11. Che resta della conquista del cosmo

"Gli insediamenti spaziali, costruiti di metallo e vetro, saranno rivestiti all'interno di una terra densa abbastanza da proteggere contro i raggi cosmici. Gli interni potranno venire costruiti secondo i gusti degli abitanti. Vi potranno essere fattorie, case, ruscelli, alberi, chiese, tutto l'apparato della vita americana di provincia, se è ciò che si desidera. Potrà esservi una sezione di notte perenne per i night club, per i cinema all'aperto e così via. Come si adatteranno i coloni spaziali ai loro piccoli mondi? Potranno anche essere mondi, ma saranno pur sempre piccolissimi rispetto alla Terra. Un insediamento di buone dimensioni potrà avere una popolazione di non più di centomila persone". (159)

Una città come Novara piazzata in orbita con un bel pezzo della campagna circostante non è proprio un satellite piccolissimo per i parametri cui siamo abituati. Asimov, buon divulgatore scientifico senza essere un banale volgarizzatore, quando si trattò di affrontare i lanci di satelliti e sonde si fece inesorabilmente prendere la mano dalla sua attività professionale, cioè la fantascienza. E sparse a piene mani previsioni idilliache quanto idealistiche. Può essere scusato, dato il mestiere che faceva, ma come lui furono eserciti di "scienziati" a dipingere l'agreste sogno americano in cielo, con chiesette e ruscelli, night clubs e supermercati, presumibilmente con tanto di preti, ballerine, poliziotti ed altro payload improduttivo. Il bello è che la maggior parte dei progetti non fu pagata da editori di fantascienza, ma da serissimi enti di ricerca sia statali che dell'industria privata.

All'inizio degli anni '80 la NASA avviò un progetto per il montaggio di una stazione spaziale di servizio che doveva servire da base per le ulteriori costruzioni nello spazio e per i viaggi interplanetari. Il Centro Operativo Spaziale (SOC) doveva essere montato in un'orbita a 350 km di altezza per diventare operativo all'inizio degli anni '90, e ricevere, tramite la Shuttle, i satelliti commerciali da assemblare, lanciare e gestire. Era prevista la presenza permanente di otto uomini di equipaggio alloggiati in moduli d'abitazione collegati ai laboratori e alle officine. Questo progetto "minimalista" e perfettamente realizzabile anche se mai realizzato, era accompagnato da sogni ben più ambiziosi.

Nello stesso periodo lo stesso ente americano commissionava diversi progetti molto più ambiziosi. I tecnici prevedevano che nel volgere di qualche decennio si sarebbe potuto costruire una colonia spaziale per 10.000 abitanti in orbita solare a 400 milioni di km dalla Terra, a forma di ciambella, rivestita internamente da rocce prelevate sulla Luna tranne che in una larga fascia sul diametro minore, dove erano previsti finestroni per far entrare la luce. I disegni ci mostrano sia l'insieme nello spazio, con vari aggeggi di servizio svolazzanti all'intorno, sia le varie angolature dell'interno, dove la lieve curva dell'orizzonte (la circonferenza è di svariati km) fa da cornice a case, colline, alberi di tutti i tipi, campi coltivati e persino un fiume con tanto di ponti, isolette e barche. Un altro progetto, sempre commissionato dalla NASA, mostra invece una colonia cilindrica col diametro di 6,4 km e lunga 32, con i soliti campi, case, alberi, fiumi, laghetti. In questo caso il disegno mostra addirittura delle nuvole che galleggiano leggiadramente a mezz'aria. In tutti i progetti, naturalmente, sono presi in considerazione i particolari più minuti, come quello del ciclo biologico continuo o quello delle fattorie spaziali con tanto di coltivazioni, pescicoltura e… allevamento!

La questione delle colonie spaziali e dello sfruttamento economico della Luna e dei pianeti era assolutamente presa sul serio, ma i disegni erano talmente incredibili che più volte il governo istituì commissioni apposite per cercare di non essere bidonato. Il fatto è che anche le commissioni, come il resto del mondo, erano entusiaste della conquista spaziale. Il 19 gennaio 1976, per esempio, l'Ente per le Tecnologie Spaziali e le Necessità Nazionali del Senato degli Stati Uniti, chiamò Gerard O' Neil, uno dei massimi esperti in materia di colonie orbitanti, affinché rendesse conto al governo sui risultati dei suoi studi. Il punto centrale degli incontri fu la produzione di energia nello spazio, da inviare a terra mediante fasci di microonde, ma ovviamente la discussione coinvolse la necessità di costruire allo scopo grandi stazioni permanenti, con tutto ciò che comporta un progetto del genere: scavo dei materiali sulla Luna, loro trasporto e lavorazione nello spazio, collegamenti con la Terra ecc.

Questo O' Neil è un personaggio alquanto significativo nel clima di quegli anni. Era un giovane fisico che insegnava alla Princeton University e aveva partecipato alla progettazione di grandi acceleratori di particelle. Aveva trent'anni quando fu lanciato il primo satellite e poco dopo decise che l'astronautica sarebbe stata più promettente della fisica per la sua carriera. Sfogliando la documentazione di quegli anni si nota che O' Neil lascia traccia un po' dappertutto: lo si trova citato a proposito di corsi universitari, di convegni specialistici, scrive articoli sulle riviste specializzate e sui rotocalchi, pubblica libri. Soprattutto è attivissimo nelle lobby dell'industria spaziale. La sua teoria era semplice e chiara. Si chiamava "planetologia comparata". Comparando gli altri pianeti alla Terra, e stabilita la loro assoluta inospitalità tanto valeva, affermava, decidere di ricreare ex novo l'ambiente terrestre nello spazio. Di lì sarebbe stato più economico far partire astronavi o comunque muoversi nello spazio per via della minore energia occorrente per vincere la gravità. La sua filosofia era altrettanto semplice: poiché tutte le proiezioni dei dati di crescita indicavano che il numero degli abitanti e la produzione di risorse del pianeta sarebbero giunti ben presto ad un punto critico, l'umanità non avrebbe potuto far altro che emigrare nello spazio. Intrecciando la soluzione tecnica con quella filosofica, l'intraprendente fisico costruì un intero mondo di fantasia che contribuì a lubrificare per un po' di tempo gli ingranaggi della pubblicità spaziale (160).

