35. Il feticcio dei mercati (1)
Ovvero il mercato dei feticci

LE NOSTRE ULTIME RIUNIONI

La Sinistra comunista "italiana", criticando anche nella prassi i vecchi modelli organizzativi delle Internazionali e dei partiti che le componevano, basò la sua struttura generale su "incontri frequenti di inviati di tutta la periferia organizzata" nei quali non avvenivano dibattiti e confronti su tesi in contrasto ma si svolgeva un lavoro.

I risultati raggiunti ad ogni livello della rete organizzata erano raccolti in un lavoro centralizzato il quale a sua volta veniva riverberato verso la rete. La Sinistra lavorava con questi criteri già prima della formazione del Partito Comunista d'Italia, nel 1921, ed esso mantenne questa struttura di lavoro fino alla "bolscevizzazione" forzata. In questo ambiente un Tasca, un Graziadei o un Gramsci (per dire un destro, un eclettico e un idealista, quindi dei non-marxisti), rappresentavano nient'altro che delle molecole di un tutto organico e questo tutto non solo non soffriva della loro presenza, ma ne utilizzava le contraddizioni per una positiva didattica di partito. Ciò non può essere ovviamente teorizzato come apertura verso l'eclettismo, specie in un periodo come il nostro in cui il partito non c'è e una situazione del genere sarebbe semplicemente distruttiva, ma il PCd'I aveva dimostrato che con la forza dell'organicità e della situazione socialmente favorevole, è possibile dominare l'avversario anche quando si presenti nelle nostre file.

La prassi in vigore nel PCd'I scaturiva direttamente dall'impostazione teorica che esso aveva rispetto alla questione del partito mondiale futuro, mentre era negata ai vari partiti "nazionali", strutturati come fotocopie dei partiti socialdemocratici della vecchia Internazionale e federati in quell'organismo superiore a rappresentanza democratica che era quella nuova. Nel primo PCd'I il lavoro organico fu ancora intralciato da residui organizzativi formali e democratici come statuti e comitati, ma nel secondo dopoguerra il nuovo movimento, nato sull'esperienza storica della corrente, eliminò per sempre dall'organizzazione ogni ricorso a meccanismi di democrazia rappresentativa e a regole giuridiche interne. Le Tesi di Napoli e di Milano, per esempio, tratteggiarono con precisione e chiarezza la struttura di lavoro di una compagine marxista, ovvero come la si deve intendere dopo le ondate degenerative degli altri tipi di organizzazione. Se noi per ovvii motivi non possiamo dire di essere la Sinistra, cerchiamo nondimeno di adottarne il patrimonio di teoria e prassi; è quindi nell'ottica di una struttura di lavoro come quella ricordata che occorre valutare, più che l'attività resa possibile dal presente, quella che il futuro ci porterà e dalla quale lo stesso presente deve essere forgiato.

Durante uno degli incontri che organizziamo il più spesso possibile, avvenuto a Torino fra il 28 dicembre 1996 e il 7 gennaio 1997, abbiamo avuto l'occasione sia di ascoltare rapporti specifici, sia di avere un fitto scambio fra compagni che risiedono in diversi luoghi. Presentiamo in questa Lettera alcuni risultati di questo scambio. Nell'articolo Cassandra e le Sirene riprendiamo la questione della dominazione reale del Capitale sulla società; in esso colleghiamo ciò che disse Marx a proposito del capitale finanziario alla totale dipendenza delle borghesie nazionali rispetto ai cosiddetti mercati. Nell'articolo Disunited States of Europa parliamo dei tentativi borghesi volti ad esorcizzare la crisi cronica in cui si trova un capitalismo che da una parte è in perenne terapia di rianimazione e dall'altra dimostra una vitalità notevole e dannata (per noi). Si tratta di un tema evidentemente collegato all'articolo precedente; esso era stato svolto durante una riunione avvenuta tra compagni di Roma e di Torre Annunziata ed era stato ripreso durante l'incontro citato.

Seguono l'articolo Dare la vita al mercato e la lettera da noi ricevuta qualche tempo fa D'accordo: cerchiamo di essere concreti: entrambi i lavori sono utilissimi per capire come da un problema "specifico" si possano trarre generalizzazioni utili a tutti, cosa che dimostra come un problema non sia mai "specifico", essendo il riflesso di condizioni uguali in tutto il mondo capitalistico.

CASSANDRA E LE SIRENE

SULLO SFONDO DEI TENTATIVI DI UNIFICAZIONE EUROPEA, DAI RANGHI DI UNA BORGHESIA LANCIATA VERSO IL MERCATO SELVAGGIO SI ALZANO VOCI CATASTROFICHE. NELLO STESSO TEMPO L'IMMENSA BOLLA FINANZIARIA LUSINGA I PICCOLI CAPITALI CON IL MIRAGGIO DI UNA CRESCITA ESPONENZIALE INFINITA, MA IL CAPITALE ANONIMO, IMPERSONALE, GUIDA GLI STATI AD UN CONTROLLO SEMPRE PIÙ TOTALITARIO DELL'ECONOMIA.

Dagli Stati Uniti e dall'Asia Orientale una feroce concorrenza incalza la vecchia Europa, la quale risponde come solo può rispondere, cercando di riunire in un'unica potenza il Capitale concorrente diviso fra le nazioni che la compongono. Ma tra i capitali nazionali concorrenti comanda il più forte e ogni discussione sull'unità europea, compresa quella sulla moneta unica, deve fare i conti con le esigenze della Germania.

