La sinistra comunista di fronte al fascismo e alla sconfitta della rivoluzione in Europa

Negli articoli qui riprodotti il lettore troverà condensata non solo l'interpretazione che la Sinistra Comunista Italiana ha dato del fascismo ai suoi albori e le direttive della lotta che essa condusse alla testa del Partito Comunista d'Italia negli anni 1921-23, ma anche la sua critica, su questa questione fondamentale, delle posizioni più o meno chiare dell'Internazionale Comunista. Questi scritti non rappresentano quindi un carattere puramente storiografico ed accademico, ma anche un interesse teorico e pratico. Come abbiamo sempre previsto, il capitalismo evolve sempre più apertamente in un senso "fascista". Questo spinge, ancora oggi, numerosi gruppi e formazioni cosiddette "di sinistra" a opporre a questo fascismo che si espande sempre più una democrazia "più completa", "più vera", "meno formale", a ricercare un rimedio al "totalitarismo" dell'Ovest come dell'Est al di fuori della dittatura del proletariato in una democrazia ideale la cui purezza contrasterebbe con l'impurità della sua versione borghese. Una tale antitesi è menzognera, tanto oggi quanto ieri. Oggi come ieri, l'alternativa resta dittatura della borghesia o dittatura del proletariato, una dittatura che il Partito, che la futura ondata della Rivoluzione sociale porterà alla testa della classe operaia e di cui sarà lo strumento cosciente e il centro, si propone anticipatamente di esercitare. Ma, come abbiamo previsto fin troppe volte, il fascismo ha suscitato nel movimento proletario delle nostalgie democratiche, anti-dittatoriali e anti-autoritarie invece di rinforzarlo nelle posizioni classiche di Marx, Engels e Lenin che erano non solo anti democratici ma anche francamente autoritari come non avevano paura di affermare loro stessi. È proprio questo, come avevamo ugualmente previsto, il peggior male che il fascismo potesse fare alla classe operaia ed esso ha ancora tanta forza da rendere di bruciante attualità i testi e le tesi che qui ripubblichiamo.

L'interpretazione banale e ufficiale, espressione dell'ideologia e degli interessi della classe dominante, presenta il fenomeno fascista come il sollevamento di forze reazionarie (cioè, in linguaggio marxista, pre-capitaliste) che avrebbero interrotto il corso storico della società borghese che si vuole orientata verso una graduale estensione dei "diritti dell'uomo e del cittadino", e che pretende che a poco a poco le istituzioni democratiche assorbano e neutralizzino le spinte sovversive della classe proletaria facendola partecipare ai loro "vantaggi". Queste forze "oscurantiste" sono presentate sia come gli "agrari" o proprietari fondiari assenteisti − residuo del feudalesimo in pieno capitalismo -, che sognerebbero una restaurazione dei loro privilegi minacciati attraverso il metodo "forte" e con un assolutismo monarchico o repubblicano, sia come la piccola borghesia rurale e urbana che sogna di giocare un ruolo autonomo e di sfuggire al fallimento a cui la condannano il grande capitale e le sue avventure imperialiste. In ogni caso, comunque sia, l'azione di queste forze è sempre ufficialmente considerata come una eccezione al processo "normale" proprio delle forme più "evolute" e più "illuminate" del capitalismo. Sul piano ideologico (il solo che la storiografia borghese giudica degno di considerazione), il fascismo sarebbe una ricaduta della civiltà nella barbarie, della competizione pacifica nella violenza, della "ragione" nell'irrazionalismo e la forza cieca.

La Sinistra Comunista Italiana ha opposto e continua ad opporre a questa visione del processo storico che conduce dalla democrazia al fascismo, una visione non solo diversa ma radicalmente contraria e che è perfettamente coerente con i principi classici del marxismo. Non ha il marxismo rifiutato la pretesa della democrazia a costituire non un regime di classe, ma l'incarnazione degli eterni principi di libertà, uguaglianza e fraternità che non sono che l'espressione idealizzata dei rapporti sociali instaurati dalla rivoluzione borghese? Non ha il marxismo stabilito il ruolo permanente della violenza in ogni società divisa in classi antagoniste e il carattere necessariamente dittatoriale del dominio dell'una sull'altra, qualunque sia la forma che esso riveste? Certamente sì. Ma la Sinistra Comunista Italiana non si è limitata a difendere queste posizioni che per Marx, Engels, Lenin e Trotzky erano definitive; ha inoltre dimostrato che democrazia e fascismo sono metodi di dominio propri alla grande borghesia, miranti alla conservazione dei rapporti di subordinazione del lavoro salariato al Capitale e di cui la classe dominante si serve alternativamente o congiuntamente per mantenere assoggettata la classe dominata. Il ricorso all'uno piuttosto che all'altro non dipende da preferenze soggettive o da "scelte" ideologiche, ma dal grado di maturazione dei contrasti sociali, dalla reale evoluzione del conflitto permanente tra le classi, con l'aggravante, in favore del metodo fascista, che l'evoluzione dell'economia capitalista verso forme concentrate e centralizzate favorisce sul terreno delle sovrastrutture politiche il "totalitarismo" e lo "statalismo", che impiegano apertamente la violenza allo stesso tempo dell'arma sottile del riformismo sociale e dell'inganno democratico. Il fascismo non è quindi un ritorno indietro verso forme preborghesi o verso metodi di governo e ideologie inconciliabili con i postulati democratici: è una espressione completa ed irreversibile della fase imperialista del capitalismo, innanzi tutto tentativo disperato di quest'ultimo per scongiurare con una controrivoluzione preventiva la minaccia di un "assalto proletario al cielo" come diceva Marx ne La guerra civile in Francia, e poi per superare i conflitti interni della borghesia stessa, per opporre all'attacco della classe oppressa un fronte compatto e unitario, tendente a sfruttare nel suo interesse le inquietudini, le nostalgie fumose, le velleità patriottiche, il teppismo e il furore reazionario della piccola borghesia in decomposizione, di ogni sorta di sradicati dell'intellighenzia frustrata e di proprietari fondiari assenteisti in rovina.

La conferma di questa tesi e di quanto implica per la strategia e la tattica della classe operaia organizzata è stata fornita per prima dal paese in cui il fascismo in senso proprio ha fatto storicamente la sua comparsa: l'Italia. Qui, la falsità dell'antitesi democrazia-fascismo è apparsa in una luce tanto più viva dato che, secondo una tradizione antica quanto il regno d'Italia stesso, la repressione aperta e brutale dei movimenti popolari degli anni cruciali 1919-20, generati dalla smobilitazione, dalla crisi di riconversione dell'industria e dal caro vita, fu opera della democrazia parlamentare. Così le legalissime forze dell'ordine − la polizia, i carabinieri, la Guardia Regia istituita dal democraticissimo Nitti, l'esercito − furono lanciate in vere azioni di guerra civile, in una caccia accanita al sovversivo, allo scioperante, a chiunque manifestasse sotto il segno della bandiera rossa. L'entrata in azione delle milizie fasciste "illegali", un anno e mezzo dopo che Mussolini le aveva costituite, non si manifestò che dopo la liquidazione della fiammata proletaria che aveva accompagnato l'occupazione delle fabbriche nell'agosto-settembre 1920. Questa liquidazione fu opera dell'ultra-democratico Giolitti che utilizzò all'occorrenza un altro "servizio d'ordine", cioè la direzione riformista della Confederazione Generale del Lavoro ispirata dal massimalismo puramente verbale del Partito Socialista Italiano, sola forza capace di asfissiare il movimento rinchiudendolo nella prigione della fabbrica e guardandosi bene da orientarlo contro il potere centrale. Così, non solo lo Stato democratico resistette magnificamente allo shock servendosi alternativamente della violenza fisica e dell'illusione riformista ma, di concerto con la socialdemocrazia, creò le condizioni per l'intervento di un terzo fattore controrivoluzionario: le camicie nere che tanto il governo quanto l'"opposizione" avevano favorito. Questo intervento non mirava a schiacciare sul terreno un nemico che era già battuto, ma ad impedire che si risollevasse dalla disfatta e che minacciasse di nuovo la Patria e la Nazione, cioè il Capitale. Per questo bisognava distruggere le roccaforti proletarie delle grandi città industriali, le organizzazioni operaie, centri di difesa e di attacco della classe oppressa. Con questo fine il governo dell'ex-socialista e ultra-riformista Bonomi, il governo democratico, equipaggiò gli eroi del manganello e dell'olio di ricino. Furono quindi le forze legali che spalleggiarono le milizie illegali, appoggiando ogni volta che era necessario la loro offensiva, coprendo spesso le loro frettolose ritirate e aprendo loro le porte di vittorie laboriose.

