Quale rivoluzione in Iran? (5)
I comunisti e la soluzione rivoluzionaria dei problemi sociali arretrati

L'eredità Pahlevi: rivoluzione capitalista alla cosacca

Dal "risveglio dell'Asia" il marxismo si attendeva che mettesse in moto non solo le colonie - India, Indonesia, Indocina - ma anche le semicolonie Cina, Turchia, Persia. Il destino di quest'ultimo paese, situato sulla vie asiatiche della Russia, è più di qualsiasi altro paese legato a quello della Russia stessa, sia per ragioni sociali che per ragioni strategiche. E' così che, sulla scia della rivoluzione russa del 1905, l'Iran si diede nel 1906 una "costituzione liberale" intesa a limitare le pretese dell'imperialismo e del potere monarchico concedendo una certa libertà di movimento alle classi urbane ma lasciando intatti i privilegi dell'aristocrazia fondiaria.

A sua volta, il terremoto sociale dell'Ottobre bolscevico si ripercosse in vasti movimenti contadini, ma poiché il ritardo sociale dell'Iran non aveva ancora permesso la nascita di classi urbane in grado di fare di questi movimenti una leva rivoluzionaria, l'alternativa divenne la seguente: o la rivoluzione russa e il proletariato internazionale prendevano la testa del movimento sociale nascente e consentivano all'Iran, spezzando l'antico dispotismo monarchico e l'oppressione plurisecolare dei proprietari terrieri, di bruciare le tappe politiche dello sviluppo storico, o l'imperialismo, appoggiandosi sulla vecchia politica di containment dell'espansionismo russo in Asia, riusciva a fare dell'Iran un avamposto del suo cordone sanitario controrivoluzionario. D'altra parte, l'introduzione di un esercito moderno avrebbe portato con se la trasformazione capitalistica del vasto paese sotto l'egida dell'imperialismo.

L'isolamento della rivoluzione d'Ottobre non poteva che lasciare l'Iran in preda alla rivoluzione capitalistica dall'alto. E questo trovò un impulso storico diverso da quello scatenato dall'urto degli interessi antirussi ancora persistenti, anzi destinati a riprendere la loro vecchia logica quando la rivoluzione proletaria venne liquidata dallo stalinismo: nell'estrazione del petrolio essa trovò non solo un incentivo economico e una nuova ragione strategica per rafforzare il militarismo di uno Stato vassallo, e il proprio peso su un paese trasformato in semicolonia, ma la cinica speranza di comprare le vecchie classi invece di doverle combattere, e di comprare nello stesso tempo il diritto storico delle classi sfruttate a fare la loro rivoluzione.

Il campione di questa via storica fu Reza Khan, che, forte dell'appoggio inglese, lanciò i suoi cosacchi alla conquista di Teheran. Salvando i "feudali" e i preti dalla rivolta sociale, egli non si accontentò di costringerli ad abbandonare i titoli di nobiltà e le prerogative nel potere centrale per mantenere i loro privilegi sociali, ma confiscò loro più di mezzo milione di ettari, pari al 5% delle terre arabili, che caddero in possesso personale dello Scià come prezzo dei servizi resi alla società. Dando alla borghesia nascente l'embrione di una legislazione moderna e di una rete di comunicazioni, e spingendosi fin quasi alla soglia di una repubblica ricalcata sul modello di Mustafà Kemal Pascià, egli fece a pezzi la costituzione del 1906 rafforzando ulteriormente l'autoritarismo del potere centrale.

Così, sul vecchio tronco del dispotismo burocratico, nato grazie alla dispersione geografica di villaggi autosufficienti curvi sotto il peso di città sorte al punto di incrocio fra la proprietà fondiaria e il grande commercio dei caravanserragli, sotto la pressione dell'imperialismo cominciò, pur fra molte contraddizioni, ad innestarsi il centralismo totalitario dell'accumulazione capitalistica.