Se era relativamente facile trovare compensazioni nella produzione di acciaio e latte, di olio e vino, che richiedono solo regole (in fondo multe o incentivi), è più arduo rendere compatibili le intere economie in modo che esprimano un Capitale unico, la sola base possibile per una moneta unica. Essendo il denaro la misura del valore, una moneta valida per tutti deve basarsi su criteri di produzione del valore validi per tutti. La moneta nazionale è in ultima analisi il riflesso dello sfruttamento interno della forza-lavoro (1); se il capitalismo funziona internamente proprio perché esistono differenti saggi locali di sfruttamento, non si capisce come possa funzionare eliminando le differenze addirittura a livello internazionale; eliminare la concorrenza in una coalizione fra Stati per indirizzarla verso altri Stati, è come pretendere di eliminare la concorrenza fra industrie (2). Eppure non c'è alternativa: o l'Europa riesce a fare concorrenza ad America e Giappone, Corea, Singapore, Malesia, Taiwan e Hong Kong, oppure soccombe. Ma molto prima che i governi possano innescare il lungo processo di adeguamento produttivo che sarebbe necessario, il Capitale impersonale, anonimo, internazionale, si incaricherà di risolvere la questione. Perché l'adeguamento produttivo ed economico dipende dalla direzione del flusso mondiale di capitali e non viceversa. Questo fenomeno cui tutti tengono fisso lo sguardo e cui si adeguano le politiche dei governi, viene chiamato comunemente con il nome di mercato, anzi, mercati, al plurale. Non si tratta del mercato delle merci e nemmeno di quello dei capitali propriamente detti, quelli cioè che hanno un possessore che decide ancora personalmente il loro destino. È di fronte a questo fenomeno che l'Unione Europea ha assunto caratteristiche diverse rispetto alle origini, quando il movimento federalista, promosso da pochissimi, rientrava ancora completamente nella logica dei blocchi e non era che una variante economica dell'atlantismo militare.

Mercati a tutto spiano

Oggi la variazione del peso specifico dei diversi paesi sul mercato mondiale ha posto in primo piano la concorrenza tra di loro e gli accordi fra Stati, quasi a scimmiottare i trusts industrial-finanziari, è un'esigenza indilazionabile. E infatti prolificano, a dispetto del loro impossibile funzionamento. All'interno della quindicina di cartelli fra Stati (EU, NAFTA, APEC, Mercosur, OPEC ecc.), i cui membri a loro volta fanno capo al mega organismo chiamato World Trade Organisation che rappresenta 126 paesi associati, sono comunque coalizzate economie più o meno indipendenti e quindi concorrenti.

Sembra capitalisticamente ragionevole mettersi d'accordo per proteggere le proprie economie: forse che l'unione non fa la forza? Ma ciò stride inevitabilmente con il ritornello che di questi tempi ci riempie le orecchie e rompe le tasche: libere frontiere in libero mercato, concertazione economica, de-statalizzazione...

Libere frontiere in libero mercato: in effetti il Capitale se ne frega delle frontiere delle borghesie nazionali, e fa ballare tutti alla sua musica, anche quelli che credono di dirigere l'orchestra. Qui in Italia si è giunti al parossismo: tutti, dal governo alla Banca d'Italia, dagli economisti alle Borse, dal privato cittadino con la sua quotina in qualche Fondo d'Investimento al capo dell'ex Partito Comunista Italiano, che è anche capo della più forte componente della coalizione governativa, si dichiarano soddisfatti della risposta dei mercati alla finanziaria da poco varata e ne preparano un supplemento per adularli. Anche i sindacati, mentre la finanziaria era in gestazione, paventavano una risposta negativa dei mercati se i provvedimenti non avessero avuto le caratteristiche da loro suggerite. Del resto i mercati sono in grado di distruggere gli effetti di qualsiasi "finanziaria" se appena provocano movimenti sincronizzati. Da questo punto di vista le cosiddette stangate finanziarie appaiono come curiosi esorcismi, sacrifici al dio mercato affinché si quieti e sia benevolo.

Persino la firma dell'accordo sul contratto dei metalmeccanici era subordinata alla risposta dei mercati. Persino i ritardi nelle cosiddette privatizzazioni producono effetti nei mercati, i quali non gradirebbero i residui freni nella corsa verso il liberismo. Addirittura la potentissima Bundesbank teme i mercati: non potendo influenzarli, li asseconda, cercando di trarre benefici da una politica ruffiana. L'angoscia per la risposta dei mercati era ed è il dato costante di tutta la politica odierna di tutti i paesi di un certo rilievo capitalistico.

In poche righe abbiamo già fatto indigestione della parola, come quotidianamente ci succede leggendo i giornali. Ma in realtà, che diavolo sono questi oscuri mercati che ad ogni piè sospinto ci vengono agitati davanti al naso come spauracchi?

Di per sé dietro lo spauracchio non c'è nulla di speciale: si tratta di capitali momentaneamente liberi che, in forme diverse (3), viaggiano intorno al mondo in cerca di valorizzazione. In minima parte si tratta di valorizzazione "vera", investimenti industriali e scambio di merci; per la gran parte si tratta di valorizzazione "azzardata" nel gioco della compravendita di titoli di vario genere, monete comprese. In quest'ultimo caso se valorizzazione si ottiene, essa è, come si suol dire, "a somma zero", ossia la somma dei vantaggi è uguale alla somma delle fregature, come al tavolo del poker (4).

Vampiresca genesi della finanza per la finanza

Ma la paura che fanno i mercati non deriva dalla loro essenza qualitativa, ben conosciuta, bensì da quella quantitativa, imprevedibile e oscura. Orbene, una banca centrale, poniamo la potente Bundesbank citata, in caso di movimenti non graditi su valute e titoli, può mettere in campo, per contrastarli, somme che dipendono dalle riserve e dai rapporti con eventuali partner disposti a scendere in campo (tenendo conto che la concorrenza gode quando l'avversario è nei guai), diciamo 5 o 10 miliardi di marchi, tanto per dare un ordine di grandezza, e neanche tutti in una volta, cioè magari gettati nella battaglia in una settimana o un mese. Di fronte a questo dato ve n'è un altro che lo vanifica: secondo dati della Riserva Federale americana, infatti, ogni giorno nel mondo avvengono transazioni finanziarie pari a 1.500 miliardi di marchi, un milione e mezzo di miliardi di lire, l'intero prodotto lordo italiano di un anno; basta un'infima percentuale di questo movimento per produrre effetti devastanti anche su paesi relativamente forti. Tanto per dare un'idea, i soli fondi aperti americani, quelli che più partecipano alle transazioni internazionali emettendo e riscattando quote in continuazione sulla base delle variazioni dei prezzi dei titoli in portafoglio, si basano su di una raccolta pari a 2 milioni di miliardi di dollari (tre miliardi di miliardi di lire, il doppio del PIL italiano). Ci sono poi singoli speculatori, come il noto George Soros, in grado di competere singolarmente, in momenti particolari, con paesi come l'Inghilterra (5).