Il movimento non era nato nelle aree "arretrate" del Sud, le sole dove d'altronde erano esistiti dei residui formali di feudalesimo in seno ad una economia quasi esclusivamente rurale, ma a Milano, capitale della grande industria, dell'alta finanza e del riformismo turatiano e quindi sotto l'ala tutelare del capitalismo più avanzato e dei suoi complici. Si era, certo, immediatamente guadagnato l'appoggio dei proprietari fondiari, ma proprio nelle zone di agricoltura capitalista moderna del delta del Po. È da questo comodo trampolino che alla fine del 1920, in una fase di riflusso del movimento proletario, le milizie fasciste invasero il triangolo industriale e proletario Milano − Torino − Genova, centro più economico che politico-amministrativo del paese. Ma fu solo dopo due anni di una vera guerra civile e con la complicità del massimalismo pacifista e del riformismo traditore che il fascismo riuscì ad abbattere le fortezze proletarie del Nord. Poi fu un gioco guadagnare in "vagone-letto" la capitale burocratica, som­ma commedia conosciuta con il nome di "marcia su Roma", ed entrare al governo con l'appoggio diretto e il voto parlamentare di tutti i partiti democratici e liberali, con Giolitti e Nitti in testa. Quale prova migliore che l'avvicendamento politico della democrazia era stato voluto e preparato di concerto con i fascisti per dare stabilità a un regime sempre minacciato, nello scenario internazionale, da pericolosi soprassalti?

Arrivato al potere, il pupillo della democrazia legalitaria tradì tutte le promesse che aveva fatto e gettò alle ortiche i programmi che gli erano serviti per trascinare al suo seguito gli elementi disorganizzati della piccola borghesia, come il programma del 1919 che era repubblicano, anticlericale e antiplutocratico. E, come avevamo previsto fin dall'inizio, si assegnò un compito ancora più ambizioso e la cui realizzazione, da un punto di vista borghese, non poteva essere differita: rispondere all'offensiva della classe operaia non solo con la violenza, ma con l'organizzazione centralizzata di una economia nazionale per natura anarchica e ribelle a ogni centralizzazione esterna, cioè non puramente economica, che esigeva una disciplina da parte della classe dominante. Questo non poteva avvenire senza spezzare delle resistenze in seno al vecchio personale politico e governativo e senza suscitare, allo stesso modo, una opposizione democratica antifascista negli strati che avevano calorosamente appoggiato il fascismo all'inizio e nella piccola borghesia di città e campagne, sangue e nervi delle bande in camicia nera. Una tale evoluzione da parte della piccola borghesia non aveva, del resto, niente di nuovo come si vede rileggendoRivoluzione e contro rivoluzione in Germania e Le lotte di classe in Francia di Marx ed Engels. Per accontentarci di un solo esempio, "Napoleone il Piccolo", portato al potere dal contadiname non si rivelò in seguito strumento del grande affarismo a detrimento di questo stesso contadiname?

L'ambizione del fascismo, giunto al potere, fu di strappare al proletariato la teoria e la pratica della dittatura centralizzatrice diretta da un partito unico per i fini generali della borghesia considerata nel suo insieme. Ma, come avevamo previsto, questa ambizione era irrealizzabile perché doveva necessariamente suscitare all'esterno, nei rapporti con gli altri Stati, in un quadro imperialista, le contraddizioni economiche e politiche che il fascismo era riuscito con la forza ad attenuare nel quadro nazionale. Questa ambizione, che doveva inevitabilmente portare alla guerra, era così profondamente radicata nella realtà imperialista che la democrazia militarmente vittoriosa sul fascismo nella guerra 1939-45 perpetuò la stessa pratica: creazione di industrie spesso completamente parassitarie come la siderurgia in un paese, l'Italia, sprovvisto di ferro; rigoroso protezionismo; intervento statale per "disciplinare" e "salvare" l'economia a discapito delle grandi masse; ideale corporativo, di armonia tra le classi nell'"interesse superiore della nazione"; costituzione di monopoli e oligopoli, senza contare lo sviluppo di un apparato repressivo che fa del manganello fascista un'arma legale. Anche se la facciata democratico-parlamentare e pluripartitica fu poi ristabilita nonostante i costi che implicava sul piano economico, questo avvenne solo con lo scopo di dissimulare, agli occhi dei proletari e degli strati sociali in via di proletarizzazione, il dominio sempre più soffocante delle "Casa Bianca" e dei "Pentagono" di ogni paese, cioè la realtà fascista del secondo dopoguerra. Ma se questo fascismo che non osa dire il suo nome non si è completamente smascherato negli "affari interni", dato che il proletariato tarda a risollevarsi dal colpo mortale che gli è stato inflitto dalla controrivoluzione stalinista e dall'oppio antifascista, si è manifestato senza pudore nell'arena internazionale, terrorizzando l'intero pianeta a cominciare dai piccoli paesi diventati "indipendenti", o impazienti di diventarlo, in un mondo cosiddetto liberato dall'oscurantismo e dalla forza bruta.

Malgrado la vigorosa campagna della Sinistra Comunista fin dal 1918, il Partito Comunista d'Italia non fu fondato che nel gennaio 1921, cioè troppo tardi. Il motivo fu che il massimalismo puramente parolaio del vecchio movimento socialista era uscito dalla guerra con le mani pulite dato che, senza sabotarla, non vi aveva aderito ed aveva inoltre dato immediatamente la sua adesione alla III Internazionale di cui conosceva male, o non conosceva del tutto, il programma. La Sinistra non si accontentò, alla testa del giovane Partito Comunista d'Italia, di dare del fascismo l'interpretazione che abbiamo già ricordato; prese una posizione pratica coerente e caratteristica che, ancora oggi, fa sbraitare gli storici e gli ideologi democratici che le rimproverano il suo "dogmatismo". Il capitalismo si sbarazza della sua maschera democratica, usa apertamente la violenza per difendere l'ordine costituito? Peggio per noi, diceva la Sinistra, che ci siamo lasciati sorprendere. Ma sarà alla fine un fatto positivo se, riconoscendo in tutto questo il segno della crisi fatale del regime, cogliamo la sfida e accettiamo virilmente di combattere il nemico sul suo terreno che, in fondo, è anche il nostro, opponendo le nostre armi, la nostra organizzazione e la nostra violenza alle sue. Contrariamente ai riformisti, la Sinistra rifiutava quindi di chiedere protezione a uno Stato per cui, non solo la dottrina marxista, ma i fatti brucianti smentivano la neutralità nel conflitto che opponeva le classi. La Sinistra non si richiamava ad alcun diritto, a nessuna legge: solo chi possiede la forza ha dei diritti e può dettare la legge. All'opposto dei massimalisti non chiedeva il ritorno all'ordine, alla civiltà e al libero gioco delle istituzioni democratiche; perché il marxismo non ha mai riconosciuto questo ordine come suo e questo libero gioco ha provocato la sconfitta sanguinosa della Comune di Parigi nel 1871 e di Berlino nel 1919, ma non quella della Comune di Pietrogrado nel 1917. La Sinistra non cercò né accettò blocchi politici con altri partiti o formazioni, anche se, come i fin troppo famosi "Arditi del Popolo", si ponevano sul terreno della lotta armata; la Sinistra sapeva bene che nessuno di questi avrebbe spinto questa lotta al suo fine che giustifica l'esistenza autonoma del Partito Comunista, cioè fino al rovesciamento del capitalismo. Non lanciò neppure ponti fittizi ai partiti "operai" che avevano mostrato nei fatti di essere chiamati a reprimere lo sforzo di emancipazione del proletariato, pur anche nel sangue, e che avrebbero condotto i comunisti nel loro stesso marasma, per poi pugnalarli, se questi avessero avuto la follia di corteggiarli, come era già successo troppo spesso a chi tendeva loro generosamente la mano. Il comunismo, diceva la Sinistra, non deve nascondere che è attualmente costretto alla difensiva, ma deve proclamare apertamente che non lascerà passare l'occasione, quando potrà, di passare all'attacco. La Sinistra accettava l'isolamento a cui i fatti avevano costretto i comunisti, ma non lo accettava che per farne un elemento di forza, perché i proletari di ogni credo politico riconoscessero chiaramente la sua volontà di opporre alla dittatura della borghesia la dittatura della loro classe e finissero per considerarla la loro guida. La Sinistra era per il fronte unico delle organizzazioni sindacali e per la fusione di tutte le lotte rivendicative in una azione generale unica, ma era anche contro ogni fronte unico politico, non perché separasse l'azione economica dall'azione politica, come gli rimproverava l'Internazionale, ma perché l'unità sindacale e l'unificazione di tutte le rivendicazioni economiche offrivano la miglior piattaforma di azione politica per togliere gli operai dalle grinfie dei partiti soggettivamente e oggettivamente traditori della causa proletaria. La Sinistra mostrava che la chiarezza dell'azione comunista poteva sottrarre all'influenza della grande borghesia gruppi o elementi delle "classi medie" o almeno neutralizzarle, e che il modo migliore per giungervi non era quello di adottare qualche punto del loro programma, ma quello di presentare loro l'unico argomento suscettibile di spingerli nella direzione del proletariato piuttosto che in quella del capitale: la necessità di adoperare apertamente la forza (Marx avrebbe detto del "K.O.") contro questo stesso capitale. La Sinistra non ignorava le classi medie, ma intendeva rimanere fedele al comunismo senza lamentarsi se queste classi non lo seguivano, e senza far loro concessioni se lo seguivano. Per la Sinistra era chiaro che i comunisti potevano essere vinti, ma che non dovevano in nessun caso rinunciare a essere il partito dell'opposizione permanente al regime capitalista nella sua veste democratica o fascista. Una disfatta subita sul terreno del comunismo poteva in effetti trasformarsi in vittoria ed era, in ogni caso, una condizione della ripresa futura; ma una "vittoria" ottenuta cambiando i fini della lotta non poteva che essere una doppia disfatta, dato che la cosa peggiore non era la vittoria del nemico ma l'auto-annientamento.