Questo progetto mostruoso, in cui le "leggi sanguinarie" che hanno dovunque accompagnato la nascita della classe dei salariati moderni si alleavano al tradizionale arbitrio asiatico, secernette una specie di "dispotismo illuminato" all'orientale: la bandiera di una rivoluzione capitalistica alla cosacca poteva mai essere altro che una miscela eteroclita? E il suo preteso carattere "nazionale", la stessa abolizione dei trattati che riconoscevano agli stranieri i privilegi dell'extraterritorialità, non furono che la copertura inventata dall'Inghilterra per canalizzare contro l'enorme Russia vicina il risvegli nazionale persiano, e, soprattutto, per nascondere -esattamente come, a breve distanza nello spazio, con il panarabismo- la rivendicazione britannica di un influenza esclusiva sulla totalità della Persia storica. La prova ne fu data quando Reza Khan volle rimanere neutrale nel 1941 l'Inghilterra lo depose: Reza, chi ti ha fatto Scià?

La produzione di petrolio, iniziata nel 1909, è salita a 9,9 milioni di tonnellate nel 1939 e a 45,5 milioni nel 1959. E' chiaro che, in confronto alle entrate petrolifere, il peso delle entrate agricole del demanio regio è andato sensibilmente diminuendo nel bilancio dello Stato.

Le prime hanno permesso di finanziare una grande industria, che ha preso l'avvio negli anni trenta. Tuttavia, accanto allo Stato e alle compagnie straniere che controllano la grande industria, si è andata sviluppando, specialmente nel campo tessile e in quello alimentare, un'industria locale piccola e media. Soprattutto, il commercio ha fatto, in collegamento con la corte, passi da gigante, in un'atmosfera di corsa alle influenze, alle bustarelle, alle pastette generalizzate, per attingere il meglio e il più possibile al rubinetto del prezioso liquido nero.

Nelle campagne, 60.000 "feudali" possiedono ancora negli anni cinquanta la quasi totalità dei 50.000 villaggi, popolati in media da 250 abitanti; 10.000 di questi villaggi sono nelle mani di proprietari di oltre 5 villaggi; il 10% sono beni religiosi e il 5% terre della corona. La grande massa delle famiglie contadine paga sempre in natura un forte canone mezzadrile al proprietario che controlla l'acqua - il sistema di irrigazione è essenziale in questo paese semi-arido in cui il 40% delle terre è irriguo - e la distribuzione dei terreni, sempre soggetti a rotazione annua tra le famiglie (salvo i pochi casi in cui sono ancora coltivati in unità indivise).

Ma anche le campagne sono state investite dal turbine generale. I proprietari che tradizionalmente abitano in città si sono messi, per bisogno di denaro, a coltivare le loro terre, direttamente per la metà di essi, o ad affittare i proventi delle loro tenute a funzionari o a commercianti. Da un lato, è sorta accanto all'economia contadina un'economia signorile in cui vengono introdotti le culture speculative e il salariato ( nel 1960, 12.300 aziende agricole di oltre 50 [ettari ?] ha coltivato il 13% delle terre); dall'altro, l'economia contadina ridotta alla porzione congrua, sulla quale il proprietario esercita una pressione accresciuta per vendere la parte a lui spettante, ha visto il contadino specializzarsi e le parcelle ridursi al punto che il 40% delle famiglie possiede meno di 2 ha; il che non permette di vivere e spinge una parte delle braccia o ad impegnarsi sui fondi signorili o a riparare in città.

Malgrado questa evoluzione economica, tuttavia, il solo padrone nel villaggio rimane il proprietario, che non solo utilizza a piacere la terra, ma esercita la giustizia, cosicché i vecchi rapporti patriarcali diventano insopportabili per il contadino. Se il suo peso economico sulle spalle del contadino resta intatto, il peso economico della proprietà fondiaria nella vita del paese non fa che declinare con lo sviluppo delle città, dell'industria e del commercio, sotto la fontana del petrolio. Il suo peso politico è rimasto invece notevole. E lo si spiega: la proprietà fondiaria fa tutt'uno con l'esercito e l'alta burocrazia.