Tutto ciò è un segno inequivocabile della dominazione reale del Capitale sulla società. Tutte le teorie economiche borghesi e i differenti partiti politici che le sostengono sono al suo servizio. A parte il fatto che le differenze diventano sempre più aleatorie, è inevitabile che teorie economiche opposte e partiti politici opposti, servono a fare in concreto le stessissime cose dettate dalle esigenze del Capitale e della conservazione della forma economica e sociale che gli si addice. Il risultato è che tutto il blaterare sul dirigismo statale non è altro che vacuità riciclata nel gran "mulino a parole" dei parlamenti: in realtà oggi, più ancora di quando lo dicevano Marx o Lenin, lo Stato è al servizio del Capitale e non viceversa.

Torniamo alla questione dei mercati. Di tutta la massa finanziaria in questione, solo il 5%, sempre secondo il Federal Reserve, si muove per effettive esigenze di produzione e realizzazione di plusvalore (D-M-D'), mentre tutto il resto è pura transazione virtuale che si risolve nell'insensato gioco D-D, dove il valore di partenza è uguale al valore d'arrivo. Qualcuno potrebbe chiedersi come possa succedere che gli uomini si dedichino a giochi insensati: un po' di pazienza, ne parliamo fra poco, nei limiti permessi da una Lettera ai compagni. Basti per ora osservare che il passaggio di quel 5% attraverso la produzione, più quote di plusvalore che non rientrano direttamente nel ciclo produttivo, vanno ad alimentare il restante 95%, il quale quindi si accresce non per virtù propria ma per un fenomeno parassitario nei confronti della produzione. Il termine "parassitismo" non ha per noi una valenza morale, dato che il modo di produzione capitalistico funziona proprio così: la finanza non può esistere senza la produzione materiale e questa non può ormai esistere senza la finanza. Il rapporto si risolve come si risolve il rapporto di dipendenza morbosa tra il vampiro (finanza) e la sua vittima (produzione): quest'ultima viene uccisa, ma si trasforma a sua volta in vampiro e, come succede nel mondo dei vampiri, il bisogno di vittime cresce proprio mentre esse vengono uccise ad un ritmo sempre più alto. Il destino della vittima quindi è diventare vampiro: il fenomeno si chiama prima concentrazione e poi centralizzazione. La Fiat, la Pirelli, l'Olivetti, ecc. tanto per fare degli esempi, erano fabbriche ad alta estorsione di plusvalore, investivano e si ingrandivano, eliminavano concorrenza e quindi concentravano capitale e lavoro. Oggi sono grandi holding che controllano attività ramificate; esse si basano su insiemi di produzione anche incoerenti tra loro ma altamente specializzati per settore e ogni settore è decentrato a seconda della convenienza indipendentemente dai confini nazionali. Al decentramento dell'attività, corrisponde però una centralizzazione del controllo, emanato da un'unica fonte di autorità cui, guarda caso, si affianca una società finanziaria.

Le società finanziarie sono organismi nati a supporto della produzione e hanno tutte le caratteristiche delle banche; ma la loro raccolta di denaro invece di provenire dal pubblico proviene dal gruppo di cui esse fanno parte (e anche da operazioni, ci siamo di nuovo, sui mercati) (6). Oggi le società finanziarie non sono più supporto della produzione, ma la produzione è supporto delle società finanziarie, con buona pace di coloro che ne sono tagliati fuori e che alimentano spinte come quelle leghiste e dintorni. La dominazione reale del Capitale si manifesta anche attraverso ciò e il processo che vi porta è un processo storico: in quanto tale esso è irreversibile. Il libero mercato, se mai è esistito, non è messo oggi in pericolo dall'intervento statale, ma è stato definitivamente sepolto dal maturare del capitalismo.

Produttività e dominazione reale del Capitale

Quando parliamo di dominazione reale del Capitale sulla società, intendiamo né più né meno riprendere ciò che Marx afferma a proposito del passaggio dalla sottomissione formale alla sottomissione reale del lavoro al Capitale. Sottomissione del lavoro è lo stesso che dire dominazione sul lavoro e quindi sulla società intera. Marx distingue nettamente, all'interno dell'intero arco capitalistico, due forme distinte di dominazione del Capitale sul lavoro: la prima deriva dalla produzione di plusvalore assoluto (aumento della produzione) e storicamente non è che il battistrada della seconda, che deriva dalla produzione di plusvalore relativo (aumento della produttività). Se le due forme si generano anche indifferentemente l'una dall'altra, è però la seconda che corrisponde alla caratteristica peculiare del capitalismo perché

"su questa base si erge un modo di produzione tecnologicamente (e non solo tecnologicamente) specifico, che modifica la natura reale del processo lavorativo e le sue reali condizioni". (7)

Solo a questo punto, dice Marx, il capitalismo si distingue come modo di produzione dominante.

Oggi viviamo nell'epoca dell'esplosione della produttività, del trionfo di quel "modo di produzione tecnologicamente specifico" che ha cambiato talmente "la natura reale del processo lavorativo" da mettere in moto enormi quantità di capitale con una minima quantità di forza-lavoro. Ma una cosa questo modo di produzione non poteva risolvere: come ottenere l'ulteriore valorizzazione del capitale uscito dal processo lavorativo se si ricava sempre più plusvalore dai singoli operai ma si diminuisce il loro numero. Tutte le chiacchiere sul libero mercato propinate dagli imbonitori della politica e dell'economia sono balle cosmiche nell'andirivieni di tentativi volti ad un solo scopo: cercare di quadrare il cerchio tra la produzione del plusvalore e il suo utilizzo, che vuol poi dire ripartizione all'interno della società fra redditi, consumi, imposte, sprechi, investimenti, speculazioni e tutta la variopinta serie di nomi più o meno appropriati che l'economia volgare attribuisce ai fenomeni.

Di libero in questo movimento non può più esservi nulla se non la facoltà di sparare fesserie libere, liberiste e libertarie come fa Pannella. Più volte abbiamo ricordato che l'attività statale in economia ormai non è più volta ad accentrare attività di tipo monopolistico ma, al contrario, di intervenire affinché il libero mercato, che di per sé tende al monopolio, non giunga ad autosoffocarsi. Non solo, ma lo Stato interviene anche affinché la tendenza alla finanziarizzazione del modo di produzione capitalistico sia controllata, con politiche dei tassi e facilitazioni al sistema produttivo (8). Va da sé che tutto questo è sempre e ancora di più intervento dello Stato nell'economia e non tutte le volte ottiene i risultati voluti: le facilitazioni all'industria sono utilizzate dai grandi gruppi per rafforzare le loro attività finanziarie e i differenziali sui tassi sono utilizzati dagli "industriali" per speculazioni internazionali belle e buone. Una fabbrica che sembra "tradizionale", come la Toyota, che produce e vende un articolo che più concretamente capitalistico non si può, come l'automobile, da un po' di anni ottiene più utili sul mercato finanziario che con la vendita di quell'agglomerato di acciaio-plastica-elettromeccanica rappresentato dalla sua particolare merce.

