Guerra senza limiti

Dopo l'attacco dell'11 settembre gli Stati Uniti hanno chiamato a raccolta il mondo intero per combattere il cosiddetto terrorismo internazionale. Nei fatti hanno scatenato da soli una campagna militare contro l'Afghanistan e un'operazione globale di spionaggio. L'attacco sul suolo americano, preso a sé è certamente terrorismo, così come preso a sé l'attacco all'Afghanistan è certamente guerra. Di qui alcune teorizzazioni sui cosiddetti conflitti asimmetrici. Sarebbe asimmetrico l'attacco terroristico che mostra quanto sia vulnerabile il gigante imperialista; sarebbe asimmetrica l'azione di guerra della potente "Amerika" contro le "masse islamiche oppresse". Per noi esiste un'asimmetria reale solo fra la potenza degli Stati Uniti, quella dei loro concorrenti Europa e Giappone, e quella delle borghesie emergenti nel resto del mondo, islamiche o meno.

Per riuscire a comprendere il nesso fra terrorismo, guerra e oppressione, occorre collocare i fatti recenti nel corso storico dell'imperialismo. Attacchi all'America che hanno scatenato crociate conseguenti per la libertà e la giustizia si sono già manifestati in mille varianti. Quello odierno quindi non è che uno dei capitoli della guerra generale che gli Stati Uniti hanno condotto per conquistare l'egemonia sul mondo e conducono per mantenerla, come del resto dicono essi stessi chiaramente, rudemente, in faccia a tutti. Essi perseguono da un secolo questo risultato, da quando si lanciarono contro la Spagna affacciandosi sul Pacifico, da quando intervennero in Europa nel 1917 e nel 1944, fino alle guerre di Corea, del Vietnam, del Golfo e dei Balcani, per limitarci a parlare delle guerre visibili, condotte con le armi e non con la semplice potenza economica.

Nella Guerra del Golfo, guerra guerreggiata ed economica si saldarono chiaramente. L'invasione irachena del Kuwait fu affrontata dagli Stati Uniti in modo da poterla utilizzare nell'ambito della loro guerra più vasta. La guerra dell'informazione aveva insistito sul fatto che l'espansionismo panarabo di Saddam Hussein avrebbe messo in pericolo non solo Israele e l'Arabia Saudita ma il Medio Oriente con tutto il petrolio del suo sottosuolo. Non era vero, ma la guerra permise agli americani di insediarsi stabilmente nell'area petrolifera con basi militari, mezzi ingenti e migliaia di soldati. Non per nulla il "diabolico Saddam" era stato lasciato dov'era; ed è ancora lì. Il controllo del petrolio e dei flussi finanziari che ne derivano è guerra soprattutto contro chi non beneficia nè del controllo né dei flussi, cioè contro Europa e Giappone.

Oggi la più grande potenza del mondo, per quanto ciò sia pazzesco e irrazionale, proclama di essere entrata in guerra contro un individuo, i suoi seguaci e i Taliban, suoi ospiti malvagi. Una guerra alla scala mondiale per punire un diabolico atto di terrorismo organizzato da una specie di "Spectre", come nei romanzi di Fleming. Solo poco per volta sta filtrando la vera natura della guerra - dato che di guerra si tratta, fra le borghesie dei vari paesi -, ma ormai l'intera umanità si è stampata in mente la faccia del miliardario barbuto, ha raccolto il messaggio simbolico ed essenziale della guerra psicologica inventata a suo tempo da Goebbels.

Guerra, dunque, e quindi anche "terrorismo", dato che nella guerra moderna, come Churchill, Roosevelt e Hitler insegnarono, i bombardamenti terroristici sui civili sono pianificati. Guerra, spesso combattuta con la disparità di armi che gli stessi americani hanno conosciuto nella loro grande rivoluzione. E' sbagliato immaginare che la guerra sia solo quella fra eserciti regolari. La teoria della guerra si applica nello stesso modo al rapporto fra guardie e ladri, allo sbarco in Normandia, alla lotta di classe, al gioco degli scacchi o ai sofisticati modelli di wargame moderni, come si impara da Sun Zu, von Clausewitz, Lenin e von Neumann.