Questa situazione si perpetua non solo perché i "feudali" hanno una tradizione militare e lo Stato iraniano è prima di tutto un esercito, ma anche perché, fino all'inizio degli anni sessanta, se l'amministrazione e i funzionari usciti dalle classi urbane tengono le città, le campagne restano sotto il controllo esecutivo dei feudali.

Sennonché un paese in cui, nel 1956, il 31% della popolazione totale vive nelle città, in cui l'artigianato e l'industria occupano 1,2 milioni di persone ( il 21% della popolazione attiva), in cui il 60% degli abitanti delle città vive ormai di un salario e il restante 40% di attività che non hanno nulla a che vedere con l'agricoltura - e tutto ciò senza parlare di una burocrazia e di un esercito succhioni che non impiegano meno di 450.000 individui - un simile paese, con una tale profusione di interessi borghesi e moderni, anche se tirati per i capelli dall'imperialismo e smussati dalla rendita petrolifera, un simile paese può sopportare a lungo d'essere diretto dalla frusta dei proprietari fondiari?

Negli anni cinquanta, le condizioni economiche e sociali sono ormai mature per una rivoluzione borghese diretta contro l'imperialismo e i rapporti feudali, una rivoluzione che può inoltre far leva su una e propria rivolta contadina. La gigantesca ondata sociale che scuote l'Asia a partire dall'epicentro estremo-orientale in risposta al terremoto scatenato dalla seconda guerra imperialistica che non ha risparmiato l'Iran, e le classi urbane approfittano dell'indebolimento del regime in seguito alla trasformazione del paese in arena di grandi manovre militari fra i blocchi, della deposizione di Reza e della sorda lotta d'influenza fra britannici e americani, per far sentire la loro voce.

All'agitazione che si impadronisce dei primi nuclei operai e della piccola borghesia cittadina, e che si ripercuote nelle campagne, risponde come un'eco l'esperienza riformista di Mossadeq, che vede le nuove classi nate dallo sviluppo urbano cercar di negoziare un posto più grande nello Stato in rapporto ai feudali e una parte migliore della rendita fondiaria con l'imperialismo, mentre per calmare le masse si promette una riforma agraria e la costituzione del 1906. I feudali e soprattutto l'imperialismo americano, erede dell'Inghilterra e cosciente del ruolo strategico dell'Iran nel cuore della "zona delle tempeste" dei campi petroliferi del Golfo e come bastione avanzato contro la Russia concorrente in Asia, rifiutano persino questa miseria. Perciò il colpo di Stato dell'agosto 1953, che mette fine allo squallido riformismo di Mossadeq e riporta sul trono lo Scià, segna una nuova accelerazione del processo di coinvolgimento del paese nel mercato mondiale e della sua militarizzazione, cui dà l'avvio il trattato con gli Usa del 1956.

E' nello stesso anno che si crea la SAVAK, la polizia ultracentralizzata che, in collegamento con gli americani controlla l'intero paese, ma questo non impedisce al movimento sociale di riaccendersi con i grandi scioperi operai del 1956 e 1959. La crisi economica del 1960-61 risveglia gli studenti e la piccola borghesia, raggiunge le campagne dove, come nota l'autore di un libro sull'Iran, all'inizio del '63 "regnava un'atmosfera di grande jacquerie", e culmina nel giugno '63, quando una rivolta spontanea si scontra con l'esercito, lasciando 15.000 cadaveri nella polvere delle strade di Teheran e dei suoi sobborghi.

La controrivoluzione non poteva tuttavia lasciare la situazione sociale così com'era. Se si era servita dei "feudali" negli anni 1950-53 per contrastare le pretese borghesi di fronte all'imperialismo, essa non aveva potuto restaurare l'intera dominazione di quest'ultimo che accentuando il carattere capitalistico dello Stato e dello stesso esercito: un feudale può impugnare una sciabola, non maneggiare un aereo, così come la condotta di un carro armato esige non un mezzadro soggetto a corvées e appena in grado di tenere un fucile, ma un soldato cresciuto alla scuola degli ergastoli industriali.

