35. Il feticcio dei mercati (2)
Ovvero il mercato dei feticci

Non si può leggere il futuro con gli occhiali di un passato morto

In primo luogo, una catastrofe stile anni '30 è irripetibile nelle stesse forme perché completamente diverse sono sia la massa di capitali in gioco che la massa delle persone coinvolte. Nel 1929 i possessori di titoli erano tanti negli Stati Uniti (400.000) rispetto al resto del mondo, ma quasi niente in confronto a oggi. Vi sono attualmente circa cinquanta milioni di "investitori" diretti nei soli Stati Uniti e, attraverso fondi pensioni e assicurativi, praticamente tutta la popolazione americana "investe" in titoli. Questa struttura dell'investimento coinvolge il mondo intero e a sua volta ne è influenzata, tanto da rappresentare una situazione che è in pari tempo sia più controllabile che più esplosiva. Più controllabile in quanto gli investitori istituzionali possono immediatamente intervenire con politiche coordinate, in prima persona o tramite gli stati; più esplosiva in quanto la massa dei capitali in ballo non è assolutamente paragonabile a quella della Grande Crisi, neppure facendo le dovute proporzioni, e in quanto la sincronizzazione dei movimenti può condurre a effetti più disastrosi di quelli provocati dal panico anarchico diffusosi allora. Altra differenza è il peso relativo del settore pubblico nel movimento dei capitali che oggi non è assolutamente comparabile con quello del 1929; a questo fenomeno è collegato il disavanzo pubblico, che fa aumentare il debito complessivo il quale a sua volta è sottoscritto in titoli di stato: questi ultimi limitano la liquidità e quindi i movimenti repentini di capitali. Infine, lo stesso intervento dello Stato permette un finanziamento a quegli operatori che in caso di disastro sarebbero altrimenti costretti a liquidare titoli o immobili.

In secondo luogo la crisi degli anni '30 portò alle politiche "fasciste" che Keynes sistemò a posteriori in una specifica teoria economica, via che oggi risulta già percorsa fino alle sue estreme conseguenze e che per questo manda in crisi i suoi vecchi sostenitori. La crisi prospettata da Soros non è quella degli anni '30 ma l'alternativa tra rivoluzione, guerra o un lungo periodo di rovina di tutte le classi, una degenerazione sociale quale neppure il più fantasioso film di fantapolitica potrebbe immaginare.

L'Economist risponde a Soros che anche un economista neo-liberale come Hayek, uno che concepiva il controllo statale sull'economia come un controllo diretto sulla libertà delle persone, non si sarebbe mai sognato di pretendere l'abolizione di ogni tipo di controllo e

"sarebbe rimasto inorridito dalla tesi, grazie al cielo presente solo nell'immaginazione di Soros, di un incontrollato perseguimento dell'interesse individuale che conduce per sua natura alla sommossa" (21).

Qui la prestigiosa rivista ufficiale della borghesia mondiale prende una cantonata clamorosa dimostrabile anche dal mero punto di vista empirico: nei paesi cosiddetti in via di sviluppo, il capitalismo selvaggio, accompagnato dallo stato assistenziale incapace di ripartire seriamente il plusvalore nella società, ha provocato decine di grandi sommosse per il pane, con migliaia di vittime uccise da eserciti e polizie, esattamente a seguito di motivi simili a quelli ricordati da Soros:

"In molte parti del mondo il controllo statale è così strettamente associato alla creazione della ricchezza privata che si può parlare di capitalismo ladro o di Stato Gangster come di nuova minaccia alla società aperta" (22).

Il fatto è che le teorie economiche meccanicistiche dell'assoluta libertà di mercato trattano lo Stato come trattano l'individuo, lo vogliono assurgere a depositario sia di libertà che di volontà (autorità) e quindi

"c'è qualcosa di contraddittorio nel bandire lo Stato dall'economia mentre nello stesso tempo lo si santifica come fonte assoluta di autorità nelle relazioni internazionali" (23).

In terzo luogo bisognerebbe spiegare che cosa significa ancorarsi a regole politiche. Tutti gli Stati cercano disperatamente di trovare regole politiche di convivenza e di salvaguardia di un minimo di decenza dopo decenni di teorizzazioni sul "mondo libero" ecc. Solo che non le trovano; e non possono trovarle, perché il meccanismo di produzione delle regole per la vita capitalistica funziona come il Keynesismo: prima succedono i fatti (fascismo, nazismo, New Deal ecc.), poi si cerca di dar loro una giustificazione teorica, in ultimo si scrivono delle regole per adeguarvisi. Introducendo infine la categoria dei valori etici è peggio che andare di notte. È proprio facendo il suo mestiere che Soros riesce a vedere un po' più in là del suo naso da alto-borghese, ma questo signore non si convincerà mai "eticamente" che gli strepitosi guadagni permessi dall'attività del Quantum Fund scaturiscono direttamente dalla legge della miseria crescente la quale, lungi dall'esprimere una qualche etica, porta proprio a quella situazione diventata per un giorno oggetto di così veemente critica.

È proprio vero che il capitalismo è autoreferente: sviluppa di continuo le teorie della propria autogiustificazione e, così facendo, muove i suoi rappresentanti ad azioni che ne accrescono le potenzialità esplosive. Ma Soros è anche un paradosso: mentre cerca la via della sopravvivenza del Capitale, ci dice che il Capitale è morto.

Le madri dei transfughi borghesi non sono ancora incinte

Si capisce che a noi non interessa tanto criticare Soros quanto indagare quali siano le ragioni materiali che lo fanno prendere posizione a quel modo. Invece i borghesi sono proprio arrabbiati con lui. Insieme con l'Economist e Ruffolo anche lo scrittore-politico Vargas Llosa si cimenta nella critica del "senti da che pulpito", si dimostra insofferente verso uno speculatore di quella taglia il quale predica contro un capitalismo da ladri (robber capitalism) che sta "minando la nostra società aperta e democratica", e aggiunge: Soros prende un abbaglio gigantesco sull'effettiva consistenza del liberismo selvaggio perché, ad esempio, l'economia americana devolve il 35% del bilancio nazionale ai programmi sociali, l'economia britannica arriva al 40% e quella di altri paesi è ancora più "socializzata" (24). Llosa, da buon borghese, come Ruffolo e altri, si sente coinvolto nella clamorosa presa di posizione del grande speculatore, ma egli è anche coinvolto perché si impegnò nella contesa elettorale contro Fujimori per la presidenza del Perù, un paese che subisce fino in fondo gli effetti del robber capitalism e del gangster State.

