La socializzazione fascista e il comunismo (1)

"Voi oscuri lavoratori del Dalmine, avete aperto l'orizzonte. È il lavoro che parla in voi, è il lavoro che ha consacrato nelle trincee il suo diritto a non essere più fatica, miseria o disperazione, perché deve diventare gioia, orgoglio, creazione, conquista di uomini liberi nella patria libera e grande oltre i confini ." (Benito Mussolini, Discorso a Dalmine, 20 marzo 1919).

"La legge del Duce sulla socializzazione incontrerà l'approvazione di tutti coloro che, al di sopra di interessi privatistici, vedono nel programma sociale del fascismo non solo la salvaguardia per una ordinata convivenza fra capitale e lavoro, ma anche la possibilità di affermare la personalità e l'iniziativa dell'individuo." (Vittorio Valletta, direttore generale della FIAT, 1944).

"La Cgil è un sindacato di natura programmatica che considera la propria unità e la democrazia suoi caratteri fondanti. La stessa autonomia della Cgil, anch’essa valore primario, trova il suo fondamento nella capacità di elaborazione programmatica in primo luogo nei confronti dei datori di lavoro, delle istituzioni e dei partiti e nel carattere unitario e democratico delle sue regole di vita interna." (Statuto della CGIL).

1. Materialismo e spiritualismo

Realizzare le istanze riformiste

Alla fine della Prima Guerra Mondiale lo scenario sociale si apre sulla rivoluzione proletaria. Il percorso è conosciuto: l'Ottobre sovietico, il Biennio Rosso in Italia e Germania, la confusione creata dai partiti che a parole si proclamano rivoluzionari mentre nei fatti alimentano la reazione parlamentaristica, l'assoluta inadeguatezza dei partiti che pretendono di guidare la classe operaia, il rifluire dello slancio generoso ma male indirizzato di milioni di uomini in tutta Europa e in altre parti del mondo. Una sconfitta storica che sta lasciando il segno da un secolo.

Comunemente si spiega tale sconfitta con la nascita del fascismo, quello in camicia nera, attribuendo a questa sovrastruttura una potenza in grado di eliminare la lotta di classe, o perlomeno di annichilirla, prima con il terrore, poi con la forza dello stato, rivalutato e attrezzato allo scopo. Lo schema soffre di troppe semplificazioni, la prima delle quali è una inversione fra causa ed effetto. Prima della sconfitta proletaria il fascismo non era che una delle tante correnti del sindacalismo rivoluzionaro interventista, non ne è stato la causa, semmai, appunto, ne è stato l'effetto; ed è un fenomeno ben più complesso di come lo presentano le sue interpretazioni. Non sono Mussolini, la camicia nera, lo squadrismo o la negata democrazia che lo caratterizzano. Anche. Ma esso è il prodotto di un'epoca rivoluzionaria cui è venuta a mancare la rivoluzione: una controrivoluzione costruita con i cascami della rivoluzione.

È in quest'ottica che studiamo lo scenario che precede la grande sconfitta. Nel migliore dei casi, come a nobilitare il proprio retroterra storico, protagonisti e osservatori citano Proudhon, Bernstein, Bergson, Comte, Sorel e altri. Non era però il "pensiero" dei grand'uomini a influenzare il movimento di milioni di persone. In realtà era il movimento di milioni di persone che cercava una teoria guida in grado di formare l'ossatura di un partito guida. Bergson aveva sviluppato una teoria della conoscenza basata sull'unione di istinto e intelligenza: l'intelligenza sola "sa" che cosa cercare ma è l'istinto che può trovare; separati non portano a niente perché l'istinto non è capace di cercare e l'intelligenza non è capace di trovare. L'uomo è diverso da qualsiasi altro essere della natura proprio perché fa valere la propria volontà, la quale non è un semplice derivato di determinazioni che la precedono ma un vero e proprio atto creativo. Egli è l'unione fra istinto e intelligenza. Le roboanti dichiarazioni del fascismo, questa specie di rivoluzione reazionaria, non sono comunque il prodotto dello spiritualismo bergsoniano, è piuttosto quest'ultimo che offre copertura ideologica, con linguaggio depurato, all'insieme degli eventi in corso. A riprova del fatto che non è la filosofia o il "pensiero" di qualcuno a influenzare gli avvenimenti, è facile constatare che la controrivoluzione non parla la lingua dei suoi teorici ma quella di una piccola borghesia decadente, quella dei D'Annunzio, dei Marinetti, dei Mussolini e degli arditi. Bergson scrive in una lingua essenziale (gli daranno il Nobel per la letteratura); i suoi pretesi discepoli infarciscono il linguaggio di orpelli indigeribili. Quando Mussolini cercherà di darsi degli ascendenti nobili, dirà di aver contrabbandato un po' di Bergson nel movimento socialista.