Queste audaci posizioni della Sinistra avrebbero potuto essere decisive negli anni 1921-22 se il Partito Comunista d'Italia le avesse sviluppate a fondo, senza esitazioni e senza la vana illusione di poter recuperare all'esterno degli alleati, fratelli o cugini presunti. Malauguratamente l'Internazionale, che stava perdendo il suo orientamento rivoluzionario degli anni eroici, esercitava la sua pressione in un senso opposto, favorendo le soluzioni intermedie care ai massimalisti e ai riformisti, che si erano miracolosamente ravveduti o avevano effettuato un abile voltafaccia, e perfino ai democratici e ai ...cattolici di sinistra. Si lasciò quindi sfuggire l'occasione malgrado i severi avvertimenti della Sinistra, la sua ostinata insistenza e la lotta eroica che aveva condotto, con deboli forze, sulla piazza contro le camicie nere. Il risultato lo abbiamo oggi davanti agli occhi: la scomparsa dell'Internazionale, la trasformazione dei Partiti comunisti in partiti dell'ordine e della legalità.

Il carattere artificiale perché anti-storico dell'antitesi tra democrazia e fascismo salta agli occhi ancora più chiaramente se si considera lo sviluppo della versione tedesca del fascismo: il nazismo.

In Germania, sono lo Stato democratico e, nei momenti più decisivi, i governi puramente o parzialmente socialdemocratici, che assicurano, con le loro sole forze, la difesa dell'ordine costituito contro gli assalti ripetuti e disperati della classe operaia. Questo avviene non solo nei difficili e turbolenti anni 1918-19, ma durante la ricostruzione dell'apparato statale nel quadro della Repubblica di Weimar degli anni 1920-22, poi all'epoca della svalutazione e della stabilizzazione del marco, cioè nel 1923-24 e infine al ritorno del Reich nella politica europea sotto la direzione di Stresemann e fino alla grande crisi economica e finanziaria del 1930-32. Durante questo periodo le forze caotiche e confuse di quello che diventerà, solo dopo il 1925, il partito di Hitler si agitano all'ombra dei difensori ufficiali dell'ordine e si organizzano un poco alla volta e lo fanno più lentamente che in Italia dato che i difensori ufficiali danno prove eloquenti della loro efficacia al fine della conservazione borghese. In Germania sono i "socialisti" Noske e Scheidemann ad essere chiamati a reprimere nel sangue il movimento spartachista del gennaio e del marzo 1919. Per questo non esitano a servirsi dei corpi franchi, bande che venivano dall'esercito del Kaiser e composte di volontari di diverse origini. Alla fine dell'aprile 1919 sono, allo stesso modo, le truppe ufficiali del governo bavarese che rovesciano, sotto la direzione del socialdemocratico Hoffmann, l'effimera Repubblica sovietica di Monaco massacrandone o condannando a pene pesantissime i capi e instaurando la legge marziale contro la popolazione.

Durante il passaggio dal regime imperiale alla Repubblica, il massimalismo parolaio e ipocrita degli Indipendenti appoggia la socialdemocrazia nella sua opera patriottica di salvataggio della Germania borghese, prima in seno al governo di coalizione del novembre-dicembre 1918, poi all'opposizione. Nel l920 sono gli operai entrati in sciopero che soffocano il tentativo di restaurazione di Kapp-Luttwitz e non la democrazia, che non trova niente di meglio che rifugiarsi precipitosamente a Weimar e che, dopo il fallimento del putsch, trattò con generosità i colpevoli. All'epoca dell'azione di Marzo nel 1921 gli operai si battono contro la politica democratica e i suoi dirigenti socialdemocratici, purtroppo vanamente, e ciò varrà loro solo persecuzioni. Durante l'inverno del 1922 è ancora contro lo Stato democratico che i ferrovieri entrano in lotta ed è questo Stato che ristabilirà l'ordine con feroci sanzioni. Alla fine del 1923 sono dei reggimenti della Reichswehr, inviati d'urgenza dal governo di "larga coalizione" presieduto da Strasemann e con l'ex-indipendente Hilferding come ministro delle finanze, che ordinano ai "governi operai" di Turingia e Sassonia di disarmare gli operai e di sparire subito dopo. È infine la polizia democratica che reprime la rivolta di Amburgo, ultima fiammata rivoluzionaria di quel fatale 1923.

È sempre nel 1923, quattro anni dopo la fine della guerra e la caduta dell'Impero, che compaiono le prime bande naziste nel momento stesso in cui l'imperialismo francese procede alla occupazione della Ruhr. Queste bande sono solo, ancora, un magma confuso di falliti, esaltati e declassati, piccolo-borghesi impotenti ma tronfi di retorica, partigiani decaduti dell'Imperatore e sciovinisti di ogni sorte, "vagabondi del nulla". È caratteristico tuttavia che la grande borghesia e l'alta finanza (quelli che allora venivano denominati i "baroni della Ruhr") si servano di queste bande non tanto contro gli operai quanto contro i francesi, come forze di appoggio alla melodrammatica "resistenza passiva" contro l'occupante. Non hanno ancora che una fiducia limitata in loro e non accordano ancora loro alcun aiuto finanziario. Gli Stinnes, i Krupp seguono ancora il governo democratico ufficiale, impazienti di ottenere (come avverrà con Stresemann) la stabilizzazione del marco e il regolamento della questione delle riparazioni con la Francia, l'Inghilterra e gli U.S.A.. Perché la grande industria e l'alta finanza aprano i cordoni della borsa e, senza ancora impegnarsi a fondo, considerino con un occhio favorevole la crescita delle camicie brune, ci sarà bisogno che, dopo il putsch nazista dell'autunno 1923 a Monaco e il processo a Hitler, il nazionalsocialismo si liberi delle sue ultime simpatie per il regime imperiale e per gli junkers e si ponga disciplinatamente sul terreno della competizione elettorale e parlamentare, cominciando così ad essere una riserva politica seria nella prospettiva imminente della Grande Crisi.

Lo Stato democratico era sufficiente per difendere l'ordine borghese, grazie in particolare alla sua polizia e alla Reichswehr, ricostruita su basi ristrette ma tecnicamente perfezionata. Per questo, prima della sua andata al potere il nazionalsocialismo non ebbe bisogno di disperdere le sue energie in spedizioni punitive contro i centri industriali e le organizzazioni proletarie sul tipo di quelle dei fascisti italiani: si aprì pacificamente la via con metodi democratici e parlamentari, tanto più facilmente in quanto la situazione era cambiata a svantaggio del proletariato e della rivoluzione malgrado i successi elettorali che il Partito Comunista Tedesco riportava e di cui l'Internazionale si felicitava preoccupandosi sempre meno di preparare il proletariato a dare uno sbocco rivoluzionario alla crisi. Così il nazismo prese il potere con la benedizione legale e l'appoggio esplicito degli uomini e dei partiti della grande industria e dell'alta finanza. A differenza del suo omologo italiano, il nazismo non ebbe nemmeno bisogno di ricorrere a una melodrammatica "marcia su Berlino" per sbalordire i piccolo-borghesi e dare loro l'impressione di giocare un ruolo autonomo. Giunto tardivamente alla sua meta, solo allora il nazismo rivelò la sua vera natura di controrivoluzione preventiva. Non avendo avuto bisogno di svolgere un ruolo di repressione contro la rivoluzione, dato che se ne era occupata la socialdemocrazia, si impegnerà perché lo sviluppo della crisi economica − e in particolare della disoccupazione − non provochi una radicalizzazione delle masse nonostante la passività del K.P.D., il cui radicalismo era puramente verbale: scatenerà la violenza contro i partiti "operai", socialdemocrazia compresa, perché non gli sarebbe stato possibile smantellare i potenti sindacati tedeschi, come aveva intenzione di fare, senza eliminarne la direzione politica. In seguito si dedicherà anche agli strati piccolo-borghesi legati all'anti-plutarchismo verbale del partito nazista stesso, come avvenne con l'affare Roehm. Infine dovrà anche ridurre la resistenza di certi settori della borghesia che si opponevano alla concentrazione e alla mobilizzazione di tutte le risorse per la ripresa dell'economia nazionale rinforzando l'industria pesante e realizzerà tutto ciò con la sua politica di riarmo intensivo, di distruzione progressiva degli effetti del "vergognoso trattato di Versailles" e, alla fine, con la stessa guerra. Tutto ciò si accompagnò, ben inteso, ad una feroce repressione degli emissari del "disastro nazionale", cioè i bolscevichi prima e gli ebrei poi. Il partito unico nascerà così dalle ceneri del vecchio personale governativo e dai fiumi di sangue versati dal proletariato in quindici anni di lotta tanto generosa quanto mal diretta. Si presenterà come l'incarnazione della Nazione, o, secondo la fumosa fraseologia del nazismo, della Razza Germanica. Il resto si conosce, e, in particolare che l'Internazionale trarrà pretesto dalla disfatta in Germania per por fine al suo periodo di ultra-sinistra, stupida svolta che non poggiava su alcuna critica seria degli errori passati e che mal dissimulava l'impotenza del K.P.D., importante numericamente e molto fiero dei suoi successi elettorali, ma incapace di agire al di fuori del terreno legale, parlamentare e democratico. Fu così che l'Internazionale, lanciata sulla via dei fronti popolari prima, dei fronti di guerra e dei fronti nazionali poi, finì per perdere anche l'apparenza di centro mondiale della rivoluzione.

