La socializzazione fascista e il comunismo (2)

2. Socializzazione spinta

D'Annunzio, paradigma delle mezze classi

Il comportamento della piccola borghesia e delle non-classi non è mai autonomo, ma dipende dal rapporto che esse instaurano con le due grandi classi che si fronteggiano nella società capitalistica; e oscillano da una parte all'altra a seconda dei rapporti di forza che si stabiliscono tra borghesia e proletariato. Il comportamento di D'Annunzio e dei suoi seguaci sarà il prodotto di questa oscillazione.

Abbiamo citato Bergson, Sorel, Mussolini, e compariranno altri personaggi, ma i nomi ci servono soltanto come riferimento mnemonico, dato che, specialmente studiando la genesi del fascismo "sindacalista", sarà agevole dimostrare che personaggi e termini ricavati dai loro nomi sono prodotti e non fattori della storia. La storia umana, da quando è nata la proprietà, è sempre stata storia di lotta di classe e questa la scrivono masse di uomini, non i loro capi che vengono spinti alla ribalta da questo o quell'avvenimento cruciale. Parleremo dunque del movimento "dannunziano" come espressione di forze operanti nella società dell'epoca; forze che non si limitarono a caratterizzare detto movimento, e neppure si disponevano semplicemente sullo sfondo degli avvenimenti, ma erano attive e numerose, quasi tutte mosse da principi che avevano molto in comune e in base ai quali trovarono il modo di aggregarsi.

In tale quadro si può tratteggiare una biografia di D'Annunzio come sintesi di biografie di anonimi partecipanti agli eventi di quell'epoca. Certo, il poeta era famoso per le sue opere letterarie, era un eroe di guerra, aveva una particolare attrazione per il gesto eclatante, ma la sua vita fu come quella di tanti che furono trascinati negli stessi fatti.

Nel 1897 D'Annunzio ebbe la prima esperienza politica. Eletto nelle file della destra, si fece portavoce di una necessità che avrebbe più tardi coinvolto masse di uomini: il superamento, finalizzato, dei vecchi schieramenti e la formazione di altri nuovi, suggeriti da sconvolgimenti sociali di vasta portata come la guerra e la rivoluzione. Da buon erede del trasformismo, passò subito alla sinistra spiegando il gesto con la famosa frase "Vado verso la vita" (Mussolini avrebbe poi percorso il cammino inverso, ed entrambi si incontrarono nello stesso schieramento interventista). Nei primi cinque o sei anni del '900 fu dunque molto vicino al Partito socialista e partecipò alle proteste contro l'eccidio di Bava Beccaris a Milano. Nel 1901 fondò una loggia massonica, e massoni furono alcuni suoi compagni di lotta. Nel 1910 aderì al movimento nazionalista di Corradini. Proposto per una posizione accademica, rifiutò consigliando ai suoi interlocutori di lottare per l'eliminazione della scuola. Nel settembre del 1919 organizzò un reparto di soldati, ex combattenti e volontari civili per l'occupazione di Fiume, che le potenze vincitrici non avevano assegnato all'Italia (la "Vittoria mutilata").

Vedremo in seguito il significato di questi eventi, per il momento ci limitiamo a ricordare che all'impresa fiumana parteciparono forze miste, fra le quali termini come "destra" e "sinistra" non avevano più alcun senso. D'Annunzio fu comandante delle Forze Armate fiumane e, con Alceste de Ambris, dirigente della UIL, un sindacato patriottico d'ispirazione sindacalista rivoluzionaria, scrisse una costituzione (la Carta del Carnaro, 1920) sorprendente dal punto di vista "sociale". Nel 1920 la Reggenza del Carnaro fu l'unico stato al mondo a riconoscere la Repubblica Sovietica Russa. E nel 1922, in occasione della Conferenza di Genova sul commercio internazionale, fu D'Annunzio ad ospitare nella propria abitazione il Commissario sovietico agli Esteri Čičerin.