Il caso di O' Neil è troppo sintomatico per non citarlo, ma è anche troppo smaccatamente pubblicitario per farne una critica seria. Basti ricordare che il fulcro di tutta l'attività spaziale da lui progettata era un cannone elettromagnetico chiamato "lanciatore di massa", che avrebbe dovuto spedire in orbita dalla Luna i milioni di tonnellate di rocce, metalli e ossigeno (ricavato dagli ossidi solidi) necessari ai cantieri. Siccome l'autore dei progetti era un fisico, egli non si sottraeva al calcolo delle energie e qualche volta anche dei costi, solo che faceva funzionare il tutto un pezzo alla volta per evitare che si scoprisse dov'era l'imbroglio. Così calcolava che l'alimentazione del cannone richiedeva una potenza installata pari a quella necessaria per alimentare una città di 100.000 abitanti e, siccome non c'era niente da fare con le celle solari, risolveva il problema con l'installazione sulla Luna di una centrale atomica. Ma non ci diceva come avrebbe portato sulla Luna la stessa centrale con il materiale fissile, la protezione, la struttura e tutto il resto. Qui i suoi calcoli si facevano nebulosi: per la prima base permanente sulla Luna avrebbero dovuto fare la spola sei Shuttle per due anni; siccome ogni navetta poteva essere pronta ogni tre mesi, in due anni si sarebbero potute programmare una cinquantina di missioni. A quaranta tonnellate per missione di carico utile, di cui solo la metà avrebbe potuto raggiungere la Luna per via del carburante consumato e delle parti non utilizzabili, si sarebbero avute un migliaio di tonnellate disponibili, cioè quasi niente tenendo conto che in due anni si sarebbero dovuti portare anche centinaia di tecnici e fornirli di cibo, acqua ecc. Con il parametro dei consumi della missione Apollo, in due anni se ne sarebbero andate almeno 500 tonnellate di materiale logistico. Sarebbero rimaste altre 500 tonnellate, neppure sufficienti per la sola protezione antiradiazioni della fantastica centrale. Tutto ciò senza contare i costi, cui il capitale bada parecchio per quanto riguarda il "ritorno" dell'investimento: per mandare 500 tonnellate con 50 missioni sarebbe stato necessario muovere su e giù per lo spazio 120.000 tonnellate di navetta. All'inizio degli anni '80 si prevedeva che questo genere di attività mineraria ed edilizia spaziale potesse essere avviata entro il 2010, ma il bilancio energetico ancora non ci permette di sciogliere lo scetticismo di allora.

Questi pochi riferimenti dovrebbero bastare. A più di quarant'anni dal lancio del primo satellite artificiale è ormai molto più facile valutare serenamente ciò che rimane del sogno spaziale. La tanto sbandierata colonizzazione spaziale si è dimostrata una bolla di sapone: come si disse, in termini un po' spicci, una balla. In regime capitalistico qualunque cosa non produca plusvalore è nulla, perciò la presunta epopea spaziale dell'uomo emancipato dal vincolo terrestre, i Cristofori Colombo in argenteo scafandro, non hanno aperto la via a flotte di caravelle e galeoni; per molto tempo non ci saranno quindi nuovi Padri Pellegrini a bordo di tecnologiche Mayflower e la nostra domanda sulle meravigliose città spaziali rimarrà a lungo senza risposta:

"Che dire del viaggio interplanetario, della nave interplanetaria, della stazione satellite accampata nel cielo? Senza schifare la fantascienza, si è saputo che un disegno dell'astronave dato da una rivista russa come 'progetto' tecnico non è che copia di uno schizzo di fantasia di una rivista americana del 1954. Oggi i grafici non si fanno per progettare tecnicamente, ma per stordire il giudicante. Questa roba circola da oltre un decennio, e le idee sono secolari". (161)

Oggi che la grancassa propagandistica non fa più vibrare i visceri delle folle, gli strabilianti ghirigori giornalistici dell'epoca sulla scienza trattata alla stregua di una divinità creatrice fanno sorridere anche i bambini. Il ciclo spaziale, che entusiasmò effettivamente una generazione incollandola al televisore e sottoponendola a iniezioni massicce d'irrazionalità gabellata per scienza, è terminato da un pezzo. Passata la sbornia, rimane il mal di testa: gli uomini continuano a condurre la loro insensata vita capitalistica, la vecchia Terra si dimostra invivibile più che mai e il cielo non ci salva. Su Internet, i super-siti spaziali americani si popolano sempre più di meravigliosi disegni, oggi realizzati con potenti programmi di grafica computerizzata invece che col pennello, ma i cuori non fremono più. Saremo monotoni, ma la rivoluzione decisiva della specie farà a meno di missili, satelliti e disegni pubblicitari. Dopo ci saranno i veri progetti. Se contempleranno lo spazio extraterrestre si vedrà.

L'unico residuo duro a morire è la credenza che l'avventura spaziale abbia almeno prodotto una importante ricaduta tecnologica nella vita di tutti i giorni. Ma anche questo non è vero. Come finiscono negli archivi della fantasia le migliaia di progetti di stazioni orbitanti con giardini pensili più rigogliosi di quelli di Semiramide, di basi lunari e marziane con enormi cupole geodetiche che coprono intere città, di centrali elettriche spaziali che trasmettono tele-energia sulla Terra, di miniere lunari, di traghetti interplanetari, di rimorchiatori d'asteroidi, ecc., anche la pretesa ricaduta tecnologica va ridimensionata. Essa ha proporzioni molto modeste nonostante sia l'ultima frontiera della propaganda per ottenere fondi statali. Il grandioso business spaziale, vagheggiato nella speranza dell'eternità capitalistica, ha dovuto fare i conti con le leggi dello sviluppo basato sul plusvalore. Alla fin fine si è dimostrato impossibile estrarre quattrini non solo dai fantasmagorici disegni all'acrilico ma anche dalla più modesta attività di laboratorio.

Come conseguenza, il ritorno alla realtà in campo spaziale ha provocato il taglio dei fondi statali e si è stabilizzata un'attività missilistica commerciale e militare che, in una situazione di routine, cancella il passato mistico ed esalta la rivoluzionaria forza produttiva sociale normale del capitalismo. Non è l'epopea spaziale che ha prodotto lo sviluppo della tecnologia: è lo sviluppo della tecnologia che ha prodotto l'epopea spaziale.

Le eclatanti "missioni" sono ormai oggetto di storia. Ciò non significa che l'irrazionale sia morto per sempre. Finché il capitalismo esiste, ci riproverà, vuoi per le esigenze della formazione di plusvalore nell'epoca della caduta del saggio di profitto, vuoi per quelle della propaganda per la propria salvezza.

La recente missione Pathfinder (trovasentieri) è stata presentata come un assaggio della "missione" umana su Marte per i prossimi anni, ma non s'è visto tanto entusiasmo in giro e soprattutto, con i tempi che corrono, non si sono visti i soldi "di una volta". Se Bordiga avesse potuto seguire fino in fondo le vicende dei lanci su Marte, avrebbe avuto la conferma delle enormi difficoltà che si sono riscontrate anche con le macchine automatiche. Soprattutto avrebbe avuto la conferma che non si è superato il bassissimo rapporto fra carico utile e peso complessivo del sistema, per cui è ancora tecnicamente impossibile inviare uomini più lontano della Luna. Marte è stato finora il più fecondo distruttore di progetti spaziali anche se, paradossalmente e proprio per questo, ha dato il massimo contributo allo sviluppo delle più interessanti realizzazioni scientifiche attraverso l'uso dei robot comandati a distanza previsti e auspicati (162). Per adesso dunque il pianeta rosso non ha fornito elementi di "progresso" che ci aiutino a vivere meglio su questa terra.

