La socializzazione fascista e il comunismo (3)

3. Zona temporaneamente autonoma?

La spedizione legionaria

L'organizzazione pratica dell'impresa di Fiume prende il via nell'estate del 1919 quando nasce un Comitato per le Rivendicazioni nazionali di cui fanno parte varie associazioni irredentiste tra le quali la Dante Alighieri, l'Associazione Trento-Trieste, l’Associazione combattenti e l’Associazione Mutilati di guerra, in contatto con i fascisti, i futuristi e gli arditi.

Si forma una rete che raccoglie in breve tempo tutti gli elementi ultra-nazionalisti italiani, con collegamenti anche in settori dell'imprenditoria e nell'esercito, pronta alla "difesa" dell'Adriatico. E che interessa anche ambienti governativi, con cui tiene i contatti un industriale italiano sostenitore della causa dell'italianità di Fiume (e finanziatore dell’impresa), Oscar Sinigaglia. Altro attore sulla scena fiumana è Giovanni Giuriati, avvocato veneziano volontario nella prima guerra mondiale e presidente dell'Associazione Trento-Trieste, che in seguito diventerà il capo di gabinetto di D'Annunzio.

Già da giugno si vociferava della preparazione di un'azione su Fiume con l'obiettivo di difenderne l'italianità contro le prevedibili decisioni della Conferenza di Pace. Si prendono contatti con Badoglio, con il comando dell'esercito italiano, ma il tentativo di coinvolgimento non va a buon fine e allarma le autorità: il 31 luglio Badoglio ordina di aumentare la sorveglianza sui confini italiani.

Un fatto fa precipitare la situazione. Come abbiamo visto, a Fiume dopo la guerra si stabilisce una presenza militare multinazionale. Ci sono truppe francesi, inglesi, americane e italiane che si spartiscono il controllo della città. Nel mese di luglio si verificano scontri tra truppe italiane (i granatieri di Sardegna) e soldati francesi. Gli scontri lasciano sul terreno una decina di morti e si genera una situazione complicata, tanto che viene nominata una commissione d'inchiesta, e in agosto viene deciso lo spostamento dei granatieri da Fiume a Ronchi, una cittadina in territorio italiano, vicina a Monfalcone. Il malcontento per la partenza da Fiume, spinge sette ufficiali di stanza a Ronchi a contattare Peppino Garibaldi, Corradini, Federzoni e Mussolini, ma solo D'Annunzio accetta di dirigere un'impresa che miri ad ottenere l'annessione di Fiume all'Italia. In un articolo della nostra corrente si trova la descrizione in dettaglio dell'occupazione:

"Nella notte del 12 settembre 1919 Gabriele D'Annunzio, partito da Venezia nel pomeriggio, muoveva dal cimitero di Ronchi presso Trieste, con forse 1000 uomini marcianti su autocarri, alla volta di Fiume. Fiume era occupata per conto degli alleati da forze italiane. Forze italiane vigilavano attorno alla città, la linea di armistizio. Tutta la Venezia Giulia e contorno di Trieste erano tuttora tenuti da forze imponenti dell'esercito italiano, i "legionari" […] passarono senza difficoltà, e insieme al battaglione fiumano che loro era venuto incontro sulla linea di armistizio, entrarono in Fiume, prendendone possesso." ("Fiume e il proletariato", Rassegna Comunista del 15 settembre 1921).

All'impresa prendono parte granatieri e bersaglieri ribelli, oltre a gruppi di arditi accorsi prontamente e personaggi di varia provenienza politica. Il loro arrivo determina una situazione estremamente tesa perché si configura come un atto di diserzione e di ammutinamento, sia da parte dei granatieri che erano di stanza a Ronchi sia da parte dell'esercito di frontiera che doveva impedire il passaggio dei ribelli.

C'è chi in Fiume dannunziana vede l'avamposto del nazionalismo, chi vede la capitale futurista d'Italia, qualcuno parla addirittura di repubblica dei Soviet. Alcuni anarchici parlano di Fiume come di una comune, la nostra corrente nell'articolo appena citato scrive:

"Abbiamo avuto recente occasione di visitare la città, e non intendiamo scrivere con intenti critici, ma solo per illuminare i lettori con i dati che abbiamo raccolti. Gli elementi fiumani a noi più vicini, i lavoratori e i compagni comunisti o simpatizzanti, si esprimono nel senso che il regime d'Annunziano era intollerabile e che le prepotenze e le vessazioni contro i lavoratori erano continue, ma attribuiscono questi fatti più all'ambiente che s'era formato intorno al 'comandante' che a lui stesso, di cui da pochi si sente parlare con avversione."

A Fiume non c'era ovviamente nessuna comune, nessun soviet e nessuna repubblica socialista. Ma è interessante il fatto che molti protagonisti lo pensassero, indotti dalla sovrapposizione e ibridazione di programmi e aspettative.

L'occupazione di Fiume

Nel settembre del '19 la maggior parte dei legionari, tra loro soprattutto i graduati dell'esercito, pensano a un'azione simbolica che provochi effetti immediati a livello governativo con una sua conclusione in un tempo breve. Ma questo non succede perché "il fuoco acceso a Fiume" non provoca alcun incendio: il governo Nitti non cade, la popolazione italiana della Dalmazia non insorge e non ci sono nemmeno grossi movimenti di piazza in Italia.