La vecchia società non aveva alcuna intenzione di morire e quella nuova non ce la faceva a nascere. Nell'immane scontro fra modi di produzione, rivoluzione e reazione si travestivano a seconda dei rapporti di forza o dei rapporti fra le correnti politiche giunte a livelli di confusione irrecuperabili a un qualche ordine, a meno di non ri-formare il potere esecutivo della classe dominante.

Scoppia il dopoguerra

Al termine del primo conflitto mondiale in Italia "scoppia" il dopoguerra. Nei primi giorni di settembre del 1918 si svolge a Roma il XV congresso nazionale del Partito Socialista. I convenuti constatano che il partito ha retto bene alla prova della guerra e che nel frattempo sono maturate forti simpatie per la Rivoluzione d'Ottobre. L'aria che si respira al congresso è ben descritta dal discorso di Luigi Repossi a favore della lotta a fondo per il potere:

"Più nessuna blandizie, classe contro classe, da una parte la borghesia tutta insieme contro di noi, dall'altra noi soli contro tutto il mondo, questo il compito dei socialisti."

All'interno del partito è in corso uno scontro tra la parte super riformista (i "destri") e l'estrema sinistra (mozione Salvatori) che raccoglie la maggioranza congressuale sia sull'onda dei disastri umani e materiali dovuti alla guerra, sia sull'eco potente dei fatti di Russia.

Nello stesso anno il VII congresso nazionale della FIOM (ramo metalmeccanici della CGL) approva come ordine del giorno la giornata lavorativa di otto ore, il minimo salariale garantito, il pagamento delle ferie, la parità per il lavoro femminile e la regolamentazione della vita di fabbrica, mentre la Confederazione Generale del Lavoro lancia la proposta della convocazione di una Costituente, raccogliendo l'adesione dei repubblicani e dei riformisti.

La direzione socialista respinge invece la proposta della CGL sulla Costituente poiché la ritiene una rivendicazione borghese, per di più portata avanti da coloro che avevano voluto la guerra. Anche la frazione astensionista la attacca a fondo considerandola un diversivo per distogliere l'attenzione dalla questione del potere. La Costituente era concepita come un'assemblea nazionale eletta con largo suffragio, un organismo senza funzione legislativa, chiamato semplicemente a rinnovare la costituzione esistente entro i rapporti borghesi. Una mistificazione in più per dar fiato alla leggenda della sovranità popolare, argomento da sempre usato per illudere la classe operaia. Una mistificazione che oggettivamente tendeva a far passare fra i proletari la falsa esigenza di unità fra schieramenti politici differenti, in un'ottica interclassista. È chiaro che il Partito socialista tende con la sua opposizione a far saltare l'ipotesi di una partecipazione dei socialisti al governo, situazione che avrebbe legato le mani al partito, proprio come speravano i sostenitori (ad esempio, Nitti) di un coinvolgimento che allontanasse il pericolo di sommosse.

Nel gennaio del 1919 nasce il Partito popolare di Don Sturzo, e nelle elezioni del novembre dello stesso anno i voti che raccoglie, sommati a quelli del Partito Socialista, raggiungono la maggioranza. Ma i presupposti politici per un governo formato dai due partiti mancano del tutto. Tutti gli equilibri politici che si erano determinati in tempo di guerra sono saltati e il nuovo panorama politico è caratterizzato da una situazione di difficile governabilità per la borghesia italiana.

Instabilità politica, cresce la lotta

Il succedersi di governi che sono "frutto di alchimie parlamentari" (De Felice, Mussolini il rivoluzionario) non assicura certo la stabilità di cui avrebbe bisogno l'economia del dopoguerra e soprattutto è un fattore di sfiducia nel sistema parlamentare. Con la fine della guerra cade la ragion d'essere della coalizione tra le forze politiche che avevano dato vita nel 1917 al Fascio parlamentare di difesa nazionale (oltre 150 deputati e 90 senatori), e che si era basata sull'intento comune di salvaguardare le condizioni per il proseguimento della guerra stessa fino alla vittoria. Difficile, nella confusione politica crescente, mantenere unite forze in realtà incompatibili. Ma molti (tra i quali Antonio Salandra, ex presidente del Consiglio), auspicano la sopravvivenza del Fascio parlamentare, aggregazione nata per rispondere alle medesime esigenze che avevano dato vita al Fascio d'azione rivoluzionaria interventista, e il cui manifesto politico era stato steso verso la fine del 1914 da interventisti di sinistra allo scopo di spingere i proletari a combattere per difendere la nazione.

