Quale rivoluzione in Iran? (4)
I comunisti e la soluzione rivoluzionaria dei problemi sociali arretrati

La sola tattica rivoluzionaria in Iran oggi

Più che essere sconfitto, dunque, il movimento operaio in Iran non ha potuto dar vera battaglia alla borghesia e alla reazione sciita. Dalle informazioni che giungono filtrando attraverso le maglie dell'attuale dittatura, sembra che nonostante tutto sopravviva qualche nucleo combattivo in grado di riprendere la battaglia in una situazione più favorevole.

In vari paesi europei, l'emigrazione iraniana riflette il tracollo delle organizzazioni populiste e, mentre la maggior parte dei gruppi, anche alimentati dall'opportunismo nostrano, ripercorrono le vecchie strade, piccolissime frange tentano invece lentamente di chiarire le questioni della tattica in relazione al più generale discorso teorico marxista. Questo lavoro, se avrà la possibilità di continuare e raccogliere intorno a sé un nucleo di militanti provati, avrà un valore enorme per il futuro del movimento operaio in Iran e l'altrettanto enorme difficoltà di sostenerlo è in parte contrastata dal fatto che esso sorge, dialetticamente, proprio dal risultato rovinoso della rivolta contro lo Scià .

Uno dei primi compiti che si pongono all'attenzione dei rivoluzionari iraniani è quello di una rigorosa impostazione tattica della propria attività sia all'estero che nel proprio paese. Invece, nel lessico corrente dell'emigrazione iraniana compare spesso una definizione dei compiti della rivoluzione intesa come "strategia socialista". Ora, i compiti della rivoluzione sono senza dubbio quelli di indirizzare la lotta di classe in senso anticapitalistico e antiborghese sino alla presa del potere e alla instaurazione del nuovo regime proletario, fino all'estinzione delle classi e dello Stato. La strategia della rivoluzione è questa e nessuno che si rifaccia anche solo vagamente al marxismo la rinnega. I problemi sorgono quando si tratta di applicare la tattica a questa strategia. I termini sono mutuati dalla terminologia militare e ne mantengono grosso modo il significato. Solo nelle precisazioni che sono state necessarie via via nella storia, la parola "tattica" ha preso una significato più pieno, significato che conviene adottare per essere sempre sicuri di intendere e far intendere correttamente ogni assunto.

In ultima analisi con il termine "tattica" si intende, secondo la definizione di Lenin, un piano sistematico di azione fermamente illuminato dai principi, quindi il modo di condurre la battaglia per la dittatura proletaria, le alleanze necessarie o vietate con le altre classi a seconda della maturità storica di una certa situazione, che non si misura a giorni o settimane, neppure secondo regioni o paesi, ma a intere epoche e interi continenti.

L'osservazione che il ciclo nazionale anticoloniale è concluso, come è concluso quello capitalistico antifeudale, non autorizza a sostenere che in tutto il mondo è all'ordine del giorno la rivoluzione proletaria pura. Nemmeno nei paesi di più antico capitalismo sono scomparsi antichi retaggi che sarà compito della rivoluzione proletaria far scomparire. La rivoluzione in India si pone in termini differenti che non la rivoluzione in Germania.

L'indifferentismo in questo campo porta inevitabilmente a grossi errori di valutazione delle forze in moto nel mondo. Ma sarebbe anche errore più grave compiere la valutazione su di un'area determinata partendo dagli elementi di arretratezza per anteporli ai compiti della rivoluzione proletaria. Il metodo di approccio va invertito. Prima deve essere osservata e analizzata la struttura economica su cui si basa la vita di un determinato paese, quali sono le classi determinanti per la definizione del modo di produzione prevalente e, al di là dei puri numeri statistici ma badando all'influenza reale sulla società, quali sono le forze che emergono contro i residui antichi, che saranno costrette a lottare contro di essi e contro altre forze (o classi) che invece li sostengono. Solo in subordine si terrà conto delle contraddizioni stridenti fra il nuovo e l'antico, tra l'erompere del proletariato e i mille condizionamenti posti in atto da residui tribali, ipoteche religiose, questioni di razza, nazionalismi radicati ecc.

"La tesi che il capitalismo borghese abbia portato il mercato ai limiti del mondo e determinato il carattere non più nazionale ma internazionale del successivo antagonismo tra classi e modi di produzione, tra borghesia capitalistica e proletariato comunistico, sarebbe tradotta in modo spropositato nei termini: alla situazione odierna storica non vi possono essere lotte di classe, quale che sia la composizione delle varie società nazionali, se non nel quadro mondiale" (Vulcano della produzione o palude del mercato?" 1-13).

Egualmente spropositato, di fronte all'affermarsi mondiale del modo di produzione capitalistico e quindi della prevalenza del proletariato moderno sulle altre classi sfruttate, sarebbe dire: in ogni paese è all'ordine del giorno la rivoluzione proletaria esclusivamente anti-capitalistica e antiborghese. In tutti i paese del mondo la rivoluzione proletaria avrà da portare a termine compiti non propriamente suoi, compiti che la borghesia non può più affrontare direttamente nella sua decadenza generalizzata. In Iran, dopo la rivolta popolare e la fuga dello Scià, la pavida borghesia nazionale, vissuta all'ombra della corte, non fu in grado di prendere decisamente in mano la situazione e quindi giungere ai fini che si proponeva il movimento generale di ribellione: l'instaurazione della repubblica democratica.