Per comprendere questa disfatta, che fu una capitolazione prima della battaglia, bisogna risalire ben prima del 1932-33 e confrontare i rispettivi atteggiamenti del Partito Comunista d'Italia e di quello tedesco.

Il Partito Comunista d'Italia era stato sconfitto − d'altronde in modo non definitivo − nel 1923, ma restando sul suo terreno e solo per l'unione delle forze della democrazia, della socialdemocrazia e del fascismo, tutte forze di cui aveva saputo mostrare l'origine comune. A questo triplo attacco aveva risposto con una attitudine che gli aveva assicurato il massimo di autonomia tattica e organizzativa, ma che non escludeva un lavoro pratico di propaganda, di agitazione e di riarmo morale e materiale verso le grandi masse, grazie agli sforzi che aveva sempre metodicamente fatto per unificare le lotte economiche e le organizzazioni di difesa del proletariato. Come abbiamo visto sopra, aveva accettato la sfida che la borghesia gli aveva lanciato impiegando contro di lui la violenza legale e illegale, e si impegnava non con le parole ma con degli atti ad accelerare il processo di distacco delle masse verso il pacifismo legalitario, verso la democrazia e la socialdemocrazia che la dura esperienza della guerra civile in Italia non aveva mancato di provocare. La Storia, per un raro concorso di circostanze, gli aveva offerto l'occasione di mostrarsi come il partito dell'alternativa rivoluzionaria e dittatoriale alla controrivoluzione e alla dittatura aperta della classe nemica, ed esso non aveva lasciato sfuggire questa occasione. Così fissò un modello di lotta proletaria contro il fascismo, che non ha cessato di essere valido perché questa lotta non può essere scissa dalla lotta contro lo Stato democratico e i suoi lacchè, e non può avere come protagonista che un partito rivoluzionario radicato in tutte le organizzazioni economiche della classe operaia e innalzatosi contro tutto il fronte borghese e opportunista di difesa dell'ordine.

Il Partito Comunista Tedesco, al contrario, fu sconfitto nel gennaio-marzo 1919 prima ancora di essersi potuto affermare come partito indipendente dalla socialdemocrazia. Quelli tra i suoi membri che erano sopravvissuti al terribile olocausto che aveva falcidiato l'élite del partito caddero, tra la fine del 1919 e l'inizio del l920, in una specie di "complesso di inferiorità" se non verso la potente organizzazione socialdemocratica, sicuramente verso gli Indipendenti. Questo "complesso di inferiorità" si vede nettamente nel rapporto all'Internazionale prima del II Congresso di Mosca, dove Levi deplora la rottura con gli Indipendenti e rimpiange che i comunisti non siano più nei loro ranghi come opposizione rivoluzionaria invece di costituire un partito distinto condannato, almeno temporaneamente, a restare isolato e a non esercitare che una piccola influenza su strati mal definiti della classe operaia.

In realtà, già da questo periodo, ma più ancora nel corso dei due anni successivi, il Partito Comunista Tedesco avrebbe dovuto essere unico partito dell'Internazionale, da cui Mosca avrebbe dovuto e potuto trarre la forza per perseverare sulla via della delimitazione intransigente sia verso la socialdemocrazia, due volte traditrice della classe proletaria, che verso il centrismo più pernicioso perché più equivoco. Questo sia per l'importanza strategica della Germania nel quadro di una prospettiva di rivoluzione mondiale − o almeno europea − che per l'alto grado di combattività e organizzazione della classe operaia tedesca. Al contrario sarà il Partito tedesco che inciterà Mosca a cedere alle tentazioni delle manovre tattiche per conquistare più rapidamente una più larga influenza sulle masse. Quando si imponeva il riarmo teorico e pratico del proletariato, dato che la democrazia parlamentare aveva dimostrato di non essere che il preludio al fascismo e il trampolino indispensabile dell'offensiva aperta del capitale, il Partito tedesco spinse Mosca, con il pretesto della propaganda, a gettare al nemico ponti che la Storia avrebbe irrevocabilmente distrutto. Di tutti i partiti dell'Internazionale il K.P.D. era il meno incline a una netta delimitazione politica. Già nel 1920, poco dopo il putsch di Kapp, aveva offerto la sua benaugurante neutralità a un eventuale governo di coalizione tra socialdemocratici e Indipendenti. Nel gennaio 1921, ci fu la fusione con gli Indipendenti di sinistra senza che si manifestasse la minima opposizione e, anche se di breve durata, questa fusione ebbe delle conseguenze disastrose. Fu a seguito di questa fusione, in ogni caso, che si inaugurò la pratica delle "lettere aperte" alle organizzazioni e partiti "operai" in vista di un accordo su un programma minimo di difesa contro la reazione. La Sinistra Italiana deplorò sempre questa pratica funesta, anche accordandole la... circostanza attenuante delle buone intenzioni, o di essere abilmente concepita per obbligare l'avversario a "smascherarsi", dato che questa pratica era di per sé stessa tale da attenuare agli occhi dei proletari l'opposizione esistente tra riformismo e comunismo.

Così, è dal Partito tedesco che dalla primavera del 1921 si alzano le prime grida per deplorare la scissione di Livorno in Italia. Ugualmente, all'inizio del 1922, sarà il Partito Comunista Tedesco, per primo nell'Internazionale, non solo a preconizzare il fronte unico politico, ma anche ad applicarlo sul terreno parlamentare, appoggiando dall'esterno i governi socialdemocratici di Sassonia a Turingia, e a lanciare la parola d'ordine bastarda del "governo operaio" che dovrà realizzarsi così disastrosamente nell'autunno del 1923. Il Partito Comunista Tedesco aveva, inoltre, una fatale propensione a passare bruscamente e in un modo disorientante dalla passività e dal pessimismo, che mostrava sempre di fronte alle esplosioni spontanee della classe operaia (come, ad esempio, durante il putsch di Kapp o l'azione di Marzo del 1921), a un confuso ottimismo una volta passate queste esplosioni (come quando fabbricò la famosa "teoria dell'offensiva"). Esso cedeva sia alla "prudenza" vicino alla pusillanimità della sua direzione di destra quanto alle intemperanze della sua confusa opposizione di "sinistra". Purtroppo queste attitudini contraddittorie trovavano una eco a Mosca nella direzione del Comintern dove cominciavano ad affacciarsi due correnti analoghe che prevalevano alternativamente a seconda che la situazione evolvesse in senso favorevole o sfavorevole. La Sinistra Italiana denunciò all'epoca questo eclettismo che non poteva non portare acqua al mulino dell'estremismo infantile della corrente sindacalista, operaista e spontaneista, raggruppata nel Partito Comunista Operaio di Germania (K.A.P.D.). Nessuna meraviglia quindi se al IV Congresso mondiale l'interpretazione più destrorsa della formula equivoca del "governo operaio" trovò appoggio nelle sfere dirigenti del partito tedesco senza che la "sinistra" sapesse opporgli nient'altro che un'interpretazione più attivista, ma per niente diversa alla radice. In particolare, sarebbe stato applaudito all'unanimità il rapporto Radek sull'offensiva del Capitale che, secondo lui, escludeva ogni prospettiva rivoluzionaria in tempi ravvicinati. Meno di un anno più tardi, proprio a proposito della Germania, l'affermazione secondo cui "la rivoluzione non era all'ordine del giorno" farà posto a tutt'altra: "la rivoluzione batte alle porte, è solo questione di settimane". Ma al IV congresso, l'Internazionale proponeva ancora di opporre all'offensiva fascista, montante in tutta Europa e soprattutto in Germania, un fronte unico di partiti "operai" o anche, sia di "governi operai" formati da socialdemocratici e centristi (in Germania Indipendenti) appoggiati all'esterno dai comunisti, sia di governi di coalizione tra socialdemocratici centristi e comunisti. Allora non si trattava più, come per il fronte unico, di smascherare agli occhi delle masse le direzioni della II e dell'Internazionale due e mezzo, proponendo loro un'azione comune contro l'offensiva capitalista che non potevano che rifiutare. Il governo comune era al contrario considerato come una possibilità reale e da sostenere. Questo presupponeva che la socialdemocrazia potesse diventare altra cosa da quanto era stata nel 1914 e nel 1918-19, che la si potesse costringere ad agire non più come la sinistra del fronte controrivoluzionario (Radek), ma come una frazione autentica (sia pure di destra) del movimento operaio!