Si pone quindi ai legionari il problema di come gestire la loro presenza a Fiume, come impostare l'attività di ordinaria amministrazione e come stabilire rapporti con il governo italiano e le altre forze presenti in città.

Facilita il lavoro dei legionari la partenza dei contingenti americano, francese e inglese, che lasciano la città per evitare conflitti, ma con la garanzia da parte del governo italiano che la situazione si risolverà a breve. Fiume resta nelle mani dei dannunziani e dei carabinieri. D'Annunzio lascia l'amministrazione della città al consiglio nazionale, che si è formato dopo la guerra, e si occupa dei rapporti con l'estero.

Già da ottobre, a un mese dall'occupazione di Fiume, cominciano a verificarsi dei mutamenti politici che provocano malumori negli ambienti borghesi e militari presenti in città. Il discorso Italia e vita di D'Annunzio del 24 ottobre del 1919 ci dà l'idea del nuovo clima che vi si respira:

"Tutti gli insorti di tutte le stirpi si raccoglieranno sotto il nostro segno. E gli inermi saranno armati. E la forza sarà opposta alla forza. E la nuova crociata di tutte le nazioni povere e impoverite, la nuova crociata di tutti gli uomini poveri e liberi, contro le nazioni usurpatrici e accumulatrici d'ogni ricchezza, contro le razze da preda e contro la casta degli usurai che sfruttarono ieri la guerra per sfruttare oggi la pace, [...]. Ogni insurrezione è uno sforzo d'espressione, uno sforzo di creazione. Non importa che sia interrotta nel sangue, purché i superstiti trasmettano all'avvenire [...]. Per tutti i combattenti, portatori di croce che hanno salito il loro calvario di quattr'anni, è tempo di precipitarsi sopra l'avvenire."

L'appello ai popoli poveri contro le nazioni usurpatrici è tutto volto contro il trattato di Versailles e la politica delle nazionalità di Wilson. Ad ingarbugliare ulteriormente la situazione ci pensa Giuseppe Giulietti, il presidente della Federazione Italiana dei Lavoratori del Mare (FILM), un sindacalista interventista che ha contatti con gli anarchici e con i sindacalisti rivoluzionari. Giulietti il 10 ottobre organizza con la FILM la cattura della nave italiana Persia che trasporta 1.300 tonnellate di armi destinate alle armate bianche che in Russia stanno combattendo i bolscevichi.

Quello del Persia è un fatto che desta scalpore in Italia sia per il quantitativo di armi sequestrate sia perché queste sono dirottate a Fiume. L'impresa di Fiume, che all'inizio si è connotata chiaramente come nazionalista, con l'entrata in scena di Giulietti e del sindacato della "gente di mare", va assumendo coloriture politiche differenti. Un altro fatto rilevante si verifica il mese successivo: la spedizione di D'Annunzio a Zara mentre si stanno organizzando in Italia le elezioni. Zara è controllata dall'ammiraglio Millo, a capo di un contingente militare italiano. D'Annunzio arriva in città, accolto benevolmente dall'ammiraglio, e tiene un appassionato discorso in cui dichiara legittimo il ventilato passaggio di Zara all'Italia, destando la preoccupazione del governo italiano il quale teme che la ribellione si estenda a tutta la Dalmazia.

Alla ricerca di alleanze

Fin dal settembre del '19 D'Annunzio stabilisce dei contatti con il governo italiano, si avviano delle trattative e viene discusso un progetto che prevede il controllo italiano della città, lasciando però il porto e la ferrovia sotto quello della Società delle Nazioni. Si tratta di trovare un modus vivendi per la città di Fiume che accontenti tutti. Ma la parte più intransigente dei legionari non ammette mezze misure, e reclama l'annessione immediata; mentre all'interno si forma una fronda che ritiene necessario arrivare ad un compromesso con il governo italiano. Le trattative si interrompono. Viene indetto un referendum che coinvolge tutta la cittadinanza di Fiume e nella confusione risulta che la maggioranza è favorevole al compromesso. D'Annunzio decide allora di invalidare il referendum e di rompere definitivamente le trattative per il modus vivendi.

Da questo momento si verifica una rottura all'interno del Comando, e Giuriati, il capo di gabinetto di D'Annunzio, si dimette. Si apre quella che possiamo definire la seconda fase dell'impresa, forse la più interessante perché il posto lasciato libero da Giuriati viene occupato da Alceste De Ambris, che arriva a Fiume nel gennaio del '20.

L'impresa dannunziana, partita con intenti nazionalisti e irredentisti, si trasforma ora in qualcos'altro. Il duo Sinigaglia-Giuriati, che aveva puntato tutto sulla caduta di Nitti come premessa per l'annessione di Fiume, è ormai fuori gioco. Fin dai primi giorni del suo arrivo a Fiume, De Ambris comincia a elaborare quella che verrà chiamata la Carta del Carnaro, annunciata a luglio e resa pubblica nel settembre del 1920. Oltre ai rapporti con i sindacalisti rivoluzionari, D'Annunzio e i suoi mantengono contatti sia con i fascisti che con la "gente di mare" di Giulietti. Quest'ultimo, nei primi giorni di gennaio, anche in seguito all'arrivo di De Ambris, fa giungere a D'Annunzio un messaggio nel quale lo esorta a organizzare una marcia su Roma che coinvolga la FILM, i socialisti e gli anarchici al fine di instaurare un nuovo ordine sociale e risolvere così anche la questione fiumana.