La borghesia venne così meno ai suoi compiti storici, ma non perché non fossero più suoi compiti, bensì perché ormai doveva utilizzare le stesse forze reazionarie ai suoi propri fini di sopravvivenza. Fu così vittima della propria inconseguenza e dovette cercare di controllare dietro le quinte quelle forze arretrate che avrebbero dovuto essere il suo bersaglio. Si piegò ad un rigurgito del passato e non seppe fare di meglio, vigliaccamente, che aspettare tempi migliori, adeguarsi al terrore islamico e, anzi, utilizzarlo contro il suo avversario storico di classe.

Nel frattempo un'altra borghesia nazionale, quella dell'Iraq, approfittava della situazione cercando, nell'attacco militare accarezzato da tempo, una rivincita sulle passate umiliazioni, sbagliando clamorosamente il calcolo dell'effettivo costo sociale e materiale di una guerra trasformatasi subito in guerra di logoramento senza sbocco.

Un esempio di tattica non rivoluzionaria

In tale contesto, nel clima di controrivoluzione che permane nel mondo, mentre la classe operaia nei maggiori paesi industriali attraversa il suo peggiore periodo di passività, ad alcune forze, specie nell'emigrazione, sembra logico e conseguente rivendicare la lotta per il passaggio ad una democrazia popolare in omaggio ai sacrifici sostenuti durante la lotta contro lo Scià  e la dittatura islamica e in memoria dei caduti delle diverse organizzazioni.

La disfatta dei gruppi populisti, sconfitti dalla loro stessa concezione politica, non ha impedito che la parola d'ordine "repubblica democratica popolare" sopravvivesse e fosse adottata da nuove organizzazioni, quale ad esempio il neonato "Partito Comunista d'Iran", che illustra in modo emblematico nel suo programma quale significato attribuisca alla parola "rivoluzione" applicata all'Iran. Si tratta dell'antica e già conosciuta concezione gradualistica, della rivoluzione a tappe, che il marxismo ha già criticato in numerosissime occasioni. Questa organizzazione, nata dall'unione del gruppo nazionalista curdo Komala operante sul fronte armato in Curdistan con il gruppo iraniano UCM (Unione dei Comunisti Militanti), così presenta il suo programma:

"Il proletariato cosciente dell'Iran, e il suo Partito Comunista, deve innanzi tutto preparare i terreni favorevoli e le condizioni preliminari economiche e politiche per compattare le sue fila per attirare i più vasti settori degli operai e dei lavoratori sotto la sua bandiera e per il suo slancio finale verso la rivoluzione socialista. La realizzazione di queste condizioni preliminari economiche e politiche nel suo aspetto più comprensivo e più completo è possibile tramite una rivoluzione democratica vittoriosa. Una rivoluzione in cui, oltre il proletariato sono interessati e partecipano larghi strati dei lavoratori e oppressi non- proletari. Questa rivoluzione è preludio della rivoluzione socialista del proletariato iraniano... Questo governo assicurerà una tale ampia democrazia in cui la lotta di classe del proletariato contro la borghesia possa estendersi e svilupparsi nella maniera più libera, più aperta e più estesa". (Dall'opuscolo Programma del Partito Comunista d'Iran, pag. 15).

Questa concezione è tipica del gradualismo menscevico e di altri gradualismi che si sono imposti nella storia dell'opportunismo ai giorni nostri. Nonostante le reiterate assicurazioni di "lotta al revisionismo" e di rispetto del marxismo contro i suoi detrattori, nel programma citato di marxista vi è ben poco. E il fatto non ci sorprende.

Il "Partito Comunista d'Iran" scambia la "rivoluzione ininterrotta" per il susseguirsi della rivoluzione democratica con la rivoluzione socialista, la prima necessaria perché la seconda possa svolgersi. Ciò sarebbe sbagliato anche se in Iran vi fosse ancora una situazione di rivoluzione "doppia", come per esempio in Russia prima dell'Ottobre. Lenin proprio contro i menscevichi che sostenevano la tesi "prima la rivoluzione democratica poi quella socialista", scrive il formidabile opuscolo sulle Due tattiche della socialdemocrazia", condanna a tutte le concezioni gradualistiche.

In Russia non era stata fatta la rivoluzione antifeudale. Il proletariato si trovava a lottare contro l'autocrazia zarista a fianco dei borghesi. Questo non significava affatto aiutarli a prendere il potere contro lo Zar. I borghesi russi erano inconseguenti, in ritardo sulla storia, più timorosi del bolscevismo che della nobiltà zarista: non erano compagni di strada ma nemici. Il proletariato doveva prendere il potere contro lo Zar e contro i borghesi e distruggere esso stesso, con la propria rivoluzione, i vecchi rapporti feudali.

La borghesia percorre un corso storico strettamente legato a quello del modo di produzione cui appartiene. Rivoluzionaria ai suoi esordi, ottiene giustamente l'appoggio del nascente proletariato nella lotta antifeudale. Insieme distruggono tutte quelle eredità del passato che sono freni e remore all'affermarsi ed al dispiegarsi del modo di produzione capitalistico su tutta la società. Ma la borghesia consolida il proprio potere politico attraverso un suo proprio nuovo Stato contro i residui delle vecchie classi dominanti e quindi anche contro il proletariato. La lotta del proletariato nella rivoluzione democratica borghese, concorrendo ad eliminare i residui feudali, permette ad esso di esistere in quanto classe per sé e getta la base della futura lotto contro la borghesia. Questo ciclo di lotte democratiche si chiude in tutta l'Europa occidentale con il 1871.

Operando il bilancio della Comune di Parigi, Marx mette l'accento sulla congiunta azione, al di là delle frontiere, della borghesia francese e prussiana nel soffocamento del primo Stato operaio. Nessuna alleanza è più possibile tra borghesia e proletariato in Europa occidentale.