La costituzione di un esercito moderno e l'utilizzazione della rendita petrolifera - ormai esclusiva nelle entrate di uno Stato che ha definitivamente cessato di appoggiarsi sulla rendita fondiaria agricola - imponeva di fare delle concessioni sociali allo sviluppo borghese e ridurre il peso politico della vecchia proprietà terriera dello Stato. Se nella Germania del 1850, la controrivoluzione aveva potuto vincere solo facendosi "l'esecutrice testamentaria della rivoluzione", questa volta, nell'Iran preso nelle grinfie dell'Imperialismo che integra l'esperienza di tutto il ciclo della dominazione borghese, la controrivoluzione poteva resistere, di fronte all'ondata sociale asiatica, solo precedendo la rivoluzione; come spiegò lo stesso governo, si trattava di "fare dall'alto una rivoluzione che rischiava di farsi dal basso".

E' questo, vedremo, il senso della "rivoluzione bianca" nelle campagne e del processo di industrializzazione e ammodernamento, che ne seguì: quella appunto che chiamiamo "rivoluzione capitalistica alla cosacca".

Le prime riforme (1962-1963) limitano la proprietà fondiaria al possesso di un solo villaggio: le terre così "liberate" diventano proprietà dei contadini mediante versamenti di un canone da parte di questi ultimi allo Stato sull'arco di 15 anni; gli altri contadini sono trasformati in affittuari, mentre il governo centrale prende a poco a poco il posto dei feudali nel villaggio. In realtà, si dovrà aspettare il 1969 perché la vecchia proprietà fondiaria si convinca per esperienza diretta dei vantaggi del nuovo sistema: la riforma agraria potrà quindi essere generalizzata e la massa dei piccoli coltivatori divenire proprietaria dei loro pezzetti di terreno versando allo Stato un canone per la durata di 12 anni, mentre l'organizzazione in cooperative si assumerà in teoria i compiti di manutenzione dei sistemi di irrigazione e di commercializzazione dei raccolti.

Una simile riforma ha per risultato innegabile di distruggere l'antica economia agraria, di spezzare il grosso dei vincoli economici che legavano il contadino al "feudatario" e ai resti dell'antica comunità rurale, di trascinare per sempre il contadino nel vortice del mercato e di accentuare la proletarizzazione massiccia di piccoli coltivatori vegetanti su fondi non meno ridicolmente minuscoli di quelli di prima. Ma il contadino già dissanguato dal mercato deve inoltre sopportare l'arroganza e le vessazioni sia dell'ex-feudale, che è il vero padrone delle cooperative, sia dei rappresentanti dello Stato, che ormai garantiscono il modo di conduzione capitalistico, sempre però nel vecchio stile dispotico.

Nello stesso tempo in cui assicura il passaggio dei contadini alla società moderna mantenendo un massimo di oppressione, la "rivoluzione bianca" imbocca la via più lunga per passare all'agricoltura capitalistica. La vecchia proprietà signorile è ormai teoricamente abbandonata in preda agli ardori del capitalismo, ma l'evoluzione della produttività è delle più lente e delle più deboli. Così malgrado il lancio di agro industrie su 420.000 ettari grazie all'associazione di capitali locali e anglosassoni; malgrado la costituzione di Società Anonime agricole su 400.000 ettari in cui sotto la direzione dell'ex-feudatario trasformato in capitalista associato alla burocrazia statale, il contadino è divenuto a colpi di sciabola lavoratore salariato; malgrado la costituzione su 190.000 ettari di cooperative di produzione grazie alle quali la grande proprietà concentra a suo profitto la terra e i crediti; malgrado l'introduzione di trattori, fertilizzanti e crediti in un'agricoltura commerciale costituita sia dal settore grande-capitalistico, sia da quello dei contadini medi e ricchi che, con il quarto delle braccia rifornisce il 70% del mercato, l'agricoltura iraniana cessa negli anni '70 di essere in grado di assicurare l'alimentazione delle città. Si deve quindi ricorrere a massicce importazioni.