L'interventismo aveva presentato una gamma di posizioni che andavano dal liberismo conservatore dei nazionalisti ai progetti più radicali dei sindacalisti rivoluzionari e dei repubblicani. Alla fine del 1917, in seguito alla pubblicazione del Patto di Londra da parte dei bolscevichi giunti al potere, firmato il 26 aprile 1915 dall'Italia e dai rappresentanti della Triplice Intesa e rimasto sino ad allora segreto, scoppiano forti contrasti politici in seno alla borghesia italiana. Secondo il Patto, l'Italia, scendendo in guerra contro gli Imperi Centrali, avrebbe dovuto ottenere una parte della Dalmazia, il Trentino, il Tirolo meridionale, la Venezia Giulia e altro ancora. Ma la politica del presidente Wilson non contemplava una soluzione del genere: gli Stati Uniti erano entrati in guerra in un secondo tempo, e non avevano firmato alcun accordo.

All'interno del fronte nazionalista italiano emerge ora tutta una serie di posizioni legate all'accettazione o meno dei contenuti espressi nel Trattato. I più oltranzisti sostengono che non si può cedere in nulla rispetto alle promesse fatte ed è assolutamente necessario ottenere l'aggiunta di Fiume, che nel 1915 l'Intesa aveva invece aggiudicato alla Jugoslavia.

Fiume

A questo punto è utile una breve storia della città di Fiume per capire la posizione dei nazionalisti filo-italiani i quali sostenevano che la città dovesse necessariamente diventare italiana in ragione del voto espresso in tal senso dal Consiglio nazionale italiano di Fiume del 29-30 ottobre 1918. Tale organismo, il cui presidente era l’istriano Antonio Grossich, aveva appunto l’obiettivo di includere Fiume nel regno d’Italia.

Durante i secoli XVIII e XIX Fiume, pur trovandosi all'interno del territorio croato, era stata sotto sovranità magiara, passando attraverso vicende alterne, finché nel 1867 fu unita al regno ungherese come Corpus separatum, conservando dunque un certo grado di indipendenza. Aveva una propria amministrazione e un proprio governatore, e poté così mantenere i propri statuti e i propri privilegi, come quello di utilizzare ufficialmente la lingua italiana.

Gli ungheresi, esercitando il loro dominio a distanza, pur di contrastare le mire di annessione da parte della Croazia, avevano spinto la città a sviluppare rapporti commerciali con l'Italia, agevolando in tal modo la formazione di una borghesia italiana e, indirettamente, la nascita, nel 1905, di un movimento irredentistico, "La Giovine Fiume", che chiedeva l'annessione di Fiume all'Italia e che il governo ungherese scioglierà nel 1911. Con il crollo dell'impero austro-ungarico la situazione cambia completamente e Fiume, alla fine della Prima Guerra Mondiale, viene occupata da truppe multinazionali (inglesi, francesi, italiane, americane). In questa situazione, che si rivela subito carica di tensioni, si inserisce l'azione spettacolare di Gabriele D'Annunzio.

Scontro tra riformisti

Torniamo ai fatti italiani del dopoguerra. Un tenace difensore del Patto di Londra era il Ministro degli Affari Esteri Sidney Sonnino il quale non aveva mai nascosto la sua avversione alla politica delle nazionalità di Wilson. In nome del principio di nazionalità, formula alquanto vaga, c'era chi chiedeva l'annessione di Fiume all'Italia e chi vi si opponeva.