Una ben differente teoria rivoluzionaria della conoscenza in realtà non mancava, e aveva, anzi, costituito per certi versi la base di un gigantesco impianto sociale che andava dalle cooperative della socialdemocrazia tedesca all'apparato statale soviettista russo. Un fenomeno vastissimo da cui si erano diramate correnti che rappresentavano canali di congiunzione fra il vecchio modo di produzione ferito a morte dalla rivoluzione in Russia e quello nuovo che spingeva per nascere. L'osmosi fra il vecchio e il nuovo era inevitabile, ma se si accetta questa lettura risulta anche chiaro che le sorti della rivoluzione erano legate alla prevalente direzione che avrebbero preso i flussi dell'osmosi.

Negli anni '20 non fu il flusso che si rifaceva a Marx, Engels e al partito originario della rivoluzione a prevalere; o almeno prevalse all'inizio una sua versione riformistica, di fronte alla quale non s'impose neppure una chiara impostazione della borghesia, incapace di ritornare a una nuova epoca dell'illuminismo. Per sopravvivere a sé stesso, il modo di produzione capitalistico si strutturò teoreticamente in funzione di estrema autodifesa di fronte alle forze che lo minacciavano. Storicamente disarmato in quanto a teoria, dunque, ne commissionò una alla classe intermedia la quale, servilmente, la scodellò senza troppa fatica: essendo una classe di mezzo, vaso di coccio fra vasi di ferro, raccattò frammenti di teorie non sue che si trovavano sparsi sulla scena e ne ricavò un mostruoso ibrido, a sua volta suddiviso in correnti: una teoria di mezzo. Milioni di uomini sentivano per istinto che il mondo stava andando verso il socialismo, ma non possedevano l'intelligenza di una teoria che indicasse loro come fare per distinguere, fra tutto quel socialismo, l'originale, quello "vero", dal surrogato.

Lo storico partito cui apparteniamo ha risolto una volta per sempre i problemi legati all'analisi delle molteplici teorie piccolo-borghesi. Che, tutte, al di là dei nomi di persona, si basano su categorie invarianti: la comunità locale democraticamente produttiva, lo stato al servizio dei cittadini (o eliminato a seconda dei casi), l'industria intesa come unità organica che abolisce il dualismo padrone-operaio, la forma sociale esteriore rubata al comunismo e sterilizzata in modo da risultare compatibile con il capitalismo, ecc.

E allo stesso partito dobbiamo un'altra potente definizione: il fascismo è il realizzatore dialettico delle istanze riformiste. Perfetto: per la realizzazione delle riforme occorre l'armamentario adatto, cioè uno stato che non sia rappresentato da un parlamento occupato a gingillarsi con chiacchiere su sé stesso e un esecutivo efficiente, in grado di programmare difficili scelte economiche. E programmare vuol dire avere il controllo della forza lavoro; obiettivo raggiungibile, più che con l'utilizzo degli apparati polizieschi utili soprattutto nella fase dell'affermazione fascista, per mezzo del sindacato, l'unico interlocutore naturale per soddisfare le rivendicazioni operaie. Mussolini, a Dalmine nel marzo del 1919, durante l'occupazione di una fabbrica metalmeccanica (la Franchi Gregorini) durante la quale non era stato interrotto il ciclo produttivo, inneggia al lavoro come un valore universale anticipando il socialismo torinese che, con Gramsci, esalterà proprio quella forma di occupazione "positiva" della fabbrica.