L'illusione del profitto finanziario

In un mondo che diventa sempre più finanziario, è inevitabile che il saggio di profitto si confronti con il saggio d'interesse. Di qui l'ossessione per i sopraddetti e cosiddetti mercati, che del saggio d'interesse fanno la loro ragione d'esistere. Già al tempo di Marx il fenomeno era rilevante: oggi è essenziale per la spiegazione di certe illusioni che nascono dal maneggio volgare dell'economia. Al singolo possessore di capitali non par vero che un capitale impiegato ad interesse composto possa aumentare in progressione geometrica, ma nell'economia intesa come complesso ciò sarebbe un puro e semplice miracolo. Il necessario passaggio attraverso la produzione, ovvero attraverso la valorizzazione tramite l'applicazione del lavoro al Capitale, distrugge il miracolo.

Nel processo di riproduzione del Capitale, dice Marx (9), si può concepire un'accumulazione tramite interesse composto solo nella misura in cui si può chiamare interesse quella parte del plusvalore che ritorna ad essere Capitale, cioè che ritorna a estorcere plusvalore. Mai e poi mai il capitale monetario si accresce di per sé.

Nonostante questa realtà, il capitale produttivo d'interesse trova ulteriori difficoltà ad aumentarsi in misura geometrica. Infatti nel processo di riproduzione del Capitale, quest'ultimo si svalorizza almeno in parte, a causa dell'aumentata produttività del lavoro che diminuisce la quantità di tempo di lavoro necessario a riprodurre sia la forza-lavoro che il capitale costante. In questa epoca, nella quale si raggiunge la massima produttività nel processo produttivo, i capitali esistenti non risultano, come succedeva invece agli albori del capitalismo, da un lungo processo di risparmio e tesaurizzazione, ma dai tempi di riproduzione che si accorciano sempre più e, nel tempo considerato fisso, poniamo un anno, aumentano come massa e rimangono a disposizione per ogni tipo di traffici finanziari.

Inoltre il saggio di profitto tende a decrescere proprio in seguito all'aumentata produttività del lavoro (diminuzione relativa della parte variabile del capitale in confronto alla parte costante); se quindi il capitale costante messo in moto da un operaio si decuplica, il tempo di pluslavoro dovrebbe decuplicarsi. A questo punto o si aumenta la giornata lavorativa (e succede, ma con il risultato di espellere ulteriore forza-lavoro dal processo produttivo), o si diminuisce la parte di lavoro necessario, quella che serve alla riproduzione della vita e della capacità lavorativa dell'operaio. In entrambi i casi è facile individuare i limiti del processo: il primo è nella durata della giornata lavorativa, che per assurdo è quello della giornata solare, cioè 24 ore; il secondo è ugualmente definito dalla giornata lavorativa, perché se anche il lavoro necessario si portasse vicino allo zero, rimarrebbe al pluslavoro o plusvalore soltanto la parte rimanente e limitata di ore. E non si può ricavare da un solo operaio tanto plusvalore quanto se ne può ricavare da molti. Da questo punto di vista, aggiunge Marx (10), siccome i capitalisti non accettano la legge della caduta del saggio di profitto, ecco che si cullano nell'illusione che l'insieme dei capitali messi a interesse possano "fruttare" in progressione geometrica.

Il Capitale-feticcio è lavoro morto...

Sia le svariate forme di "risparmio" piazzate nel sistema bancario, sia quelle trasformate in titoli pubblici, sia quelle più sofisticate aggirantesi nel complesso mondo finanziario internazionale, rappresentano, per ogni singolo possessore di capitale, l'illusione privata di poter accedere al miracolo dell'accumulazione tramite interesse composto. È dunque evidente che, se a questo stato di cose non corrisponde (e non corrisponde) una conseguente e generale estorsione di plusvalore crescente in progressione altrettanto geometrica, qualcosa deve succedere, perché questo è un limite insuperabile tramite i meccanismi normali del capitalismo. Non stiamo qui ad indagare quali potrebbero essere altri meccanismi, crisi catastrofica, guerra, o creazione di nuovi mercati, meccanismi che non risolvono definitivamente i problemi ma che li ripropongono in modo ancora più acuto per il futuro, non appena la fase di recupero abbia terminato il suo slancio. Limitiamoci per ora a trascrivere ciò che dice Marx a proposito dei limiti del capitalismo nel contesto di cui ci stiamo occupando e cerchiamo di trarne conseguenze anche tenendo presente ciò che dice Lenin a proposito dell'imperialismo, fase suprema dell'attuale modo di produzione e, detto in altri termini, "capitalismo di transizione".

Se abbiamo una concezione scientifica del plusvalore, lo intendiamo cioè come risultato della ripartizione della giornata lavorativa in una quota di lavoro necessario e pluslavoro,

"l'identità del plusvalore con il pluslavoro pone una barriera qualitativa all'accumulazione del Capitale: la giornata lavorativa totale, lo sviluppo delle forze produttive e della popolazione, che limitano il numero delle giornate lavorative suscettibili d'essere simultaneamente sfruttate. Se invece il plusvalore viene concepito nella forma concettualmente impropria dell'interesse, il limite è soltanto quantitativo, e sfida qualunque immaginazione. Ma nel capitale produttivo d'interesse giunge a compimento la rappresentazione del capitale-feticcio, la rappresentazione che attribuisce al prodotto accumulato del lavoro la forza di generare plusvalore in progressione geometrica in virtù di una misteriosa qualità innata, di modo che questo prodotto accumulato del lavoro avrebbe già da tempo scontato per l'eternità tutte le ricchezze del mondo. Qui il prodotto del lavoro passato, lo stesso lavoro passato, è gravido in sé e per sé di una frazione di pluslavoro vivo presente o futuro. Si sa invece che, in primo luogo, la conservazione e anche la riproduzione del valore dei prodotti del lavoro trascorso sono in realtà soltanto il risultato del contatto di quest'ultimo con il lavoro vivo e che, in secondo luogo, il dominio dei prodotti del lavoro trascorso sul vivente pluslavoro dura solo finché dura il rapporto capitalistico, un rapporto sociale determinato in cui il lavoro morto si contrappone in modo indipendente e soverchiante al lavoro vivo" (11).