Il problema assume un peso internazionale e il clima si fa sempre più rovente. Pensiamo alle forze interventiste democratiche e al suo esponente, Leonida Bissolati, secondo il quale bisogna ormai mettere da parte gli interessi italiani in Dalmazia perché l'unico modo per contrastare il pericolo bolscevico è la politica delle nazionalità di Wilson, con cui si incontra il 4 gennaio del 1919. Il Presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, e Sonnino vedono invece nel nazionalismo l'unica difesa contro il comunismo. Due posizioni in antitesi che costringono Bissolati a dare le dimissioni dal governo e a pronunciare il discorso "rinunciatario" della Scala (11 gennaio 1919), in cui propone di rinunciare alla Dalmazia, al Tirolo ed al Dodecaneso. Arditi, futuristi e fascisti, che hanno organizzato una dimostrazione patriottica pro-Dalmazia davanti al teatro, lo attaccano duramente.

Orlando e Sonnino incoraggiati dall'intransigenza del re Vittorio Emanuele III abbandonano la Conferenza di Pace, in corso a Parigi, organizzata dai paesi vincitori dalla Prima Guerra Mondiale (18 gennaio 1919) al fine di delineare nuovi equilibri geopolitici in Europa e stilare i trattati di pace con i paesi sconfitti. Manifestando in maniera chiara la loro contrarietà alla politica di Wilson, essi riassumevano la loro posizione nella formula "Trattato di Londra + Fiume". Dovranno però tornare al tavolo delle trattative, che erano comunque continuate anche in loro assenza. Il ritorno dell'Italia alla Conferenza è visto dai nazionalisti italiani come una capitolazione e contribuisce a rafforzare la componente più intransigente. Da notare che nei primi mesi del 1919 la situazione economica è pessima e vi sono scioperi contro il caro vita in tutta la penisola. Da una parte le critiche dei nazionalisti, dall'altra gli scioperi operai portano alla crisi del governo Orlando e alla costituzione di quello Nitti nel giugno del 1919.

Riorganizzazione delle forze interventiste

Il nuovo governo non riesce a produrre nessun effettivo miglioramento economico, e sul piano politico peggiora la situazione vista l'ostilità della destra per il nuovo presidente del Consiglio. In alcuni ambienti della destra nazionale si comincia a discutere della necessità di un colpo di stato o di un'azione armata per difendere l'italianità di Fiume.

Come abbiamo anticipato, con la fine della guerra le forze interventiste si trovano spiazzate e cercano di sopravvivere riorganizzandosi. La classe dirigente italiana è completamente screditata e servono nuovi programmi, nuove parole d'ordine e nuovi leader per rivitalizzare il capitalismo. Mussolini ha molti punti in comune con il riformismo socialista e con le teorie produttivistiche: egli sostiene che il proletariato deve puntare all'incremento incessante della produzione, unica fonte di benessere e sviluppo sociale dei produttori. Gli articoli che vengono pubblicati su Il Popolo d'Italia tra la fine del '18 e i primi mesi del '19 esaltano da una parte la vittoria militare italiana e dall'altra puntano a darle un contenuto sociale. In un articolo di questo periodo, intitolato "Andate incontro al lavoro che tornerà dalle trincee" (Il Popolo d'Italia, 9 novembre 1918), Mussolini lancia l'idea del "sindacalismo nazionale" e dell'unità d'azione di ex combattenti e lavoratori.

I suoi interlocutori privilegiati sono ora i trinceristi, gli ex combattenti e i gruppi di reduci di ritorno dal fronte. Ricordiamo che se a guerra iniziata le forze armate avevano 142 generali, alla fine se ne contano 1.246, un numero enorme se si pensa all'intera scala gerarchica degli ufficiali. C'era inoltre chi aveva guadagnato denaro e garanzie durante la guerra e non intendeva rinunciarvi. L'esercito non era da meno: Gli ufficiali ovviamente si opponevano alla decisione del governo di riportare il loro numero ai livelli prebellici.

Una parte di queste forze si organizza, nel marzo del 1919, nell'Associazione Nazionale Combattenti, esprimendo tutta una serie di rivendicazioni che ricalcano quelle del riformismo socialista: convocazione della Costituente, abolizione del Senato, distribuzione della terra non coltivata agli ex combattenti secondo la promessa fatta dal governo in tempo di guerra.

Il tentativo di Mussolini di estendere la sua influenza sull'Associazione non ottiene i risultati sperati vista la moderazione politica che la caratterizza, ma l'operazione riuscirà con l'aggancio ai futuristi e agli arditi.