Con questi precedenti disastrosi il Partito Comunista Tedesco affrontò il fatale 1923. Quell'anno cominciò, seguendo di poco la marcia su Roma, con l'occupazione francese della Ruhr (gennaio 1923) che provocò la nascita di organizzazioni politiche e militari nazionaliste e revansciste che la grande borghesia poteva facilmente manovrare. Ma il 1923 doveva essere anche, per il rapido deterioramento della situazione economica e la svalutazione galoppante del marco, un anno di vigorosa ripresa delle agitazioni operaie. Si annunciava come gravido di "minacce fasciste" e di "pericoli di guerra", ma anche ricco di nuove eventuali fiammate di lotta proletaria. Questo fu così chiaro nel corso dei mesi seguenti che durante la seconda metà dell'anno l'Internazionale affermò di punto in bianco che la situazione era "pre-rivoluzionaria" e perfino "rivoluzionaria".

Non intendiamo discutere qui della validità di questa analisi (senza dubbio la situazione non era oggettivamente rivoluzionaria in questo periodo anche se lo era soggettivamente), perché, agli occhi della Sinistra Italiana, non era tanto grave l'errore di analisi quanto la facilità con cui l'Internazionale cambiava bruscamente di prospettiva e passava da una tattica di destra a una tattica di sinistra, pronta a trarre dagli insuccessi un pretesto per ricadere nel pessimismo e per ritornare a parole d'ordine di destra o peggio a parole d'ordine intermedie.

Di fronte a questa situazione il Partito tedesco prese, come era facile prevedere, una atteggiamento opposto rispetto a quello del Partito italiano: del fenomeno fascista, considerato tanto alla scala tedesca che a quella internazionale, non vide che l'aspetto sociologico considerandolo esclusivamente come un movimento che esprimeva le inquietudini e il disastro della piccola borghesia. Proprio in questa classe il Partito Comunista tedesco riponeva le sue speranze per un capovolgimento positivo della situazione trattandola come una forza autonoma e potenzialmente sovversiva che il partito della rivoluzione comunista poteva recuperare a condizione di cessare di essere il rappresentante e portavoce esclusivo della classe operaia e diventare quello di tutti gli "oppressi" facendo proprie le loro aspirazioni ed ergendosi quindi, allo stesso modo, a partito nazionale. Dimenticato così il ruolo specifico del partito comunista per diventare il "gestore delle trasformazioni all'interno della società borghese", il Partito Comunista tedesco si lanciò in una azione parallela per "recuperare" la socialdemocrazia, non solo di sinistra, ma anche di destra. Rinunciò così ad ogni ruolo autonomo e di direzione in una situazione complessa e si mise, al contrario, al rimorchio di forze evidentemente controrivoluzionarie. Si impedì ugualmente in anticipo ogni iniziativa suscettibile di orientare il proletariato tedesco (e quindi anche francese) verso il suo naturale fine storico: la distruzione dello Stato borghese in ogni sua forma. Al contrario il solo risultato che ottenne fu di mostrare ai proletari una fisionomia ben difficile da distinguere da quella della socialdemocrazia per la moderazione e il legalismo, e da quella dei nazionalisti e perfino dei nazisti per l'ardore patriottico; così facendo non poteva non provocare nel proletariato che reazioni di confusione, sfiducia e demoralizzazione.

L'11 gennaio 1923 le prime truppe francesi entrano nella Ruhr, per avere una garanzia materiale per il pagamento delle riparazioni di guerra, occupando una zona industriale vitale. Il 13 gennaio il governo Cuno decreta la "resistenza passiva all'invasore", preoccupato di non perdere la faccia davanti alla nazione e di non chiudere tutte le porte a un compromesso con Parigi e Londra. Sarebbe stata una occasione unica per mobilitare i partiti comunisti delle due sponde del Reno per difendere l'internazionalismo proletario contro la nuova fiammata imperialista, per spingere alla fraternizzazione i proletari tedeschi in tuta e i proletari francesi in uniforme, per condurre una propaganda disfattista nell'esercito e, allo stesso tempo, favorire una energica ripresa della lotta di classe, dato il prevedibile aggravamento della situazione economica in Germania, e i violenti moti operai che ciò avrebbe provocato e che si sarebbero ripercossi in Francia una volta venute a pagamento le spese dell'avventura militare. Tuttavia il proclama lanciato insieme dall'Internazionale e dal Profintern è completamente privo di vigore, vago, senza chiare direttive se si eccettua un retorico appello a "tutti gli operai, contadini e soldati di Francia perché non si lascino ridurre a miseri strumenti di Poincaré e non accettino di depredare il popolo tedesco", ma sbarrino, al contrario, la via al Capitale "con scioperi e manifestazioni". Dello stesso genere è l'appello "agli operai tedeschi" perché "tendano la mano ai loro fratelli francesi che sono pronti a combattere al vostro fianco contro la pirateria della borghesia francese". D'altra parte questo appello affermava che l'obiettivo da raggiungere in Germania era "l'unione degli operai in un potente fronte unico proletario per la lotta in vista dell'instaurazione di un governo operaio", la cui natura non era altrimenti specificata e che poteva quindi essere inteso come si voleva, vero colpo di fulmine a cielo sereno. In verità, questa parola d'ordine costituiva un atto di obbedienza alle deliberazioni del recente IV Congresso mondiale, ma era completamente incomprensibile non solo alle masse in generale, ma agli stessi militanti di base dei partiti comunisti. Ancora, l'appello sosteneva "l'organizzazione, grazie a questo governo, di una lotta di difesa (Abwehrkampf) contro i briganti stranieri (die auslandischen Rauber)", annunciando così, per la prima volta, i giri di valzer del Partito comunista con i patrioti tedeschi, così come la parola d'ordine del governo operaio annunciava i giri di valzer con la socialdemocrazia di "sinistra" ed eventualmente di destra.

Il K.P.D. prima in modo vago poi sempre più nettamente si allineerà su questo duplice fronte. Lo storico inglese Carr fa gran caso all'"internazionalismo" di cui la parola d'ordine "contro Poincaré sulla Senna e contro Cuno sulla Sprea" gli sembra testimoniare e che fu lanciata in gennaio dalla direzione del K.P.D. Ma è dire troppo, perché l'occupazione della Ruhr non era proprio necessaria per convincere un partito comunista, e attraverso lui le masse operaie, della necessità di... combattere l'organo esecutivo e il comitato di amministrazione della propria borghesia. Non era più giusto nemmeno spiegare, come fece il tedesco Paul Frölich nel n. del 14 febbraio del Inprekor, i motivi di questa lotta parallela dalle due sponde del Reno dicendo: "contro Poincaré e le forze che lo appoggiano perché l'imperialismo francese è il più solido bastione della pace di Versailles... e la Francia borghese la potenza militare più forte d'Europa" − "contro Cuno perché è il rappresentante del dominio dell'industria pesante sul proletariato tedesco" e perché conduce "una politica del tanto peggio tanto meglio" non opponendosi all'occupazione della Ruhr. In effetti, ogni governo borghese sarebbe stato da combattere anche se in Francia fosse stato meno "versagliese" e meno militarista di quello di Poincaré, e se in Germania non avesse capitolato davanti allo "straniero".

La parola d'ordine di cui parliamo era stata lanciata dal congresso di Lipsia in un appello indirizzato al "partito comunista e ai sindacati rivoluzionari di Francia". Il congresso non trovò niente di meglio che ricordare ai compagni d'oltre-Reno che essi erano: "i figli e gli eredi dei gloriosi e immortali combattenti della Comune che... avevano abbattuto la colonna Vendôme, simbolo della violazione dei loro diritti nazionali da parte della classe capitalista e dei suoi capi militari". Solidarizzava così con gli aspetti non classisti, ma nazionali della Comune proletaria parigina e li proponeva a modello! Lo stesso congresso indirizzò, per la prima volta, ai socialdemocratici al potere in Sassonia e in Turingia un invito a costituire con i comunisti un "governo operaio". Questo invito sarà rinnovato verso la fine di marzo al nuovo governo socialdemocratico di sinistra sulla base di una piattaforma che diventerà presto il "programma minimo" del K.P.D. nelle sue manovre di avvicinamento alla socialdemocrazia di questi due Lander e andrà a buon fine nell'autunno con la formazione di un governo operaio "paritario". Quanto alla piattaforma in questione, era questa: pagamento da parte della borghesia delle spese di difesa della Ruhr − registrazione e blocco delle ricchezze reali della provincia − controllo della produzione − commissione per la sorveglianza dei prezzi e la repressione dell'usura − milizie operaie contro il fascismo. Tutte queste misure erano formulate in un linguaggio molto sibillino, ma una volta tradotte in linguaggio pratico era evidente che solo la dittatura del proletariato avrebbe potuto realizzarle (anche se erano molto insufficienti) e non, in alcun caso, un governo parlamentare di coalizione con i socialdemocratici, finanche di "sinistra".