Comunque, tra tutti coloro che sono stati colpiti dalla presa di posizione di Soros (forse non del tutto esente da interessi, dato che è in grado di influenzare i mercati) nessuno ha mostrato di capire gran che nel messaggio del grande speculatore. Quando egli dice che

"la ricchezza si accumula in poche mani e la disparità, a causa della mancanza di meccanismi di ridistribuzione, diventano intollerabili"

provocando crisi sociali, non vuol dire che manca l'intervento statale, ma manca una redistribuzione come l'intende lui, tanti piani Marshall per far funzionare di nuovo la concentrazione di capitali in grado di accumulare e non semplicemente centralizzare l'esistente senza che esso aumenti. La percentuale di plusvalore prodotto in un paese, che viene distribuita a chi l'adopera semplicemente per sopravvivere, non ha nessun effetto redistributivo autenticamente capitalistico perché non distribuisce possibilità di accumulazione bensì le restringe. Infatti i consumi delle merci "popolari" di cui i grandi magazzini sono zeppi a montagne, non distribuiscono il capitale che servirebbe a Soros per le sue speculazioni ma sono il tramite per una ulteriore concentrazione presso i fabbricanti ultramoderni di quelle merci. Ultramoderni, ultracentralizzati e ultracartellizzati. Merendine e magliette, formaggini e frullatori, sono prodotti da multinazionali come Nestlé e Benetton, Kraft ed Electrolux, non certo da padroncini di bottega. Le loro merci, buone o schifose che siano, hanno una particolarità, che è quella di contenere come capitale costante quasi solo la pubblicità con cui inducono il consumo, essendo il loro valore intrinseco ridotto ai minimi storici dal gigantesco aumento della forza produttiva sociale. La produttività raggiunta, infatti, permette la fabbricazione di miliardi di pezzi con metodi modernissimi e in tempi minimi con minima applicazione di forza-lavoro. È evidente che Soros, rappresentante del Capitale in lotta contro sé stesso, vede come il fumo negli occhi la centralizzazione monopolistica e i suoi risvolti politici, perché essa è come un buco nero nell'universo capitalistico, condensazione di materia-energia in cui tutto è catturato da una tremenda deformazione dello spazio e da cui non sfugge più nulla. Il laissez-faire, la mano invisibile regolatrice, esclude la "società aperta" teorizzata da Popper e adottata di buon grado dai tecnici del Quantum Fund, e l'unico rimedio sarebbe un intervento dello Stato che non si limiti a distribuire plusvalore in "assistenza" ma che piloti razionalmente la sua ripartizione in molteplici isole di accumulazione. Ovvero, dovrebbero essere possibili regole politiche atte a distribuire veramente il plusvalore in modo che esso non si autodistrugga, e vada invece ad alimentare il movimento molecolare di capitali, sfruttando il quale si possano ancora ottenere favolosi "profitti". Insomma, Soros fa un discorso pratico e concreto, quasi scientifico, partendo da un'astrazione completa dai singoli capitali; egli vede l'insieme e vede nero. Il suo fondo si chiama, forse non a caso, "Quantum", dato che opera bene nel mondo delle merci (non vi è capitale senza merci, non vi è pletora di capitali senza pletora di merci) le quali, come le particelle subatomiche, hanno la caratteristica un po' sfuggente di essere nello stesso tempo due cose diverse: valore d'uso e valore di scambio, onda e materia, di riflettere, cioè, la duplice natura del lavoro umano che nel capitalismo è alla base delle sue leggi. Nella replica a Vargas Llosa, comparsa qualche giorno dopo sullo stesso giornale, Soros dice:

"Le scienze naturali hanno accettato da molto tempo il principio incerto della fisica quantistica e hanno imparato a misurarsi con il caos. Ma nel nostro atteggiamento nei confronti delle questioni sociali e politiche è rimasta profondamente radicata a una visione deterministica del mondo. Questo ha dato luogo alla dicotomia esistente tra capitalismo e socialismo che Vargas Llosa ritiene tanto difficile da abbandonare" (25).

Giusto: la scienza moderna ha imboccato finalmente la strada aperta da Marx un secolo e mezzo fa, quella della non dicotomia fra materia ed energia, fra natura e pensiero, fra mondo fisico e mondo sociale. Anche se non riesce ad accettarne fino in fondo le conseguenze, è più avanti anche di quanto affermi lo stesso Soros, che parla ancora di antideterminismo, citando il cosiddetto caos ormai considerato in una dinamica deterministica da tutti coloro che se ne occupano. Giusta anche l'osservazione che tra capitalismo e socialismo non v'è dicotomia, se si considera la cosa dal punto di vista della metamorfosi, ossia della dinamica responsabile del cambiamento da una determinata forma economico-sociale a un'altra, ad essa superiore. Ma ci vuol ben altro per una vera critica al capitalismo, cioè per mettersi nelle condizioni effettive di essere conquistati dal demone della forma superiore.

Un giorno ci saranno borghesi che non si sentiranno più tali ma si collegheranno al cammino della specie senza classi, ma non è ancora il momento. Può darsi che Soros sia sincero quando dice che non gli interessa più rincorrere semplicemente i soldi, ma può dirlo solo perché ormai per lui ogni aumento quantitativo non rappresenta più nessun mutamento qualitativo. Egli si trova quindi in una curiosa situazione: da una parte avrebbe tutti gli elementi materiali per capire fino in fondo che cosa significa veramente sganciarsi dalle categorie di valore nell'affrontare i rapporti sociali, avrebbe cioè la possibilità di parlare in termini di bisogni umani e non capitalistici; dall'altra il legame col capitalismo che comunque non intende abbandonare, lo obbliga a fare acrobazie moralistiche per difendere valori etici i quali, in questa società, non possono che essere dipendenti dalla misura di ogni valore borghese cioè dal denaro, su cui si fondano le libertà, le eguaglianze e le fraternità attuali. È quindi da parte sua terribilmente ingenuo e banale (per non sospettare la presa per i fondelli) far seguire alle sue reiterate professioni di fede verso un mondo aperto, anti-entropico, in grado di accumulare ordine, informazione e denaro all'infinito, il solito richiamo alla buona volontà degli uomini e dei governi. Uomini e governi che, tra l'altro, a parte i miliardi di dollari che più o meno volontariamente gli hanno portato in tasca, non gli hanno dato gran che soddisfazione dal punto di vista "morale". Lo ascoltano e lo consultano, ma alla fin fine gli hanno sempre sbattuto la porta in faccia, ben rappresentati dal citato Economist, voce genuina del dio Capitale, che gli dà semplicemente e "giustamente" del pazzo. La storia non ha ancora ingravidato le madri dei transfughi veri ma, se non siamo pazzi anche noi leggendo tutto ciò come un segnale positivo, non tarderà.