Fascisti, futuristi e arditi

La nascita del futurismo, come movimento artistico e culturale, va collocata all'inizio del '900, al confine fra la decadente Belle époque e la nuova era delle macchine e del capitale finanziario. In Italia il 5 febbraio del 1909 viene pubblicato il Manifesto futurista, scritto da Filippo Tommaso Marinetti, che ben interpreta questa fase di passaggio:

"Noi vogliamo cantare l'amore del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità. Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità."

Gran parte dei futuristi proveniva da esperienze anarchiche e non era influenzata dalle sbruffonate di Marinetti, ma dopo la guerra il loro movimento si avvicinò al fascismo. La sua natura sintetizza perfettamente il dualismo di un'epoca di transizione in cui si decide la vittoria o la sconfitta del movimento rivoluzionario. In quanto corrente artistica, quindi riflesso semplificato delle condizioni materiali in cui versano le classi, esso si adegua ai rapporti di forza reali: perciò al suo interno si formano correnti analoghe a quelle che si sono formate nella società, tutte "rivoluzionarie" anche se con modalità e posizioni diverse. La modalità fascista prevarrà sotto l'insegna del tronfio linguaggio di Marinetti, quello socialista rimarrà in sordina per poi estinguersi. La prova di questo camaleontismo artistico si ha in Russia, dove il futurismo si schiera decisamente con la rivoluzione, almeno finché questa risulta vincente.

In Italia i futuristi, soprattutto quelli che poi si allinearono con il fascismo, si trovano a loro agio nel mondo aggressivo dell'interventismo, glorificano la guerra ("sola igiene del mondo"), il militarismo, il patriottismo, il gesto di rottura dei libertari e le idee per cui vale la pena morire. Nel 1914 sono i primi a scendere in piazza contro l'Austria e nel 1915 partecipano alle "radiose giornate di maggio", un susseguirsi di manifestazioni interventiste svoltesi in molte città italiane. Anche D'Annunzio partecipa a questa ubriacatura patriottica e il 5 maggio, presso lo Scoglio di Quarto a Genova, con un discorso bellicoso invita l'Italia a scendere in guerra al fianco della Triplice Intesa al grido di "Viva Trento e Trieste! Viva la guerra!"

Il movimento futurista, che fino ad allora aveva avuto un carattere perlopiù artistico-letterario, dopo la guerra si dà una struttura e degli obiettivi politici. Il 20 settembre del 1918, nella capitale, vede la luce Roma Futurista, "Giornale del partito politico futurista", diretto da Mario Carli, Tommaso Marinetti ed Emilio Settimelli. Il partito, che avrà vita breve (1918-1920), svilupperà un'azione di propaganda soprattutto presso gli arditi.

Gli arditi, una specialità dell'arma di fanteria del Regio Esercito, erano gruppi d'assalto costituitisi durante la Prima Guerra Mondiale, nella primavera del 1917, per iniziativa del generale Luigi Capello, con il compito di compiere incursioni nelle linee nemiche e aprire la strada alla fanteria. L'esercito li presentava come combattenti che andavano incontro al pericolo cantando, spavaldi, alla ricerca della "bella morte". Questi reparti speciali acquistarono fama soprattutto in occasione delle battaglie del Piave e di Vittorio Veneto. Al fronte avevano dei pessimi rapporti con i carabinieri a causa della loro indisciplina, e a guerra finita il corpo degli arditi venne sciolto.

Parecchi di loro, soprattutto quelli che prima del conflitto bellico erano stati vicini al futurismo, nel dopoguerra riprendono i contatti. Le adesioni al Partito politico futurista non sono comunque numerose: dal dicembre del '18 cominciano a costituirsi i primi fasci futuristi e nel febbraio del '19 sono una ventina. Mario Carli, il 20 settembre 1918 pubblica su Roma Futurista un "Primo appello alle Fiamme", in cui chiama a raccolta gli arditi:

"A me Fiamme Nere! Con questo grido di guerra che non fu mai lanciato invano… chiamo a raccolta spirituale attorno a questo foglio tutti gli "Arditi" d'Italia… Li chiamo a raccolta agitando un tricolore nella mia mano di scrittore tuttora spezzata e li informo di questa nuova battaglia. C'è da fare moltissimo quaggiù. C'è da sventrare, spazzare, ripulire in ogni senso... Ormai noi abbiamo una missione. L'Italia ha creato gli arditi perché la salvino da tutti i suoi nemici. Bisogna sperare tutto e chiedere tutto agli arditi."