Esaltazione interclassista del lavoro

In realtà, come vedremo, la guerra risveglia tutte le classi mettendole di fronte ai loro compiti storici, e tutte le classi rispondono gettando sulla scena della storia quello che hanno e che possono avere. Non è un caso che, dovendo la propria esistenza al lavoro, cioè alla forza lavoro venduta a prezzo libero sul mercato, tutte le classi convergono verso l'esaltazione del lavoro, quasi un'idolatria. In Russia lo stakanovismo ne è la (tarda) manifestazione più evidente, ma dal 1918, in tutto il mondo, compare un'ideologia del lavoro coerente e compatta nelle sue ramificazioni che raggiungono il cuore della politica tradizionale. In Italia, prima ancora di essere partito, il movimento fascista acquista la consapevolezza che per vincere la battaglia che si sta giocando nel mondo occorre saldare i fattori della produzione: capitale e lavoro. Non è un caso che nell'immediato dopoguerra, mentre vengono colpite le sedi delle tradizionali organizzazioni operaie, si profili il futuro sindacale corporativo del fascismo. E non è un caso che serpeggi nel movimento fascista un odio per quella borghesia che non partecipa direttamente alla produzione, odio cui si dà dignità teorica in quanto il capitalista assenteista si autoesclude dal matrimonio fra capitale e lavoro. Diventa in poche parole un parassita. Nel programma fascista questo tipo di borghese dev'essere eliminato dalla scena, espropriato.

L'esaltazione del lavoro a classi unite non è tuttavia invenzione fascista. La piccola borghesia dannunziana aveva già fatto propria la medesima esigenza. In modo meno teatrale e più consono alla tragedia che si sarebbe abbattuta sull'Europa, in Germania industriali come Walther Rathenau teorizzavano l'avvento di una società integrata nella quale i capitalisti si sarebbero convinti che la società non era lì per dar loro la possibilità di intascare cospicui dividendi ma per riempire di merci i battelli che transitano sul Reno. Rathenau ispirò il film Metropolis di Fritz Lang (1926) dove gli operai in rivolta erano infine ricondotti alla cooperazione dal figlio del grande capitalista. Sembra che il film fosse uno dei preferiti di Hitler. Rathenau fu ucciso nel 1922 da due nazisti, ma il contenuto della sua dottrina fu uno dei pilastri su cui quella nazista poggiò.

Quando nel secondo dopoguerra i vincitori imposero l'assetto politico democratico alla Germania, la collaborazione fra operai e padroni fu sancita, oltre che dalla persistente natura corporativa dei sindacati, da apposite commissioni che si dovevano dedicare alla Mitbestimmung, la co-determinazione dell'azienda. Questo cancro parasindacale aveva colpito anche il socialismo italiano, allorché al suo interno si era fatta strada l'idea che i proletari potessero conquistare posizioni utili alla presa del potere controllando essi stessi il ciclo produttivo delle fabbriche, idea che appariva bislacca ai capitalisti di allora, ma che Giolitti trovò in perfetta continuità rispetto a ciò che già succedeva con il "confronto" fra operai e capitalisti nella normale vita sindacale. Quando nel 1920 le fabbriche furono occupate, Giolitti se ne andò tranquillamente in vacanza, ben sapendo che gli operai erano rinchiusi impotenti dentro le officine mentre esercito, guardia regia, polizia e carabinieri dominavano la piazza. Nel secondo dopoguerra in Italia, come in Germania, l'assetto sindacale prevedeva, oltre alle Commissioni Interne, i Consigli di Gestione, dove non si elaboravano "rivendicazioni" ma si svolgeva opera congiunta operai-capitalisti per il buon funzionamento dell'organismo comune che era la fabbrica.