Dare ad Asimov quel che è di Asimov e al futuro ciò che è del comunismo

Il problema dei liberisti puri, che vogliono preservare libertà e democrazia insieme al privilegio di far quel che vogliono rovinando i loro simili, sarebbe quello di recuperare i sani valori etici di quando il capitalismo aveva ancora molta strada di fronte a sé e poteva immaginare che un dato capitale potesse davvero figliare interesse composto all'infinito e compiere il miracolo della crescita esponenziale ininterrotta. Marx ha già distrutto questa favola del capitalismo etico e i liberisti puri somigliano a quelle beghine che biascicavano formule latine storpiate, ormai mero sfondo sonoro alla liturgia moribonda. Non è più possibile che si producano ideologie dell'ottimismo, della certezza e dell'eternità del Capitale. Certo, se le madri dei transfughi non sono ancora incinte, quelle degli imbecilli figliano in continuazione, come dice il proverbio, ma è buon segnale che i grandissimi borghesi incomincino a capire che non si possono più produrre utopie di felicità capitalistica in un mondo che sarebbe dovuto diventare come la mitica Trantor di Asimov, la città-pianeta di quaranta miliardi di abitanti, senza più terra e mare, solo un immenso mondo urbano profondo decine di livelli, comunicante con l'universo che l'alimenta chissà come.

Ma non c'è una mitica Trantor nel futuro del capitalismo. Ciò che Soros chiama darwinismo sociale, fenomeno individuato come altamente distruttivo, è il risorgere dello spettro della rivolta sociale, cosa per noi chiarissima e, come abbiamo visto, non così oscura neppure per il borghese. Quando Soros si dice preoccupato dal fatto che il darwinismo sociale sfoci inevitabilmente in quello politico, intendendo la tendenza ad un superfascismo, egli si dimostra un impotente succubo dell'ideologia dominante perché, nello stesso tempo, un superfascismo regolatore di fatti economici anarchici lo rivendica. Prospettando allarmisticamente lo spauracchio di un superfascismo, si prospetta anche ciò che tale superfascismo dovrebbe schiacciare, e noi sappiamo da tempo che controrivoluzione è dialettico rovescio di rivoluzione, in una indissolubile unione degli opposti. Se c'è un così forte bisogno di controrivoluzione, significa che la rivoluzione spinge e che l'ostetrica dovrà correre.

Fino a vent'anni fa, certo cinema di fantascienza doveva creare in studio le scene di putrefazione sociale inerenti all'ipotesi di un perdurare del capitalismo nei prossimi decenni. Oggi le scene continuano ad essere girate in studio solo per esorcizzare una realtà che si potrebbe filmare tale e quale. A Mosca, ex patria del socialismo staliniano, la realtà capitalistica supera la fantasia dei narratori fantastici, perché dopo i recessi più nascosti della metropolitana, il "popolo degli abissi" sta conquistando i gironi sempre più profondi delle fogne. Il Bronx cinematografico è nulla in confronto alla dissoluzione fisica e sociale di Newark, New York. Eppure c'è chi parla ancora di "piani di risanamento" di queste aree, senza capire che indietro non si torna.

La Russia e l'America sono più avanti nella dissoluzione perché sono stati più veloci nella storia della accumulazione-maturazione del Capitale. Se l'Europa rimane la chiave per la rivoluzione futura come luogo di nascita del capitalismo, la Russia ha già passato lo stadio del capitalismo di stato distributore di plusvalore nella società rivendicato da Soros. Siccome non può tornare alle condizioni precedenti, già distrutte dall'avanzamento della storia, non le resta che il passo definitivo fuori dal capitalismo. Anche l'America ha già sperimentato il suo massimo, ma può ancora contare sulla potenza del dollaro e delle armi; tuttavia non può rigenerarsi, che ancora vorrebbe dire tornare indietro. L'Europa, più vecchia, più esperta in risorse politiche ed economiche di sopravvivenza, relegata ai margini da una ricostruzione diretta dal vincitore della guerra, vede nell'America e nella Russia, cioè negli allievi che hanno superato il maestro, il suo proprio futuro: potenza e "mafia", degradazione e governi-battilocchio, immensa ricchezza e immensa miseria. Soros conosce bene la Russia e l'Est europeo, là è nato (a Budapest) ma soprattutto là vi ha disseminato le sue fondazioni dalle strane finalità filantropiche. Il suo ragionamento non è per nulla campato in aria, perché porta ad immaginare la catastrofe di una situazione russa estesa a tutto l'Occidente. La Russia è il tentativo di ritorno al laissez-faire dopo le politiche economiche di stato, e quello è ciò che si è ottenuto. Il grido di dolore contro l'ipotesi di Soros è il lamento disperato degli struzzi che tuffano la testa sotto terra per non vedere la realtà. Ben diverso è il movimento reale che porta i governi dei paesi europei a premunirsi contro i pericoli insiti nel futuro, non solo in questa parte del mondo.

Come non accorgersi che il pericolo per il futuro del capitalismo è insito nel movimento del capitalismo stesso? Chi, definendosi marxista e accostando gli attuali problemi del capitalismo a Marx, può ancora trastullarsi con i luoghi comuni della politica mutuata dall'Internazionale degenerata? I governi, europei e non, sono pressati da un confronto tra economie che non avviene sulla base di un plusvalore estorto localmente.

"Il profitto medio del singolo capitalista, o di ogni particolare capitale, è determinato non dal pluslavoro che questo capitale si appropria di prima mano, ma dalla quantità di pluslavoro totale che il capitale totale si appropria e da cui ogni capitale particolare trae i suoi dividendi solo come parte proporzionale del capitale totale" (26) .

Prima botta ai chiacchieroni intorno alle soluzioni pensate dai politici sulla base di parametri nazionali.

Se l'Europa vuole fare concorrenza a Stati Uniti ed Asia, deve fare il calcolo sulla sua economia totale confrontata a quella di USA, Giappone, Taiwan, Corea, Singapore e Hong Kong. A proposito: in vista dell'integrazione di Hong Kong alla Cina, l'industria dell'isola è già praticamente tutta insediata sul continente. Ciò ha provocato, nell'ultimo anno, un movimento alla frontiera di quattro milioni di TIR carichi di merci. Mille chilometri quadrati (come il comune di Varese) e nemmeno cinque milioni di abitanti (un po' più dell'area urbana milanese) su cui sono concentrati capitali mondiali che non hanno certo aspettato le scadenze diplomatiche per andare a valorizzarsi dove la forza-lavoro vale una ciotola di riso. E ancora a proposito: sull'isola di Taiwan non ci sono più industrie, solo le direzioni di esse, perché tutta la produzione è stata dislocata sul continente. E ancora: si diceva che la produzione sarebbe emigrata là dove la manodopera costava meno, ma che qui in Occidente si sarebbero sviluppati i servizi; può darsi, ma è bastato che una software-house indiana mettesse a punto un programma per l'amministrazione di un ospedale americano che tutti gli ospedali americani in poco tempo si sono collegati on-line con l'India per far gestire laggiù la loro contabilità e amministrazione. E molti sono gli enti pubblici italiani che fanno la stessa cosa con piccole società albanesi.