"La lotta della classe operaia contro la classe capitalista ed il suo Stato è entrata, grazie alla lotta di Parigi, in una nuova fase", dirà Marx in una lettera a Kugelman anticipando l'altro famoso giudizio: "Il predominio di classe non è più in condizione di nascondersi sotto una uniforme nazionale. I governi nazionali sono tutti confederati contro il proletariato" (La guerra civile in Francia).

Nata rivoluzionaria, eversiva, antireligiosa, la borghesia acquista, via via che il suo potere si consolida, un carattere decisamente reazionario. Se all'inizio spodestava le vecchie classi dominanti ed aboliva i loro strumenti, i residui della vecchia società diventano ora strumenti utili alla conservazione del proprio potere, validi alleati per il mantenimento della propria dittatura di classe, del proprio Stato. Questa contraddizione è già presente nella società russa prerivoluzionaria. Per Lenin, la borghesia russa è "inconseguente" sul piano rivoluzionario; nell'area russa, la rivoluzione democratica viene attuata nel 1917, e fino ad allora sussistono ostacoli feudali e residui di dominio di classi precapitalistiche, che giustamente autorizzano il proletariato a farsi principale autore di una rivoluzione democratica ed antizarista che avrebbe spazzato via i resti antistorici del feudalesimo.

Quando il capitalismo domina ormai produzione e circolazione delle merci sia nelle città che nelle campagne come in Iran, quando l'economia si integra perfettamente nella rete capitalistica mondiale, quando profitti, sovrapprofitti e rendita sono il chiaro prodotto di una estorsione di plusvalore da una classe operaia numerosa e combattiva in un apparato industriale moderno, allora non ha più senso rivendicare una rivoluzione borghese democratica che spiani la strada a quella socialista. La rivoluzione in Iran sarà una rivoluzione proletaria o non sarà, per quanto essa debba ancora lavorare per distruggere lasciti che la borghesia non ha potuto, saputo e voluto distruggere.

Il "Partito Comunista d'Iran", risultando come un evidente compromesso tra forze non omogenee in cui una lotta di carattere nazionale come quella dei Curdi ha una notevole influenza, come ha influenza la rimasticatura di vecchie tesi trotzkiste e maoiste fuse insieme, ignora tutto questo.

Dal suo programma risulta che:

  • a) la rivoluzione democratica vittoriosa assicurerebbe le condizioni preliminari per "compattare" il proletariato, attirare più numerosi settori di operai al partito e consentirgli di muovere verso la seconda tappa, cioè la rivoluzione socialista;
  • b) il governo democratico, con le sue libertà di parola, stampa e organizzazione amplierebbe gli spazi per la lotta di classe del proletariato.

Ci troviamo di fronte ad un evidente atto di fede nella democrazia: la rivoluzione democratica rafforzerebbe il proletariato. Per Lenin invece: "...la rivoluzione democratica rafforzerà il dominio della borghesia. Ciò è inevitabile nel regime economico e sociale attuale, cioè capitalistico" (Due tattiche).

I redattori del "programma" operano con quella che Lenin, irridendola, chiamava per altri versi "tattica-processo". Per essi la prima tappa è la democrazia, che con le sue libertà consentirebbe ai proletari di allargare ed estendere le proprie attività, le proprie lotte, la propria mitica "coscienza" in un crescendo uniforme fino al raggiungimento della seconda tappa, la rivoluzione socialista. C'è, nei possessori di questa concezione, oltre ad una fede tutta piccolo-borghese nella libertà democratica, una visione idealistica sulla possibilità di "presa di coscienza comunista" attraverso il dialogo, la riflessione, l'istruzione. Nulla di più lontano dal materialismo marxista, e la Sinistra Comunista lo ha sempre sottolineato: "Le epoche di sovversione sociale non si giudicano dalla coscienza che hanno di sé stesse... In ogni attività di classe quindi, per i marxisti, la coscienza non solo non è una condizione, e tanto meno essenziale, ma è assente, poiché verrà per la prima volta non come coscienza di classe, ma come coscienza della società umana". "La teoria marxista... come programma di azione rivoluzionaria e definizione della rivendicazione della società comunista, non può pescarsi come dato di una collettiva consapevolezza di gruppi di uomini, e nemmeno di proletari. Essa ha per portatore una collettività ben limitata..., ossia il partito, nel quale al di sopra di spazio e tempo, di frontiere e generazioni, si raccolgono e si collegano i militanti rivoluzionari" (Vulcano della produzione).

Solo per l'idealismo piccolo-borghese gli individui prima ragionano, acquistano "coscienza sociale", e poi agiscono, cioè fanno la rivoluzione.

D'altra parte questo modo di intendere la coscienza di classe, porta necessariamente ad una concezione volontaristica della storia e dell'organizzazione. Se la coscienza individuale precede l'azione, anche la volontà individuale la precede. E in fondo si finisce per ammettere o addirittura auspicare che la somma delle volontà singole e delle singole coscienze possano creare sia il movimento che l'organizzazione. Così non si esclude l'alleanza politica tra forze anche eterogenee. Lo stesso "Partito Comunista d'Iran" è frutto di un'alleanza tra organizzazioni che dovrebbero essere incompatibili. Il Komala lotta per una rivendicazione democratica nazionale, il riconoscimento del diritto di autodecisione del popolo curdo, mentre l'UCM si dice comunista, cioè internazionalista, antinazionale e antidemocratico per definizione. Di conseguenza, lo Stato previsto dal programma è uno Stato democratico, addirittura interclassista. Non vi compare la classe, ma solo il popolo ad esprimere funzioni di governo.

La sovranità dovrebbe spettare ad un congresso nazionale dei delegati, espressione dei consigli del popolo, eletti mediante "suffragio universale, equo, diretto, di tutti gli individui, uomini e donne". Inoltre dovrebbe essere garantita una "libertà politica incondizionata; libertà di opinione, di espressione, stampa; libertà di riunioni, elezioni, dimostrazioni, scioperi, sit-in; la formazione dei sindacati, unioni, e ogni tipo di organizzazione sindacale e politica".