La persistenza a tutt'oggi della prassi corporativista è chiaro segno dell'esistenza di una forza sociale tesa a salvaguardare il capitalismo attraverso questa formula consociativa. La concertazione del 1992-93 in Italia ne è una forte prova: gli accordi a livello governativo non prevedevano alcuna partecipazione sindacale di base, nemmeno formale e vennero sottoscritti senza che fosse in alcun modo consultata la massa dei lavoratori (la quale sfogò la sua rabbia nelle manifestazioni di piazza prendendo a sassate i propri rappresentanti). Altre formule, come ad esempio quella dell'azionariato operaio, non hanno invece mai avuto fortuna, non tanto per il timore che gli operai prendessero il controllo della fabbrica attraverso la maggioranza nei consigli di amministrazione (un takeover proletario!), cosa che si può evitare con una regolamentazione, quanto perché riguarda i singoli individui che ricevono o acquistano azioni; mentre il corporativismo sancisce un patto di classe universale.

Corporativismo tecnocratico

Una forma più sofisticata di corporativismo fu tentata da Adriano Olivetti: la fabbrica non doveva essere concepita come unità separata dal resto della società, ma come parte integrante di un tutto che si espandeva su di un comprensorio urbano e agricolo. Il quale, inteso come una sintesi fra i progetti di Owen, Proudhon e Fourier, avrebbe potuto realizzare il superamento del dualismo città-campagna, industria-agricoltura e sarebbe stato auto-governato. Nell'ambito di questo programma, la fabbrica, quella reale, si era già data un assetto preliminare, fondando un sindacato (Autonomia aziendale) e un partito politico (Comunità). Nel suo libro Democrazia senza partiti, Olivetti osserva che il fondamento della democrazia consiste in una rappresentanza che non sia mistificazione, una delega quindi di molti a uno basata sulla fiducia e soprattutto sull'appartenenza a una comunità; mentre nel sistema dei partiti la responsabilità viene meno in quanto il partito diventa il contenitore della delega e della rappresentanza, diventa cioè poco per volta autonomo rispetto a coloro che dovrebbe rappresentare.

La fabbrica, secondo Olivetti, è il serbatoio della conoscenza e dell'organizzazione, quindi è naturale che diventi anche l'elemento portante della comunità, la quale deve scegliere non tanto i propri rappresentanti quanto i propri dirigenti, coloro cioè che devono fisicamente dirigere ogni aspetto della vita comune. Il partito tradizionale mortifica la rappresentanza e la sostituisce, mentre il dirigente olivettiano svolge semplicemente i compiti che gli sono affidati dalla comunità, ha un ruolo tecnico, non politico. O almeno: il nuovo assetto politico della comunità è quello che poggia sulla competenza tecnica. La democrazia basata sulla rappresentanza di partiti che usano la popolazione per i propri fini invece di essere al suo servizio ha fatto il suo tempo. È ora di rompere il meccanismo perverso di un sistema che è unicamente in grado di conservare sé stesso.

"La democrazia parlamentare non riconosce i grandi mutamenti che hanno radicalmente trasformato, durate gli ultimi cento anni, la struttura della società. Essa difende la libertà anche a favore delle forze che tendono a distruggerla. Essa quindi non può più dar vita a un ordine sociale giusto, ma tende ormai a diventare il ponte di passaggio verso i regimi che causerebbero nuove dittature… Nel nuovo Stato il potere poggerà saldamente non più su una forza sola, la democrazia, la quale è troppo facile preda della potenza del denaro. Il potere sarà ancorato alla cultura giuridicamente organizzata e, nel contempo, al lavoro sarà conferita una ben determinata potenza politica… Alla fine del fascismo la maggior parte degli intellettuali vedeva nei partiti uno strumento di libertà. Io no. Sono organismi che selezionano personale politico inadeguato. Un governo espresso da un Parlamento così povero di conoscenze specifiche non precede le situazioni, ne è trascinato." (Adriano Olivetti, Democrazia senza partiti, Edizioni Fondazione Olivetti).