Comunque, leggendo bene Marx, si capisce che è troppo banale fare la solita osservazione sulla differenza fra il prezzo della forza-lavoro europea e quella asiatica: il Capitale non è più di un singolo proprietario, ed esso agisce in modo impersonale attraverso i mercati finanziari. Ciò significa che il singolo capitalista sarebbe fregato in partenza se pensasse di competere con un miliardo e mezzo di cinesi sparsi tra Cina propriamente detta, Taiwan, Hong Kong, Singapore e il resto del mondo. Il singolo capitalista potrà competere solo se parteciperà anch'egli in qualche modo al plusvalore mondiale e intascare così un dividendo, ma potrà farlo solo ed esclusivamente se potrà accedere ad una parte del Capitale mondiale: se questo dovesse prendere altre strade rispetto al luogo dove egli ha la fabbrica sarebbe un capitalista fallito secco. Per la precisione, il nostro capitalista potrà sperare che nel turbine del milione e mezzo di miliardi di lire che scorazzano quotidianamente in giro per il mondo, una piccola scheggia di quel 5% più sopra ricordato si fermi da lui e si investa nella produzione di plusvalore relativo, in modo da aumentare la massa della produzione e abbassare il costo unitario fino al limite raggiunto dalla singola merce in Cina ecc.

Il nostro ha un rappresentante, il suo governo nazionale, il quale farà di tutto per varare politiche atte ad attrarre la benevolenza dei mercati, allettandoli con offerte di valorizzazione del capitale che questi rappresentano (ma apposta abbiamo citato i quattro milioni di TIR in transito sulla più che provvisoria, microscopica frontiera: non c'è un traffico simile tra Varese e... un posto che abbia un miliardo di abitanti); a questo punto egli penserà di chiedere un finanziamento per andare a produrre in Asia o più facilmente sentirà, irresistibile, il richiamo illusorio dell'interesse composto che fa aumentare il suo denaro in progressione geometrica; dovrà solo pensarci bene, sapendo che al tavolo verde del poker finanziario ci sono i Soros ad aspettarlo.

Posate i giornali, spegnete i televisori: Maastricht non esiste e l'Euro è una patacca

L'Euro si farà e Maastricht ne è stata la profezia. Amen. Ma gli accordi di Maastricht furono solo un tentativo di regolare ciò che stava già succedendo spontaneamente e la moneta unica sarà ciò che già è, vestendosi solo con una carta dal particolare disegno. Ci vuole ben altro per cambiare un processo storico. Ragionando al di fuori della politica che vede, mentre scriviamo, esplodere lo scontro fra vari paesi sui famigerati parametri, posiamo i giornali, zittiamo i video e prendiamo Marx che ci permette di aggrapparci alle nostre buone astrazioni, le sole che ci permettono di non essere influenzati da tutta 'sta fanfara. Per prima cosa facciamoci spiegare perché i mercati finanziari da prodotto dell'industria e strumento al suo servizio diventano invece onnipotenti, trasformando l'industria, come diceva la rivista americana citata, in una bollicina sul fiume della speculazione:

"Se dietro al produttore di merci in generale sta un capitalista monetario il quale anticipi a sua volta al capitalista industriale capitale denaro (nel senso più stretto del termine, dunque valore capitale in forma denaro), il vero e proprio punto di riflusso di quel denaro è la tasca di questo capitalista monetario. In tal modo, benché il denaro circoli più o meno per ogni sorta di mani, la massa del denaro circolante appartiene alla sezione, organizzata e concentrata in forma di banche ecc., del capitale monetario; il modo in cui questa anticipa il suo capitale determina il costante riflusso finale ad essa in forma di denaro, sebbene questo sia a sua volta mediato dalla riconversione del capitale industriale in capitale monetario" (27).

Oggi togliamo pure il "se" di Marx e affermiamo senz'altro che la generalizzazione è un dato di fatto: dietro al capitalista industriale sta un capitalista monetario, anzi, il Capitale Monetario impersonale, i cosiddetti mercati. Essi comandano, essi esigono che si realizzi "il vero e proprio punto di riflusso di quel denaro" presso sé stessi e non altrove. Ma la parte più importante del passo citato è dove Marx dice che il "costante riflusso finale" alla sezione finanziaria è determinato dal "modo in cui questa anticipa il suo capitale monetario". Ciò va ben sottolineato: ciò che importa è quali sono i criteri con cui il mondo finanziario anticipa per avere la certezza del ritorno, con cui si fa pagare il prezzo, con cui semplicemente decide se soffermarsi su un paese o andarsene altrove. Prima di muoversi, un flusso finanziario sonda il grado di affidabilità di un paese, un'area, una fabbrica; che ciò sia fatto a naso o comprando i dati da un istituto apposito che calcola il rating è ininfluente.

Il criterio generale con cui il capitale finanziario si indirizza non è quindi la specifica capacità produttiva, la specifica tecnologia, la specifica politica di governo verso uno o tutti questi aspetti. Non è neppure il numero dei pensionati o dei falsi invalidi o degli indagati dalla magistratura. Il criterio vero è quello della capacità generale di un sistema economico nazionale di rispondere al quesito posto dai mercati: puoi tu, indipendentemente da ogni singolo aspetto, garantirmi che la tua economia possa partecipare nel suo insieme al plusvalore mondiale per intascarne una quota in grado di rappresentare per me "il riflusso finale?".

Questa è la vera domanda che pretende risposta, non se l'Italia, o la Spagna o la Grecia avranno fatto bene i compiti per essere ammessi all'esame finale. Maastricht non c'entra, è un epifenomeno, un episodio collaterale nell'affannosa e alquanto velleitaria ricerca di opporre forza a forza nella guerra economica fra aree del mondo che si stanno nello stesso tempo integrando e disintegrando, cercando accordi su accordi e rendendone vani altrettanti. Maastricht è la profezia dettata da un'esigenza, la moneta unica ci sarà, ma non è questo che ci interessa sapere, bensì che cosa sarà questo osannato o bistrattato Euro.

La legge della coperta stretta

Siamo partiti dalla premessa che la valorizzazione del lavoro morto rappresentato dal capitale finanziario deve e non può che passare attraverso quel suo 5% attirato nella produzione. Abbiamo poi affermato che per lo stesso capitale finanziario è indifferente il luogo dove ciò possa avvenire, purché sia garantito un interesse (parte del plusvalore) che ritorni nel luogo (sezione, dice Marx) da dov'era partito. Le garanzie sul ritorno di quest'interesse (rating) rappresentano le modalità con cui il capitale finanziario viene concesso e soprattutto la forza d'attrazione che contribuisce al formarsi dei movimenti mondiali attraverso le frontiere, cioè al formarsi delle determinazioni che spingono gli operatori a indirizzare i flussi verso l'America, verso l'Estremo Oriente o verso l'Europa. Ne deriva che la lotta non è tanto sull'accaparramento del 5% quanto su quello del restante 95% che, l'abbiamo visto, riesce lo stesso a valorizzarsi "rubando" plusvalore altrui. Prescindiamo qui sia dalle crisi finanziarie e dai crack borsistici che cancellano capitale fittizio, sia dal fatto che stiamo parlando solo del capitale in continuo movimento e non del capitale finanziario totale; del resto è un buon parametro perché il capitale finanziario è "fermo" solo in quanto rimane in attesa della cedola a scadenza, quindi del prossimo movimento.