La risposta di D'Annunzio è rivelatrice dello spostamento "a sinistra" del Comando:

"Il significato della mia impresa e della mia ostinatissima resistenza diventa ogni giorno più manifesto. Tutte le volontà di rivolta — nel vasto mondo — si orientano verso l'incendio di Fiume, che manda le sue faville molto lontano. Anche i Croati, desiderosi di scuotere il giogo serbo, si volgono a me. La rivoluzione dei 'separatisti' è pronta. Deve scoppiare prima del 15 marzo. Ho le armi, anche; ho le cartucce del Persia, a milioni." (cit. da Michael A. Ledeen, D'Annunzio a Fiume, passim).

Ecco la testimonianza dell'anarchico Malatesta:

"Si trattò, al principio del 1920, di un progetto insurrezionale, una specie di marcia su Roma se la si vuol chiamare così. Il primo ideatore della cosa [Giulietti], il quale avrebbe potuto avere da Fiume soccorso di uomini e specialmente di armi, metteva come condizione sine qua non il concorso o almeno l'approvazione dei socialisti, e ciò sia per una maggiore riuscita sia perché temeva che lo potessero qualificare di agente dannunziano. Vi furono in proposito un paio di riunioni a Roma; i socialisti non ne vollero sapere, e così non se ne fece nulla." (E. Malatesta, Lettera a Luigi Fabbri 1930, "Pagine di lotta quotidiana", Umanità Nova, 1920-1922)

I progetti insurrezionali infine non si concretizzano. L'idea di coinvolgere il Partito Socialista, evidentemente, non sta in piedi: l'avversione verso D'Annunzio e gli interventisti è ancora forte nell'ambiente socialista. C'è chi sostiene a tutt'oggi che il Partito Socialista perdette un'occasione rivoluzionaria rifiutando l'appoggio alle vicende fiumane (Basile e Leni, Amadeo Bordiga politico). Ma un atteggiamento del genere da parte del partito era impensabile: i massimalisti di Serrati, pur essendo avvezzi ai compromessi (non avevano mai negato il loro appoggio alla destra ultrariformista) non potevano rinnegare fino a quel punto la politica di Bissolati, contraria all'annessione di Fiume. D'altra parte la Sinistra Comunista "italiana" aveva già dimostrato una forte coerenza nell'individuare tutti gli ostacoli che si frapponevano tra il proletariato e la rivoluzione, primo fra tutti proprio l'interclassismo. Comunque la classe operaia si era mantenuta estranea ai fatti fiumani anche se (o proprio perché!) erano presenti molti dei suoi capi sindacali. È vero che l'intero movimento para-insurrezionale di quegli anni presentava aspetti valutabili in termini favorevoli al proletariato, ma l'occupazione di Fiume non poteva essere analizzata allo stesso modo. I fattori in gioco erano troppo legati alla oggettiva composizione interclassista dei protagonisti, alla inevitabile preminenza dei fattori nazionalisti. Se è plausibile che anche Lenin vedesse nell'avventura fiumana un'occasione rivoluzionaria perduta, occorre osservare che l'estrema lucidità tattica del grande rivoluzionario per la difficile situazione della Russia, non aveva il suo corrispettivo per la situazione dei paesi occidentali. In periodo rivoluzionario l'ossessione frontista e la tattica elettorale sono armi mortali del nemico contro la rivoluzione.

Anche Gramsci, scrivendo nel gennaio del 1921 su L'Ordine Nuovo, tracciava un bilancio non negativo dell'impresa e criticava l'opera del PSI che aveva dimostrato, "per gli avvenimenti di Fiume, la stessa incapacità politica e la stessa inettitudine a organizzare il proletariato in classe dominante, che aveva dimostrato" in altre occasioni. Nicola Bombacci andava oltre, sostenendo che "il movimento dannunziano è perfettamente e profondamente rivoluzionario; perché D’Annunzio è rivoluzionario" (La tribuna, 30 dicembre 1920, cit. in C. Salaris, Alla festa della rivoluzione). È del tutto naturale che di fronte a questo tipo di infatuazione per la teoria delle occasioni perdute si finisca per cercare occasioni che dovrebbero essere coscientemente non solo "perdute" ma rifiutate. Fu ad esempio duramente criticata dalla nostra corrente la tattica nazional-bolscevica presentata da Radek all'Internazionale (cfr. "La questione nazionale", Prometeo n. 4 del 1924). Radek aveva manifestato simpatia nei confronti di un militare nazionalista tedesco, un certo Schlageter, fucilato dai francesi per aver messo in atto degli attentati contro il trattato di Versailles.