Anche dal razzo che portò gli uomini sulla Luna non si è ricavato nulla di permanente e l'immensa missione non ha insegnato null'altro che l'enorme sforzo organizzativo per realizzare sé stessa. Il mostruoso oggetto che partì in quel lontano luglio riuscì a portare a termine la sua missione per il fatto di essere sufficientemente grosso e di riassumere in sé, a bordo come a terra, funzioni sufficienti a permettere statisticamente di limitare al minimo la possibilità di fallimento. Questo non è il criterio con cui si progetta e costruiscono le automobili o le lavatrici, che giungono sul mercato attraverso un ciclo di produzione che è il risultato moderno di quella che fu la spinta rivoluzionaria del capitalismo. La forza del razzo immenso non fu né portatrice di nuova scienza, né portatrice di miglioramenti qualitativi nella vita degli uomini.

Il progresso nelle tecnologie e anche nella conoscenza della natura non deve essere confuso con le rivoluzioni scientifiche. La grandiosità delle realizzazioni di Roma antica, per esempio, era dovuta ad una mera utilizzazione su scala più vasta di conoscenze precedenti. Noi ammiriamo giustamente la macchina perfetta dell'antico impero, così come Marx ammira l'organizzazione capitalistica e il lavoro sociale che rivoluzionano il mondo; noi ammiriamo con Bordiga la potenza odierna delle forze produttive in America e altrove, ma proprio l'esempio di Roma imperiale ci mostra che le realizzazioni tecniche non sono sinonimo di nuova scienza. Roma non aveva nulla che non fosse già a disposizione della Grecia, tranne un'energia sociale quantitativamente maggiore dovuta alla macchina statale centralizzata. Alcune scoperte dimostrano addirittura come i Romani, soppiantando la scienza con la forza sociale, non avessero utilizzato alcune sofisticate conoscenze tecniche possedute dai Greci (163). Costruivano strade perfette, ma cavalcavano senza staffa e non conoscevano il timone dei carriaggi, due scoperte introdotte soltanto dal "barbaro" Medio Evo, che non pavimentò strade ma rivoluzionò la produzione. Il salto qualitativo era impossibile senza rompere i vecchi rapporti e questi furono spezzati. Non dalle possenti realizzazioni, che andarono in rovina, ma dalle nuove forze scaturite dall'antica potenza e che, non potendo svilupparsi oltre, trovarono nel mondo barbarico il veicolo per la loro affermazione.

Anche l'uomo capitalista cavalca ancora i suoi razzi senza staffa. Questi ultimi sono dei mostri che bruciano un'iraddiddio di carburante, rimangono inaffidabili e non si sono evoluti troppo rispetto alla sbuffante caldaia a vapore con il suo primo organo cibernetico, la valvola di Watt. La cosa che balza subito all'occhio anche del non-tecnico, è l'enormità di energia (umana, meccanica, chimica) occorrente per spedire in orbita un manufatto di pochi kilogrammi: il vero progresso è risparmio di energia; rivoluzione è quando il rendimento balza ai massimi, mentre il rendimento della macchina spaziale è progredito poco. Tutto divenne estremo nella saga spaziale: velocità, distanze, masse, numero di componenti, temperature, tempi di reazione. Ma non divenne estremo il risultato. L'estremo, la meraviglia da baraccone è una pacchia per il giornalismo, ma la pretesa rivoluzione umana nello spazio si smonta col solo dato dell'energia totale spesa per giungere al risultato che è sotto gli occhi di tutti e che nessun O' Neil può imbellettare. Senza addentrarci ulteriormente in una disamina dei problemi connaturati al funzionamento dei sistemi complessi, il cui rendimento decresce col crescere delle dimensioni (164) e in molti dei quali è contenuta una dinamica tendente a transizioni di tipo catastrofico, è sufficiente ricordare che alla missione Apollo lavorarono contemporaneamente 500.000 persone, suddivise tra migliaia di enti, laboratori e officine coordinati in un immenso, unico diagramma di flusso, mentre si stima che in Russia fossero almeno 200.000 in più (165).

L'umanità si è certamente cimentata in uno sforzo organizzativo che fa meraviglia, ma a quale fine? Fortunatamente oggi ci si trova di fronte ad enormità piuttosto sgonfiate dal semplice passare del tempo e si hanno meno probabilità di essere attratti dal fascino un po' belluino della conquista dei territori astrali. Da parte nostra abbiamo cercato, nel limite della materia da trattare, di tenerci il più possibile su di un terreno descrittivo cercando di stimolare nel lettore quel binomio intuito-raziocinio, richiesto ad ogni rivoluzionario, quello stesso binomio posto alla base di molti assunti teorici della Sinistra Comunista "italiana" (166).

Anche per quanto riguarda la presunta utilità della ricerca spaziale e militare nei confronti della tecnologia "civile", ci si dovrebbe far guidare da poche e fondamentali "cose semplici". Alla domanda se la ricerca spaziale ha davvero prodotto una "ricaduta" tangibile sul business e sulla qualità delle merci non si risponde con le 160.000 realizzazioni elencate dalla NASA per la propria pubblicità ma riformulando la domanda: sarebbe stato proprio impossibile realizzare le stesse cose in ambito terrestre? Per tutte quelle tecnologie che sono state applicate alla saga spaziale, si sono sviluppate nel suo ambito e sono ritornate perfezionate, la risposta è: no; esse si potevano perfezionare lo stesso senza la "conquista" dei cieli. La risposta è ancora no per tutte quelle tecnologie che sono state messe a punto appositamente nell'ambito della ricerca spaziale: se sono utilizzabili in altro campo significa che potevano essere sviluppate appositamente per quello.

Si potrebbe controbattere che non vale la pena investire miliardi per mettere a punto una vernice antiaderente al teflon per le padelle, o sintetizzare dei lubrificanti resistenti nel Sahara come al Polo Sud; e che progettare pile a combustibile per usarle sui pescherecci potrebbe essere antieconomico. Su questo non discutiamo: chiunque si metta dalla parte dei miliardi in ambito capitalista ha sempre ragione e non ci metteremo di certo dalla parte di chi è contro la ricerca spaziale in quanto antieconomica: lo spreco capitalistico è ben altro (167).