Come si vede, nel quadro statale descritto, è assente ogni connotazione di classe, ogni soggetto sociale sciolto nell'anodino concetto di "popolo". La popolazione è un insieme eterogeneo di classi e mezze classi, delle quali solo tre hanno un ruolo fondamentale ed antagonistico: borghesia e proprietari fondiari da un lato, proletariato dall'altro. Accanto a queste convivono classi intermedie legate alla borghesia e al suo Stato con residui di passati modi di produzione, e produttori autonomi che il capitalismo non ha ancora espropriato. Non si tratta, ovviamente, di ritenere nullo il loro peso nella futura rivoluzione, cioè immaginare la rivoluzione come fenomeno puro, con solo tre classi principali sulla scena storica, e le altre componenti sociali completamente estinte nel cammino precedente il sommovimento sociale.

Si tratta invece di affermare che esse possono, in certi casi, legare la loro causa "a quella della classe proletaria, ma quello da cui sono escluse è lottare per un tipo di società 'loro proprio'. Di qui non la loro attuale o prossima inesistenza, e nemmeno la loro assenza totale da lotte economiche, sociali o politiche; solo la certezza che non hanno un compito proprio e che hanno importanza secondaria e non possono essere messe sullo stesso piano della classe salariata. (È invece) fase nettamente regressiva della rivoluzione anticapitalistica quella in cui il proletariato sostituisce alle sue le esigenze di tali classi e si confonde tra esse nella organizzazione o nelle famigerate alleanze e fronti" (id.).

Se si immagina invece che queste classi possano per virtù propria rappresentare una forza rivoluzionaria, allora si ricade in quella via per cui "tattica, organizzazione, teoria del partito operaio sono andate in rovina, da quando il 'povero' ha preso il posto del proletario e il 'popolo' della classe" (id.).

Non è il caso di dilungarci eccessivamente facendo notare come una siffatta organizzazione, nel caso un incidente storico la mandasse al potere, si porta dietro tutti gli ingredienti per un suicidio politico e militare, garantendo, invece di libertà e democrazia, sofferenze e morte ai proletari e dominio assicurato ai borghesi.

È invece obbligatorio mostrare, di fronte a tanta leggerezza, che il Lenin con cui tutti infarciscono bei discorsi la pensava ben diversamente. E sottolineiamo con forza che Lenin si esprimeva a proposito di una società, quella russa, ben più arretrata di quella iraniana d'oggi. Una società in cui il peso specifico e assoluto dei contadini e dei residui feudali era mille volte più potente che nell'Iran di oggi. Una società a cavallo tra l'Europa e l'Asia in un tempo in cui il mondo era ancora ben lontano dall'essere una unità integrata capitalistica come oggi, un mercato unico appetibile per enormi concentrazioni imperialistiche che hanno superato da tempo la penetrazione di tipo coloniale.

Confronto con Lenin

Nel testo Le due tattiche Lenin incomincia con il citare una risoluzione del Partito nella quale si dice chiaramente che la rivoluzione democratica in Russia (siamo nel 1905) "non solo non indebolirà, ma anzi, rafforzerà il dominio della borghesia". Questa premessa è importante: nella lotta contro la vecchia società, nella lotta democratica, cui anche il proletariato partecipa, la borghesia si rafforza perché lotta per la propria dittatura. Si rafforza anche contro il proletariato.

Ma oggi non siamo in un'epoca in cui la borghesia deve ancora lottare contro il feudalesimo. I residui della vecchia società li deve cancellare la rivoluzione proletaria. Se Lenin già nel 1905 in Russia affermava che occorreva lottare per la dittatura, è folle oggi stendere programmi che non solo non la prevedono, ma inneggiano alla "libertà" per tutte le componenti sociali. Ecco che cosa dice precisamente Lenin: "...dal momento in cui la baionetta figura realmente in testa all'ordine del giorno politico, e l'insurrezione si è dimostrata necessaria e urgente, le illusioni costituzionali e gli esercizi scolastici di parlamentarismo non servono più a nascondere il tradimento della rivoluzione da parte della borghesia... La classe effettivamente rivoluzionaria deve allora enunciare precisamente la parola d'ordine della dittatura".

In Iran la lotta non è stata tra "democrazia" e autocrazia feudale, ma tra "popolo" e governo di un paese che produce secondo rapporti capitalistici maturi. Se non si fa una distinzione di classe tra gli interessi del proletariato e quelli di tutte le altre componenti sociali che sono entrate in lotta contro lo Scià, non si fa altro che aggiungere confusione alla confusione, non si fa altro che rafforzare le tendenze borghesi nella lotta per la democrazia. Molto più che nel 1905 in Russia, parlare di lotta per la democrazia significa oggi, in qualsiasi paese, rafforzare la borghesia nazionale in una delle forme del suo dominio.

Nessuno può credere seriamente che la monarchia dello Scià fosse, alla fine degli anni settanta, l'espressione dei residui feudali o comunque arcaici esistenti in Iran. Liquidare la monarchia in Iran non era come liquidare lo zarismo in Russia dove Lenin stesso riconosceva la necessità di "istituire la repubblica democratica". Ma per Lenin la repubblica democratica non significava affatto una vittoria sulla controrivoluzione. La lotta per il potere non sparisce affatto con la vittoria della democrazia: "al contrario, comincerà inevitabilmente una nuova lotta ancora più aspra".