Conferire potenza politica al lavoro. Nella concezione "sindacale" della rivoluzione non c'è più posto per la tradizionale rappresentanza di tipo elettorale: la rivendicazione viene superata dalla realtà produttiva perché operai e capitalisti sono ora legati ai compiti che devono svolgere; la comunità li lega a sé allo stesso titolo, gli uni e gli altri lavorano agli stessi risultati, e in fabbrica – è normale – per ottenere un certo risultato occorre che tutte le forze collaborino allo scopo. Mai definizione fu più appropriata di quella leniniana di sindacato come cinghia di trasmissione tra partito e masse. Che sia affermato in senso rivoluzionario o che lo sia in senso reazionario, la realtà materiale del rapporto sindacati-masse è data. Non esiste altra forma organizzativa che possa sostituire il sindacato in quanto cinghia di trasmissione. E la borghesia, volutamente o meno, ha rubato al partito rivoluzionario l'arma più potente che esso ha per avvicinarsi alla classe.

Ma è attraverso il sindacato corporativo che avanza la religione del lavoro. Sembra ragionevole: se una struttura rivendicativa difende i lavoratori dalla voracità dei capitalisti, non si vede perché la stessa struttura non possa attaccare strappando ai capitalisti molto di più. Per esempio delle regole atte ad esprimere finalmente l'idoneità della classe operaia a gestire direttamente la fabbrica. E questa condizione fu realizzata, non troppo paradossalmente, proprio dal fascismo, quando decise di espropriare i capitalisti incapaci di produrre e vendere, sostituendoli con funzionari stipendiati, capaci di rimettere in sesto le fabbriche disastrate e di venderle sul mercato. Tra l'altro, se lo stato interviene direttamente nel salvataggio delle aziende, la banca e il credito in generale si dimostrano del tutto inutili.

Lo sciopero-mito

Il positivismo aveva liberato la scienza dal ghetto in cui l'aveva gettata la borghesia, e con la nuova visione del mondo, razionale e meccanica, sembrava che nulla potesse fermare il "progresso". Bergson aveva corretto il tiro introducendo qualche dose di spiritualismo e Sorel aveva contaminato il tutto con un po' di marxismo edulcorato attraverso Blanqui e Bernstein.

Mussolini ammette di aver contrabbandato Bergson e Blanqui fra le file del Partito Socialista. Non ancora padrone del campo parlamentare, e quindi non ancora pronto per una chiara dichiarazione di intenti, in un discorso del 1921 a Montecitorio riconosce il debito nei confronti di tutti quanti i personaggi citati e tenta ancora di tingere di rosso la propria politica, giungendo a proporre alla Confederazione Generale del Lavoro una collaborazione attiva, cominciando dalle proposte riformiste, come quella delle otto ore. In un articolo sul Comunista, Bordiga risponde che proprio questa coloritura superficiale caratterizza i grandi rinnegati: Mussolini si muoveva, come i Turati e i Noske, sul piano di un movimento operaio "politicamente incolore, indipendente, sogno di una borghesia decadente. " Bergson, chi era costui? Si chiede Bordiga. E aggiunge: "Ci pare che sia ora di finirla con questa storia di Bergson".