Il limite è dunque noto ai marxisti ed esso spiega l'assoluta ininfluenza dei cosiddetti mercati sulla reale creazione di valore, perché questi sono riflesso di quella e non viceversa. Questo ragionamento però vale in generale, perché localmente una grande massa di capitali che agisce in modo concentrato può provocare sconquassi.

...che ipoteca lavoro vivo presente e futuro

La reale sfida delle nazioni è quindi quella di non permettere localmente che l'estorsione di plusvalore scenda fino ad allontanare i capitali in cerca di valorizzazione o di non permettere che oscillazioni e disequilibrii dovuti a debolezza produttiva inneschino "speculazioni" di vasta portata. Ma se nella società il dominio del lavoro morto (passato) su quello vivo (presente) è ad un punto tale che un'immensa massa di capitali frutto di lavoro passato rimane libero (non si investe immediatamente in attività di produzione), è evidente che, leggendo i fatti attraverso la legge del valore, troviamo qualcosa che non funziona. Infatti il capitale non ancora investito nella produzione è

"prodotto del lavoro passato" e, come "lo stesso lavoro passato, è gravido in sé e per sé di una frazione di pluslavoro vivo presente o futuro" (12).

Se una borghesia nazionale non è in grado di garantire al Capitale (suo o non suo, questo è il bello) una frazione di pluslavoro vivo presente o futuro, essa è capitalisticamente fottuta. E siccome i capitali viaggiano in tempo reale sulle reti telematiche, cioè molto più rapidamente di quanto possano essere rapidi i movimenti di adattamento delle strutture produttive e specialmente sociali, ecco che fissarli in un luogo diventa un'impresa disperata. Disperata, perché ciò significa dirigere gli investimenti dove e soprattutto come vuole il Capitale, significa varare politiche industriali e sociali, quindi fare leggi, stare ad ascoltare parlamenti da un'elezione all'altra (di cui il Capitale se ne ride) ecc.

Se l'argomento è "che cosa sono e che significano i mercati", non si può non parlare del chiassoso "dibattito" che ha suscitato un articolo provocatorio del già nominato George Soros sulla rivista Atlantic Monthly. Lo scandalo è evidente: il massimo speculatore mondiale sui liberi mercati prende posizione non solo contro i liberi mercati ma contro l'intero capitalismo:

"Temo adesso che l'intensificazione del laissez-faire capitalistico e la diffusione dei valori legati al mercato in tutti i settori della vita, mettano in pericolo la nostra aperta società democratica. Il principale nemico della società aperta credo non sia più il comunismo ma la minaccia capitalistica" (13).

Per Soros dunque il capitalismo non può essere lasciato a sé stesso e gli Stati dovrebbero intervenire contro il liberalismo se non vogliono veder crescere in pari tempo immense ricchezze e immense miserie con il pericolo di sommosse popolari e perciò di sistemi repressivi e totalitari. Questo personaggio guadagna somme incredibili proprio speculando sul modo di funzionare naturale e selvaggio del capitalismo e quindi quasi tutti i commentatori si sono chiesti se per caso egli non fosse impazzito. La rivista Economist, che è il portavoce più autorevole del Capitale internazionale fin dai tempi di Marx che la leggeva avidamente, dice senza mezzi termini:

"È difficile decidere da dove esattamente cominciare a discernere tanto sono numerosi gli errori. Ma per amor di semplicità la sindrome di Soros può essere divisa in tre parti: un'allucinazione sullo stato attuale del mondo; un'ignoranza delle teorie economiche; un difetto di attenzione verso le principali differenze tra le ideologie dei liberali e quelle dei totalitari" (14).

La risposta stizzita dell'Economist si capisce: da un secolo e mezzo rappresenta la bandiera del capitalismo liberale alla Smith, cioè temprato dal moralismo del buon imprenditore. Ma uno come Soros non può essere liquidato alla leggera come uno spara-scemenze, anche perché, come già sapeva Shilock, chi ha l'oro ha l'intelligenza, la forza, la bellezza e tutto quello che vuole perché se le compra. La caratteristica principale di questo personaggio un po' singolare è che giustifica il proprio operato con specifiche teorie. Egli ovviamente parla e scrive per conto suo, ma non agisce in quanto individuo. La leva con cui scassìna i mercati è un Fondo d'investimento, chiamato Quantum Fund, che in 26 anni ha riconosciuto agli investitori un rendimento medio del 35% annuo, ed ha assunto proporzioni gigantesche. Tanto che lo stesso Soros riconobbe di rappresentare "un problema ecologico" nel mondo finanziario. Dal 1989 il fondo incominciò a diversificare entrando nel mercato immobiliare e industriale. Il suo patron dice di esso:

"Non possiamo assolutamente ripetere la performance del nostro primo quarto di secolo; se lo facessimo, diventeremmo i possessori di tutte le azioni del mondo. Non possiamo permetterci di crescere oltre" (15).

È certamente un ragionamento al limite più che una sbruffonata come appare a prima vista, ma è precisamente un'ammissione che volevamo sentire da uno che guarda il mondo da un osservatorio come il suo: nel suo ambiente non si crea ricchezza ma si tende a raggruppare in poche mani quella che c'è già.

Capitalismo "umano", Hitlerini sorridenti

Come dicevamo, la cosiddetta speculazione rispecchia l'intero capitalismo, cioè funziona solo se vi sono differenze; più queste sono grandi e rischiose, più il ricavato può essere alto; troppa concentrazione uccide la finanza e troppo livellamento pure. Ma la finanza è il risultato di concentrazione e livellamento dei saggi di profitto, e a sua volta contribuisce a una ulteriore concentrazione e quindi a un ulteriore livellamento generale. Per questo Soros, il guru dei mercati, è un propugnatore della popperiana "società aperta". Indipendentemente dal significato filosofico di questa scuola, Soros sa benissimo che qualunque modello dinamico di distribuzione del borghese "reddito" porta ad una concentrazione che rappresenta la morte del capitale, specialmente nella sua forma finanziaria. Lo sa esattamente così come i marxisti sanno che il modello dinamico degli schemi di riproduzione porta alla contraddizione della crescita infinita in un mondo finito, nel quale le industrie sono condannate ad ingrandirsi o morire, ad accontentarsi di un saggio di profitto calante, per di più a confronto di un pedaggio vampiresco versato al credito e alla finanza. Infatti Soros dice ancora:

"Secondo il laissez-faire capitalistico la migliore strada verso il bene comune coincide con la ricerca senza limitazioni dell'interesse personale. Ma senza un riconoscimento in chiave riequilibratrice, di un interesse comune che deve avere la precedenza su quelli personali, il nostro sistema rischia il collasso" (16).