Le uniche realizzazioni che derivano direttamente dallo spazio sono quelle ottenute in condizioni di microgravità, come la cristallizzazione di certi elementi, la fusione di leghe speciali, formazione di proteine speciali nei processi biologici ecc., ma esse paradossalmente non hanno ancora applicazione pratica generalizzata proprio perché dipendono da condizioni ottenibili solo nello spazio, quindi in laboratori particolari, non trasformabili in impianti di produzione a causa del solito problema di efficienza nel rapporto fra massa di lancio e carico utile. Per quanto riguarda quindi la produzione in massa di materiali utili alla vita di tutti i giorni, nelle condizioni di microgravità, siamo ancora molto, ma molto distanti. Vi sarà uno sviluppo di fabbriche permanenti in grado di soddisfare le esigenze del plusvalore solo quando si potrà vendere il prodotto con un ricavo superiore alle spese. Sarà una considerazione banale, ma lo sviluppo dei satelliti per telecomunicazioni, unico esempio finora di utilizzo massiccio della tecnologia spaziale, c'è stato quando si sono verificate le condizioni di mercato. E' vero che le attuali apparecchiature per operare in microgravità pesano poco e non incidono molto sul bilancio energetico dei carichi paganti, ma per ora sono piccoli strumenti di laboratorio, costano carissime e vengono riportate indietro ad ogni missione. Eventuali sistemi di produzione avrebbero bisogno di essere impiantati in modo permanente su grandi stazioni orbitanti, ma queste non ci sono ancora.

Il primo vero e proprio affare, l'unico per ora, rimane quindi la tecnica perfezionata dei satelliti geostazionari per telecomunicazioni. In questo caso si rientra nel classico modello offerto dalla formuletta marxista del saggio di profitto: l'anticipo di capitale è relativamente basso in confronto ai grandi numeri forniti da un'utenza che c'è già e che può essere così dirottata verso il nuovo "bisogno". Tra l'altro la merce venduta è roba vecchia: il nuovo sta nel mezzo che la porta al consumatore. Non è strano che il successo sia giunto nell'unico settore, l'informazione, in cui la merce non sia una "cosa" materiale. Essa dunque non contiene capitale costante se non nella sua produzione, dato che la distribuzione consiste di bit e onde elettromagnetiche, quindi si presta come controtendenza alla caduta del saggio di profitto. Non si possono certo far pagare agli utenti centinaia di tonnellate di vettore per ogni satellite di pochi kilogrammi (tenendo conto anche degli usuali fallimenti e delle altrettanto usuali incertezze di funzionamento in orbita) se questi non fossero già milioni. Anche in questo caso abbiamo la dimostrazione che la ricerca spaziale non anticipa le realizzazioni importanti, ma le segue. La radio di Marconi ha permesso l'esistenza di milioni di utenti, e questi hanno dopo, e solo dopo, permesso l'esistenza dei satelliti per le telecomunicazioni.

Il progetto e la realizzazione della Space Shuttle semi-pilotabile rispose principalmente all'esigenza di lanciare in orbita tanti satelliti senza sprecare tutte le volte il vettore completo. Anche se essa s'innalza col solito apocalittico sistema altamente dissipativo, può lasciare il satellite nello spazio e ritornare a terra con i propri mezzi, cioè atterrando su una (quasi) normale pista di aeroporto. Essendo recuperabile e posizionabile nello spazio con relativa facilità, può compiere missioni secondarie di riparazione di eventuali satelliti malfunzionanti anche come corollario di missioni principali. Ma siccome quasi tutti i satelliti per telecomunicazioni sono ormai abbastanza piccoli e leggeri e vengono spediti in orbite sempre uguali e sempre con le stesse procedure, è diventato conveniente utilizzare vettori tradizionali fatti in serie e poco sofisticati, come quelli europei, cinesi e giapponesi. Le previsioni sui ragionevoli costi della Shuttle per la "produzione" spaziale (lancio anche plurimo di satelliti) andarono a farsi benedire e, anche da questo punto di vista, il progetto della navetta recuperabile non fu così "pagante" come si sperava. Rimane alla navetta un compito per ora insostituibile: la riparazione dei satelliti nello spazio. Ma come al solito il gioco deve valere la candela: mentre la riparazione del telescopio spaziale Hubble fu un'impresa tecnologica di grandissimo livello e anche conveniente rispetto al costo complessivo della macchina riparata, sarebbe assurdo spendere trenta o quaranta milioni di dollari solo riparare un normale satellite per telecomunicazioni civili (168).

Tutto il gran battage per la conquista del cosmo si riduce davvero a così poco? Una banale rete di servizi telematici per uomini che se ne stanno con i piedi saldamente piantati sulla capitalistica terra? E' così: l'unico vero business che ha attecchito, con migliaia di lanci, per lo più di satelliti geostazionari, è la comunicazione. Il progressivo intasamento dell'orbita obbligata a 36.000 km, che preoccupa già parecchio gli addetti ai lavori, dimostra questo limite proprio attraverso un folgorante successo. Ogni persona sensata capirà che questo è anche il successo dell'ideologia dominante: telefonia e televisione, Internet e Borse virtuali, frenesia del denaro e dello spettacolo, informazione come droga. E si sa già che si finirà in overdose, per cui c'è già chi pensa ai prossimi possibili prodotti di sintesi, più artificiosi, meno umani, più devastanti.

Naturalmente la nostra discussione sulla ricaduta tecnologica risponde anche ai critici totali della ricerca spaziale che proprio in America sono i più numerosi. Fin dall'inizio l'attività spaziale ha prodotto, specialmente in un paese abituato agli schieramenti manichei come gli Stati Uniti, i pronunciamenti a favore o contro. Da una parte coloro che difendono a spada tratta il concetto illuministico di conquista dell'intelletto umano, di salto qualitativo nel regno di un nuovo mondo; dall'altra coloro che ritengono la spesa spaziale una pura e semplice rapina economica a danno dei contribuenti. Inutile dire che in questo modo americanissimo di trattare il problema noi non c'entriamo e che ci collochiamo da un'altra parte. Sarebbe assurdo per noi negare in assoluto la ricaduta, il transfer of technology sulle merci di uso quotidiano, industriale, medico ecc. così come è assurdo, da parte della maggioranza della popolazione del globo, il glorificarla. Uscendo dalla critica contingentista, annotiamo che questo trasferimento di tecnologie, vasto o miserello che sia, è connaturato semplicemente al tentativo di rendere "pagante" una ricerca che non è nata per ottenerlo. L'intero processo produttivo capitalistico è anarchico, molti dei suoi risultati si scoprono utili col senno di poi, non sono per nulla dovuti ad un progetto finalizzato, ad un obiettivo voluto.