Fra tutte le contaminazioni, quella bergsoniana era la più sfacciatamente idealistica ed aveva un notevole peso, per cui doveva essere rintuzzata. Ma tutte furono in varia misura sponsorizzate da Mussolini, non certo un'aquila per quanto riguarda finezze politico-filosofiche. Sta di fatto che la "fermentazione del suo bergsonismo" o i soldi arrivati dalla Francia, lo fecero diventare interventista e maestro dell'idealismo di allora. Ma non pescò il maggior numero di seguaci fra i socialisti bensì fra i destri e gli ultrasinistri sindacalisti rivoluzionari alla Sorel. Anzi, furono questi ultimi a rappresentare la struttura portante del futuro Partito Nazionale Fascista.

Sorel si richiamava sia a Bergson che a Marx. Dal primo ricavava una superiorità della coscienza istintiva (sintetica) su quella razionale (analitica); dal secondo i riferimenti alla lotta di classe. Nel suo schema ha un posto rilevante la coscienza, nella quale sarebbe depositata una concezione fantastica del mondo, motore della volontà: quell'immagine del mondo che in ognuno di noi rappresenta uno stimolo per l'istinto (mito). Il mito si contrappone all'utopia, esso è forza direttamente e immediatamente disponibile per l'azione, mentre l'utopia può essere vagliata e discussa attraverso il raziocinio. Non importa se il mito, come l'utopia, sia realizzabile o meno: l'importante è che stia alla base dell'azione. Si può parlare in eterno di rivoluzione senza produrre un movimento rivoluzionario; mentre il mito, se è quel complesso di immagini capace di evocare istintivamente lo scontro sociale nelle masse, produce nuova realtà. Lo sciopero generale è la manifestazione pratica del mito soreliano.

Uno dei movimenti più perfetti della manifestazione del mito sarebbe, per Sorel, il cristianesimo. Che il suo programma fosse realizzabile o meno, ha assunto forma sociale coinvolgendo milioni di persone, indipendentemente dalla razionalità delle premesse. Allo stesso modo, trasportato all'oggi, il mito prende la forma di lotta di classe, quindi la classe oppressa diventa il soggetto dello scontro per il cambiamento; e lo sciopero generale la sua arma, "il mito nel quale si racchiude tutto intero il socialismo".

Soltanto lo sciopero generale avrebbe il potere di rappresentare la catastrofe necessaria al sorgere di una umanità nuova. Diventa del tutto comprensibile, quindi, il rifiuto preconcetto da parte dei riformisti che invece predicano un gradualismo pacifico, una trasformazione a tavolino. È su tale terreno che si saldano Bergson, Sorel, Proudhon e le correnti anarchiche: la violenza non è un fenomeno razionale che possa essere guidato secondo un programma, è piuttosto uno "slancio vitale e creatore", un'esplosione spirituale, unica premessa possibile a forme di organizzazione di più alto livello.

Il carattere spontaneistico di questo distillato storico è evidenziato dal fatto che l'assunto di partenza è vero: le rivoluzioni non sono il risultato di un processo intellettuale; il loro programma non è stabilito da qualcuno che voglia instaurare una nuova società con caratteristiche predeterminate. Ma le spinte spontanee verso il cambiamento, in una situazione rivoluzionaria, si dispongono e orientano secondo una polarizzazione storica, fino a dar luogo alla potenza indirizzatrice del partito della rivoluzione. La violenza non è un aspetto "etico" della rivoluzione, è una forza materiale che va orientata: "i partiti e le rivoluzioni non si fanno, si dirigono", disse la nostra corrente. Senza partito rivoluzionario non c'è rivoluzione.

Sorel raccoglie ciò che era nell'aria e, nonostante le roboanti frasi sulla violenza, non riesce a nascondere il vero aspetto riformista del suo programma. In L'avvenire socialista dei sindacati assegna alle cooperative, agli uffici di collocamento, agli ispettorati del lavoro e ad altre istituzioni "sociali" la facoltà di allenare la classe operaia alla gestione del potere. Attribuendo a questo aspetto un'importanza esagerata, lo eleva addirittura a "lotta definitiva per i poteri politici":

"È una lotta per svuotare di ogni vita l'organismo politico borghese e trasferire quanto conteneva di utile in un organismo politico proletario, creato in modo da corrispondere allo sviluppo del proletariato".