Il nemico, quindi, è anche interno: è composto dai profittatori di guerra, dai neutralisti e dalla borghesia parassitaria e arricchita. Nel gennaio del '19 Carli fonderà l'Associazione fra gli arditi d'Italia e nel maggio dello stesso anno questa comincerà a pubblicare il giornale L'Ardito, che Carli stesso dirige insieme a Ferruccio Vecchi. Il giornale farà campagna per l'annessione di Fiume all'Italia sotto la bandiera della "Vittoria mutilata".

Tra il 1918 e il 1919 futuristi, arditi, ex combattenti e fascisti si incrociano in almeno quattro occasioni: nel dicembre del '18 molti futuristi aderiscono al progetto di Mussolini per una costituente dell'interventismo; nel gennaio del '19 Mussolini e Marinetti partecipano alla manifestazione della Scala contro Bissolati; nel marzo i futuristi partecipano a Milano alla fondazione dei Fasci di combattimento; e ad aprile con arditi e fascisti assaltano la sede dell'Avanti a Milano.

L'azione contro la sede dell'Avanti è da inserirsi nel clima surriscaldato del Biennio Rosso, è il risultato di quel dinamismo che diventa esaltazione ideologica cui si dà lustro filosofico tirando in ballo il bergsoniano "slancio vitale" contro ogni passatismo. "Marciare non marcire", questo il motto di Marinetti, dei futuristi e degli arditi. Mussolini cerca di dare ordine e inquadrare questo ribollente magma sociale in funzione anti-socialista. Intervistato pochi giorni dopo i fatti di Milano dal Giornale d'Italia, dichiara:

"Tutto quello che avvenne all'Avanti! fu spontaneo, movimento di folla, movimento di combattenti e di popolo stufi del ricatto leninista. Si era fatta un'atmosfera irrespirabile. Milano vuol lavorare. Vuole vivere. La ripresa formidabile dell'attività economica era aduggiata da questo stato d'animo di aspettazione e di paura specialmente visibile in quella parte di borghesia che passa i pomeriggi ai caffè invece che alle officine. Tutto ciò doveva finire. Doveva scoppiare. È stato uno scoppio climaterico, temporalesco. A furia di soffiare l'uragano si è scatenato. Il primo episodio della guerra civile ci è stato. Doveva esserci in questa città dalle fiere impetuosissime passioni. Noi dei fasci non abbiamo preparato l'attacco al giornale socialista, ma accettiamo tutta la responsabilità morale dell'episodio."

Sansepolcrismo

Il 23 marzo 1919 si tiene a Milano, in piazza San Sepolcro, nei locali dell'Associazione commercianti ed esercenti, una riunione programmatica, annunciata da Il Popolo d'Italia, alla quale partecipano varie componenti. Quella più numerosa è rappresentata dalla vecchia guardia interventista: sindacalisti rivoluzionari (con De Ambris, il loro principale esponente) e fascisti. Le altre forze sono ex combattenti, arditi e futuristi. Il programma è sintetico e inequivocabile. Lo riproduciamo integralmente perché riassume bene il clima sincretistico di quegli anni e si ricollegherà alla Carta del Carnaro dell'anno successivo:

Per il problema politico noi vogliamo:

  • a) Suffragio universale a scrutinio di lista regionale, con rappresentanza proporzionale, voto ed eleggibilità per le donne.
  • b) Il minimo di età per gli elettori abbassato ai 18 anni; quello per i deputati abbassato ai 25 anni.
  • c) L’abolizione del Senato.
  • d) La convocazione di una Assemblea Nazionale per la durata di tre anni, il cui primo compito sia quello di stabilire la forma di costituzione dello Stato.
  • e) La formazione di Consigli Nazionali tecnici del lavoro, dell’industria, dei trasporti, dell’igiene sociale, delle comunicazioni, ecc. eletti dalle collettività professionali o di mestiere, con poteri legislativi, e diritto di eleggere un Commissario Generale con poteri di Ministro.

