttura oppressiva e anti-umana dell'Inquisizione, ad esempio, persistette durante il celebrato umanesimo caratterizzato dalla produzione di tipi umani piuttosto singolari, artisti-scienziati-filosofi che non disdegnavano la frequentazione di ideologie eretiche, fiorenti soprattutto nelle file della stessa Chiesa. Molte invenzioni che si sarebbero dimostrate essenziali per lo sviluppo economico-sociale verso il capitalismo, dall'aratro con versore alla filatrice automatica, dal carro con timone alla lavorazione dell'acciaio, videro la luce in quel periodo. Il Medioevo fu una società piuttosto refrattaria ad approcci tra religione e sviluppo tecnico. Basandosi su di una pragmatica funzionale piuttosto che su santi codici, rigidi protocolli o regole condivise, dato che lo stato antico non c'era più e quello moderno non c'era ancora, la struttura sociale e la sovrastruttura religiosa marciarono in parallelo senza incontrarsi realmente. Ciò permise al capitalismo e alla borghesia di essere il motore dello sviluppo fin dall'Anno Mille, specie in Italia. Del resto, in un contesto che avesse funzionato davvero secondo la formula "secoli oscuri", probabilmente la società sarebbe precipitata in una crisi micidiale, travolta da un disastro di difficile valutazione e rispetto alla quale qualsiasi intervento non avrebbe portato soluzioni.

Ma invece del disastro ci fu indubbio sviluppo. Per ciò che qui ci interessa, parallelamente alla "nascita dell'individuo" sorse il concetto di malattia come fatto sociale.

La caritas cristiana imponeva l'attenzione verso i poveri e i malati, e ciò avvenne attraverso attività assistenziali non specifiche, dapprima presso i monasteri, poi in veri e propri ospedali posti negli incroci vitali delle strade percorse da mercanti e pellegrini. La prescrizione morale dell'aiuto e la spontanea distribuzione del sapere nei centri monastici produssero l'esigenza di raccogliere ciò che del sapere specificamente medico era stato prodotto nell'antichità. Dopo l'Egira (622 d. C., l'anno iniziale della cronologia islamica) si aggiunse l'enorme lavoro di traduzione in arabo cui seguì la ritraduzione dall'arabo di testi dei quali in Europa si era persa la versione originale. Si venne quindi a formare un patrimonio orale e scritto che forniva la struttura dottrinaria ai monaci che si dedicavano alla cura dei malati. Questo sottobosco sociale, formato da elementi che molto spesso provenivano dalle grandi eresie annientate o assorbite dalla Chiesa, fornì la manodopera per la diffusione di pratiche mediche miste, in parte sopravvivenze magiche di un passato di cui si erano dimenticate le origini (medicina delle reliquie, fondazione e spesso invenzione e costruzione di luoghi santi meta di pellegrinaggi, guaritori, processioni con sopravvivenze di riti pagani cristianizzati), in parte derivate dal patrimonio scritto che diventava sempre più cospicuo sotto la spinta di collezionisti ecclesiastici (ad esempio la tradizione vuole che la celebre Scuola di Salerno fosse fondata da quattro sapienti medici: un ebreo, un arabo, un greco e un latino). Grazie a questo fermento la medicina si internazionalizzò. Il processo di degenerazione degli Ordini e dei loro custodi rallentò.

La decisione della Chiesa di vietare ai suoi sacerdoti di praticare l'arte medica contribuì alla laicizzazione di quest'ultima, con il risultato di accelerare sia lo sviluppo dell'attività nell'ambito dell'organizzazione feudale (rapporto con le arti "meccaniche" o "liberali", regolamentazione, leggi corporative, esami di ammissione), sia di andare a fondo riguardo alla relazione epistemologica fra medicina, scienza e società. La complessa piramide istituzionale della medicina medioevale dopo il Mille vedeva il medico stabilmente radicato al suo vertice; il chirurgo, generalmente noto per le sue spettacolari prestazioni visibili nei piani intermedi, al secondo posto; il farmacista al terzo. Stabilizzata ormai una prestigiosa professione che metteva al riparo i suoi membri dalle ristrettezze economiche, la classe medica divenne uno dei pilastri portanti del cristianesimo. In tutta Europa sorsero migliaia di abbazie, monasteri, conventi, tutti dediti direttamente o indirettamente alla cura del corpo oltre che a quella dell'anima. Le erbe, i distillati, gli infusi dei conventi divennero merci di uno specifico mercato.

Con il Medioevo si chiude il ciclo della medicina come fattore di mediazione fra il terreno e il divino. Il Rinascimento porta la medicina sulla terra, nel senso di completa "laicizzazione". Il termine non ci piace affatto, dato che viene utilizzato, tra l'altro, per sostenere che la medicina è conquistata alla pratica e all'ideologia della classe borghese. Verissimo, ma non intendendo banalmente che i borghesi si arricchiscono con un settore dell'attività umana che permette loro di "far quattrini". Oltre a non avere alcun valore, la critica morale in questo caso è addirittura pericolosa perché non sono in ballo soltanto condizioni di vita individuali. L'intera nostra specie, è oggi sotto l'effetto di una trentina di milioni di principi bio-chimici attivi assunti in vario modo, e i loro effetti si sovrappongono senza alcun controllo in quanto sconosciuti.

Note

[1] L'antropologo Marshall Sahlins affronta il problema dell'approvvigionamento di cibo nella preistoria nel volume L'economia dell'età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive, Bompiani.

[2] "Struttura frattale delle rivoluzioni", n+1 numero 26. In generale, i sistemi biologici "consumano poco" rispetto a quelli chimico-fisici. Mediamente il metabolismo basale di un essere umano, cioè la quantità di energia che gli occorre per stare in vita a riposo, corrisponde a 1.700 Kcalorie al giorno. Il calcolo per stabilire quanti e quali siano i lavori usuranti si applica grosso modo alla differenza tra le calorie che servono per rimanere vivi e quelle necessarie per svolgere un'attività. Un parametro sempre più usato è la differenza fra l'energia spesa all'inizio di un ciclo di produzione per ottenere le materie prime e quella contenuta nel prodotto finito. A parità di prodotto, l'energia spesa nel ciclo industriale è decine, centinaia, a volte migliaia di volte maggiore di quella spesa in un ciclo biologico.

[3] Cfr. articolo sul 200° compleanno di Marx sul n. 44 della rivista.

[4] René Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi, Einaudi.

[5] Omeostasi, termine utilizzato da Joseph Needham per descrivere la variante cinese del modo di produzione asiatico. È anche la condizione che l'organismo umano raggiunge con un buon funzionamento del metabolismo.

[6] Dissoluzione: parola chiave nella dottrina dei modi di produzione.

[7] Le conoscenze anatomiche degli antichi si basavano soprattutto sulla materia prima fornita in abbondanza dalle guerre.

[8] Potrebbe essere interessante sviluppare un confronto con Jaynes: nel sogno sopravviverebbe la mente bicamerale e sarebbe messa temporaneamente da parte la coscienza.

[9] La medicina, nel corso delle sue incursioni in campi diversi dal suo, incontra il teorema di Bayes. Si invoca quando si vuole calcolare la probabilità della causa che stanno a monte dei fenomeni osservati. La medicina ippocratica è una transizione di fase tra il mondo senza malattia (non senza malati) e quello con malattia e relativa cura specifica per essa. Tra il mondo legato alla natura e quello che man mano abbandona questo legame.

[10] Gurevich, La nascita dell'individuo nell'Europa medievale, Laterza.

Rivista n. 52