Affronteremo separatamente i tre aspetti di questa politica bastarda: il cedimento nazionalista; le lusinghe alla piccola borghesia che avevano come contropartita la rinuncia a dirigere energicamente le azioni di classe del proletariato tedesco anche sul terreno semplicemente rivendicativo e, infine, le proposte alla socialdemocrazia come alleato possibile contro il nazismo nascente e l'imperialismo dominante. Insieme questi tre aspetti contribuivano a dare alla lotta contro il fascismo un carattere democratico, frontista e interclassista che era completamente opposto alla concezione marxista.

Il primo aspetto si precisa rapidamente in una serie di articoli apparsi nella rivista ufficiale del K.P.D. Die Internationale (e soprattutto nei n. 6, 7 e 8) dove il segretario e il teorico del partito, Brandler e Thalheimer, affermano che "la borghesia tedesca, nella misura in cui conduce una lotta difensiva contro l'imperialismo, gioca, nella situazione che si è creata, un ruolo oggettivamente rivoluzionario ma, in quanto classe reazionaria, non può utilizzare i soli metodi che permetterebbero di risolvere il problema. La contraddizione tra il compito di fronte a cui è posta la borghesia e la sua impotenza ad attuarlo costituisce la sua condanna a morte in quanto guida delle altre classi della nazione (proletariato e piccola borghesia) e, inversamente, offre alla classe operaia un trampolino per mettersi alla testa della nazione... Il ruolo storico particolare del K.P.D. è di liberare la Germania dall'oppressione imperialista. O assumerà questo ruolo, o fallirà con tutte le altre classi e gli altri partiti ". "In queste circostanze, la condizione della vittoria proletaria è la lotta contro la borghesia francese e la capacità di soppiantare la borghesia tedesca in questa lotta, assumendo l'organizzazione e la direzione della lotta difensiva sabotata dalla borghesia ". È per questa ragione che "il partito deve unire in modo convincente il ruolo di liberazione nazionale del comunismo e il suo ruolo di liberazione sociale: è solo in questo modo che può togliere il velo al vero volto della borghesia traditrice della nazione, arrestare la marea fascista e risvegliare nelle masse la volontà di conquistare il potere". In conformità a questo orientamento la direzione del partito e il comitato centrale dei consigli di fabbrica lanciano il 29 maggio 1923 un proclama che chiama gli operai alla lotta sulla parola d'ordine: "Abbasso il governo della vergogna nazionale!". Nel corso dei due mesi seguenti, oratori comunisti e nazisti si succedono alla tribuna delle manifestazioni contro la pace di Versailles e l'occupazione della Ruhr. Nelle pagine della Rote Fahne i nazionalisti tedeschi, il conte di Reventlov e Moeller van der Bruck, polemizzano con Radek e Frolich sulle prospettive della rivoluzione nazionale tedesca e sulle forze che devono sostenerla. Si organizzano colloqui tra organizzazioni giovanili comuniste e organizzazioni naziste sulla possibilità di "una guerra di liberazione nazionale" e i mezzi per condurla. All'Esecutivo dell'Internazionale del giugno 1923 Zinoviev si felicita che l'organo nazionalista tedesco Das Gewissen saluti il K.P.D. "come partito nazional-bolscevico, partito di lotta che si indirizza a tutta la nazione". Nel suo celebre "discorso Schlagater" Radek ammaina la bandiera rossa sulla tomba "del martire nazionalista fucilato dai francesi" e chiama "le masse piccolo-borghesi animate da sentimenti nazionali" a serrare le fila attorno alla classe operaia e al suo partito, che non è "il partito della lotta per un pezzo di pane e dei soli operai dell'industria, ma il partito dei proletari militanti che lottano per la loro liberazione, che si identifica con la libertà di tutto il popolo tedesco, con la libertà di tutti quelli che lavorano e soffrono in Germania". Era la prima volta che in una riunione − e in una riunione internazionale per di più − un oratore presentava la linea rigorosa del partito marxista difesa da così lungo tempo dai bolscevichi stessi come "la difesa del pezzo di pane dei soli lavoratori dell'industria" e introduceva il "principio", nuovo e inaudito per dei comunisti, secondo cui era nostro dovere esaltare e sostenere − anche in modo puramente negativo − chiunque si sacrificasse per un'idea, qualunque essa fosse, nel drammatico conflitto di classi e partiti che ne incarnavano gli interessi storici!

Un tale approccio al problema della tattica comunista nella situazione del 1923 non si sarebbe potuto giustificare che a condizione − condizione mostruosa! − di considerare la Germania allo stesso modo di un piccolo paese di capitalismo arretrato in attesa di una "rivoluzione doppia", cioè borghese e quindi nazionale all'origine ma che trascende in rivoluzione proletaria nel corso del suo sviluppo, come nella prospettiva di Marx ed Engels per la Germania del 1848-49, in quella di Lenin per il 1917 russo o in quella del II Congresso dell'I.C. per le colonie e semicolonie a cominciare dall'India e dalla Cina. Questo approccio doveva necessariamente condurre non solo a una modifica, ma a un cambiamento completo dell'analisi marxista tradizionale sul ruolo delle classi medie e sulla tattica da applicare al loro riguardo. È indiscutibile che il partito della rivoluzione comunista non debba disinteressarsi di questi strati sociali che, tra l'altro, sono suscettibili di provare quanto la classe operaia il peso che la marcia inesorabile dell'imperialismo fa sopportare a tutta la società. Ma una cosa è fare una costante propaganda tra questi strati per tentare almeno di neutralizzarli, fosse anche parzialmente, mostrando loro, con i fatti, presenti e passati, che non c'è salvezza per loro sotto il regime del grande capitale e che la sola via politica aperta ai loro elementi sani è l'adesione alla causa del proletariato, sola classe oggi rivoluzionaria; tutt'altra cosa pretendere di conquistare la piccola borghesia facendosi il portavoce delle sue ideologie controrivoluzionarie, barattando il nostro internazionalismo con il suo nazionalismo cieco e stupido. Tutto questo conduce a sacrificare la nostra politica classista sull'altare di una politica "popolare" storicamente sterile e vuota e quindi antirivoluzionaria. Nel caso della Germania del 1923, questa politica del K.P.D. non poteva che favorire delle reazioni nazionaliste, scioviniste e revansciste nella stessa Francia date le tradizioni piccolo-borghesi e contadine particolarmente vivaci in questo paese. Questa fu la politica che praticò il K.P.D., soprattutto a metà del 1923, con il solo risultato di incoraggiare le nascenti bande nazional-socialiste e rivaleggiando con loro sul loro terreno.

Sarà sufficiente qualche citazione per illustrare la confusione che si stava impadronendo dell'Internazionale. Nel n. 114 di l'Inprekor (6 luglio 1923), in un articolo intitolato Il fascismo, noi e i socialdemocratici tedeschi, Radek che allora giocava il ruolo di teorico del "nuovo corso" del K.P.D. scrive : "Il fascismo è un movimento politico di grandi masse della piccola borghesia proletarizzata. Se si vuole combatterlo bisogna farlo politicamente. Ma non si può combatterlo politicamente che, primo: aprendo gli occhi delle grandi masse lavoratrici della piccola borghesia sul fatto che i loro legittimi sentimenti sono sfruttati dal capitalismo, responsabile non solo della miseria economica ma della miseria nazionale della Germania; secondo: indicando a queste masse piccolo-borghesi la giusta via nella lotta per la difesa dei loro interessi. Contro cosa combattono? Contro la miseria insopportabile in cui sono precipitate e contro l'asservimento della Germania a seguito del trattato di Versailles. La classe operaia ha il dovere di sostenerle in questa lotta? Sì, ne ha il dovere. Il socialismo non è mai stato solo una lotta degli operai dell'industria per un pezzo di pane; ha sempre cercato di diventare un faro luminoso per tutti quelli che soffrono".