Forse la maggior parte delle persone che sgranano gli occhi davanti alle meraviglie spaziali non si rendono conto che i tanto magnificati microcomputers montati sulle "astronavi" non si sono sviluppati affatto grazie alla conquista spaziale ma grazie ai milioni di ragazzini che chiedevano giochi sempre più veloci, con grafica sempre più realistica. Nessuno di questi ragazzini avrebbe cambiato il suo vecchio C64 (del 1982) con i catorci montati sulle Shuttle ancora alla fine degli anni '80. Il gran numero di sensori, generatori, ceramiche, vernici, lubrificanti, materie plastiche, fotocellule, leghe metalliche, automatismi, valvole, ecc. trasferiti oggi al mondo "civile", potevano benissimo essere, in una società basata su altri parametri, il risultato di un'attività cosciente e volontaria finalizzata a ricerche per rendere migliore l'esistenza della specie umana. Nel capitalismo così non è. Per questo durante il recente convegno mondiale sullo spazio tenutosi a Torino (169), tutte le volte che i cronisti della televisione o dei giornali facevano domande sull'entità del transfer of technology ai grandi sacerdoti di questa religione passata un po' in sordina, questi rispondevano perdendo la patina d'entusiasmo, balbettando luoghi comuni. Il marketing spaziale preferisce far presa sui visceri invece che sul cervello, e descrivere futuri radiosi quanto improbabili, fatti di stazioni sia orbitali che su altri pianeti, dove si vive come a casa propria, coltivando il giardino idroponico e allevando bambini, dove al mattino si va in ufficio e di domenica dal prete. La risposta era troppo stereotipata per sembrare vera. E anche i non addetti sentivano la menzogna. Non c'è nulla da fare: questa società non rinuncia mai a mettere il proprio marchio infame non solo su ciò che tocca, ma anche su ciò che immagina.

Dal 1981, data del lancio della prima navetta Columbia, non ci sono novità sensazionali nello spazio, tranne l'approntamento di tecnologie "fini", come dimostrano per esempio il telescopio Hubble o le sonde Cassini e Ulisse, le cui realizzazioni sono vere meraviglie della tecnica spaziale ma non colpiscono il grande pubblico. Abbiamo già ricordato che è in progetto una spedizione manned ("umanata", come dice Bordiga) su Marte entro una quindicina d'anni. Siamo scettici, ma staremo a vedere: per i motivi spiegati negli articoli qui raccolti e nonostante abbiano avuto successo le tecnicamente perfette missioni delle sonde automatiche verso i pianeti del Sistema Solare, passerà ancora un bel po' di tempo (170). E' possibile progettare una traiettoria newtoniana e correggerla per strada in modo da mandare con precisione un oggetto automatico su Marte; è possibile far atterrare il robot sul pianeta dopo averne riattivato le funzioni messe in stand-by per molti mesi; è possibile ricavare fotografie, far scendere robottini-figli e scorazzare nei dintorni; insomma, è possibile mandare una macchina relativamente piccola per una missione senza ritorno. Sarà possibile far ritornare il robot con alcune pietre nel prossimo futuro. Ma è per ora impossibile prevedere cosa succede ad un insieme, molto più complesso del vecchio Apollo, contenente esseri umani per mesi e mesi. Occorrerebbe ottenere, sia dai mezzi meccanici ed elettronici che dall'azione degli astronauti, margini di errore di gran lunga più stretti di quelli ottenuti nella storia dei satelliti luno-terrestri o di quelli ottenuti con le sonde automatiche. Ciò significa che non sarebbe più ammissibile il procedimento evolutivo "tramite errore e correzione" che finora ha caratterizzato la ricerca spaziale: si possono sbagliare tre operazioni su quattro quando si tratta di spedire una piccola sonda automatica, ma non si può certo esagerare nel procedere per errore e correzione quando si tratta di un viaggio umano. Marte è distante mediamente una sessantina di milioni di km e, a seconda della rotta scelta, occorrono al minimo dodici mesi per andare e tornare, senza tener conto del capitale da investire con incerto risultato. Trentadue furono i lanci di prova per il progetto Apollo, e nel caso delle sonde verso il Sistema Solare e i suoi pianeti, dietro i grandi successi vi furono centinaia di incidenti ed errori, una vera ecatombe di macchine.

Soprattutto, il capitalismo può varare esperimenti spaziali ad alto rischio di errore solo quando c'è plusvalore da utilizzare in modo che diventi nuovo capitale e produca ancor più plusvalore. Se sulla Luna non si è trovato finora nulla da fare di "pagante", figuriamoci sui deserti marziani. D'altra parte la ricerca spaziale non si può fare senza i soldi dello Stato, perché con le sole tecnologie delle industrie non si va da nessuna parte: queste ultime anticipano soldi solo nella sicurezza del profitto e delle sovvenzioni. Tutta l'esperienza passata è già un'applicazione di questa regola, se proprio non la vogliamo chiamare legge: per sostenere l'industria spaziale lo Stato prende quattrini presso tutti gli strati sociali attraverso quella che viene chiamata "politica dei redditi" e ciò significa ovviamente rastrellare plusvalore presso altri capitalisti, dato che dall'operaio, determinato il salario netto, non si può più prendere nulla. Ora, dato che siamo in periodo non troppo favorevole per rastrellare ulteriore plusvalore presso chi storicamente se lo accaparra, non si capisce proprio quale ricerca spaziale si possa promuovere oltre le attività esistenti. E bisogna anche tener presente che ogni nuova "conquista" coinvolge campi più vasti, quindi costi maggiori, come è già stato dimostrato nelle passate campagne o "missioni". Ci si dovrebbe quindi limitare per ora a quella routine "minimalista" no manned già citata e che conferma clamorosamente il ripiego verso l'uso dei robot, utilissimi nel sostituire, amplificati, i limitati sensi dell'animale uomo.

Che concludere? Abbiamo visto che della Luna non parla più nessuno, anche se i fantastici progetti per la costruzione di basi fisse sulla sua superficie o nel suo sottosuolo sono tenuti in serbo nei cassetti, non si sa mai. Le stazioni orbitanti, cavallo di battaglia per schiere di scienziati a partire dall'immediato dopoguerra (prima ancora del lancio del primo Sputnik), non si sono fatte, anche se ormai, a condizione di tradurre le circonferenze dai kilometri ai metri, si potrebbero fare con facilità, ammesso e non concesso che serva a qualcosa rispetto ad una migliore qualità della vita per la nostra disgraziata (nel senso che sopporta ancora il capitalismo) specie.

Dopo i temporanei Skylab e Spacelab, l'unica stazione orbitante che ha resistito è la Mir russa, ma non è neppure lontanamente paragonabile alle fantasie che abbiamo descritto velocemente poco sopra. E comunque non è una vera stazione orbitante, ma un ammasso disomogeneo di moduli adattati nel tempo e non progettati in modo unitario, ormai talmente in cattivo stato che verrà abbandonata entro il 2.000 (171). Essa ha ormai 12 anni e, nonostante alcuni rimodernamenti, i suoi standard di sicurezza e vivibilità sono oggi inaccettabili per gli astronauti, specie per il personale dell'industria pagante che deve sottostare a lunghi condizionamenti prima di poter lavorare.