Ma che importa? La riforma ha liquidato il peso della vecchia proprietà fondiaria e ha dato alla società i mezzi per rispondere, nelle grandi linee, al bisogno di aprire la campagna ai prodotti industriali e alla domanda di manodopera di una industria capitalistica suscitata dalla subordinazione dell'Iran alle esigenze economiche e strategiche dell'imperialismo, il cui sviluppo esponenziale riesce a dare sfogo alla pressione delle masse contadine sui resti preborghesi nelle campagne. L'Iran degli anni '70 è così diventato, malgrado tutto un paese industriale: nel 1973, l'agricoltura no rappresenta più che il 18% del reddito nazionale, mentre l'industria e gli stabilimenti vi contano per il 22% e il petrolio per il 19,5%, per non parlare degli inevitabili servizi che prosperano come sanguisughe su tutto il resto e non rappresentano meno del 40,2%! Rispetto al 1960, la popolazione attiva agricola è progredita soltanto del 9% pari a 400.000 unità, per raggiungere il 40,1% della popolazione attiva totale, mentre quella dell'industria e delle miniere, che impiegano ormai 2,7 milioni di persone, è cresciuta del 125%. A sua volta, il terziario, grazie a un esodo rurale di quasi un milione e mezzo di attivi, comprende un numero di persone attive pari a quello dei settori precedenti.

Fino a questo punto, il capitalismo che penetra nella società non appare che come un sottoprodotto dello sviluppo della ricchezza monetaria derivante dall'estrazione di petrolio: la generalizzazione di quest'ultima gonfia a dismisura nella vecchia società i canali del mercato, quelli delle forme antidiluviane del capitalismo commerciale e usurario. Di qui la crescita vertiginosa de bazar. Parallelamente, lo Stato burocratico lancia il nuovo modo di produzione, ma utilizzando le vecchie forme sociali: non investe nell'industria per fare capitale; spende le sue entrate in gadgets industriali. Si paga delle acciaierie e delle agro-industrie, come Dario i palazzi di Persepoli. Inoltre, lo Stato Iraniano può "recitare il suo ruolo internazionale" di pilastro controrivoluzionario, di gendarme del Golfo e di bastione occidentale contro la Russia, e mantenere tutte le enormi contraddizioni sociali create da questo sviluppo vertiginoso su una base sociale ancora arcaica, dilatando mostruosamente "l'esercito più moderno del mondo" e la polizia più centralizzata e più feroce per reprimere ciò che non può comprare, in un turbine di corruzione e di traffico di influenze di cui il vecchio Marx aveva creduto che avesse raggiunto un vertice storico assoluto nella Francia di Napoleone III.

Ma se le "orecchie del re " dei tempi antichi riuscivano abbastanza presto ad avvertire il malessere sociale per cercar di farvi fronte, la moderna Savak rimane sorda a tutti i malcontenti generati dallo sviluppo moderno, ed è, a maggior ragione, impotente a prevenirli. Infatti il capitalismo non arriva solo, ma porta nei suoi bagagli le leggi di bronzo, che esigono non più il guadagno massimo, ma il rendimento massimo. E' così che il formidabile aumento dei prezzi del petrolio nel 1973 non è soltanto accompagnato da un vero e proprio balzo avanti dell'industria; esso condanna soprattutto la società, già dissanguata dalla rivoluzione dall'alto, a un nuovo balzo verso il capitalismo pieno. Il capitale è concentrazione; ormai la piccola industria deve cedere il posto alla grande, il piccolo commercio al grande, la piccola agricoltura alla grande, ingrandire o perire, così vuole la legge!