Abbiamo allora questo schemino: 1) da qualche parte del mondo il 5% dei capitali in movimento va ad impiegarsi come capitale produttivo di plusvalore; 2) nel movimento generale il restante 95% riesce ad accaparrarsi una quota del plusvalore sotto forma di interesse grazie all'impiego del 5%; 3) la massa del capitale in questione rimane in costante movimento perché non si impiega dappertutto ma trasloca da un luogo all'altro; 4) la massa del capitale aumenta solo nella misura in cui aumenta la massa delle merci prodotte ed esse sono prodotte ex novo in misura minore di quanto sia già grande la massa di capitale (lavoro morto) esistente, in pratica la percentuale di aumento è molto bassa (28); 5) di conseguenza il paese che riuscisse, tramite particolari politiche od altro, ad attrarre a sé parte della massa di capitali, la sottrarrebbe ad altri paesi secondo le leggi della centralizzazione dei capitali; 6) tali politiche possono anche non essere immediate politiche di investimenti industriali ma, alla fine, devono tradursi in essi.

Prendiamo l'Italia e la Germania, due paesi che hanno economie ufficialmente compatibili e che, in funzione della moneta unica, stanno cercando di evitare un conflitto politico (29). A prima vista può sembrare molto strano che due paesi così diversi abbiano indici quasi uguali, ma in realtà il livellamento è dato sostanzialmente da aspetti complementari (ciò che non ha uno ha l'altro e viceversa) tra i due paesi: l'Italia ha un'altissima produttività in alcuni settori molto specifici e non concentrati, cui corrispondono vasti settori a bassa composizione organica di capitale; la Germania, al contrario, ha una relativamente bassa produttività in settori invece molto concentrati e senza grandi differenze tra loro dal punto di vista della composizione organica. La differenza sostanziale però non è questa: in Italia, a fronte di situazioni specifiche ad altissima produttività, vi è un bassissimo rendimento del sistema generale, mentre in Germania il basso indice di produttività generalizzato si inserisce in un sistema ad alto rendimento.

Il duplice carattere del lavoro e quindi della merce, fa sì che possa aumentare enormemente la massa dei beni materiali (quantità delle merci) e, nello stesso tempo, diminuire la sua grandezza in valore (espresso in ore-lavoro o denaro); molto raramente può succedere il contrario ma, storicamente, aumenta comunque la massa delle merci e diminuisce il suo valore (30). La produttività è strettamente legata a questo fenomeno, anzi, ne è la causa determinante. La produttività dipende sostanzialmente da due fattori: dall'introduzione di nuove tecnologie e macchine derivate dallo sviluppo scientifico e dall'adozione di più efficienti metodi organizzativi. Tecnologie e macchine rappresentano storicamente la base per cui sempre meno operai mettono in moto sempre più capitale, quindi rappresentano la base su cui è costruita la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. L'efficienza organizzativa è certamente collegata allo sviluppo scientifico e delle conoscenze in genere, ma l'informazione che sta alla base di ogni criterio organizzativo, ha una caratteristica speciale: è una "forza" e non un "oggetto", un po' come la forza-lavoro, e la prima, come la seconda, rende più di quanto non costi.

Ne ricaviamo la seguente conclusione: la borghesia italiana ha estorto una massa molto grande di plusvalore da un proletariato relativamente esiguo ma l'ha utilizzata male, disperdendola nella società con un sistema inefficiente; per converso la borghesia tedesca, se ha estorto una massa ancora più grande di plusvalore, l'ha fatto con un proletariato più numeroso, una borghesia più concentrata (31) e un'efficienza generale superiore, utilizzando benissimo il plusvalore e riflettendo l'organizzazione produttiva sull'intera società. Ora, in base a questa situazione materiale che rende simili le economie italiana e tedesca tramite indici di compatibilità ufficiali, ma dissimili in quanto a struttura interna, ne risulta che una tensione verso la moneta unica obbliga il paese meno efficiente, quello che ha il rendimento sociale più basso, a cambiare la sua struttura, ad aumentare il rendimento, a mettere ordine nel sistema introducendo informazione ed efficienza, tecnici e politiche meno dispersive. Ciò significa che entra in guerra con gli altri paesi non solo a causa della diretta concorrenza, ma anche a causa degli ultravigili mercati che incominciano ad offrire capitali a basso prezzo. Ogni variazione dell'efficienza produttiva di un sistema nazionale che non segua cicli e tempi storici è destinata a produrre sconquassi perché il miglior rendimento dell'uno si traduce immediatamente in un peggior rendimento relativo dell'altro. I mercati rappresentano il Capitale impersonale che gira il mondo non aspettando altro che si formino le condizioni per intervenire e questo tipo di fenomeni rappresenta la migliore delle condizioni. Intervenendo a velocità fulminea, li accelera, nel senso che porta capitale a basso costo che va a migliorare una situazione già di per sé è in via di miglioramento (per questo l'ha attirato, per le prospettive di lucro futuro), e ne toglie dove una situazione in via di peggioramento avrebbe bisogno di più capitali e a minor costo. Con buona pace per la filantropia dei Soros, lo sanno tutti che le banche danno più volentieri i soldi a chi non ne ha bisogno.

Di questo processo, volendo guardare bene ai movimenti reali e non allo schermo Televisivo, abbiamo la prova nei fatti. Nemmeno un anno fa i supertecnici dell'Europa Unita avevano accettato l'idea che l'entrata in vigore della moneta unica potesse essere accompagnata da una dilazione per i singoli paesi in difficoltà rispetto ai parametri stabiliti. Adesso a qualcuno sembra una tragedia se qualche paese dovesse risultare tagliato fuori alla prima scadenza, mentre ad altri sembra un delitto coinvolgere nella moneta unica paesi "inaffidabili" e ad altri ancora sembra di non poter sopportare una perdita di autonomia. Non si tratta di affidabilità, non almeno nel senso spiegato dai giornali e dalla politica. È successo esattamente ciò che abbiamo cercato di mostrare secondo la teoria del valore: l'attività di Spagna, Portogallo, Grecia e Italia per rientrare nei parametri di Maastricht si somma ad una crisi di crescita di Francia e Germania e ciò ha un effetto moltiplicatore con l'intervento dei mercati (32). Paradossalmente, mentre i reprobi si avvicinano ai parametri di Maastricht, i virtuosi se ne allontanano. Non c'entra il paragone cretino della battaglia tra carolingi e latini, c'entra piuttosto l'eterno motto del Capitale: mors tua vita mea.

In Europa ci sono dunque paesi che, come si dice, stanno tirando la coperta dalla loro parte e ci sono altri paesi che incominciano a sentire gli spifferi. I più forti sono destinati a dare prima o poi strattoni violentissimi.