L'assemblaggio della Stazione Orbitante Internazionale, che era previsto per l'autunno del 1997, è finalmente iniziato, e comunque anche questo progetto, che ricalca quello a "grappolo" della Mir, non ha nulla a che fare con le grandi fantasie dei disegnatori (172). Si tratta anche in questo caso di un montaggio di capsule eterogenee e non di una struttura unitaria. Progettata una dozzina di anni fa, è composta di vari moduli che saranno portati in orbita e connessi nel giro di cinque o sei anni. Nel frattempo il costo, previsto all'epoca del progetto in 8 miliardi di dollari, è salito a 94 miliardi. L'Economist, affrontando l'argomento dal punto di vista economico, ironizza in un sottotitolo: "La Stazione Orbitale Americana è più cara, più internazionale, più controversa: come dire non-esistente" (173). Il vecchio progetto dimostra anche nei suoi aggiornamenti che si è ben lontani dalle vere stazioni abitabili, quelle che avrebbero dovuto permettere agli astronauti condizioni di vita simili a quelle di casa. In fondo non si sa bene a che cosa serva ancora un progetto del genere. Il Congresso degli Stati Uniti, per nulla convinto dalle udienze degli scienziati della NASA, per ben 16 volte ha tentato di cancellarlo dietro suggerimento di altri scienziati che proponevano di usare più produttivamente i soldi (oh, certo, in qualche altra industria cui la loro lobby era legata). L'intera missione dovrà durare almeno 25 anni per minimizzare i costi e perciò, non essendo previsto altro nel frattempo, si presenta come semplicemente sostitutiva di quella dell'ormai antica Mir. Si prevede ancora un'orbita bassa con perigeo a soli 335 km (0,04 raggi terrestri), quindi ancora sotto l'effetto dell'atmosfera, per quanto estremamente rarefatta. Ciò dimostra quanto sia ancora difficile per l'uomo staccarsi dalla Madre-Terra anche solo a causa dei costi. La presenza di aria a quella quota obbliga il progetto a contemplare non solo i motori di riorientamento continuo, ma anche una serie di motori più potenti per correggere di tanto in tanto l'orbita, perché la resistenza dell'atmosfera a quelle velocità frena la stazione, che dispiega enormi pannelli solari e strutture varie come vele, e tende a farla precipitare. Nonostante ciò, si è scelta l'orbita bassa perché permette di abbattere il costoso rapporto fra il peso totale e il carico pagante.

Che si tratti della stazione spaziale o della missione su Marte, la potenza del capitale non si misura tanto con la potenza dei missili o con la precisione dei manufatti spaziali, quanto con il loro significato economico. Fintanto che si riesce a produrli e a farli partecipare alla valorizzazione, essi sono per il Capitale come l'ossigeno per l'asfittico o l'antibiotico per l'infetto. Essi invertono l'aspetto fondamentale dell'industria moderna che produce merci a milioni mediante pochi uomini e tante macchine: mentre infatti nelle merci normali si assiste ad una diminuzione del valore unitario per via della produzione di massa con sempre meno uomini, nel raro e meravigliante manufatto spaziale, al contrario, si concentra il lavoro di migliaia di uomini; esso è prodotto in pezzi unici o limitati e attira verso di sé masse enormi di capitale, valorizzandolo in concentrato. Con ciò è in controtendenza rispetto alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, anche se non influisce sull'economia come in genere si tende a credere (174). I manufatti spaziali sono quindi dei paradossi, merci di lusso prodotte alla stregua di preziosi gioielli d'artigianato, come le armi istoriate, le stoffe preziose e le carrozze prodotte dai paleocapitalisti per i nobili durante l'accumulazione primitiva. Solo che tutto ciò, invece di essere linfa che alimenta una nascita, è ossigeno che impedisce una morte. Come le armi e le guerre attuali, che rappresentano un altro campo di produzione e consumo di beni di lusso utili alla rianimazione capitalistica. Non a caso la "conquista spaziale" è figlia degli Stati Maggiori militari. Questo continuo ricorso alla camera di rianimazione da parte del capitalismo demoralizza i comunisti deboli in dottrina, perché la legge della caduta del saggio è la più importante per la fine del capitalismo. Il dubbio s'insinua di fronte al "successo" dell'avversario e si finisce per vedere un'impresa epica, una "conquista" anche dove c'è solo fumo negli occhi, cinema hollywoodiano, tecnologia che dimostra esclusivamente la sua propria esistenza, per quanto potente e meravigliosa. Altro che conquista. Il marchingegno alto 111 metri e pesante tremila tonnellate, quasi esclusivamente di carburante da bruciare in pochi secondi, che nel '69 andava sulla Luna al solo scopo di tornare e di preparare la strada all'idiota chiacchiericcio mediatico mondiale di adesso, non è conquista, è pulsione capitalistica prodotta da fattori che si devono studiare e capire.

Poiché ogni merce viene prodotta nel tempo ad un valore decrescente, l'unico affare sarebbe stata la keynesiana continuazione dei lanci e degli esperimenti in modo da aumentare la massa di materia messa in moto in rapporto alla massa di capitali investiti; si sarebbe dovuto passare dalle merci di lusso alle merci popolari, in modo da compensare in modo classico la caduta progressiva del saggio di profitto con la realizzazione di una massa crescente. Ma la merce alla lunga deve avere anche un valore d'uso oltre che un valore di scambio, altrimenti è negata la realizzazione del plusvalore. Insomma, non si possono vendere missili come automobili. Keynes aveva un bel dire che si può guarire dalla crisi scavando buche col solo scopo di riempirle di nuovo, o che si possono costruire piramidi allo stesso fine, come fecero gli antichi Egizi: le buche sono già state scavate e riempite, mentre per costruire l'equivalente delle immense piramidi occorre, come allora, liberare l'immensa forza produttiva raggiunta da questa stessa società; in altre parole occorre una rivoluzione di potenza non inferiore a quella che avvenne col passaggio dal neolitico alla civiltà urbana. Ma essa non partirà dalla fantascientifica base di Cape Canaveral, bensì da più modeste rampe nel sottosuolo sociale.