La borghesia ha ormai lasciato alle sue spalle da tempo il suo periodo rivoluzionario, in cui si affermava come classe dominante distruggendo sul suo cammino i vecchi rapporti di produzione. Lenin adopera non a caso il termine inconseguente per esprimere la condizione della borghesia reazionaria di questo secolo. La borghesia non è più in grado di lottare, in Iran come in tutti gli altri paesi, per la distruzione di vecchi rapporti perché per sopravvivere deve sottoscrivere dei compromessi con essi. Abbiamo già detto che quando per esempio portò a termine la sua rivoluzione si presentò sulla scena della storia atea e contraria al potere religioso, passando senza indugio a provvedimenti per eliminare interferenze clericali nella gestione statale.

Confiscò anche i beni della Chiesa per eliminarne il potere economico. Ma non appena consolidò il suo potere, utilizzò la religione e la Chiesa a fini controrivoluzionari e da allora non poté più fare a meno di perpetuare questa unione contro i suoi stessi vecchi principi.

Nell'area islamica, come nella maggior parte dei paesi a nuovo capitalismo, la borghesia è arrivata al potere quando ormai altrove era da tempo all'ordine del giorno la rivoluzione proletaria. Si tratta di una borghesia smidollata e vigliacca, incapace di pensare ad altro che ad arricchirsi preferibilmente con traffici legati agli affari del grande capitale americano ed europeo. Incapace quindi di rifiutare compromessi con l'arretratezza, il bigottismo, le sopravvivenze di mondi passati. Molti nuovi possessori di capitali non sono altro che vecchi latifondisti espropriati con lauto indennizzo. Non è assolutamente possibile coinvolgere questa borghesia in una rivoluzione, neanche in una rivoluzione che abbia ancora importanti compiti borghesi da portare a termine.

È possibile portare a termine questi compiti soltanto se il proletariato con il suo partito guida la rivoluzione obbligando la borghesia a smascherarsi e a schierarsi contro la rivoluzione, cosa che non mancherà di fare sicuramente ogni volta che vedrà il suo dominio in pericolo.

Alla base del concetto di vittoria rivoluzionaria in Lenin, vi è la dittatura espressa dal proletariato in armi: "Questa vittoria sarà precisamente una dittatura, ossia dovrà necessariamente poggiare sulla forza armata, sull'armamento delle masse, sull'insurrezione e non su questi o quegli organismi costituiti 'per vie legali', 'pacifiche'. Non può essere che una dittatura, perché alla realizzazione delle trasformazioni assolutamente e immediatamente necessarie al proletariato e ai contadini i grandi proprietari fondiari, la grande borghesia e lo zarismo opporranno una resistenza disperata".

Quando leggiamo sui programmi di movimenti iraniani che si definiscono marxisti la proclamazione della libertà incondizionata di stampa, di parola, di riunione, di manifestazione ecc. nella prossima rivoluzione democratica cui tendono, rabbrividiamo al pensiero di quante sofferenze e sangue può costare questa imbecille leggerezza condannata ormai da prove storiche innumerevoli.

Ma si pensa davvero che la borghesia non possa utilizzare i vari Bazargan e Bani Sadr per i propri interessi sotto la bandiera della democrazia, del liberalismo o del radicalismo islamico? Quanti, anche qui in Europa, non furono trascinati dai moti iraniani in sé stessi, senza vedere che Khomeini non rappresentava affatto una sorta di giustizia islamica contro la dittatura satrapica dei Pahlavi? Se non si individuano precisamente quali devono essere le caratteristiche di classe anche di una rivoluzione con compiti borghesi da portare a termine, ogni rivolta non potrà superare i suoi limiti "popolari", non potrà non cadere vittima di forze controrivoluzionarie.

La forza di una rivoluzione è nella consapevolezza degli obiettivi cui vuole tendere e questa consapevolezza non può che esserle data dal proletariato e dal suo partito. In mancanza di ciò ogni "rivoluzione" non potrà che abortire. Ma non si è ancora capito che dietro Khomeini non stanno soltanto quelle forze che portano indietro la storia, ma la borghesia vile, quella stessa che sosteneva lo Scià? Essa sta aspettando dietro le quinte la fine dello sporco lavoro di bassa macelleria per potersi presentare un giorno con le mani pulite e varare il governo di unità nazionale democratico e tollerante. Non ha forse governato come classe adottando tutte le forme possibili di governo? Oggi Khomeini rappresenta una di quelle forme, domani forse sarà rappresentata dall'esercito, da Ciro figlio di Reza o da Bani Sadr alleato con i mujaedin o da qualche altro equivalente. Con quale di queste forze può operare il proletariato? Quale tolleranza o libertà può garantire il proletariato ad ognuna di queste facce intercambiabili della borghesia nata vecchia dell'Iran? Guai al proletariato se si lasciasse invischiare nella lotta tra i vari schieramenti borghesi, nei fronti che si propongono e cadono nel volgere di un mattino, nella formazione di correnti o di partiti eterogenei che basano i loro programmi su parole d'ordine e analisi prese a prestito dal politicantismo deteriore dell'Occidente ultramaturo e decadente.

La borghesia non può più essere una forza trainante di una rivoluzione in nessun paese. Anche la piccola borghesia, che alimenta in continuazione movimenti pseudo-rivoluzionari con la sua caratteristica di essere schiacciata tra le due grandi classi antagoniste, non può svolgere un ruolo attivo nella rivoluzione. Quanti movimenti ha ispirato in Iran l'ideologia meschina e moralistica della piccola borghesia? E dove sono finiti? Ancora una volta ci riferiamo a Lenin dove dà una definizione lapidaria della doppia rivoluzione in Russia e sistema la questione delle classi e delle mezze classi che occorre mettere in condizione di non nuocere piuttosto che blandire. E nuovamente sottolineiamo che si trattava di una rivoluzione in cui il proletariato doveva prendere sulle sue spalle la responsabilità di lottare contro l'ultimo baluardo della reazione feudale che la borghesia aveva lasciato in piedi, a differenza dell'Iran dove il proletariato si trova in pieno capitalismo e non deve più riassumere nella sua rivoluzione compiti plurimi ma al massimo spazzare via dei residui del passato che non rappresentano la sopravvivenza dell'antico modo di produzione ma soltanto dei mezzi che la borghesia mantiene dal passato per mantenersi al potere.