Nei panni di un Soros

Parliamo allora dei più forti. Se stiamo in Europa, dobbiamo parlare della Germania, ma se abbracciamo il mondo dobbiamo parlare degli Stati Uniti. Ciò comporta un allargamento dello scenario europeo e, come abbiamo visto, moltiplica le possibilità di azione del Capitale mondiale in cerca di valorizzazione, cioè dei cosiddetti mercati i cui operatori ragionano secondo i canoni dell'economia corrente. Questi canoni non sono "sbagliati" di per sé, dato che registrano i meccanismi immediati del Capitale, confermati dall'esperienza empirica. Solo che, non essendo basati sulla conoscenza di leggi, non sono utili nella previsione dei processi. Adottiamo comunque i canoni correnti per un momento al fine di metterci nei panni degli operatori del Capitale.

Tutta l'Europa ha un'economia superiore a quella degli Stati Uniti, ma questi ultimi sono un paese unico e ben centralizzato, specie per quanto riguarda la politica economica e militare verso l'estero, mentre l'unità dell'Europa è un riflesso della potenza americana e giapponese. Inoltre cifre spietate dimostrano che il mercato interno americano vale enormemente di più, per l'economia di ogni singolo paese europeo, che non l'intero mercato dei paesi europei per l'economia della singola America. Questo vale anche e soprattutto per il Giappone. I reiterati tentativi di stabilire a tavolino il cambio tra le monete più forti si sono risolti in fiaschi, come dimostrano i clamorosi precedenti del Plaza e del Louvre (33) per sottomettere lo Yen, cui seguì non solo un'economia giapponese ancora più concorrenziale, ma anche il crack borsistico dell'87. A breve può funzionare una manipolazione dei cambi per sostenere le esportazioni, ma alla fine il fattore decisivo è sempre la potenza produttiva sociale, la produttività. Le monete, vecchie o in progetto, si adeguano.

L'Euro verrà dopo l'adeguamento della produttività tra i singoli paesi del vecchio continente, ma escludiamo che questo processo possa avvenire senza contrasti, perché oltre alle differenze interne all'Europa, ve ne sono anche tra questa e i suoi massimi concorrenti mondiali. Siccome l'adeguamento alla concorrenza tra capitalisti non è opzionale, pena la morte, la marcia verso una soluzione è sicura (concertazione europea e intermoneta), ma è altrettanto sicuro che qualunque risultato sarà raggiunto non sarà una soluzione. Se la concertazione europea dovesse riuscire benissimo sotto i dettami della Bundesbank, l'Euro-marco sarà stabile e forte, quindi sostituirà moneta locale e internazionale sia nei traffici che nelle riserve. Il dollaro, il cui utilizzo è già in arretramento sul mercato mondiale ed è sovrabbondante sia per il suo passato imperiale sia per il gigantesco indebitamento privato e pubblico d'America, sarà la moneta più sostituita, ritrovandosi ancor più pletorica, quindi non garantita, quindi carta dall'incerta affidabilità. Gli Stati Uniti sarebbero costretti a prendere provvedimenti. D'altra parte, se l'Euro-marco dovesse essere in futuro spontaneamente o artificialmente debole, sarebbe peggio ancora, perché in questo caso le esportazioni americane subirebbero un collasso di fronte ad un dollaro doppiamente forte.

Abbiamo tratteggiato lo scenario calandoci nei panni dell'economia corrente e quindi anche le prospettive appaiono secondo la sua ottica, che è quella dello scontro con gli Stati Uniti, in un modo o nell'altro. Ciò è già successo e avrebbe ragionevolmente la probabilità di ripetersi. Ma questa è una visione immediatista del processo mondiale in corso, anche se interessante. È certo che questo tipo di marcia verso l'integrazione delle economie per una concorrenza ancora più spietata fra blocchi con miliardi di consumatori porterà scontri violenti fra le economie nazionali o coalizzate. E chi lo nega. Ma noi vogliamo sapere soprattutto che cosa ne sarà del proletariato in questo movimento e che cosa possiamo trarne ai fini della rivoluzione verso la nuova e più alta formazione economico-sociale. Non lo possiamo fare seguendo i fatti, né possiamo anticiparli se non riusciamo ad astrarre da essi. E oggi occorre il massimo d'astrazione per non farsi trascinare dal turbinìo dei movimenti particolari che formano l'apparente scenario generale.

Come animali deboli e ferocemente braccati

Occorre non tanto "tornare" a Marx, quanto utilizzarne la potenza esplicativa oggi. Essa ci aiuta così a sintetizzare alcuni punti:

1) siamo al culmine dello sviluppo delle forze produttive ormai incatenate nel modo di produzione capitalistico che pure le aveva liberate a suo tempo;

2) viviamo perciò la massima contraddizione delle epoche di transizione (Lenin), che non sopportano più le vecchie categorie e non ne hanno ancora definite di nuove;

3) se questa società è la massima espressione del dominio del Capitale sul lavoro (estorsione del plusvalore relativo portata all'esasperazione), il fenomeno dell'estorsione di plusvalore assoluto, così utile per bilanciare la caduta del saggio di profitto, è solo una causa antagonistica marginale e non il fenomeno dominante;

4) perciò il Capitale che esce dalle grandi centrali storiche del capitalismo per valorizzarsi altrove, tende a ritornare al punto di partenza, là dove c'è il fenomeno dominante (concentrazione e centralizzazione storiche, estorsione di plusvalore relativo) e non rimanere dove il fenomeno è marginale (concentrazione e centralizzazione recente, estorsione di plusvalore assoluto) (34);

5) la riorganizzazione delle economie dei maggiori paesi capitalistici, che avviene indipendentemente dalla volontà espressa dai governi, è funzionale alla centralizzazione finanziaria dei capitali mondiali, alla loro utilizzazione alla scala planetaria, e al loro ritorno nelle aree specifiche in cui sia al massimo grado espressa la potenza massima della dominazione reale del Capitale (estorsione di plusvalore relativo);

6) la lotta è, e sarà sempre più, per l'attrazione e l'utilizzo dei capitali da parte delle borghesie nazionali o coalizzate sui propri territori;

7) ciò non potrà che portare ad una potenza ancora più alta la forza produttiva sociale (produttività, estorsione di plusvalore relativo, aumento della composizione organica del Capitale, caduta del saggio di profitto);

8) non potrà che portare, quindi, ad un aumento della sovrappopolazione relativa, ad uno squilibrio enorme nella società dovuto al basso numero di coloro che producono plusvalore contro l'altissimo numero di coloro che ne beneficiano.