Se Mussolini anticipa Gramsci nel discorso di Dalmine, Sorel anticipa Mussolini. Solo che il fascismo fa propria la dinamica della rivoluzione: non serve conquistare funzioni particolari, bisogna conquistare lo stato. Nella nostra rivoluzione lo si conquista per distruggerlo e sostituirlo con un organo transitorio; nella controrivoluzione lo si conquista per rafforzarlo ed elevarlo a reale potere esecutivo, libero dalla mistificazione democratica.

Rispetto allo schema di tutti i discendenti di Proudhon il fascismo si manifesta a un livello superiore. In Sorel è contemplata una graduale lotta del proletariato per il potere nelle pieghe della società così com'è,

"per ottenere una legislazione sociale favorevole allo sviluppo dell'organizzazione politica… per strappare allo stato e al comune, una ad una, tutte le loro attribuzioni, per arricchire gli organismi proletari in via di formazione, ossia i sindacati".

Nel fascismo la questione del potere si pone in modo sbrigativo: adoperando il meccanismo democratico e nello stesso tempo assorbendo dalla dottrina rivoluzionaria i caratteri che gli sono utili, il potere è oggetto di conquista subitanea e non di rivendicazione graduale.

L'ambiguità creatrice

Non è lo scopo di questo lavoro fare una critica a Sorel o a Bergson, ma ci interessa descrivere l'ambiente bergsoniano in cui matura il carattere "sindacale" del fascismo. Possiamo anche chiederci perché mai Sorel fosse una delle letture preferite di Mussolini, ma soprattutto è importante capire perché a un certo punto la rivoluzione lasci il campo alla controrivoluzione e lo stato prenda la forma di istituto corporativo, inglobando i sindacati e attivando una politica del lavoro che sarà, da quel momento in poi, la religione laica dello stato borghese, diventando non per caso l'articolo numero uno della costituzione italiana, cioè quella del primo paese a diventare fascista.

Sovente si è sostenuto che l'impianto teorico di Sorel ebbe un'influenza sproporzionata rispetto ai suoi contenuti elementari. Sarebbe più corretto dire che la grande confusione esistente durante la fallita transizione di fase dei primi anni '20 ebbe il suo sbocco nella necessità di semplificare i programmi politici di fronte a masse disorientate. Il comportamento di Sorel fu comunque ambiguo. Oscillando fra anarco-sindacalismo e fascismo, ebbe simpatie verso l'estrema destra antiparlamentare francese ma avversò il movimento dannunziano, considerò Lenin come il più grande teorico rivoluzionario dopo Marx ma si allontanò dal marxismo.

Non stupisce che fosse più letto in Italia che in Francia: secondo lo storico Zeev Sternhell l'impostazione teorica di Sorel, abbinata al realismo opportunistico di Mussolini, fornì la base programmatica del fascismo oltre che, fenomeno massimamente indicativo, quasi tutto l'apparato dirigente del partito fascista, i cui quadri almeno per l'80% provenivano dalle file del sindacalismo rivoluzionario di matrice soreliana, mentre per il restante 20 per cento addirittura dalle file socialiste (Zeev Sternhell, Nascita dell'ideologia fascista, Akropolis).

Questo percorso-tipo fu condiviso da molti, come dimostra ad esempio quello di un altro esponente del sindacalismo francese, Hubert Lagardelle, che Mussolini stesso, in La dottrina del fascismo, accomuna alla medesima corrente storica:

"Nel grande fiume del fascismo troverete i filoni che si dipartirono dal Sorel, dal Lagardelle del Mouvement Socialiste, dal Péguy, e dalla coorte dei sindacalisti italiani, che tra il 1904 e il 1914 portarono una nota di novità nell'ambiente socialistico italiano, già svirilizzato e cloroformizzato dalla fornicazione giolittiana, con le Pagine libere di Olivetti, La Lupa di Orano, il Divenire sociale di Enrico Leone."