Dice Lenin: "Il proletariato deve condurre a termine la rivoluzione democratica legando a sé la massa dei contadini, per schiacciare con la forza la resistenza dell'autocrazia e paralizzare l'instabilità della borghesia. Il proletariato deve fare la rivoluzione socialista legando a sé la massa degli elementi semiproletari della popolazione, per spezzare con la forza la resistenza della borghesia e paralizzare l'instabilità dei contadini e della piccola borghesia".

Non vi erano due tappe, prima la rivoluzione democratica e poi la rivoluzione socialista neppure nella Russia di ottant'anni fa, ma vi era un unico salto rivoluzionario nella dittatura in cui prima venivano portati a termine i compiti borghesi dal proletariato e dai contadini in armi e poi veniva compiuta la rivoluzione socialista. Lenin non previde mai una tappa intermedia di governo democratico. Nella sua solita chiarezza, a chi esprimeva il timore che tutto ciò facesse allontanare la borghesia dalla lotta rivoluzionaria contro lo zarismo, Lenin rispondeva: "Chi comprende veramente la funzione dei contadini nella rivoluzione russa vittoriosa non dirà mai che l'ampiezza della rivoluzione diminuirà quando la borghesia se ne sarà allontanata. Poiché il vero slancio della rivoluzione russa incomincerà veramente, raggiungerà veramente la massima ampiezza rivoluzionaria possibile nell'epoca della rivoluzione democratica borghese, solo quando la borghesia se ne sarà allontanata".

Vi sarà una forte e conseguente organizzazione rivoluzionaria in Iran quando essa si baserà su un unico programma capace di delimitare chiaramente gli interessi di classe degli operai e delle masse contadine oppresse, quando le lotte proletarie renderanno possibili il proseguimento del processo interrotto di formazione degli shora o di organizzazioni simili, in grado di raccogliere la maggior parte degli operai organizzati nelle fabbriche e nelle campagne. Si svilupperà l'organizzazione rivoluzionaria, cioè il vero partito proletario dell'Iran, quando esso conquisterà una influenza decisiva sulla classe attraverso l'influenza decisiva conquistata negli organismi di carattere economico, che per dirla con Engels e con Lenin, sono un'ottima scuola di guerra per la rivoluzione.

In mancanza di queste condizioni, che possono avere aspetti diversi da paese a paese ma che devono comunque essere presenti, anche la più grande e generosa rivolta, per quanto eroica e trascinante, non potrà superare i limiti che oggi stiamo osservando, in Iran e fuori, di programmi di "buon governo", magari chiamato "operaio", "comunista" o "rivoluzionario democratico", ma sempre borghese.

Convogliare i colpi contro la borghesia,

ma per la rivoluzione comunista

A proposito di vecchi retaggi da superare, molti Stati nazionali opprimono al loro interno nazionalità minori, giungendo a volte a un vero e proprio genocidio.

I rivoluzionari comunisti non possono essere indifferenti di fronte a questo problema. Scrivevamo trent'anni fa: "Occorre accorgersi che nei paesi moderni restano zone di piccoli contadini che ancora chiusi fuori dal girone mercantilistico si tramandano stimmate antiche, che il girone moderno ha cancellate in tutti gli abitatori di città, miliardari o pezzenti, e costituiscono come Marx disse, una vera razza di barbari in un paese avanzato - avanzato nella sua orribile civiltà. Tuttavia anche questi barbari potrebbero diventare, contro essa civiltà, uno dei proiettili della rivoluzione che la deve sommergere. Occorre accorgersi che oltremare, nei paesi gialli, neri e olivastri, vivono sterminate collettività di uomini che svegliati dal fragore del macchinismo capitalista, sembrano aprire il ciclo di una loro lotta di libertà, indipendenza e patriottismo, come quella che ubriacava i nostri nonni, ma entrano invece come fattore notevole nel conflitto delle classi che la presente società reca nel suo seno, che più e più lungo sarà soffocato, tanto più ardente divamperà nel futuro".

Oggi, il processo di inserimento di quei "barbari" nei gironi dell'inferno capitalistico è quasi completamente compiuto. Impoveriti, spinti nelle metropoli, integrati nell'esercito industriale di riserva, si vengono ormai a mescolare con quella moltitudine di uomini che il capitalismo decadente respinge ai bordi del processo produttivo, destinati a essere forza-lavoro a basso prezzo nei momenti alti del ciclo capitalistico (peraltro, sempre più effimeri e rari), e ad arrangiarsi per accaparrare il minimo vitale (o a crepare di fame) nei sempre più lunghi periodi di crisi economica. Se nel mondo occidentale sta scomparendo la "barbarie" rappresentata dal piccolo contadiname autonomo, dalle frange sociali ormai inghiottite nel girone capitalistico, nel resto del mondo rimangono ancora in piedi tradizioni che portano a rivendicare una generica lotta anticapitalistica o antimperialista.

All'interno dello stesso schieramento islamico, nella generale disomogeneità e lotta tra gli interessi nazionali degli Stati, esistono correnti che si definiscono antimperialistiche e che, oggettivamente, per quanto arretrate o patriottarde, o bigotte, rappresentano un disturbo negli schieramenti del grande condominio attuale, se non altro perché attingono aiuti e operano per conto di uno schieramento contro l'altro.