Lo stadio di sviluppo cui l'attuale capitalismo è giunto è sempre imperialismo, sia esso "americano", "tedesco" o "giapponese". Rispetto al passato nulla è cambiato dal punto di vista della ineliminabile concorrenza fra imperialismi; invece molto è cambiato dal punto di vista degli strumenti a disposizione per farsi la guerra. In un mondo dove impera il capitalistico motto "mors tua vita mea", lottare contro i concorrenti è sempre un imperativo categorico, ma, quando si tratta di guerra, la potenza diventa un fattore determinante. Nessuno oggi può muovere guerra diretta agli Stati Uniti. Perciò la guerra prende altre forme consentite dai rapporti di forza. Per contro, non per malefica volontà di dominio, ma banalmente per non soccombere, gli Stati Uniti devono fare guerra preventiva, prima, molto prima che si coalizzi contro di essi una forza di guerra indiretta sufficiente a metterne in discussione l'egemonia economica e militare.

Perciò, siccome la guerra generale è un inevitabile sbocco dei rapporti fra Stati, specialmente nell'epoca imperialistica, ecco che lo scontro assume forme specifiche, quelle appunto che si stanno dispiegando sotto i nostri occhi. Non è vero che siamo ad un cambio epocale, come non è vero che tutto è come prima. Siamo di fronte ad una grande potenza in crisi gravissima. Essa non tracolla solo perché può utilizzare mille strumenti di difesa e offesa al fine di accaparrarsi grandi quantità di plusvalore prodotte dal suo proletariato e, sempre più, da quello di altri paesi. Il suo sistema economico diventa così compenetrato in quello mondiale che non può sopportare la minima avvisaglia di rottura degli equilibri esistenti. Come tutti gli imperi, deve attaccare di continuo per impedire che forze avversarie si coalizzino fino ad assumere forza sufficiente.

Il presidente degli Stati Uniti afferma che il suo paese non permetterà a nessuno, in qualsiasi parte del mondo, di mettere in discussione né l'egemonia né il modo di vita americani. Chi l'ha tentato sarà distrutto. Non è stato però l'attacco dell'11 settembre a produrre ex novo la dottrina militare di controllo globale e preventivo del pianeta: il Quadriennal Defense Report sulla strategia di guerra americana, redatto in precedenza, conteneva già tutte le "novità" che sembrano introdotte dai nuovi avvenimenti. C'è la "guerra asimmetrica" contro il nemico che non combatte ad armi pari, il progetto di un sistema permanente di spionaggio, i gruppi di commando, la guerra informatica, l'integrazione con la rete mondiale di basi militari da potenziare. Soprattutto c'è il concetto che la difesa del territorio degli Stati Uniti si realizza in ogni parte del pianeta.

Il mondo capitalistico come sistema globale ormai a forte controllo americano evidentemente non basta a preservare dalle sorprese. I paesi d'Europa in via di federazione e il Giappone sono imperialismi locali, la cui unica possibilità di reazione autonoma è la manovra sotterranea coordinata per sfuggire al drenaggio di valore e alla posizione subordinata delle loro borghesie nazionali. D'altra parte, fra pochi anni, giganti come la Cina e l'India faranno la loro comparsa sui mercati come potenze economiche in grado di sfruttare tre miliardi di abitanti, e il consolidamento di una finanza petro-islamica sotto l'egida saudita è vista come minaccia.