9) siccome però la distribuzione anarchica di questo plusvalore è insita nel sistema (teoria marxista della miseria crescente, di fronte alla quale la borghesia capitola con i recenti modelli sulla "distribuzione-concentrazione del reddito") (35), la ripartizione sociale è un'utopia tardo-umanistica e il sistema stesso tenderà ad autoproteggersi di fronte al riemergere della questione sociale;

10) ciò che è stato chiamato "fine del lavoro" è un processo irreversibile e nessuna ristrutturazione potrà fa riemergere la quantità di "tempo di lavoro" perduta. Il fenomeno, lungi dall'essere da noi considerato negativo, è la dimostrazione concreta della validità del marxismo e della presenza dirompente del nuovo modo di produzione. Esso libera l'uomo dal lavoro salariato e gli regala tempo di vita;

11) la massa della sovrappopolazione relativa cresce e Marx tratta questo fenomeno come "legge assoluta, generale, dell'accumulazione capitalistica" (36). La legge è correlata alla miseria crescente e non va considerata in un ambito locale ma globale, tenendo presente che la prolificità dell'uomo capitalistico è inversamente proporzionale alla sua utilizzazione nel ciclo produttivo, cosa che fa della nostra specie, con questo modo di produzione, un'aberrazione della natura:

"questa legge della società capitalistica suonerebbe assurda fra selvaggi e ricorda la riproduzione di animali individualmente deboli e ferocemente braccate" (37).

Il mondo capitalistico produce esuberanza di uomini, i quali, pur essendo resi inutili dal Capitale, sono costretti a concentrarsi nelle aree dove si concentra il Capitale stesso, perché esso non può fare a meno di loro, essendo gli unici garanti della possibilità di estorcere plusvalore nella sua forma relativa (fanno cioè abbassare il salario, ovvero aumentare il pluslavoro, degli occupati);

12) da tutto ciò due sole considerazioni: aumenterà la concorrenza tra capitalisti, mentre aumenterà la concorrenza fra i miliardi di uomini proletarizzati. Per quanto riguarda il primo caso, si preciseranno tra gli Stati coalizioni economiche e politiche che anticipano strategie di guerra; per quanto riguarda il secondo, si realizzerà una saldatura tra il proletariato "in indispensabile esubero" e quello occupato. La fase della concorrenza tra proletari non può essere eterna, perché questa stessa si incarica di livellare il salario con il non-salario, cioè con il niente, e qui subentra la contraddizione estrema: non possono esistere le iperboli produttive di merci, cui corrispondono iperboli accumulative di capitali, se non esistono nello stesso tempo iperboli conseguenti di consumo. Qui è il limite totale, perché si produce secondo valore di scambio in modo infinito, ma si consuma secondo valore d'uso in modo finito (38).

Ah, la politica!

Il capitalista mondialista Soros fotografa in questo modo ciò che la politica è in grado di fare nel futuro, dopo il crollo del muro di Berlino, dell'URSS e della fine dei blocchi:

"Nessun nuovo ordine mondiale ha preso il posto del vecchio. Siamo entrati nel periodo del disordine. L'ideologia del laissez-faire non ci abilita a raccogliere la sfida. Non riconosce nessuna necessità di nuovi ordini mondiali. Si suppone che nasca un ordine dal perseguimento del proprio particolare interesse da parte degli Stati. Ma essi, guidati dal principio della sopravvivenza del più adatto, sono sempre più preoccupati della loro competitività e impossibilitati a fare qualsiasi sacrificio per il bene comune".

Quando un marxista sente il borghese criticare un ordine esistente per propugnarne uno nuovo, al di là delle utopie riformiste in buona o mala fede scorge soltanto il tentativo di consolidare il potere del Capitale e della classe che ne è figliata. Quando la Sinistra, dopo la Seconda Guerra Mondiale, rispose alle alte velleità morali dei risorgenti federalisti europei, ne mostrò il ridicolo limite dovuto alla forza materiale di un ordine che non poteva essere spezzato. Il nuovo ordine federativo sarebbe stato infatti un involucro migliore per la dominazione di classe, non scostandosi per nulla dalle correnti mondiali del Capitale che definivano lo stato di cose di allora e le politiche conseguenti. Scriveva Bordiga nel 1950:

"Il Movimento Federalista Europeo, coi suoi stupidi progetti interparlamentari, maschera della realtà di una organizzazione di guerra a comando extra-europeo, non risponde ad altro che al migliore consolidamento della dittatura del Capitale americano sulle varie regioni europee, e al tempo stesso della interna dominazione sul proletariato americano, le cui vane illusioni di prosperità hanno per sicuro sbocco, nel volgere del ciclo storico, l'austerità che la più ipocrita delle borghesie fa inghiottire alla classe operaia d'Inghilterra. L'armatura federale in Europa assicura nel modo migliore, col reclutamento di eserciti mercenari del capitale, di polizie di classe, che non potranno esservi più comuni rosse a Parigi, a Milano, a Bruxelles o a Monaco - come un sistema similare garantisce che non ve ne saranno a Varsavia, a Budapest o a Vienna" (39).

L'attuale movimento federalista, con i suoi progetti intergovernativi, cui si aggiunge l'utopia non tanto di un'intermoneta quanto di una moneta unica che funzioni per paesi diversi, non è altro che una variante storica del consolidamento della dittatura del Capitale, non più sotto tutela americana ma in una variante contro americani e asiatici. È obiettivamente un movimento guidato dal principio darwiniano di sopravvivenza, basato sul prevalere del più forte, sulla salvaguardia della competitività, unico bene comune per partiti e sindacati di ogni paese.

Il movimento in corso per l'unità europea è come una matrioska: fuori appare la bamboletta più grande con il vestito della concorrenza comune contro il resto del mondo; dentro c'è quella più piccola col vestito dell'asse "carolingio" tra Francia e Germania in concorrenza con i "latini"; dentro ancora c'è quella col vestito delle concorrenze incrociate; e poi quella col vestito della guerra di tutti gli Stati contro tutti gli altri e così via, fino alla concorrenza tra regioni e tra singole industrie, in una poltiglia "quantistica" di eventi dialetticamente correlati (certo, autoreferenti, "riflessivi", come la merce e il lavoro con le loro duplici caratteristiche) che nessun progetto alla Soros potrà ordinare.

Competitività, concorrenza, sinonimi implacabili: l'austerità è diventata pane quotidiano, ma lo è diventata per tutti i paesi e quindi siamo al punto di partenza, perché essa vorrebbe raggiungere la differenza che permette di fregare l'avversario. Ma non se ne può fare a meno, perciò, se anche non c'è più un Patto di Varsavia a fare da omologo poliziesco della NATO, è certo che alla base del progetto federativo europeo vi è sempre la ricerca della sicurezza che non vi siano più comuni rosse, né a Parigi, né a Berlino. Che si giunga ad un assetto economico concorrenziale europeo che rilanci l'accumulazione tramite espansione all'esterno, oppure, o in aggiunta, che vi sia un assetto economico altrettanto concorrenziale basato sull'accresciuta estorsione di plusvalore all'interno, di polizia di classe c'è bisogno in ogni caso, sia per incanalare in argini non autodistruttivi il gangstercapitalismo, sia per controllare un proletariato internazionale tendente a concentrarsi dove si concentra il Capitale e che non può essere fermato dai nuovi muri che sorgono dal Rio Grande al Mediterraneo, dall'Oder al Golfo Pesico.