In Iran, su un altro piano, uno dei proiettili che possono contribuire alla demolizione della vecchia società è rappresentato dalle tensioni create dal conflitto tra lo Stato centrale e la nazionalità curda. Questo problema per i comunisti di tutto il mondo è sempre stato della massima importanza e affrontarlo in modo sbagliato può avere delle conseguenze gravissime in Iran come altrove.

Per i comunisti il problema nazionale ovviamente non si pone: noi siamo per definizione internazionalisti. Ma non tutte le popolazioni sono giunte alla maturità del capitalismo, che facilita l'abbandono dei temi nazionali interni. Fattori storici, razziali, tribali, geografici e religiosi possono rappresentare un vincolo fortissimo per popoli interi inglobati da vicende storiche nei confini dei grandi Stati nazionali che, il più delle volte, opprimono dette popolazioni.

I comunisti sono per la più completa, incondizionata libertà di autodeterminazione anche se sostengono la necessità di superare queste forme arcaiche di delimitazione tra popoli. Ciò che interessa ai comunisti è la sostanziale unità nel movimento proletario internazionale, e da questo punto di vista i confini sono soltanto barriere inutili, anzi, nocive. Quindi i comunisti sostengono ovunque il superamento delle divisioni nazionali e sono ovunque per la formazione di grandi unità statali, di grandi aree geografiche sotto un'unica tutela statale. Ciò anche perché in questo modo è favorita la formazione del proletariato con l'unificazione di un mercato nazionale più vasto e quindi di un'industria conseguente.

I comunisti, quindi, mentre sostengono il diritto all'autoemancipazione, propagandano e sostengono una lotta politica contro le divisioni nazionali, specialmente tra il proletariato. In nessun caso i comunisti sostengono la lotta dei nazionalisti o, peggio ancora, combattono per la loro causa.

In Iran la maggioranza della popolazione è rappresentata dalla gente di stirpe iranica, ma vi è un 20% di Turco-Tatari in Azerbaigian, un 10% di Curdi e altre minoranze di Arabi Armeni ecc. È corretto che sia inserito nel programma del Partito Comunista d'Iran il diritto all'autodeterminazione delle nazionalità e anche il riconoscimento della possibilità di secessione, ma dei militanti comunisti non devono assolutamente fondere la propria organizzazione con quella dei nazionalisti. Ora, è vero che il Komala, a seconda dei portavoce, non si dichiara semplicemente formazione combattente della nazionalità curda, ma rimane pur sempre un organismo non comunista.

La posizione dei comunisti deve essere chiara e netta oltre che realistica: è praticamente impossibile, finché non viene sconvolto l'assetto attuale, riunire anche solo in parte la nazione curda. Ognuno dei cinque Stati nazionali (URSS, Tuchia, Iran, Siria e Iraq) sul terreno dei quali vivono i Curdi, è in grado da solo con larghissimo margine, di impedire l'autonomia e di schiacciare un vero movimento nazionale. Può sopravvivere solo una guerriglia endemica, come quella palestinese ecc. che prima o poi viene piegata al servizio di questo o quell'interesse imperialistico. Non è la fusione organizzativa, o la federazione politica, che risolve il problema, ma è la consapevolezza che solo una rivoluzione può risolvere il problema delle nazionalità proclamando la libera secessione o l'altrettanto libera federazione territoriale con l'area conquistata alla dittatura proletaria. Su questo argomento non abbiamo da cambiare nulla rispetto alle risoluzioni del II Congresso dell'Internazionale Comunista e del Congresso di Baku del 1920. E oggi, se vogliamo, la situazione è più chiara essendo scomparso il problema coloniale.

I compiti dei rivoluzionari autentici

Il programma rivoluzionario è forgiato dall'esperienza storica accumulata da un passato di lotte gigantesche contro la borghesia e contro le deviazioni che all'interno del partito minavano le possibilità soggettive di successo della rivoluzione. Lotta contro la borghesia e lotta contro l'opportunismo democratico pacifista e frontista sono tutt'uno, non è possibile separare dal tutto nessuna parte.

Per questo i veri comunisti rivoluzionari iraniani devono condurre una lotta spietata su due fronti: da una parte, per riaffermare la validità del programma comunista, dall'altra, per finirla con il metodo delle discussioni democratiche, con i compromessi, con la tendenza frontista sempre presente quando si tratti di difendere la democrazia calpestata, vuoi dallo Scià, vuoi dalla repubblica islamica.

Ne sappiamo qualcosa proprio qui in Italia, dove il fascismo è stato inventato e dove l'antifascismo ne è risultato il più deteriore prodotto.

È tempo che la corrente genuinamente marxista, che sappiamo esistere, anche se allo stato embrionale, faccia tutti gli sforzi per emergere dalla palude in cui è impantanata la discussione, produca i suoi documenti scritti, denunci le manovre che vengono compiute in nome del marxismo, si approprii del programma che un secolo e mezzo di lotte ha forgiato.

La forza di un movimento sta nella saldezza e nel rigore del suo programma politico e non nel numero contingente dei suoi aderenti che può variare moltissimo a seconda delle circostanze storiche. Solo con una posizione netta e precisa è possibile raccogliere aderenti senza trovarsi poi alla prima occasione a dover rimettere in discussione tutto perché sono intervenuti "fatti nuovi".