Tra l'altro non era mancata l'attenzione della Sinistra rispetto ai fatti fiumani: Il Soviet, nell'articolo "Parva favilla" (28 settembre 1919), pur irridendo all'azione romantica di D'Annunzio, valuta le possibili conseguenze del suo gesto, scorgendo la possibilità per i comunisti di inserirsi autonomamente nel marasma sociale in corso per sferrare un colpo alla borghesia italiana:

"La parva favilla minaccia di provocare l'incendio. L'occasione è propizia, il ministero può andare a gambe in aria e subito le speranze si affacciano e le ambizioni si esaltano. […] Il gesto di D'Annunzio è superbo dice l'aspirante ministeriale; è deplorevole dice il ministro in carica che non vuole mollare. La corona è tirata in ballo. La borghesia è tutta in subbuglio. La classe lavoratrice non può e non deve essere inerte, essa deve vigilare. Non si tratta di impedire nuove follie soltanto e di dare manforte ai così detti antimilitaristi della borghesia contro gli altri. [...] Si accapiglino bene tra di loro i borghesi, noi stiamo alla vedetta e prepariamo le nostre armi pronti a dare loro addosso nel momento propizio. Gli avvenimenti possono precipitare, sarebbe colpevole se non sapessimo trarne il nostro vantaggio."

Niente indifferentismo dunque da parte del gruppo de Il Soviet, ma ferrea difesa dei confini di classe e, allo stesso tempo, necessità di prepararsi all'azione qualora si presenti l'occasione giusta.

Nei primi mesi del 1920 nasce la Lega di Fiume, un tentativo di promuovere un'anti-Società delle Nazioni schierata contro il trattato di Versailles e a favore dei popoli colonizzati, con l'obiettivo di trasformare la città in "Patria delle patrie". Uno degli ideatori del progetto è il poeta belga Leon Kochnitzky, che vi è giunto affascinato dall'impresa dannunziana e che dalla città cercherà di tessere rapporti con i nazionalisti irlandesi ed egiziani, e i rivoluzionari russi.

In aprile a Fiume si verifica un grande sciopero dei lavoratori, D'Annunzio svolge un ruolo di mediazione e si trova un accordo per mettere fine all'agitazione; ma a sciopero concluso gli imprenditori non rispettano i patti e si scatena una repressione a cui però sembra che il poeta non abbia partecipato.

La costituzione della Lega inasprisce ulteriormente i rapporti con la componente militare più moderata di stanza nella città. Nel maggio del '20 la compagnia dei reali carabinieri, il cui comandante si era messo in luce per la repressione dello sciopero operaio di aprile, abbandona Fiume con alcune centinaia di uomini impegnando anche uno scontro a fuoco con gli arditi che vi si opponevano. Si tratta di un ammutinamento nell'ammutinamento.

Per riuscire ad avere un quadro più chiaro della caotica situazione gli anarchici inviano a Fiume un redattore di Umanità Nova, Randolfo Velia, che riporta:

"Appena giunto a Fiume ho voluto sentire la voce delle caserme, e ho dovuto convincermi che qui la disciplina non è quella ferrea dominante nelle file di tutti gli eserciti, ho visto soldati scherzare con ufficiali, anzi costoro mi si affollavano d'intorno per convincermi che non erano loro a comandare, ma i soldati a ubbidire. Il giuramento delle reclute non è più quello usato in Italia, le bandiere non hanno più la corona del re e la "marcia reale" è stata abolita. Fra i soldati ed ufficiali riconobbi molti che furono con noi nei moti della Settimana Rossa, ma che poi furono trascinati da un malsano entusiasmo nella infame guerra. Tutti mi espressero un ardente desiderio di rinnovazione sociale; tutti si dichiararono rivoluzionari più di noi; tutti mi promisero di trovarsi con noi nell'imminente rivoluzione sociale. Un capitano, credendo ch'io ridessi incredulo mi disse: 'Non rida con ironia e dica a Malatesta che qui [sic] non c'è la feccia dell'esercito, com'egli ha scritto, ma c'è un piccolo esercito pronto a sacrificarsi per il trionfo delle più alte idealità sociali'."

La Carta del Carnaro

Da parte sua D'Annunzio dichiara all'inviato anarchico:

"Io sono per il comunismo senza dittatura [...]. Nessuna meraviglia, poiché tutta la mia cultura è anarchica, e poiché in me è radicata la convinzione che, dopo quest'ultima guerra, la storia scioglierà un novello volo verso un audacissimo progresso. [...] È mia intenzione di fare di questa città un'isola spirituale dalla quale possa irradiare un'azione, eminentemente comunista, verso tutte le nazioni oppresse." (Randolfo Velia, "Lettera sulla situazione fiumana", Umanità nova del 9 giugno 1920).

Il Poeta passa dunque dal nazionalismo al "comunismo" con una certa disinvoltura, in una sorta di schizofrenia politica tipica delle mezze classi in crisi.

L'autonomizzazione del Comando dalla madrepatria è testimoniato dal contenuto della costituzione della Reggenza Italiana del Carnaro:

"La vostra vittoria è in voi. Nessuno può salvarvi, nessuno vi salverà: non il Governo d'Italia che è insipiente ed è impotente come tutti gli antecessori; non la nazione italiana che, dopo la vendemmia della guerra, si lascia pigiare dai piedi sporchi dei disertori e dei traditori come un mucchio di vinacce da far l'acquerello... Domando alla Città di vita un atto di vita. Fondiamo in Fiume d'Italia, nella Marca Orientale d'Italia, lo Stato Libero del Carnaro." (Discorso di D'Annunzio del 12 agosto 1920 in cui proclamò la Reggenza Italiana del Carnaro).