Un giornalista, commentando l'articolo, scrive:

"Il tradimento di Soros non poteva essere più chiaro e sfacciato [...] In una prospettiva più generale, il saggio di Soros conferma che le nuove correnti critiche del capitalismo si stanno estendendo dal campo della filosofia politica a quello religioso e a quello economico" (17).

Fosse vero, ma purtroppo è ancora presto per vedere giungere alla rivoluzione transfughi della borghesia. La paura di Soros deriva dal fatto che il funzionamento del capitalismo gli è rivelata un punto di osservazione posto molto più in alto di quello dei comuni capitalisti. Bill Gates, padrone della Microsoft, un altro che può permettersi di vedere le cose da una bella altezza, incomincia ad avere gli stessi problemi di saturazione e anche altri supercapitalisti si rendono conto che la crescita ad un certo punto non è più possibile. De Benedetti (Olivetti) già da molti anni va dicendo che è impossibile continuare al ritmo attuale a fabbricare merci intese come oggetti, perché le cose si comprano e si usano per un certo tempo prima di acquistarne altre, mentre vi sono altri tipi di merce, più incorporea, che si pagano a flusso continuo, come i servizi di telefonia ecc.. L'accumulo infinito di oggetti è impossibile, ma anche un capitalismo che non produce più oggetti è altrettanto impossibile, com'è impossibile un capitalismo senza operai.

Ma anche un capitalismo fatto di soli capitali è un assurdo; ecco perché Soros chiede di "aprire" la società mondiale affinché questi capitali possano agire secondo la loro natura, cioè moltiplicarsi attraverso la produzione di merci. Avevamo detto all'inizio che la stragrande maggioranza delle transazioni finanziarie internazionali avviene secondo un apparentemente insensato movimento da D a D che non farebbe ottenere quel D D essenziale da sommare al capitale iniziale per avere il D' (cosa che invece avviene mettendo il Capitale in contatto con la produzione). La spiegazione sta nel fatto che nel mondo capitalistico la produzione e il movimento dei capitali seguono logiche casuali, o meglio, seguono la non-logica dell'anarchia produttiva e distributiva. La follia qualche volta c'entra, ma non può essere il movente di un'intera società. Anche se potrebbe essere sufficiente il passaggio di quel 5% della massa dei capitali attraverso il ciclo produttivo per creare una quantità sufficiente di plusvalore da distribuire, ciò non succede a causa della detta anarchia, perché non vi può essere un piano razionale di produzione basato su valori che sono per loro natura contraddittori e quindi non quantificabili. Dunque è vero che basterebbe muovere solo quel 5% per soddisfare l'esigenza sociale di distribuzione della massa del plusvalore a fini di conservazione capitalistica, ma nessuno saprebbe dove e quando muoverlo. Solo un movimento molecolare caotico dei singoli capitali permette alla fine di "saturare" gli obiettivi in modo che una parte trovi il luogo e il modo di valorizzarsi. Gli americani in Vietnam inventarono il termine "saturare" quando, non sapendo esattamente dove buttare una bomba per centrare obiettivi nascosti, ne buttavano migliaia in tutta l'area sospetta, calcolando la densità di impatto in modo da centrare statisticamente l'obiettivo (la stessa cosa ripeterono sui bunker irakeni durante la Guerra del Golfo). La differenza è che la "saturazione" ottenuta con i B52 è voluta, mentre quella ottenuta sui mercati è il risultato di un movimento spontaneo iniziato agli albori del capitalismo e ancor oggi inconoscibile per i capitalisti. Solo il marxismo, prescindendo dal moto molecolare di capitali e di merci, quindi astraendo da esso, ha potuto fondare una teoria quantitativa, quindi scientifica.

Adottando un processo di astrazione che ci porta a riportare la complessità in schemi semplici, trattabili quantitativamente, sfioriamo anche il tema di quanta energia sociale venga sprecata, di quanto costi socialmente l'autoconservazione di una società ormai storicamente superflua. A parte ciò, vediamo che il movimento finanziario non è affatto "inutile" per il Capitale, ma è l'unico modo suo di esistere nella forma estrema del capitalismo di transizione. Ora, che cosa chiedono i riformatori che vogliono mettere ordine nell'anarchia capitalistica? Se per assurdo potessimo immaginare questa società senza la sua essenziale caratteristica anarchica, è certo che il plusvalore sarebbe estorto sulla base di quel 5% di movimenti e il risultato non sarebbe riciclato nel vortice del poker finanziario in cui i gettoni aumentano solo per essere ogni tanto azzerati da crack e crisi, ma sarebbe distribuito razionalmente, con tutti i crismi dell'etica, per le attività conservatrici del capitalismo, per un efficiente e non troppo visibile stato di polizia, una magistratura impeccabile nel castigare i devianti, una medicina che perpetui interessanti e lucrative malattie da tavola rotonda televisiva, un ben calcolato business inquinamento-disinquinamento, una paesaggizzazione architettonica dell'ambiente dove milioni di tonnellate di cemento armato dalla cima del Monte Bianco all'ultimo scoglio marino possano convivere amabilmente con rimboschimenti di pinetti giapponesi e pesci tropicali opportunamente trattati dall'ingegneria genetica. Questo è ciò che chiedono i buoni profeti del capitalismo "umano".