L'Iran è definitivamente entrato nel novero dei paesi capitalisticamente maturi nonostante gli ulema, gli ayatollah e Khomeini, e non possono sopraggiungere "fatti nuovi" a provocare cambiamenti nella tattica rivoluzionaria comunista. Questa si riassume, per i rivoluzionari iraniani come per ogni altro rivoluzionario di qualsiasi paese, in alcune proposizioni tanto semplici quanto brevi che ne guidano necessariamente il lavoro:

  1. Studio e ricerca sul materiale storico e teorico accumulato dalla correnti genuinamente marxiste.
  2. Partecipazione alle lotte operaie, alla loro organizzazione e alla loro generalizzazione. Appoggio e contributo alla formazione di organismi immediati economici e politici, sindacati, consigli ecc.
  3. Costituzione in organizzazione politica (Partito) che adotti il programma rivoluzionario marxista. Il partito non può che essere unico internazionalmente per tutti i comunisti, quindi, in un determinato paese, esisterà una sua sezione senza che le esistenti particolarità storiche e geografiche facciano teorizzare peculiarità di dottrina.
  4. Rifiuto di ogni fronte con forze che rappresentino altre ideologie o classi diverse da quella proletaria. L'unico fronte possibile è quello fra diverse componenti del proletariato per raggiungere determinati obiettivi con la lotta immediata.
  5. Rifiuto dei meccanismi democratici per quanto riguarda la vita interna del partito. Rifiuto del parlamentarismo e delle elezioni democratiche in quanto mezzi tattici ormai superati e buoni solo a corrompere chi li usa.
  6. Preparazione alla presa del potere sulla base di precisi rapporti di forza e sulla base dell'esistenza (punto 2) di vaste organizzazioni intermedie fra la classe e il partito.
  7. Dittatura. La vittoria della rivoluzione esclude "libertà" di movimento e di organizzazione delle classi sconfitte. Soltanto alla fine del periodo di trasformazione tutte le classi, come lo Stato, si estingueranno per lasciare il posto ad una nuova organizzazione sociale.

Se durante l'insurrezione contro lo Scià  era mancata quell'avanguardia rivoluzionaria in grado di far proprio il programma genuinamente marxista, la sconfitta e la situazione in cui si sono venuti a trovare gli elementi più combattivi in Iran e fuori hanno provocato un lento e faticoso movimento di ricerca.

Il proletariato dell'Iran ha una lunga tradizione di lotte, ma non poteva riannodare da solo il filo spezzato dalla controrivoluzione staliniana, né poteva, da solo, riannodare i contatti internazionali con il proletariato degli altri paesi. Non poteva infine, da solo, riappropriarsi del programma rivoluzionario smarrito dagli stessi proletari occidentali.

Non vi sono alternative, per chi è giunto al marxismo, al lavoro teso alla ricostituzione di un forte movimento internazionale comunista. Il programma rivoluzionario che sta alla base del partito futuro non si può inventare dall'oggi al domani, non si può mercanteggiare tra forze eterogenee che vorrebbe porlo alla base di fronti comuni contro la repubblica dei mullah. Il programma rivoluzionario è unico per i proletari di tutto il mondo, e unico deve essere il partito che si forgia sulla base di esso attraverso il concretarsi di fatti storici e non di accordi a tavolino.

La repubblica islamica non ha risolto i motivi di crisi che travagliano la borghesia nazionale, né avrebbe potuto farlo. Certo, una feroce organizzazione repressiva garantisce per ora una certa pace sociale e l'ordine pubblico, mentre il tallone di ferro delle forze armate e dei Pasdaran schiaccia il proletariato; l'ideologia della "guerra santa" può agevolmente sposarsi con i materiali interessi di quei settori borghesi che nella guerra in corso trovano guadagni presenti e speranze future. Il "clero" sciita può per adesso offrire quella coesione e quell'organizzazione capillare che garantisce vitalità allo Stato borghese, ma nonostante ciò si può affermare che in Iran la partita è ancora aperta fra le varie componenti della borghesia.

Notizie che giungono frammentarie confermano che è in corso una grave crisi economica e la repressione continua indica che il regime non riesce a "pacificare" la vita interna del paese. La guerra dissangua la popolazione e le risorse economiche. Il Curdistan continua ad essere un fronte minore dove i Pasdaran trovano pane per i loro denti nella fiera lotta delle popolazioni curde.

L'esercito mantiene una sobria condotta di guerra in contrasto con le velleitarie affermazioni del governo, segno che la gerarchia militare, pur sfrondata durante l'insurrezione dai suoi elementi troppo compromessi col precedente regime, risparmia le proprie forze e i propri mezzi meditando un possibile uso interno della forza armata non appena si apra uno spiraglio nella situazione.

Non è escluso che con l'aiuto esterno di uno degli schieramenti imperialistici occidentali tenti di ripristinare un governo borghese meno anacronistico. A questa svolta sono pronti diversi candidati, sia nell'esercito stesso, sia nell'entourage della ex casa reale con in testa l'erede Ciro Pahlavi, sia nel bosco variegato della rappresentanza piccolo-borghese e populista, che, pur di entrare nel parlamento usurpato, farebbe accordi anche col diavolo. In ogni caso, il proletariato non ha nulla a che fare con eventuali cambi della guardia anche se ovviamente è auspicabile una clima meno soffocante e sanguinario dell'attuale.

Se sono possibili rimpasti nel mondo borghese dell'Iran, non sono neppure escluse vaste ondate di lotta che partano dal proletariato e dalle masse diseredate. La tragedia attuale e generale è che la mancanza di una salda organizzazione politica rivoluzionaria non consente alla rivolta di fare il salto qualitativo in rivoluzione.

Possono nascere nuovamente gli shora, possono svilupparsi manifestazioni di piazza possenti, può soccombere il regime nero degli ayatollah, ma senza il partito e senza vaste organizzazioni proletarie che in esso confidino, altre forze avranno necessariamente il sopravvento, e saranno forze borghesi, qualunque etichetta si mettano.

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