Ma non è l'Islam che fa paura agli Stati Uniti: l'Arabia Saudita, loro fedele alleato, è il covo dei massimi sponsorizzatori di guerriglie islamiche in tutto il mondo. Gli Stati Uniti sanno che è storicamente fallito ogni tentativo di panislamismo; quello che li spaventa è la formazione di forze centrifughe e indipendenti, in grado di far saltare il sistema globale che permette l'american way of life. E' questo che si ripete ossessivamente a Washington dall'11 settembre. Perché una diversa ripartizione delle risorse e del plusvalore mondiale fra le borghesie concorrenti è l'incubo di ogni guerra imperialistica. E' vitale, per gli Stati Uniti, trovare forme di alleanza subordinata, creare deterrenti contro eventuali rigurgiti di "sovranità nazionale". L’attacco all'Afghanistan fa parte della strategia generale che ingloba gli "alleati" nella logica di sopravvivenza americana. Le bombe che cadono a Kabul è come se cadessero a Berlino, Tokio, Pechino o Nuova Delhi. Che invece di un Saddam o di un Milosevic sotto le bombe ci sia questa volta un bin Laden non cambia nulla.

Proprio per queste intrinseche debolezze l'imperialismo americano non deve essere considerato né imbattibile né eterno. Non siamo alla "fine della storia" ma certo ad una accelerazione dei processi storici. Possono verificarsi vittorie americane significative nel controllo del pianeta, ma solo in via transitoria. Qualsiasi sistema divenuto troppo complesso e incontrollabile può collassare. L'Unione Sovietica e il suo sistema hanno fornito un esempio formidabile. La debolezza intrinseca è palese anche nella posizione di un gendarme planetario che dovesse far fronte simultaneamente a molteplici situazioni di crisi. E di situazioni critiche potenziali ed esplosive è ricolmo ogni continente, a partire dalla condizione del proletariato occidentale, che vede erosi i risultati raggiunti. Non solo i borghesi tendono a salvaguardare e migliorare il loro modo di vita.

Le popolazioni dell'Afghanistan sono oggi vittime di massacri, come lo sono state quelle coreane, vietnamite, irachene, serbe, ecc., ma questa non è una guerra tra il mondo "ricco" e quello "povero" come da molte parti si legge. La guerra è fra borghesie nazionali. Le popolazioni civili ne subiscono le conseguenze come bersaglio delle bombe o come carne da cannone in partigianerie asservite ai belligeranti. La posta in gioco non è neppure soltanto l'enorme rendita da monopolio che deriva dal petrolio, vale a dire tutto plusvalore che viene prodotto dal proletariato, soprattutto occidentale: è impedire che il sistema vada verso la catastrofe, assicurare cioè la possibilità stessa di utilizzare ancora per l'avvenire quel petrolio nel ciclo industriale dello sfruttamento controllato dagli Stati Uniti e, in subordine, da Europa e Giappone. Per questo le masse del Terzo Mondo sono inchiodate alle esigenze del Capitale mondiale senza potervisi opporre.

Su 1,3 miliardi di islamici ben pochi beneficiano realmente della rendita petrolifera. L'immensa massa, se anche potesse estrarre borghesemente per sé il petrolio e il gas su cui è nata e vive, non saprebbe che farsene. Sarebbe comunque costretta a "svenderlo", lasciando intatto il potere dei paesi imperialisti, come dimostrò l'esempio della Persia di Mossadeq nei primi anni '50. Ma milioni e milioni di proletari islamici lavorano intorno alle attività petrolifere e a quelle che da esse sono indotte. Nella lotta di classe è invariante il concetto di guerra simmetrica: più è moderno il capitalismo, più è forte il proletariato e viceversa, il problema è "se" e "come" si manifesta questa forza. In una crisi generalizzata, che faccia crollare il fronte interno dei maggiori paesi industriali, Stati Uniti in testa, proletari islamici e masse povere possono saldarsi tra loro e, a loro volta, al potente proletariato occidentale in una guerra comune. Ma perché questa saldatura possa avvenire non è sufficiente la crisi, occorre che essa produca anche la saldatura fra proletariato e direzione politica internazionale, fra militanti e teoria, produca insomma il partito rivoluzionario.

5 novembre 2001

Volantini