Non per niente, negli stessi giorni in cui su tutti i giornali si parlava dell'articolo di Soros, della pressione sul dollaro, di ulteriori tagli ecc., entravano in fermento i soliti mercati perché insieme a tutto ciò era esplosa la diatriba sui parametri di Maastricht tra Italia e Germania. Per tranquillizzare gli animi (e i dollari e i marchi e le sterline ecc.) il cancelliere tedesco Khol, in un articolo di alta politica ruffianesca inviato ad uno dei maggiori quotidiani italiani (40), tra tanto lattemiele sulla libertà e l'amicizia, poneva secchi secchi tre punti in questo ordine significativo e con queste esatte parole:

1) "Un ufficio di polizia europeo con competenze operative";

2) "Una politica estera e di sicurezza comune che meriti veramente questo nome";

3) "Un'Unione Europea che sia più trasparente per il cittadino".

Non occorrono commenti. Il terzo punto fa parte del lattemiele di circostanza: notiamo che l'intero articolo è distribuito su sette colonne e l'Euro con la politica monetaria unificata vengono nominati solo nell'ultima. Non è la moneta unica che importa, è che per fare concorrenza agli altri occorre non farsi concorrenza tra partner e gli uni non si fidano degli altri (figuriamoci poi i tedeschi degli italiani). Comunque la concorrenza ad America e Asia si farà e quindi si farà la holding europea sotto tutela tedesca; pilotata, redistributrice e statalista come vorrebbe il Soros allievo involontario di Keynes, ma chiusa e totalitaria, ingorda di nuovi capitali che si valorizzeranno schiavizzando altre popolazioni e facendo esplodere altre Russie, Iugoslavie, Albanie, Bulgarie, Coree e prossimamente Cine, con tanti saluti alla libera "società aperta" del Soros allievo di Popper.

Note

(21) The Economist, art. cit.

(22) G. Soros, art. cit.

(23) G. Soros, art. cit.

(24) Vargas Llosa, scrittore peruviano, ha un certo talento nel suo mestiere ma è una frana come politico ed economista borghese; l'articolo citato è George Soros, parole al Vento su La Repubblica del 31 gennaio 1997.

(25) Da La Repubblica del 7 febbraio 1997, Replica a Vargas Llosa.

(26) Il Capitale, Libro III, Sez. V, capitolo 36, edizione UTET pag. 756.

(27) Il Capitale, Libro II, sez. Terza, cap. XX, edizione UTET pag. 497.

(28) Inoltre bisogna tener conto che l'aumento della produttività diminuisce il valore intrinseco delle merci, quindi il valore della massa di capitale che si ricava dalla loro vendita se la quantità rimanesse uguale.

(29) Economie compatibili secondo il criterio ufficiale adottato dalla Comunità Europea: Prodotto Interno Lordo pro capite in Standard di Potere d'Acquisto; vent'anni fa l'indice era identico, oggi è leggermente superiore per la Germania dell'Ovest (non abbiamo il dato per la Germania unificata). Nella stessa fascia, da indice 9,5 a 10, vi sono anche Francia, Gran Bretagna e Giappone, mentre gli Stati Uniti sono a 14. Questo indice è importante perché tiene conto in qualche modo del valore della forza-lavoro in quanto valore delle merci che servono per riprodurla, mentre il confronto fra PIL, anche se pro-capite, è molto più grezzo. Fonte: Eurostat, 26a edizione.

(30) Cfr. Il Capitale, Libro I, cap. I.2. Ediz. UTET pag. 120.

(31) La popolazione attiva in Italia è di circa il 30% con pochi salariati e moltissimi indipendenti, mentre in Germania è del 50% con moltissimi salariati e pochi indipendenti. Basterebbe questo dato per dimostrare che il saggio di sfruttamento in Italia è di gran lunga superiore a quello tedesco e quindi è superiore l'indice di produttività.

(32) Mentre scriviamo è in corso un'ondata di acquisti di dollari, segno che vengono abbandonate altre valute: il parallelo rafforzamento della lira sul marco rivela che è quest'ultimo ad essere in parte abbandonato.

(33) Vedi Lettera ai compagni n. 30. Attualmente il dollaro, lasciato cadere in passato fino a raggiungere il punto più basso un anno e mezzo fa, è rivalutato da allora del 50% rispetto allo Yen e del 20% rispetto al marco; per un paese come gli Stati Uniti in cronico deficit commerciale ciò rappresenta un ulteriore penalizzazione alle esportazioni.

(34) I fatti recenti di Corea dimostrano che non può essere a lungo mantenuta l'estorsione del plusvalore assoluto (lunga giornata lavorativa, impiego a vita nelle grandi compagnie, ecc.), e che il passaggio alla forma moderna è immediatamente causa di rivolte.

(35) Modelli sviluppati negli Stati Uniti dopo che le politiche liberiste di Reagan e della Tatcher avevano portato a enormi dislivelli di reddito colpendo soprattutto le fasce medie.

(36) Il Capitale, Libro I, cap. XXIII.4, ed. UTET pag. 820.

(37) Ibid. pag. 818. Animali braccati, come le decine di milioni di profughi, le centinaia di milioni di abitanti delle immense bidonvilles, le popolazioni civili fatte a pezzi in piccole guerre dai grandi massacri. Le aree del mondo da cui gli animali braccati premono sulle isole dell'accumulazione si stanno ingrandendo: tutta l'Africa, tutta l'America Latina, tutto il Medio Oriente, gran parte dell'Asia e adesso la periferia dell'Europa.

(38) Occorre non fare confusione con le categorie borghesi di domanda e offerta, produzione e consumo. Il valore d'uso, dice Marx, è "il depositario materiale del valore di scambio" quindi non c'è valore di scambio se il valore d'uso non trova riscontro nei bisogni della società. L'aumento della sovrappopolazione relativa, in quanto legge generale dell'accumulazione capitalistica, dissolve il valore di scambio rendendo impossibile la soddisfazione di un bisogno attraverso il valore d'uso. Se è vero che il proletario può abbisognare solo di ciò che gli serve per riprodurre la propria forza-lavoro (Manoscritti del 1844), e che "la natura di questi bisogni non cambia nulla alla questione" (prime righe del Capitale), rimane il fatto che l'esplicarsi della legge della sovrappopolazione relativa elimina bisogni, l'esatto contrario di ciò di cui abbisogna invece il Capitale per esistere.

(39) Da United States of Europa, in Prometeo n. 14 del 1950. Ora in Bussole impazzite, ed. Quad. Int.

(40) Pubblicato in prima pagina come articolo di fondo da La Repubblica del 6 febbraio 1997.

Lettere ai compagni