Rimarrebbe il campo militare, grande consumatore di merci di lusso che hanno il pregio di diventare obsolete senza passare attraverso l'uso effettivo o, se usate, passibili di elevato consumo. Anche in questo campo però il numero, la massa, diventa un ostacolo insormontabile quando già si possiede un arsenale di per sé sufficiente per distruggere diverse volte tutto il pianeta. D'altra parte l'innalzamento della soglia tecnologica non ha funzionato per le armi spaziali: le stupefacenti Guerre Stellari che piacevano tanto al presidente americano Reagan cozzarono contro un elementare ragionamento che, all'epoca, fece un imperturbabile tecnico russo: quei marchingegni supertecnologici nello spazio si potevano neutralizzare acquistando dal primo rigattiere un bidone di chiodi arrugginiti e sparpagliandoli sulla stessa orbita in direzione contraria; alla velocità relativa di 60.000 km all'ora la supercostosa supertecnologia reaganiana sarebbe stata ridotta a un colabrodo al costo di pochi rubli. Anche in questo caso abbiamo la conferma che dietro la mitologia della conquista spaziale, comprese le sue diramazioni militari, non c'è tanto l'efficienza scientifica quanto il volgarissimo business:

"Siamo davanti al conato di una scienza decadente, che appare avere mobilitate forze immense materiali e mentali, e in cui collaborano risorse statali-sociali-economiche immani, condannate alla impotenza da una falsa e superata organizzazione del lavoro umano. Il limite di impossibilità al successo sta in questo deficiente e degenerante intrico di assurdità. Se il semplice lancio a più dei noti 11.000 circa metri al secondo è un successo, o meglio un primo passo rudimentale, come in tutte le conquiste umane, lo si poteva fare con un pezzaccio di metallo e non con l'ultra-artefatto apparato dai trecentomila, o forse stavolta seicentomila "pezzi", i cui artefici sapevano di paralizzarsi l'un l'altro, ma sapevano pure di non volersi sabotare i rispettivi profitti!" (175)

Si sa che i militari non badano a spese e che sono avidi consumatori di nuove tecnologie, il 99 per cento delle quali si rivelano assurde in caso di guerra vera. Ma anche i civili non scherzano. La nuova stazione spaziale, paralizzata lungo un decennio dalla lotta per il profitto e dalla concorrenza fra Stati, è un monumento alla scienza decadente: è obsoleta prima ancora di nascere, è inutilmente complicata e costosa, è un assemblaggio di egoismi e di strutture che rispondono più alle lobby industriali che ad un progetto razionale e unitario. Si disse per molto tempo che è inevitabile un'epoca pionieristica e che poi vengono i risultati, come per esempio nel settore dell'aviazione civile. Ma il paragone non è sostenibile. Tra il 1920 e il 1940 furono progettati innumerevoli aeroplani e ne furono effettivamente costruiti almeno 100.000 tipi diversi, di cui, in un processo darwiniano, ne sopravvissero circa 100, dai quali nacque l'aviazione attuale (176). Durante la guerra riprese la progettazione e altre migliaia di aerei militari furono costruiti e provati, nella maggior parte dei casi con esiti disastrosi. Sopravvissero i meno complicati e l'aviazione diventò parte del modo di produzione capitalistico. Così non è nel caso della progettazione e produzione spaziale. Non si sa quanti tipi di missile siano stati costruiti, ma è certo che dai primi veri missili (i V2 tedeschi) ad oggi è passato più di mezzo secolo e non vi è stata un'ascesa, nell'utilizzo sociale del mezzo, paragonabile a quella del più modesto aeroplano, che a prima vista sembra tecnologicamente meno dotato.

Non si salva dunque proprio nulla dell'avventura spaziale? Non è forse un'esagerazione vedervi soltanto aspetti negativi o anche solo banali? Non abbiamo forse sempre sostenuto che lo sviluppo delle forze produttive è di per sé rivoluzionario?

Esatto: lo sviluppo delle forze produttive è sempre rivoluzionario. Ma tale sviluppo non si vede tanto nelle macchine spedite nello spazio o nella pattuglia di "eroi" che rischiano la pelle. La rivoluzione lavora attraverso l'organizzazione altamente centralizzata e nello stesso tempo distribuita in tutto il tessuto produttivo dei paesi industriali che hanno permesso i risultati spaziali. Lavora soprattutto attraverso il rapporto che ha legato tra di loro più di un milione di uomini, i quali non erano slegati da altri milioni e milioni, altrettanto coinvolti nel massimo livello di socializzazione del lavoro raggiunto dall'umanità. Un milione di uomini che hanno concentrato i loro sforzi sincronizzati in modo tale che macchine inizialmente rozze e imperfette sono state in grado di estendere i sensi umani fino ai confini del sistema solare. Il telescopio Hubble ha esteso il nostro senso della vista ancora più in là, fino ai confini dell'universo conosciuto. Per quanto riguarda la socializzazione del lavoro, questa ha prodotto fenomeni molto interessanti dal punto di vista del comunismo. La Qualità Totale e tutti i criteri organizzativi che vi si collegano sono in genere identificati con un insieme di tecniche atte ad ottenere un abbassamento statistico degli scarti, un miglioramento del prodotto o qualcosa di simile. In realtà l'esigenza di tali tecniche deriva dalla necessità di controllare la produzione come fatto integrato in un contesto di lavoro sociale e il perfezionamento dei metodi non è che un fenomeno derivato da cause più profonde. Il cambiamento radicale intervenuto negli anni '70 e '80 ha portato alla scomparsa della fabbrica tradizionale. Essa è stata in gran parte sostituita da nodi produttivi facenti parte di una rete talmente integrata che non può più fare a meno di tener conto delle relazioni tra ogni suo punto. Siamo ben al di là del fatto tecnico analizzato da Lenin nell'Imperialismo con le industrie globali di allora. Vale a dire che siamo oggi di fronte ad una produzione completamente socializzata la quale avviene in non importa più quale località ed è in mano a non importa più quale capitalista. I criteri che unificano la qualità dell'oggetto prodotto si estendono al modo di produrlo e investono l'intero processo della produzione mondiale piegando alle esigenze astratte della produzione qualsiasi volontà individuale e anche collettiva, per esempio quella degli Stati (177).

Note

(159) Isaac Asimov, Il vagabondo delle scienze, Mondadori, pag. 408, passim.

(160) In Italia, un libro di O' Neil fu pubblicato da Mondadori col titolo Colonie umane nello spazio.

(161) Triviale rigurgito di illuminismo.

(162) Dal 10 ottobre 1960, quando partì la prima sonda verso Marte, al 1998, vi sono state circa quaranta missioni, comprese quelle con più obiettivi; circa trenta, fra cui sei tentativi di atterraggio, sono fallite (i dati variano a seconda delle fonti).

(163) Non è detto che i Greci antichi utilizzassero solo architravi monolitici per mancanza di conoscenze superiori: nelle mura ciclopiche di Elea vi è una porta del VI secolo a.C. con un perfetto arco a tutto sesto. Evidentemente la loro società non aveva bisogno dell'arco. Invece i Romani, per le necessità della loro espansione e centralizzazione, lasciarono gli architravi ai soli templi e riempirono di archi, di volte e di cupole il mondo allora conosciuto. I Greci sono conosciuti per le loro grandi capacità speculative, ma avevano anche buone conoscenze tecnologiche: lo prova il meccanismo di Antikythera, trovato fra i resti di una nave del 65 a.C., e rivelatosi un sofisticatissimo calcolatore astronomico portatile per i naviganti. Ad Atene è ancora ben conservato un edificio del 50 a.C. la cui funzione era identica, ma le cui prestazioni erano ottenute con un horològion ad acqua e un apparato astronomico ad ombre e riferimenti. I meccanismi, ora scomparsi, sono stati ricostruiti sulla base dei supporti, dei fori e delle boccole di bronzo rimaste ("Antikythera mechanism: an appreciation", IEEE Micro, febbraio 1984). Non risulta che il mondo romano antico conoscesse nulla del genere.