In nome della "grande civiltà", la sciabola del cosacco sottomette l'Iran al giogo del mercato mondiale. Là dove i grandi magazzini non bastano a far concorrenza al bazar, l'urbanismo moderno lo distrugge. Là dove non è sufficiente l'importazione in grande di grano americano (ormai il quarto del consumo!), per mantenere al livello più basso possibile il salario operaio al fine di compensare la bassa produttività dell'industria, il che qui, è necessario l'intervento dello Stato. E, dove non basta il petrolio, la Savak fa il resto. Tale è la parola d'ordine...

Solo che la crisi internazionale obbliga i pozzi a rigurgitare il loro prezioso liquido, le mammelle dell'abbondanza corruttrice si isteriliscono, e l'intera società cade in preda ad una crisi economica e sociale senza precedenti, ma ormai senza ammortizzatori. Già dalla fine del 1970, si scatena una possente ondata di scioperi operai, che investe una dopo l'altra tutte le aziende, tutti i settori dell'economia, spingendo i proletari a sfidare la tortura e l'assassinio. E' naturale che l'aumento vertiginoso del costo della vita e il brusco rallentamento dell'espansione le diano una frustata supplementare. Ma, nel solco della breccia aperta dalla classe operaia, forte ormai di quasi due milioni di salariati dell'industria e dell'artigianato, di quasi un milione di operai dell'edilizia e di 700.000 lavoratori agricoli, la crisi spinge alla rivolta la plebe urbana vittima della miseria, il bazar che soffre del peso schiacciante del mercato e dell'insopportabile pressione della concorrenza straniera, le classi medie in via di rapida proletarizzazione e gli studenti.

A questa crisi capitalistica si intreccia il declino precipitoso e su scala generale dell'agricoltura. Il più grave non è il fallimento delle agro-industrie, che lo Stato è costretto a riacquistare, ma il fatto che l'agricoltura commerciale non riesce, a causa della concorrenza estera, a vendere il grano sul mercato e far fronte alle sue scadenza, mentre i disoccupati delle città e la manodopera ancora fluttuante rifluiscono nelle campagne, precipitando i contadini poveri e i proletari agricoli in una miseria nera. Dopo quella delle città, la quasi totalità della popolazione delle campagne insorge perciò contro lo Scià e contro l'imperialismo.

La messa in moto delle classi medie delle città e delle campagne contro il regime spiega il carattere massiccio e popolare della rivolta iraniana. I legami ancora fortissimi fra il proletariato da una parte e il contadiname e la piccola borghesia dall'altra, l'assenza di una rivoluzione borghese che abbia già lanciato le grandi masse in una lotta politica di grande portata in cui si differenzino gli interessi delle classi avverse, le terribili conseguenze della controrivoluzione staliniana che impediscono al giovane proletariato iraniano, malgrado la grande combattività di cui dà prova, di avere un partito che ne guidi i passi, ne acceleri l'assimilazione della propria esperienza e lo educhi al proprio programma; tutti questi fattori spiegano perché la classe operaia sia tuttora la coda di un movimento politico della piccola borghesia, del "popolo in generale". Di qui l'apparente unanimità di un movimento le cui componenti sociali, per quanto unite nell'odio verso il regime dispotico e il suo padrone, l'imperialismo americano, hanno tuttavia interessi profondamente diversi.

I legami economici ancora molto stretti fra il clero e la proprietà commerciale e fondiaria (essenzialmente urbana), la formidabile arretratezza delle campagne, il ruolo tradizionale delle moschee come centro di soccorso caritativo e, soprattutto, come luogo di vita sociale e politica in un paese in cui ogni altro mezzo di espressione e riunione è ferocemente represso, la tradizionale opposizione dello sciismo al regime dello Scià, ecco gli elementi che spiegano l'enorme influenza religiosa sull'insieme del moto di rivolta.