La "Reggenza" non fu riconosciuta giuridicamente che dalla Russia e fu trasformata nello Stato libero di Fiume nel dicembre dello stesso anno.

Un articolo sul movimento dannunziano comparso su Prometeo del 1924 ne analizza in una prima parte la dottrina partendo dalla Carta del Carnaro, e in una seconda la politica. Al di là dei richiami aulici alla romanità imperiale, al Risorgimento, ai Comuni italiani, nella Carta sono presenti tutte quelle rivendicazioni "popolari" che possiamo ritrovare nel fascista Programma di San Sepolcro e nel programma del Partito politico futurista, il voto alle donne, il suffragio universale, la laicità della scuola, il referendum, la nazionalizzazione del porto. Non mancano quelle di carattere sociale, come il minimo salariale, unito alla garanzia statale contro la disoccupazione, l'assistenza agli infermi e agli invalidi, le pensioni di vecchiaia. Sono punti riguardanti la questione sociale che non sono in antitesi con uno statuto borghese classico.

L'impianto della Carta è chiaramente corporativo: lo stato deve tutelare tutti i produttori; ma se nel Programma di San Sepolcro è contemplata la costituzione di uno stato corporativo dove vi sia una rappresentanza paritaria di ogni categoria, nella Carta del Carnaro è previsto che le corporazioni dei lavoratori nell'eleggere il Consiglio dei Provvisori, l'organo che governerà lo Stato, abbiano un maggior numero di voti rispetto alle corporazioni che rappresentano la borghesia e le mezze classi. È una differenza non da poco rispetto al programma dei fascisti:

"[La Reggenza] amplia ed innalza e sostiene sopra ogni altro diritto i diritti dei produttori".

L'espressione può giudicarsi piuttosto vaga ma certo essa ha un valore tendenziale: in quanto vi è, nel sottofondo, una "preferenza" per i cittadini produttori.

Nella Carta compare un altro concetto particolare, ripreso direttamente dalla Costituzione francese del 1793 dettata da Robespierre, in cui si dice che la proprietà è il diritto di cui gode ogni cittadino di disporre della porzione di beni garantita dalla legge; il diritto di proprietà è limitato, come tutti gli altri diritti, dall'obbligo di rispettare quelli altrui; esso non può recare pregiudizio né alla sicurezza né alla libertà.

Dunque si sancisce una limitazione al diritto di proprietà, che viene rispettato finché non danneggia altri cittadini. Ma vengono introdotte alcune aggiunte: lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa ma la considera come la più utile delle funzioni sociali. L'unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro: lo Stato deve quindi intervenire espropriando industrie inutilizzate o terre incolte. Sono punti che spostano più a "sinistra" la Carta dannunziana rispetto al fascismo sansepolcrista.

Nell'articolo di Prometeo citato, viene sfatata l'illusione di alcuni anarchici che avevano visto in uno stato come quello di Fiume, basato sulle corporazioni, una somiglianza con il sistema soviettista. Inutile dire che la differenza tra le due esperienze è abissale: mentre da una parte si esaltano le categorie professionali (interclassismo), dall'altra i soviet si basano su una rete proletaria di tipo territoriale che esclude gli appartenenti alle altre classi. I comunisti basano la loro dottrina sulla lotta di classe, mettendo in primo piano, rispetto a quella sindacale, la forma partitica, che va oltre gli interessi immediati di questa o quella categoria e ha come fine l'abolizione di tutte le classi e della divisione sociale del lavoro. È giusto quindi cogliere un parallelo tra lo spiritualismo dannunziano e il sindacalismo: lo spirito di categoria è imparentato con l'individualismo e il sindacalismo è la morale soreliana del produttore:

"Lo spiritualismo dannunziano sente come poco la società attuale sia moralizzabile ed 'eroicizzabile', se non nelle vergini forze che erompono dal proletariato: esso non sa andare più oltre del saluto che leva a questi fermenti del domani." ("Il movimento dannunziano").

Il futurismo a Fiume

Almeno dal 1848, data di pubblicazione del Manifesto, abbiamo a disposizione tutti gli strumenti teorici per legarci saldamente al futuro e lottare efficacemente contro il vecchio ambiente. Nessun movimento interclassista può avere strumenti altrettanto efficaci. Per legarsi al futuro bisogna seppellire il passato, occorre non solo proclamare intenzioni per l'avvenire ma rifiutare il presente nei fatti. Non si può essere socialisti e nazionalisti mantenendo una coerenza. Questo ossimoro, questa impossibile unione fra contrari, obbliga i movimenti interclassisti a scegliere, ed essi scelgono sempre la controrivoluzione. Ciò vuol dire, banalmente, conservare il passato. Infatti, dannunziani e futuristi italiani, pur dichiarando di volere un radicale cambiamento della società, si limitano ad esprimere la loro simpatia, anche attraverso azioni eclatanti, per i "fermenti del domani", senza però essere in grado di dare l'assalto alle vecchie forme per distruggerle. Si può dire che la cartina di tornasole per valutare un movimento rivoluzionario non è il grado di costruzione che riesce a inserire nel proprio programma, bensì il grado di distruzione, di annientamento del passato.