Nel n. 128 di Inprekor (3 agosto 1923) con il titolo L'imminente bancarotta della borghesia e il compito del K.P.D. si ricordava che il compito del K.P.D. era di organizzare la maggioranza della parte attiva della classe operaia sotto la bandiera del comunismo e attirare al partito le simpatie di più grandi strati operai riprendendo con ampiezza "le parole d'ordine transitorie oggi necessarie" e facendo di queste la base di "una alleanza con le frazioni della socialdemocrazia che la pressione della classe operaia costringe a marciare con noi", a condizione che siano disposte a ... "lottare lealmente contro la borghesia per salvare il proletariato dalla miseria, dalle sofferenze e dalla controrivoluzione". Si può leggere, nel seguito dell'articolo, il caratteristico passaggio seguente : "Ma la mobilizzazione della classe operaia non è sufficiente. Dobbiamo penetrare a fondo nelle masse piccolo-borghesi proletarizzate dal capitalismo. I piccoli contadini, i fittavoli, i funzionari, gli impiegati, gli intellettuali proletarizzati sono per noi una riserva di forze, anche se ragioniamo in modo reazionariamente nazionalista... Dobbiamo non solo aiutarli a spogliarsi dei loro vecchi pregiudizi e a fare, di una parte di loro, dei veri comunisti, ma essere anche pronti a collaborare con questi strati piccolo-borghesi che, senza essere disposti ad accettare la nostra dottrina e restando attaccati alla loro ideologia, vogliono in pratica[?] combattere per la nostra stessa cosa in questo periodo storico".

Da parte sua Zinoviev, pochi mesi dopo, alla vigilia degli avvenimenti di Sassonia e Turingia, scriverà nella brochure Problemi della rivoluzione tedesca riferendosi agli impiegati e funzionari tedeschi, nello stesso modo in cui, nell'Esecutivo di giugno si era riferito ai piccoli contadini prussiani: che la piccola borghesia era chiamata, in Germania, a giocare un ruolo simile a quello dei contadini in Russia. Identificava quindi, implicitamente, la situazione di un paese a capitalismo arretrato con prospettive di doppia rivoluzione con quella di un paese ad alto potenziale capitalista come la Germania.

È vero comunque che, ben presto, i fervori nazionalisti del K.P.D. scomparvero di fronte alla nuova prospettiva che si disegnava, in modo imprevisto, di fronte all'Esecutivo dell'Internazionale dopo agosto e che era una evoluzione accelerata della situazione tedesca verso uno sbocco rivoluzionario. Così, all'annuncio delle prime aggressioni naziste contro operai disarmati, Radek gridò nella Rote Fahne: "I comunisti tedeschi hanno il dovere di lottare e, se necessario, le armi alla mano contro l'insurrezione fascista", ma, in attesa, l'unico risultato della politica che cercava di "convincere gli elementi piccolo-borghesi fascisti che lottano contro la pauperizzazione (e che devono quindi essere distinti da quelli che sono direttamente venduti al Capitale) che il comunismo non è il loro nemico, ma la stella che mostra loro la via della vittoria" fu di disorientare e di disarmare i proletari, di incoraggiare il nazionalismo latente nel partito francese, e infine di procurare al K.P.D. una brusca dichiarazione di rottura da parte degli "Schlageter" e del nazismo che aveva adulato e corteggiato invece di colpirlo senza esitazioni né riserve.

Le tattiche "elastiche" o meglio in contraddizione con i principii hanno la loro logica inesorabile. Se si abbraccia la "causa della nazione", se si fanno proprie le inquietudini della piccola borghesia rurale e contadina, se si corteggiano i nazionalisti, è inevitabile allora che si consideri la socialdemocrazia non come l'ala sinistra del fronte borghese, ma come un'ala destra recuperabile del movimento operaio, e che si adotti al suo riguardo l'attitudine di chi aspira ad essere "compagni di strada" oppure "cugini" ed eventualmente a creare alleanze governative o no. Questo atteggiamento era una anticipazione delle posizioni disastrose di Gramsci all'epoca dell'affare Matteotti, che costituiscono uno scivolone non solo verso l'"antifascismo" borghese e le rivendicazioni democratiche, ma anche verso i fronti popolari e le responsabilità ministeriali, cose a cui si assisterà quindici e venti anni più tardi.

Abbiamo già citato il congresso di Lipsia che offrì ai socialdemocratici di Sassonia e di Turingia il primo invito a formare un governo "operaio" contro il fascismo e l'occupazione della Ruhr, e il bis di questo appello alla "sinistra socialdemocratica" in marzo. È superfluo precisare che né l'uno né l'altro furono allora accettati. Ciò non impedì al K.P.D. non solo di continuare sulla stessa via, ma di moltiplicare gli sforzi per non lasciarne uscire i proletari.

In marzo, conformemente all'orientamento contenuto in un proclama comune del Comintern e del Profintern (vedi Inprekor n. 19 del 29 gennaio), si costituisce a Berlino un "comitato d'azione contro il fascismo" presieduto da Clara Zetkin, il cui piano d'azione (indirizzato ugualmente ai socialdemocratici) contiene le prime "sanzioni" contro il fascismo italiano sotto forma di boicottaggio delle forniture di carbone e di ferro all'Italia. Lo stesso mese si riunisce una conferenza internazionale a Francoforte; vi sono invitati i partiti della II Internazionale come pure i sindacati aderenti alla centrale di Amsterdam ma quasi nessuno accetta di venire. La risoluzione finale ripete gli slogan ormai noti della lotta contro Versailles e contro Poincaré, ma evita di prendere chiaramente posizione sui compiti specifici del proletariato tedesco e del suo partito rivoluzionario. Invano una conferenza tenuta poco dopo a Essen deplora il tacito appoggio del partito alla "resistenza passiva" e il sabotaggio da parte dei socialdemocratici della proposta di sciopero generale, chiede che il proletariato sia orientato alla presa del potere e denuncia apertamente "la propaganda e i preparativi dei nazionalisti che entrano nel quadro della controrivoluzione". Il 22 aprile, preoccupata dalla radicalizzazione accelerata delle masse operaie che rischia di turbare i piani bizantini del IV Congresso, l'Internazionale convoca a Mosca sia la direzione del K.P.D. che l'opposizione. Riconosce che la prima è andata troppo a destra nelle proposte di fronte unico e di governo operaio, ma risponde alla seconda e a gruppi e sezioni del K.P.D. inclini a fomentare putsch e colpi di mano nella Ruhr che l'assenza di movimenti rivoluzionari nella Germania non occupata e in Francia richiede pazienza, e sconsiglia di forzare la situazione. Infine ordina la cooptazione di quattro elementi della "sinistra" nel Comitato Centrale per impedire che il partito modifichi le sue posizioni. In maggio, il Comitato di azione indirizza al congresso di unificazione tra le Internazionali 2 e 2 e mezzo un "invito a unirsi in un fronte proletario [!] unito contro il nuovo pericolo di guerra e contro il rafforzamento delle sanguinarie bande fasciste" (Inprekor n. 89 del 28 maggio 1923). Tutto ciò che ottiene è larisposta dell'austro-marxista Adler : "Dobbiamo precisare chiaramente di fronte a chi propone il fronte unico che esso è possibile solo se i comunisti riconoscono l'uguaglianza dei diritti in seno al proletariato (die Gleichberechtigung des Proletariats), un accordo non ha nessuna possibilità di realizzarsi perché noi siamo separati da voi da questioni di principio" ("Inprekor", ibidem). Ecco come finì l'ennesimo tentativo di "accordo" e per giunta di "sciopero simbolico di ventiquattro ore".

Il peggio è che in tutto questo incrociarsi di azioni estranee a ogni linea di classe per quanto poco chiara, il K.P.D. perde ogni mordente, si pone lui stesso sulla difensiva e si riduce a una completa impotenza mentre la frazione del proletariato che lo segue morde il freno o cade nello scoraggiamento. Tutto ciò è talmente vero che quando in luglio la situazione interna si aggrava e si succedono disordini un po' dappertutto, il Partito Comunista tedesco si affretta a dire di stare in guardia dalle "provocazioni fasciste". Quando il governo socialdemocratico di Prussia vieta la "giornata antifascista" programmata dal K.P.D., e le manifestazioni da Postdam a Berlino che dovevano distinguerla, quest'ultimo annulla precipitosamente ogni manifestazione proclamando subito dopo: " Non solo non possiamo tentare una lotta generale, ma dobbiamo evitare tutto ciò che potrebbe dare al nemico l'occasione di distruggerci poco a poco" (Die Rote Fahne, 30 luglio e 2 agosto 1923). Tre mesi dopo, ridotto all'impotenza, il K.P.D. finirà tra le braccia dei social-traditori "di sinistra" nei governi di Sassonia e Turingia. Sarà sufficiente allora un reggimento dell'esercito per sloggiarlo dal potere e una giornata di fucilate ad Amburgo per spegnere completamente gli ardori della sinistra del partito.