Ma il capitalismo potrebbe funzionare a questo modo solo in incubatrice, tenendo presente che tale idilliaco business dev'essere accompagnato (Singapore insegna) anche da nerbate sulle chiappe dei disturbatori dell'ordine, insomma dalla dittatura più o meno soft di manageriali Hitlerini sorridenti (quando si ripetono nella storia, le tragedie diventano farse). In realtà il capitalismo, essendo fatto di molti capitalisti e capitali, determinati a muoversi in quel movimento molecolare impossibile da decifrare dal punto di vista interessato di ogni singolo osservatore, è per definizione senza regole e ha bisogno dell'immenso campo di manovra su cui far circolare a vuoto il 95% di capitali affinché il 5% riesca ad andare da qualche parte a produrre plusvalore. Uno come Soros, proiettato dalle circostanze al di fuori dei milioni di orbite microscopiche, riesce ad avere una visione più chiara dell'insieme perché il suo mestiere consiste nello studiare il movimento molecolare altrui e ad adottare i processi di indagine non-lineari adatti ai fenomeni complessi. I suoi piccoli colleghi sono tagliati fuori, si muovono e basta. Tuttavia, paradossalmente, lo speculatore che ha bisogno di un libero mercato come del pane e dell'aria, diventa tanto potente e può guardare le cose tanto dall'alto che vede i suoi interessi bloccati proprio dalla libertà di movimento che porta alla concentrazione, all'equilibrio, alla limitazione delle differenze e quindi alla centralizzazione dei capitali, che è come dire la morte, una specie di entropia a causa della quale, per mancanza di calore, le molecole si fermano, fermando il miracoloso flusso di dollari, marchi e yen verso gli azionisti del Quantum Fund.

La catastrofe "autoreferenziale"

Giorgio Ruffolo, che citammo in altra occasione per una sua particolare teoria sulla ripartizione sociale del plusvalore, scrive un articolo su Soros e, tra molti luoghi comuni, riconosce la validità dell'allarme in esso contenuto (18). Egli quindi non è molto critico perché con Soros fa parte di quei pochi borghesi che hanno individuato una contraddizione fra l'alta produzione di plusvalore nelle isole produttive e una società che non sa come utilizzarlo se non producendo disoccupazione, miseria e "mancanza di valori etici". In ogni caso neghiamo di trovarci di fronte ad una critica seria del capitalismo. Se il grande speculatore, che è un pessimo filosofo, basa la sua analisi sull'utopia pseudo-scientifica della Open Society, Ruffolo non fa che raccomandare una più razionale distribuzione del reddito in modo del tutto riformista senza fronzoli parascientifici. Soros ci interessa al di là di ciò che dice di sé stesso perché la rete di interessi che ha tessuto intorno al mondo gli ha permesso una consapevolezza immediata ben più solida che non quelle quattro cognizioni indeterministiche prese a prestito da una delle filosofie del dubbio tanto in voga oggi. Ruffolo ci interessa solo come una delle tante eco senza consapevolezza. Egli si trova d'accordo con Soros quando ne sintetizza il pensiero:

"Il processo di mondializzazione è dominato oggi dai mercati finanziari e la finanza domina l'economia, non viceversa. I mercati finanziari se ne infischiano dei modelli autoequilibranti della concorrenza perfetta. La loro autoreferenzialità produce effetti cumulativi, squilibranti, tendenzialmente esplosivi" (19).

Ma questo è un rovesciamento che già Marx aveva chiaro quando diceva: come sarebbe possibile l'era delle ferrovie senza le società per azioni e il capitale finanziario? Ed era già chiaro allora che la finanza avrebbe dominato l'economia. Ruffolo, eccheggiatore degli eccheggiatori di Marx, conclude dicendo che quando uno come Soros consiglia "buone azioni", sarebbe meglio ascoltarlo. Lasciamo perdere. Ma intanto è anche lui una voce disarmonica nel coro generale, fatto di economisti, politicanti, giornalisti che si inchinano al dato di fatto di una società sempre più invivibile, che vivono in pace la loro prostituzione verso il Capitale in isole blindate, sperando nella perpetuazione dello stipendio. Noi alziamo caute antenne e captiamo debolissimi, quasi impercettibili segnali provenienti dal campo avversario. In genere non si discerne nulla dal rumore di fondo, ma è chiaro che uno come Soros fa un chiasso particolare. Spinto dal capitale impersonale talmente al di sopra dei comuni e individualistici atomi in agitazione, egli sa quanto invece il suo "stipendio" sia messo in pericolo dalla prospettiva che gli atomi cessino di agitarsi. I suoi colleghi di classe non aspettano neppure che si avvicini alla terra di nessuno per considerarlo già traditore o al limite sorridere, ma la risposta è dalla stratosfera verso i microbi:

"Quando nella primavera del 1989 proposi una simile idea (di un nuovo Piano Marshall per l'Est europeo sulla base della teoria dell'Open Society) in una conferenza a Potsdam, che era ancora nella Germania dell'Est, mi risero letteralmente in faccia. [...] Che la mia teoria sia valida o meno, essa ha dimostrato di essermi molto utile nei mercati finanziari. Quando ebbi fatto più soldi di quanti me ne occorressero, decisi di creare una fondazione e incominciai a riflettere su ciò che effettivamente mi interessava. Avendo vissuto sia la persecuzione nazista che l'oppressione comunista, giunsi alla conclusione che per me la questione fondamentale era una società aperta" (20).