Marinetti e D'Annunzio si conoscono da prima della guerra nell'ambiente dell'interventismo e criticheranno entrambi la politica delle nazionalità di Wilson. Il 13 settembre 1919 Marinetti, venuto a conoscenza dell'impresa dannunziana si reca a Fiume, dove i futuristi organizzeranno delle performance artistiche. A ottobre egli torna in Italia e interviene al primo congresso fascista apertosi a Firenze al teatro Olimpia il 9 ottobre plaudendo all'avvento degli artisti al potere a Fiume. Al secondo congresso dei Fasci, che si tiene al teatro Lirico di Milano nel maggio del 1920, si verifica una spaccatura tra Marinetti, Carli (che abbiamo già ricordato) e Mussolini. I fondatori del partito futurista non sono d'accordo con la politica reazionaria del fascismo che si scaglia contro gli scioperi abbandonando le pregiudiziali antimonarchiche e anticlericali (Marinetti: "Noi veniamo verso il Carso. Ma non andremo verso la Reazione!").

I risultati elettorali del 1919 sono pessimi per il fascismo e lo costringono a correre ai ripari. Con il secondo congresso esso abbandona tutto l'armamentario rivendicativo di "sinistra" e vira decisamente a destra. Nulla di nuovo, il trasformismo è una specialità inventata in Italia. Tra coloro che rompono con il fascismo Mario Carli, che a Fiume dirige il giornale La testa di ferro sul quale esprime una tendenza nazional-bolscevica, è uno di quelli che più incarnano l'ossimoro passato/futuro.

Per Carli il bolscevismo ha quella carica mistica di cui l'Occidente è privo. La sua estetica di massa e le sue vittorie militari, al confronto, fanno apparire le manifestazioni operaie italiane non come eserciti in marcia ma come "processioni di innocenti agnellini". Il soviet, questo spauracchio della borghesia nostrana, è così funzionale al processo rivoluzionario che non si capisce come vi siano resistenze a introdurlo nella vita politica e militare.

"Tra Fiume e Mosca c’è forse un oceano di tenebre. Ma indiscutibilmente Fiume e Mosca sono due rive luminose. Bisogna al più presto, gettare un ponte fra queste due rive." (Mario Carli, "Il nostro bolscevismo", in La Testa di Ferro, 15 febbraio 1920).

Lenin è visto dal periodico diretto da Carli come un eroe carlyliano in grado di dare alla guerra di masse anonime, dedite alla furiosa distruzione dell'esistente, il carattere di costruzione gigantesca della volontà. Non è da Lenin che debbono difendersi le masse occidentali ma dalla coalizione dei plutocrati che le opprimono. Il "gigante di Mosca" ci avvicina alla lotta comune contro il comune nemico. Intanto Gabriele D'Annunzio è chiamato compagno dai proletari di Fiume. "Poi si vedrà".

Fa un po' d'impressione sentir chiamare compagno un tipo come D'Annunzio, ma questa è la realtà percepita da troppi per essere accantonata come se non esistesse.

"Prendendo la Russia come modello tipico di rivoluzione sociale, si vede anzitutto che il bolscevismo è stato un movimento, non tanto grettamente espropriatore, quanto rinnovatore, perché ha voluto ricostruire in base a ideali vasti e profondi l'edificio sociale, assurdamente sbilenco sotto il decrepito regime zarista" (Ibid.).

A Fiume c'è quindi una componente che simpatizza per la Russia bolscevica e cerca collegamenti con essa. Una simpatia analoga la possiamo trovare anche in un testo di Marinetti intitolato "Al di là del comunismo", pubblicato il 15 agosto del 1920, sempre su La testa di ferro:

"Sono lieto di apprendere che i futuristi russi sono tutti bolscevichi e che l'arte futurista fu per qualche tempo arte di Stato in Russia. Le città russe, per l'ultima festa di maggio, furono decorate da pittori futuristi. I treni di Lenin furono dipinti all'esterno con dinamiche forme colorate molto simili a quelle di Boccioni, di Balla e di Russolo. Questo onora Lenin e ci rallegra come una vittoria nostra. Tutti i Futurismi del mondo sono figli del Futurismo italiano, creato da noi a Milano dodici anni fa. Tutti i movimenti futuristi sono però autonomi. Ogni popolo aveva o ha ancora un suo passatismo da rovesciare. Noi non siamo bolscevichi perché abbiamo la nostra rivoluzione da fare."

L'adesione incondizionata a tesi semplificatrici, se va bene per Sorel e la sua teoria del mito stimolatore di azione, si presta a critiche razionali. L'avvicinamento del futurismo al fascismo può anche essere spiegato con pulsioni sociali e individuali. Ma nei fatti, se il futurismo ha un effettivo carattere di rottura inerente persino al suo nome, il fascismo non può vantare altrettanta coerenza. Il giornalista scrittore Giuseppe Prezzolini ad esempio scrive lucidamente:

"Il Fascismo, vuole essere, se non erro, gerarchia, tradizione, ossequio all'autorità. Il Fascismo si compiace di rievocare Roma e la classicità… Vuol mantenersi nelle linee segnate dai grandi italiani e dalle grandi istituzioni italiane, compreso il Cattolicesimo. Ora il futurismo è tutto l'opposto di questo. Il Futurismo è protesta contro la tradizione; è lotta contro i Musei, contro il classicismo, contro le glorie scolastiche… Il Fascismo è uno sforzo politico essenzialmente italiano… Invece il Futurismo è un movimento di carattere internazionale. Lo stesso Marinetti ammette che vi sono ormai futuristi russi, americani, australiani, tedeschi, di tutte le parti del mondo… Quanto al Futurismo bisogna riconoscere che esso si è logicamente trovato al suo posto in un solo stato: in Russia. Colà Bolscevismo e Futurismo hanno fatto alleanza. L'arte ufficiale del Bolscevismo è stata il futurismo. I monumenti della rivoluzione, i cartelloni di propaganda, i libri hanno portato l'impronta dell'arte e delle idee futuriste. E ciò è perfettamente logico e coerente. Le due rivoluzioni, le due antistorie, si sono alleate. L'una come l'altra vogliono distrutto il passato e tutto rifare su basi nuove, di tipo industriale. La fabbrica è stata la sorgente delle idee politiche bolsceviche; ed è stata la inspiratrice dell'arte futurista. Ma come possa l'arte futurista andare d'accordo con il Fascismo italiano, non si vede." (Il secolo del 3 luglio del 1923).

Per la nostra corrente il linguaggio è un mezzo di produzione, fa parte di ogni struttura sociale perché è il mezzo con cui l'uomo rovescia la prassi (progetta); ma non è da materialisti confondere il linguaggio con l'ideologia che esso può veicolare. Il futurismo, come rileva anche Prezzolini, è un movimento di rottura, un linguaggio internazionale, in Italia viene inglobato dal fascismo, mentre in Russia riesce ad esprimersi al meglio assumendo un profilo rivoluzionario e internazionalista (finché non sarà bandito e sostituito dal reazionario "realismo socialista").

Un ambiente "creativo"

Le rivoluzioni quando sono tali agiscono così profondamente sulla società da cambiarne, oltre che la struttura, ogni aspetto della vita. Prendono l'impronta dalla classe rivoluzionaria ma trascinano nella lotta tutte le classi e sottoclassi. Ciò non significa che sono interclassiste, ma che obbligano tutte le classi a ballare alla musica rivoluzionaria. In un tale contesto può succedere quindi che uomini di una certa classe siano portati a lottare per gli interessi di un'altra classe. In una rivoluzione l'appartenenza è data dal programma per cui si combatte, non dalla scheda anagrafica. Nel caso di Fiume e del fascismo la piccola-borghesia si mette al servizio della grande borghesia, ma poteva non essere un dato scontato. Durante la Rivoluzione francese si ebbe da questo punto di vista la massima confusione a proposito di appartenenza: i borghesi, coloro che avrebbero tratto reali vantaggi dai risultati della rivoluzione furono quelli che meno vi parteciparono. I sanculotti, che sarebbero diventati gli sfruttati del futuro, combatterono in prima linea. Molti dei borghesi, nobili e intellettuali piccolo-borghesi che avevano preparato la formidabile enciclopedia-programma erano ormai morti. Si mossero dunque i senza riserve con bottegai falliti, nobili decaduti, militari che saltarono il fosso dopo la battaglia di Valmy (cfr. "Fiorite primavere del Capitale"). Fu il tentativo estremo di difendere le conquiste e le garanzie ottenute nel passato a costringere gli uomini a mettere in discussione la vecchia società.

Le posizioni ambigue dei D'Annunzio, De Ambris o Marinetti furono frutto di un periodo storico estremamente contraddittorio, soprattutto per la piccola borghesia, oscillante tra conservazione e cambiamento. E forse è per questo motivo che le opere letterarie possono contenere più informazione di quelle storiche. Racconti, diari o carteggi come quelli di Guido Keller, Giovanni Comisso, Mario Carli e persino D'Annunzio, ci offrono uno spaccato della società che ci mostra la struttura delle rivoluzioni non mediante ricostruzioni a tavolino ma attraverso dinamiche di vita, quelle che rivelano le ragioni per cui migliaia o milioni di uomini si muovono in massa verso l'obiettivo del cambiamento. E se i capi tradiscono o tralignano, la rivoluzione non si ferma, afferra gli strumenti che trova e se ne serve. Il fascismo è più "moderno" della democrazia: venute meno le possibilità di prendere il potere da parte del proletariato, la rivoluzione si focalizzò sulla forma sociale borghese più adatta a rappresentare il dominio del capitale. Il fascismo è la socializzazione del capitalismo, è quell'involucro che Lenin dichiara non corrispondere più al suo contenuto.

Come ha ricordato la nostra corrente, le rivoluzioni (e le controrivoluzioni) hanno uno scenario storico, un motore sociale, attori e comparse, e anche un'estetica, un linguaggio, attraverso il quale si esprimono. Accanto alla documentazione originale e alla saggistica storica, è utile collocare il materiale che veicola questo linguaggio. Il romanzo Il porto dell'amore e la raccolta Le mie stagioni di Giovanni Comisso aiutano ad avere la percezione dell'ambiente scaturito dalla guerra e maturato nel terribile dopoguerra che vede sovrapporsi il Biennio Rosso con l'esperienza fiumana (dal settembre 1919 al dicembre 1920). A Fiume avveniva una sintesi, dove la componente "creativa" dei legionari portava

"il popolo a vivere fuori dalle città, da distruggere, verso la terra e il mare. Godere dello spirito, credere nella vastità della propria individualità, ridurre al minimo le esigenze materiali, disprezzare il denaro, il lusso, generatori di stupidità." (Le mie stagioni).