(164) Una bella intuizione sul rendimento decrescente al crescere delle dimensioni dei sistemi meccanici e la non corrispondenza fra modello platonico ideale e realtà è in Galileo, Nuove scienze, Macchine piccole e grandi, in Galileo Galilei, Opere, Tomo I, ed. Ricciardi, pag. 853.

(165) Diagramma di flusso è il termine generico per indicare qualsiasi movimento sequenziale di uomini e materiali in modo da rispettare un piano generale anche nelle sue tappe intermedie ed evitare accavallamenti o blocchi di situazioni ("colli di bottiglia"). Uno dei sistemi molto in uso in passato fu il PERT (Program, Evaluation and Review Technique), messo a punto dalla marina americana per i sistemi atomici sottomarini nel 1958. Un sistema di ottimizzazione dei processi è anche il CPM (Critical Path Method), che è mirato sui tempi e i costi. Tutti questi sistemi ricorrono in genere alle formalizzazioni matematiche messe a punto in URSS negli anni '30 e perfezionate negli Stati Uniti per la pianificazione della produzione bellica durante la Seconda Guerra Mondiale. Questi sistemi sono molto versatili e possono essere maneggiati sia con carta e matita sia con sofisticatissimi programmi per computer. E' dimostrato che la loro efficienza è inversamente proporzionale al loro grado di formalizzazione matematica (che in genere è come dire al grado di complessità del problema da risolvere, visto che si ricorre alla sofisticazione informatica, che è costosissima per programmi specifici, quando non vi è altra via da tentare). Da queste metodologie scaturirono anche strumenti teorici probabilistici che furono utilizzati per studiare il comportamento dei corpi artificiali nello spazio (cfr. Spedire manufatti nello spazio, nella seconda parte di questo volume sugli approfondimenti).

(166) Cfr. il nostro testo La passione e l'algebra - Amadeo Bordiga e la scienza della rivoluzione dove si collegano molte impostazioni teoriche della Sinistra Comunista alla scuola matematica italiana a cavallo del secolo, specie al già citato ramo detto della "geometria algebrica", che portò alle massime conseguenze epistemologiche il binomio intuito/razionalità in opposizione ai razionalisti puri anglosassoni. Vedere anche la nostra Lettera ai compagni n. 31, Demoni pericolosi, al capitoletto Rivalutazione dell'intuito e dell'istinto.

(167) Cfr. Scienza economica marxista come programma rivoluzionario, ed. Quaderni Internazionalisti, un testo specifico sullo sciupìo capitalistico.

(168) Gli esperti sottolineano una differenza sostanziale tra l'approccio europeo e quello americano allo spazio: gli europei tenderebbero a progettare più meticolosamente ogni missione e a darle compiti più precisi, mentre gli americani, nonostante la superiorità tecnologica in certi campi, tenderebbero a procedere più rozzamente confidando troppo nella loro potenza industriale ed economica. Dietro alcune clamorose sconfitte americane si legge un dato ideologico e insieme pratico: da una parte una ingenua fiducia nella potenza del capitalismo come eterna way of life, dall'altra l'esigenza dell'industria di mantenere comunque un'intensa attività spaziale che garantisca un alto saggio di profitto ai fornitori. Per ragioni di concorrenza il nuovo direttore della NASA, Daniel Goldin, cerca di integrare lo spettacolo pubblicitario americano con l'utilitarismo spinto degli europei.

(169) Il gruppo di industrie torinesi che partecipa alla costruzione e all'organizzazione della Stazione Spaziale Internazionale rivendica l'ubicazione del futuro Centro di Controllo in città e sembra abbia buone possibilità di ottenerlo. Lo Stato appoggia, il sindaco gongola. Concorrenza, competizione e guerra a colpi bassi permeano anche questa impresa, che fu avviata col motto dell' "amicizia tra i popoli" e altri moralistici appellativi. All'inizio (1984), la stazione doveva essere tutta americana e consentire gli esperimenti a terzi dietro pagamento, come la Mir. Poi essa divenne internazionale per via dei costi e assunse l'attuale struttura a grappolo di moduli, riproducendo anche in questo la compartimentazione che c'è sulle carte geopolitiche.

(170) Il 15 settembre 1969, dopo la prima missione lunare, Nixon disse che era in programma la missione marziana e che l'uomo sarebbe sbarcato su Marte "prima della fine del secolo". La propaganda NASA degli anni '70 anticipava la data alla fine degli anni '80. Bush, in un intervento al parlamento americano il 20 luglio 1989 (nel ventesimo anniversario dello sbarco sulla Luna), comunicò che era stato varato un progetto preliminare per costruire una base permanente su Marte entro 30 anni, con una spesa complessiva di 400 miliardi di dollari di allora. Durante la missione Pathfinder del luglio 1997, un portavoce della NASA dichiarò che con le conoscenze accumulate si poteva arrivare su Marte entro otto anni se si fossero trovati i fondi. La più vicina "finestra" ottimale (minima distanza dei pianeti per un viaggio andata-ritorno) è stata nel dicembre 1998, mentre quelle successive saranno nel 2005 e nel 2015. Senza preoccupazioni di durata, e quindi di permanenza su Marte, le "finestre" per la sola andata si presentano ogni 26 mesi circa. I dettagli dei progetti attualmente all'esame del governo americano si trovano nella seconda parte del volume dedicata agli approfondimenti.

(171) Il modulo Progress che dovrà fornire la spinta per abbassare l'orbita attuale è già in sito ed è stata calcolata una lenta spirale per portare la stazione dagli attuali 400 km di apogeo a 150. A quella distanza la caduta sarà irreversibile e porterà la massa a disintegrarsi nell'atmosfera.

(172) Il primo modulo, destinato a orbitare solitario per qualche mese, è stato lanciato dal poligono russo di Baikonur il 20 novembre del 1998. Si chiama Zarya, Aurora.

(173) "No free launch", The Economist, 27 gennaio 1996.

(174) Nel 1989-93 gli investimenti spaziali americani raggiunsero il massimo dopo le riduzioni seguite al disastro della navetta Challenger. Il budget spaziale fu in media di circa 50 miliardi di dollari all'anno (in buona parte assorbiti dall'apparato militare): lo 0,6 % del Prodotto Interno Lordo.

(175) Non si lascia aggirare la fredda Selene.

(176) Cifra riportata in "A che serve la Shuttle?" di Timothy Ferris, su La rivista dei libri, novembre 1998.

(177) Da un punto di vista marxista questa situazione ha implicazioni enormi. Su di esse, e sulla base delle potenti anticipazioni di Marx, stiamo lavorando.

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