Per il problema sociale noi vogliamo:

  • a) La sollecita promulgazione di una legge dello Stato che sancisca per tutti i lavori la giornata legale di otto ore di lavoro.
  • b) I minimi di paga.
  • c) La partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico dell’industria.
  • d) L’affidamento alle stesse organizzazioni proletarie (che ne siano degne moralmente e tecnicamente) della gestione di industrie o servizi pubblici.
  • e) La rapida e completa sistemazione dei ferrovieri e di tutte le industrie dei trasporti.
  • f) Una necessaria modificazione del progetto di legge di assicurazione sulla invalidità e sulla vecchiaia abbassando il limite di età, proposto attualmente a 65 anni, a 55 anni.

Per il problema militare noi vogliamo:

  • a) L’istituzione di una milizia nazionale con brevi servizi di istruzione e compito esclusivamente difensivo.
  • b) La nazionalizzazione di tutte le fabbriche di armi e di esplosivi.
  • c) Una politica estera nazionale intesa a valorizzare, nelle competizioni pacifiche della civiltà, la Nazione italiana nel mondo.

Per il problema finanziario noi vogliamo:

  • a) Una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo, che abbia la forma di vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze.
  • b) Il sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose e l’abolizione di tutte le mense Vescovili che costituiscono una enorme passività per la Nazione e un privilegio di pochi.
  • c) La revisione di tutti i contratti di forniture di guerra ed il sequestro dell’85% dei profitti di guerra.

Sono differenti ma convergenti le storie politiche che portano allo sviluppo del programma di San Sepolcro.

Tra la metà di aprile e la fine di maggio del 1919, De Ambris scrive su Il Rinnovamento (31 maggio 1919) un significativo articolo intitolato "I limiti dell'espropriazione necessaria", in cui sostiene che

da un lato si tratta di fare in modo che espropriando una parte del capitale, la produzione non diminuisca, ma invece aumenti. Dall’altro lato si tratta di fare in modo che l’aumento della produzione si converta in maggior vantaggio per i produttori."

L'articolo è molto apprezzato da Mussolini (d’altronde alla stesura del "Manifesto dei Fasci Italiani di Combattimento" aveva collaborato lo stesso De Ambris), che lo pubblica sotto forma di opuscolo. Quello dell'espropriazione, da sempre un obiettivo di socialisti e comunisti, ora viene usato anche dai nazional-socialisti. Nell'articolo "Necessarie dissoluzioni" (n+1, n° 36), abbiamo osservato:

I punti dello stringato programma fascista avrebbero potuto benissimo essere stilati da un Radek nel corso di una delle numerose riunioni frontiste con esponenti socialdemocratici o comunque del nemico opportunista. Anzi, in quanto a 'espropriazione degli espropriatori' superava tutti i programmi frontisti, mentre nelle dichiarazioni di Mussolini comparivano netti i caratteri riformisti della futura 'nazione proletaria', laboriosa e sindacalizzata."

Mussolini, come abbiamo visto, prende posizione anche sull'agitazione alla Franchi Gregorini di Dalmine (marzo 1919), in cui è stato organizzato un grande sciopero. Nello stabilimento è presente la UIL, e l'occupazione della fabbrica è un primo esperimento di controllo operaio della produzione. Fin dai primi giorni dell'occupazione, sul tetto viene issata una bandiera tricolore. Mussolini intuisce immediatamente quanto sia importante inserirsi in questa lotta, si reca a Dalmine e lì, all'interno di un discorso in parte già citato, pronuncia la celebre frase demagogica: "la crisi la paghino i ricchi" (vedete com'è moderno e "di sinistra" il capo del fascismo), e anticipa temi che saranno sviluppati dall'Ordine Nuovo di Gramsci, come ad esempio, appunto, il controllo operaio della produzione. L'ex direttore dell'Avanti dichiara di beffarsi di etichette e definizioni ideologiche; i fascisti non sono né socialisti né antisocialisti, e a seconda delle necessità decidono di marciare sul terreno "della collaborazione di classe, della lotta di classe, e della espropriazione di classe" . Essi sono, come annuncia, dei "problemisti" e il loro è un antipartito che non ha principi fissi, che ha per norma solo l'azione del momento. Aggiungiamo all'insieme controrivoluzionario il socialdemocratico Bernstein. Quando diceva che "il fine è nulla, il movimento è tutto" ci dimostrava che Mussolini era allievo di troppi maestri; o erano i troppi maestri, compreso Mussolini, ad essere allievi di un unico, mostruoso insieme di forze reazionarie?