In quelle pagine è ricordato Henry Furst, giornalista e regista teatrale, addetto della stampa straniera nella segreteria di D'Annunzio. Furst, e il poeta Leon Kochnitzky,

"pensavano che il mondo dovesse andare verso il comunismo e si illudevano di influenzare le decisioni del Comandante, definito da Lenin ai comunisti italiani, andati a Mosca, il solo capace di fare una rivoluzione in Italia".

Altre opere ci consentono di cogliere l'atmosfera legionaria: Con D'Annunzio a Fiume, Trillirì e Arabeschi fiumani di Carli e La quinta stagione di Kochnitsky. Interessante per lo stesso motivo il recente (2002) saggio di Claudia Salaris Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D'Annunzio a Fiume, che ricorda tra le figure che circondavano il Comandante quella di Guido Keller, descritto come un hippy ante litteram e vero contemporaneo del dadaismo. Salaris vede nelle più originali espressioni del fiumanesimo l'anticipazione di idee, stili e iniziative che caratterizzeranno l'esperienza dei movimenti giovanili di contestazione degli anni Sessanta: l'uso delle droghe, la libertà sessuale e la messa in discussione dell'autorità. Sembra che la "ribellione" che si respirava a Fiume avesse contagiato anche alcuni religiosi: un gruppo di frati cappuccini residenti in città tentarono una riforma radicale che avrebbe dovuto comprendere il con­trollo sui fondi dell'ordine e l'elezione dal basso dei loro superiori; e in segno di sfida verso Roma fecero sventolare sul monastero una bandiera con il motto latino ripreso da D'Annunzio: "Hic manebimus optime" (qui staremo benissimo).

Hakim Bey, scrittore cyber-punk e libertario, parla di Fiume dannunziana come di una TAZ (Zona Temporaneamente Autonoma), un luogo liberato provvisoriamente dal potere:

"La festa non finiva mai. Ogni mattina D'Annunzio leggeva poesia e proclami dal suo balcone; ogni sera un concerto, poi fuochi d'artificio. In questo consisteva l'intera attività del governo."

Nel libro di Marco Rossi, Arditi, non gendarmi! si fa menzione della varia umanità che arrivò a Fiume durante i mesi dell'occupazione: i giornalisti giapponesi Harukichi Shimoi e Takeo Terasaki; il medico ungherese allievo di Freud e già ministro nel governo di Béla Kun, Miklos Sisa; il poeta ungherese Szandor Garvay e Luigi Bakunin, nipote napoletano di Michail; irredentisti irlandesi, comunisti ungheresi fuggiti al terrore bianco di Horthy, croati di Radic e persino nazionalisti indiani seguaci di Gandhi.

A Fiume viene fondata la rivista Yoga, diretta da Comisso e Mino Somenzi, da cui nascerà il gruppo "Unione Yoga", detta "l'Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione" con l'obiettivo – ricorda Comisso – di

"organizzare un gruppo tra i legionari più intelligenti e di preparare con adunate e discussioni un movimento per scalzare dal Comandante tutta la gente pesante e arruffona."

I temi che vi si affrontano spaziano dall'abolizione del denaro al libero amore, dall'abolizione delle carceri all'abbellimento delle città, prefigurando una sorta di rivoluzione culturale. Il manifesto del gruppo ricorda quello degli anarco-futuristi russi e dei dadaisti tedeschi. Guido Keller, aviatore, che del gruppo faceva parte, compie un gesto eclatante diventando famoso perché dopo la firma del Trattato di Rapallo (12 novembre 1920), quando il governo italiano minaccia di sgomberare Fiume con la forza, vola in Italia e lascia cadere un vaso da notte sopra il parlamento.

La beffa di Keller è suggerita dal poema L'aeroplano del Papa di Marinetti, in cui il futurista immaginava di compiere un viaggio di propaganda in aereo sorvolando Roma e di rovesciare escrementi sopra i passatisti. Il suo gesto comunque non è solo una pensata individuale, ma va inserito in un movimento internazionale di rottura: si pensi al Manifesto L'antitradizione futurista di Guillaume Apollinaire, oppure alle azioni spettacolari dei futuristi e alle opere "irrazionali" del Club Dada di Berlino. Gli artisti del tempo vogliono tagliare i ponti con il passato, puntano a rompere tutti i canoni, hanno come obiettivo la critica della vita quotidiana.

Nell'estate del 1920, caduto il governo Nitti, cui succede Giovanni Giolitti, De Ambris da Fiume cerca contatti con il nuovo presidente del Consiglio al fine di trovare un compromesso per la soluzione della questione fiumana. Ma questi tentativi non hanno successo in quanto Giolitti ha una posizione più rigida rispetto a Nitti ed è determinato a mettere fine all'anomala situazione. Mentre viene pubblicata la Carta del Carnaro, nel settembre del 1920 in Italia è in corso il vasto movimento di occupazione delle fabbriche e, in un contesto sociale rovente, l'arenarsi delle trattative con il governo porta D'Annunzio a proiettare la sua azione verso i Balcani tentando l'organizzazione di improbabili insurrezioni. I risultati dell'attivismo del Poeta non portano a niente, il tempo della Reggenza del Carnaro sta per scadere.

Rivista n. 42