Così, quando si prende in considerazione tutta la prima metà del 1923 in Germania, si ha il diritto di dire che la rivoluzione tedesca non fu "schiacciata" in ottobre, quando le truppe comandate dal governo centrale di coalizione Stresemann-Hilferding obbligarono con qualche colpo di fucile il governo sassone di Zeigner-Brandler a dissolversi, ma in gennaio quando il partito cominciò il suo catastrofico avvicinamento alla socialdemocrazia, le classi medie e le loro filiazioni nazionaliste immaginandosi di potersi servire di queste forze contro il fascismo, mentre i fatti storici avevano insegnato (alla Sinistra Italiana in particolare) che queste forze ne erano le condizioni necessarie. Persa la sua bussola di classe, il K.P.D. non fu battuto dal fascismo, che da solo non poteva nulla, ma dalla socialdemocrazia che aveva corteggiato e adulato. Quando la riconobbe infine come l'altra faccia della controrivoluzione era già troppo tardi. Sotto la nuova direzione di "sinistra" che aveva frettolosamente sostituito la direzione di destra, pretese di ritornare alla lotta sotto la bandiera della rivoluzione e della dittatura proletaria, ma solo per cadere nelle stesse pratiche bloccarde antifasciste e democratiche della direzione di destra, di cui Mosca era stata l'emissario nel terribile scacco di ottobre. Diremo di più: il partito che Hitler massacrerà una volta preso il potere si era già suicidato dieci anni prima. Dopo l'ottobre 1923 non farà che sopravvivere. Certo continuerà ad attrarre proletari tra i suoi ranghi ma solo per il fascino irresistibile che esercitava ancora la Russia "bolscevica" che lo sosteneva, e anche per l'attrazione della demagogia di cui solo lo stalinismo era capace e che raggiungerà il suo massimo all'epoca della pretesa "svolta a sinistra". Ma questo non gli impedirà di essere soltanto l'ombra di un partito tanto pletorico numericamente quanto pauroso e poltrone nella vita reale e nella lotta fisica.

Così il K.P.D. pagò con il suo sangue l'illusione che la democrazia e le sue istituzioni possano servire di copertura o, peggio ancora, di punto d'appoggio al comunismo. Pagò a questa follia il sacrificio dell'indipendenza, del programma e della prospettiva rivoluzionaria del partito di classe: la controrivoluzione lo aspettava tranquillamente al giro di boa e, venuto il momento, non le restò che l'ultima pugnalata alla schiena per completare l'opera tra i bagliori delle ciniche risate delle camicie brune.

Note

[1] Si tratta dell'"Introduzione" al testo francese del 1970.

[2] L'episodio non deve indurre in errore. Prima di tutto, il putsch era votato allo scacco prima ancora di cominciare per dissensi interni tra i suoi artefici. In secondo luogo, la grande borghesia non aveva nessun interesse a patrocinare un movimento ad ispirazione separatista e monarchica, dato che la repubblica centralizzata conveniva a meraviglia ai suoi scopi. Infine, una volta che il putsch si era liquidato da solo, la giustizia borghese si mostrò tanto clemente con quelli che lo avevano organizzato quanto implacabile con i proletari. Non solo il breve soggiorno di Hitler in prigione non fece gran male al "martire", ma favorì la sua carriera e lo incitò a meditare con più ponderatezza sui piani futuri: per ultimo, fece di lui un... uomo nuovo.

[3] È sufficiente citare gli episodi di Mulheim e di Gelsenkrichen in aprile e maggio.

[4] La conferenza dei delegati di tutti i partiti comunisti di Europa a Essen all'inizio del gennaio 1923 aveva votato una risoluzione che denunciava il trattato di Versailles e la politica imperialista degli Alleati a riguardo della Germania ("Rote Fahne", organo del K.P.D., gennaio 1923). Non si vide, dopo questa decisione, nessun serio sforzo per coordinare e se possibile unificare l'azione del P.C. tedesco e del P.C. francese. Quest'ultimo era, d'altra parte, costituito da un magma di correnti diverse e dominato da preoccupazioni elettorali; non era per niente preparato a una attività di propaganda illegale nell'esercito e trovò rapidamente nella demagogia para- nazionalista e anche patriottica del K.P.D. un buon argomento per non fare nulla e restare passivo di fronte alle manovre di Poincaré.

[5] Notiamo di passaggio che dopo gennaio, l'apprezzamento che il K.P.D. dà della posizione della borghesia tedesca nella questione della Ruhr cambia: all'inizio, l'accusava di partecipare a un complotto imperialista contro la Germania; in seguito, la presenta come la "vittima" di una aggressione alla quale la borghesia avrebbe voluto opporsi con la forza se non avesse avuto paura di mobilitare tutto il popolo tedesco (come esigeva il suo "ruolo oggettivamente rivoluzionario") e in primo luogo le classi lavoratrici, tradendo la causa nazionale nell'uno e nell'altro caso.

[6] D'altra parte si legge: "La Germania di oggi, il cui vecchio apparato militare è distrutto dalle sue fondamenta tanto sociali che psicologiche, non può risollevarsi che grazie all'impiego energico, e spinto fino alle sue estreme conseguenze, della rivoluzione proletaria".

[7] L'articolo in questione aveva il titolo caratteristico di "1914 e 1923" e condannava il difesismo socialdemocratico all'epoca dello scoppio della guerra, ma esaltava però il difensivismo "comunista" nove anni dopo!

[8] Questa polemica sarà anche pubblicata, con un certo compiacimento, in un opuscolo del Partito intitolato "Schlageter, eine Auseinandersetzung" (un dibattito su Schlageter, vittima degli occupanti francesi e portato a rango di eroe dai nazionalisti). Ne traiamo tre frasi lapidarie dei comunisti: "La questione della nazione è diventata una questione della rivoluzione: il rovesciamento del dominio del capitale è diventato la condizione di salvezza della Germania". "La rivoluzione tedesca è la condizione della liberazione del popolo tedesco". "La storia dimostra l'impossibilità in cui si trova il capitalismo di salvare la nazione dalla servitù".

[9] Questa posizione doveva far scandalo perfino nel Partito cecoslovacco, che è tutto dire, data la forza del nazionalismo nel movimento operaio di quel paese.

[10] IL K.P.D. aspettava questo miracolo perfino dai dirigenti socialdemocratici, come se questa "ipotesi" non fosse già stata sconfitta dalla storia e avesse ancora bisogno di conferme o smentite! Perciò, il K.P.D. non si accontentò di proporre loro un fronte unico politico, ma perfino la costituzione di "governi operai" contro la minaccia del fascismo!

[11] Da parte sua, Radek non esita a proclamare: "Il Nazional-bolscevismo non sarebbe stato nel 1920 che una alleanza per salvare i generali che, immediatamente dopo la vittoria, avrebbero spazzato via il partito comunista. Oggi, significa che tutto il mondo è compenetrato della convinzione che non ci sia salvezza che con i comunisti. Oggi noi costituiamo l'unico sbocco possibile. Il fatto di insistere con forza sull'elemento nazionale in Germania costituisce un atto rivoluzionario allo stesso modo dell'insistere sull'elemento nazionale nelle colonie" ("Inprekor", n. 103, 21 giugno 1923). D'altronde Radek definisce la posizione della Germania come quella di un "paese coloniale in cui i comunisti potrebbero marciare con un governo nazionale borghese"!

[12] D'altra parte anche una "sinistra" molto confusa al suo interno portava il K.P.D. a perseverare in questa tendenza invece che a frenarla.

[13] Ugualmente in maggio, si indirizzano pressanti appelli ai sindacati per una "lotta attiva" in opposizione alla "resistenza passiva" di Cuno. In un articolo del 18 maggio 1923 dell'"Inprekor" (n. 18) che è destinato alle grandi organizzazioni sindacali, le prospettive di sviluppo della crisi sono così illustrate: "O una grande frazione del patrimonio reale (Sachvermogen) della Germania (la quasi totalità) passa al vincitore, o si concentra nelle mani di un potere fermamente deciso a trarne un beneficio (ein Nutzen) che permetterebbe anche il pagamento delle riparazioni". La prima soluzione è quella sostenuta dal capitale internazionale (internazionalizzazione dell'industria mineraria) e "vogliamo credere che anche i capi sindacali riformisti la respingano in tutta sincerità". "La seconda soluzione non può essere applicata che da due tipi di governo: sia un governo fascista che aumenterebbe la durata del lavoro e porterebbe al massimo lo sfruttamento della classe operaia, sia un governo operaio che si appoggerebbe su tutta la forza organizzata dei lavoratori e che, dotato di pieni poteri, riuscirebbe allo stesso tempo a nutrire gli operai e a soddisfare le esigenze usuraie (Shylocksforderungen) dell'Intesa". Era, come si vede, un vero programma di "governo nazionale" sul tipo di quello che Stresemann instaurerà poco dopo.

Prima di copertina
Comunismo e fascismo (1921-1926)

Quaderni di n+1 dall'archivio storico.

Organica presentazione di testi della Sinistra sul Fascismo che anticipano la classica posizione comunista: "Il peggior prodotto del Fascismo è stato l'Antifascismo".

Indice del volume

Comunismo e fascismo