Un nuovo Piano Marshall per la Russia avrebbe significato rompere il meccanismo naturale capitalistico e indirizzare forzatamente i capitali là dove non avrebbero generato profitto se non dopo essersi radicati attraverso la produzione. La contraddizione è evidente: i capitali si fissano di preferenza là dove la produzione passata ha già radicato capitale; una tale forzatura richiede, come il vero Piano Marshall, una guerra, un vincitore che domina, un terreno favorevole alla ricostruzione e quindi alla valorizzazione di capitale altrui. Nell'epoca in cui è già tanto se si investe a tre mesi, investire a dieci o vent'anni è un assurdo. L'ossessione per la società aperta può solo provenire materialmente dalla chiusura della società così com'è ed essa è inesorabilmente a circolo chiuso. Infatti Soros aggiunge che i modelli della concorrenza perfetta sono modelli darwiniani in cui il più debole soccombe e il fittest, cioè il più forte diventa monopolio uccidendo il mercato, chiudendo il circolo. Tutto il capitalismo è autoreferenziale e non può concepire altro che sé stesso, nell'incessante produzione per la produzione, piegando a questo iddio ogni pensiero che non riesca a sfuggire alla sua forza di attrazione, che sia incapace di proiettarsi verso la società futura non-capitalistica. Fortunatamente per l'umanità, ogni sistema autoreferenziale è come il termostato o come la crescita esponenziale dei semi che si riproducano tutti in una reiterata semina: o raggiunge un equilibrio, e nella stasi il capitalismo muore; oppure cresce in modo esponenziale (cosa che è impossibile per qualsiasi sistema conosciuto in questo universo), e una crescita a saggi decrescenti è comunque morte per il capitalismo. Soros lo dice: nessun sistema può reggere di fronte a impennate e cadute quando i parametri (masse di capitali ecc.) sono ormai giunti a questo punto. Quale la soluzione? Militanti della rivoluzione fregatevi le mani, neanche il mago della finanza mondiale sa dove sbattere il naso: se il mondo liberista delle società aperte, dopo aver sconfitto il mondo "comunista" delle società chiuse non vuole a sua volta rischiare una catastrofe mortale come quella degli Anni Trenta, deve trovare e applicare delle regole e soprattutto dei valori che permettono di regolare il sistema. Le regole sono compito della politica, i valori sono un bene condiviso cui la politica dovrebbe adeguarsi. Qui casca l'asino dell'indeterminismo idealistico popperiano: la politica può solo e unicamente conformarsi alle esigenze del Capitale, a senso unico, non secondo la legge sorosiana della "riflessività", del doppio influenzamento.

Note

(1) Unica eccezione gli Stati Uniti che, grazie alla loro potenza e alla vittoria bellica, hanno goduto e in parte godono della facoltà di sfruttare forza-lavoro anche esterna su scala ad altri preclusa. Come abbiamo cercato di mostrare precedentemente (Lettera n. 22), dopo il crollo del Muro di Berlino anche la Germania ha sviluppato potenzialità simili, anche se in misura inferiore.

(2) La questione va tenuta assolutamente presente: se non vi fossero differenti saggi di profitto e di sfruttamento individuale con tutto ciò che ne deriva per quanto riguarda la rete di relazioni dialettiche insite nella legge del valore, non vi sarebbe contraddizione fra valore e prezzo e quindi non reggerebbe l'intero modo di essere del capitalismo, perché non sarebbe possibile una descrizione quantitativa della merce, la forza-lavoro avrebbe un'altra natura ecc.

(3) La finanza-per-la-finanza inventa in continuazione strumenti di circolazione. I più noti sono: le options, diritto discrezionale di compravendita dell'investitore su di un titolo ad una data futura; gli swaps, accordi fra controparti che si scambiano finanziamenti erogati a condizioni diverse in Stati diversi; i futures, contratti per consegna differita relativi a merci o valute. Ma ci sono anche forme ibride fra quelle nominate, incredibili pasticci sulla tratta dei finanziamenti, obbligazioni su obbligazioni, titoli con interesse separato dal capitale, linee di credito utilizzabili come e quando lo si decide, ecc.

(4) Ogni tanto qualche capitalista si accorge della gravità del problema anche se non può farci proprio niente. Business Week, settimanale economico americano, pubblicava questo commento: "Gli speculatori possono anche non far danno se sono come le bollicine sul fiume delle imprese, ma la situazione si fa grave se le imprese diventano bollicine sul fiume della speculazione. Quando la produzione di capitale in un paese diventa il prodotto di scarto dell'attività di un casinò, la faccenda è destinata a finir male" (citato in A. Hamilton, La rivoluzione finanziaria, ed. Sperling & Kupfer).

(5) Nel settembre 1992 Soros in un solo giorno, gettando sul mercato 10 miliardi di dollari, provocò un crollo della Sterlina e la fece uscire dallo SME guadagnando (anzi, "vincendo") cifre pazzesche.

(6) Anche le banche svolgono da un pezzo nuove funzioni rispetto ai loro compiti istituzionali storici e non solo perché agli sportelli raccolgono premi delle assicurazioni o gestiscono le bollette: oggi nessun istituto di credito rinuncia a fare operazioni in proprio con i soldi dei clienti, come hanno rivelato i clamorosi crack degli ultimi anni. D'altra parte, anche in attività normali, quando la maggior parte del profitto proviene da questo tipo di operazioni, la spirale in cui si cade è automatica: la banca che consiglia al suo cliente di fare un certo investimento è la stessa che consiglia all'azienda come ottenere il prestito richiesto, ed è da escludere che rimangano alla banca solo le commissioni e gli interessi attivi da impiegare nella speculazione. Recentemente la Banca per le Regolazioni Internazionali (BRI) ha previsto che in futuro le entrate delle banche principali saranno rappresentate più da profitti sui servizi resi che da interessi sui capitali maneggiati.

(7) K. Marx, Il Capitale, Libro I - Capitolo VI inedito, ed. La Nuova Italia pag. 68.

(8) Il termine finanziarizzazione non rende rispetto all'originale securitization inventato pare dall'economista Modigliani del MIT. Vengono chiamate securities tutte le specie di titoli base esistenti sui mercati e specialmente le loro combinazioni che permettono una varietà incalcolabile di tipi di speculazione. È del resto evidente che la speculazione esasperata esiste proprio perché gli stimoli al sistema produttivo lasciano il tempo che trovano e i capitali cercano strade spontanee.

(9) Nel Libro III del Capitale, capitolo XXIV, edizione Utet pag. 502.

(10) Ibid. pag. 503.

(11) Ibid.

(12) Ibid.

(13) George Soros, The capitalist Threat, The Atlantic Monthly, February 1997, Volume 279, n. 2, pagg. 45-58. Siccome tutti gli articoli dei giornali italiani si basavano sul riassunto diffuso dall'agenzia Reuter, abbiamo rilevato l'originale su Internet.

(14) The Economist, 25 gennaio 1997, Palindrome repents, pag. 16.

(15) Cfr. Soros su Soros, ed. Ponte alle Grazie, pag. 74-75.

(16) G. Soros, art. cit.

(17) Da La Repubblica del 17 gennaio 1997, "Capitalismo addio".

(18) Su La Repubblica del 31 gennaio 1997 nell'articolo Capitalismo senza regole. La nostra Lettera n. 29, nell'ultima parte, riprendeva criticamente un suo articolo, il cui concetto centrale è esteso nel libro dello stesso autore Lo sviluppo dei limiti (ed. Laterza).

(19) G. Ruffolo, art. cit.

(20) G. Soros, art. cit.

Lettere ai compagni