Seguace di Proudhon e di Sorel e attratto da Marx, Lagardelle aveva fondato il periodico Le mouvement socialiste (1899-1914), manifestando simpatie, dopo la guerra, per la Rivoluzione d'Ottobre. Ma, constatata la degenerazione di Mosca, se ne allontanò avvicinandosi alla destra e finendo per aderire, nel 1926, al fascismo francese.

Mussolini parlava di "grande fiume del fascismo", ma avrebbe dovuto più correttamente parlare di "grande fiume della controrivoluzione", la quale stava rastrellando tutte le posizioni e i movimenti che potevano essere utilizzabili per bloccare l'altro potente fiume, anzi il mare, della rivoluzione russa. Il movimento fascista era uno dei tanti finché le circostanze, e certo anche quell'animale politico che era Mussolini, non lo condussero a prendere il sopravvento. Tra i personaggi che egli rivendica può sembrare strano trovare Enrico Leone, che fu figura di spicco del sindacalismo "rivoluzionario" italiano di stampo marxista. Ne fu anzi il principale animatore e capo finché i sindacalisti rivoluzionari furono corrente all'interno del PSI; nel quale Leone era vicino ad Arturo Labriola, anch'egli sindacalista, e ad Enrico Ferri, capo della frazione intransigente. Nella rivista da lui fondata, Il divenire sociale, veniva pubblicato molto materiale di Sorel. La definizione di "sindacalismo puro" in uso in quegli anni deriva dal suo impegno a favore della lotta sindacale autonoma. Leone rimase nel PSI quando dal partito uscirono i sindacalisti rivoluzionari (1907), schierandosi poi con i massimalisti e appoggiando la rivoluzione bolscevica, dalla quale però prese le distanze dopo i primi segni di cedimento. Scrisse contro l'idealismo attivistico di Sorel e contro l'intuizionismo metafisico di Bergson. Era quindi un uomo politico di una certa coerenza a confronto di ciò che usava a quel tempo. Ma Mussolini non si sbagliava: anche Leone faceva parte della schiera che auspicava una autonomia della classe operaia dalla politica dei partiti. Lottare però per quella autonomia significava, come precisò la nostra corrente, rinchiudere il proletariato nel sistema chiuso della fabbrica e delle categorie di mestiere. Significava avere come interlocutore non tutta la società con il suo stato ma un rappresentante del capitale con la sua fabbrica. Il tutto sancito dalla legge e dal controllo dello stato. La nuova corporazione, immaginata dalla piccola borghesia prima che il fascismo la facesse propria, non era una riedizione di quella medioevale, ma un qualcosa di completamente diverso e pericoloso: non era più un organismo formato da elementi della stessa classe di artigiani (tessitori, fabbri, vasai, armaioli, ecc.), quindi con gli stessi interessi da difendere, ma un organismo formato da elementi di due classi dagli interessi inconciliabili. Il nuovo corporativismo si annunciava come la più tremenda sconfitta del proletariato da quando questa classe poté definirsi tale.

È dunque vero che uno dei criteri, forse il più importante, per definire gli insiemi oggettivi in cui si dividevano le classi all'epoca della rivoluzione reazionaria è quello del riformismo accompagnato dal corporativismo dell'epoca imperialistica. C'è un filo logico che unisce Bergson a Mussolini, Bottai a Lama, Sorel a Gramsci, Leone a Buozzi, Rigola, d'Aragona. Non si scervelli il lettore sui nomi di persona: anche se non li conosce, il denominatore comune è, appunto, il "sindacalismo puro", il confronto fra operai e capitalisti rappresentati dall'insieme "lavoro come fattore della produzione", senza intermediari, vera transustanziazione di una realtà materiale (lavoro) in un effetto politico (tentata eliminazione della lotta di classe).

Rivista n. 42