Soprattutto il fatto che lo sciismo fornisca la bandiera della lotta contro l'apertura ai valori dell'Occidente e la copertura ideologica della lotta delle classi medie contro l'apertura alle sue merci e ai suoi capitali, nell'atto stesso che assicura una continuità di protesta contro le esazioni e i crimini del regime e un'organizzazione atta a canalizzare il movimento popolare, ha trasformato la chiesa sciita in partito, il partito della protesta politica contro il dispotismo del capitale, con il suo programma di dispiegamento della nazione su se stessa e la sua aspirazione a "far girare indietro le ruote della storia". Questo "democratismo feudale", ai cui piedi si genuflettono i partiti di "estreme sinistra" e la gamma policroma dei gruppi maopopulisti, e al quale tendono la mano - quella che non offrono allo Scià!- il Fronte nazionale de fu Mossadeq e il partito del Tudeh, è la sintesi stessa dell'impotenza politica della piccola e media borghesia e della sua visione storica reazionaria.

Se ne vada solo temporaneamente lo Scià, o si instauri una repubblica islamica, un nuovo governo sarà verosimilmente indotto a negoziare con l'imperialismo una certa chiusura delle frontiere che conceda un attimo di respiro al contadiname medio e agiato e alla piccola borghesia urbana. Ma il più gran male del bazar viene non tanto dalla caduta della manna petrolifera, quanto dall'ineluttabile concorrenza straniera da essa aggravata, ed esso finirà prima o poi per intendersi con il suo vero padrone, l'imperialismo. Quanto al contadiname medio e alla proprietà fondiaria, da un lato si può essere sicuri che il capitale industriale non potrà garantire loro durevolmente un arcaismo che per esso costituisce un terribile handicap nella concorrenza sul mercato interno; dall'altro è certo che la democrazia islamica è organicamente incapace quanto il regime dello Scià di dare alle masse contadine un "supplemento di rivoluzione agraria" che allievi la loro oppressione, così come è incapace di sottrarle ai tormenti del capitalismo, di cui non ci si può liberare in modo duraturo senza colpirne nello stesso tempo le radici, cioè senza abbattere la società borghese.

Nel frattempo, un cambiamento di regime può ben rispolverare lo Stato nei suoi aspetti più odiosi, come i diritti esorbitanti concessi agli stranieri o il lusso indegno di alcune famiglie dell'aristocrazia "corrotta", ma è chiaro che nessuna Costituzione, nessuna "democrazia" potrà essere qualcosa di diverso da una "foglia di fico dell'assolutismo" destinata a nascondere le nudità del terrorismo dello Stato. Quanto a quest'ultimo, i resti del secolare dispotismo sono ormai così intimamente legati alla sua funzione capitalistica, che non li si può eliminare senza distruggere questa stessa funzione, cioè senza una rivoluzione che, facendo certamente leva sulle esigenze di distruzione radicale dei residui preborghesi in specie nelle campagne, cada nelle mani della classe operaia, per servire di macchina da guerra nella lotta del proletariato internazionale contro il capitalismo.

Una società gravida di contraddizioni come quella iraniana può secernere soltanto una forma di bonapartismo, confessionale o laico, repubblicano o monarchico. Ma, nell'inevitabile decantazione del blocco unitario creatosi intorno agli oppositori dello Scià, non può non aprirsi al proletariato la via che, alla testa dei contadini senza terra e sotto la bandiera delle proprie rivendicazioni di classe, deve portarlo per necessità storica ad assumere dittatorialmente il potere. Via lunga e difficile: ma la sola che al tormentato paese possa offrire una speranza non illusoria.

(da Il Programma Comunista nn. 1 e 2, gennaio 1979)

Note

[1] La struttura sociale dell'Iran nel 1956 rassomiglia stranamente a quella della Russia del 1914. Se infatti a quella data, l'Iran contava una popolazione più urbanizzata (il 31% contro il 20% per la Russia del 1914), la proporzione dei proletari puri vi era comparabile (il 33% invece del 26% per la Russia ) e altrettanto quella dei proletari d'industria (il 13% invece dell'11%).

[2] Paul Vieille, Pétrole e violence en Iran, Parigi, 1974, p.43.

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