Vittoria mutilata

Nel luglio del 1919 in diversi paesi europei migliaia di proletari e di socialisti scendono in piazza contro i dettati imposti dal trattato di pace firmato a Versailles dalle potenze vincitrici, contro il sostegno degli eserciti "bianchi" offerto dall'Intesa, e per la difesa delle rivoluzioni in Russia e Ungheria. Ma lo "scioperissimo" del 20 e 21 luglio non determina alcun movimento rivoluzionario e, anzi, rinvigorisce il fronte anti-proletario.

Le trattative di pace ancora in corso a Parigi non soddisfano gli ambienti nazionalisti italiani. Si tengono vari comizi in cui si rivendica con forza l'annessione di Fiume all'Italia. Si rafforza il movimento per Fiume italiana e comincia a prendere forma l'organizzazione di un colpo di mano militare, con tanto di trattative ad alto livello. Molto probabilmente i vertici del governo sapevano che qualcosa stava bollendo in pentola…

"Noi azzarderemo l'ipotesi che non è il fatto in sé ma certi dettagli della sua esecuzione avessero sorpreso il Nitti: egli doveva sapere, ma fu forse giocato su certe modalità concordate." ("Fiume e il proletariato", Rassegna Comunista del 15 settembre 1921)

E qui entra in scena D'Annunzio. Il "poeta-soldato" si arruola nell'esercito già ultra-cinquantenne e subito si distingue con una serie di azioni spericolate, come la famosa beffa di Buccari, un'incursione militare effettuata, nel febbraio del '18, contro le navi austro-ungariche nella baia di Buccari, in Croazia, e il volo su Vienna, una trasvolata in cui vengono lanciati nel cielo della capitale austriaca migliaia di manifestini tricolori. D'Annunzio è carismatico, conosciuto nell'ambiente culturale e mondano italiano, ed apprezzato anche negli ambienti militari; è un vero personaggio di rappresentanza, un piazzista dell'ideologia di mezzo, una réclame che attira l'attenzione. Naturalmente la nostra dottrina ha demolito da tempo la credenza secondo la quale la storia è fatta dai grandi uomini, alla Carlyle, eroi o condottieri in grado di plasmare gli eventi. Come abbiamo scritto in un nostro testo,

"Il culto parossistico dell'Io raggiunge l'apice a cavallo tra i due secoli, quando la grande borghesia, affaccendata nell'accumulazione strepitosa, lascia alle mezze classi il compito di esprimere le forme filosofiche, politiche, sociologiche e letterarie specifiche di questa vera e propria infezione. E l'individualismo poco a poco da eroico si fa negativo. Il poetico superuomo di un D'Annunzio precede la paura di una civiltà dell'uomo-massa negatrice della libertà individuale profetizzata daOrtega y Gasset" (Lettera ai compagni Militanti delle rivoluzioni, 1996).

Alla fine della guerra a D'Annunzio viene concesso un titolo nobiliare. Oltre che Vate, poeta di un'epoca, medaglia d'oro al valore militare, ora è principe di Montenevoso. Con la sua condotta in guerra si è assicurato il privilegio di essere ascoltato ma, scherzi della storia, la sua influenza finirà per creare non pochi problemi ai governi italiani. Problemi passeggeri comunque, dato che il fascismo sarà in grado di fagocitare e utilizzare per i propri fini anche l'ingombrante personaggio.

Rivista n. 42